Alta Terra di Lavoro

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Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia

Posted by on Ago 9, 2019

Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia

Nel 1878 moriva a Roma Vittorio Emanuele II, il primo re d’Italia, protagonista di tutte le guerre che portarono all’unità, ma assente e lontano una volta raggiunto lo scopo di asservire la nazione al Piemonte. In questi 18 anni non si poteva certo sperare di dare all’Italia un’impronta unitaria, né in campo culturale né in quello sociale. Troppe erano le differenze tra le varie regioni, evidenziate dallo stato  guerriglia che aveva devastato per anni le regioni meridionali, e dalla politica filo-settentrionale dello Stato sabaudo. Tali furono le premesse che portarono ad uno sviluppo disarmonico che ancora oggi subiamo. Fu questo il prezzo che l’intero Sud ha pagato all’unificazione. Un prezzo che divenne ancora più alto a fronte dei provvedimenti depressivi e repressivi che il governo piemontese adottò nei confronti dell’ex Regno di Sicilia.

Una della conseguenze più pesanti per la neonata Nazione fu la continuità dinastica: per la Sicilia fu – come ben descrive Tomasi di Lampedusa – un cambiare tutto per non cambiare nulla. Se avesse prevalso l’idea repubblicana di Mazzini, egli sarebbe divenuto il signor Tomasi, invece, con il subentrare della dinastia sabauda a quella borbonica, egli rimaneva il principe di Lampedusa. Non solo: da infido barone quale era visto dai Borbone, diveniva paladino della dinastia sabauda. Se la Sicilia da provincia napoletana diveniva provincia piemontese, poco cambiava per il baronaggio e ciò che cambiava, cambiava in meglio. Per la Sicilia invece, finiva una storia e ne cominciava un’altra.

Per comodità di lettura possiamo dividere questa nuova storia in due fasi, una che va dal 1860 al 1915, alla prima guerra mondiale, e un’altra che arriva fino ai giorni nostri.

La prima fase a sua volta possiamo dividerla in cinque periodi [1]

1.      quindicennio 1861-1876: governa la destra storica

2.      decennio 1876-1887: governa la sinistra storica

3.      decennio 1887-1898: periodo crispino

4.      triennio 1898-1900: periodo di transizione con pericolo di colpo di stato

5.      ventennio 1900-1920: età giolittiana

In questi anni la Sicilia partecipò alla guida politica ed istituzionale del paese con due presidenti del Consiglio (Francesco Crispi e Antonio Di Rudinì), 13 ministri e 184 deputati. Non era poco eppure la Sicilia non fu mai tra le regioni egemoni. [2]

Tutto ebbe inizio il 2 dicembre 1860 con il biennio luogotenenziale che avrebbe dovuto servire a traghettare il Sud dalla fase rivoluzionaria a quella di ordinaria amministrazione. Fu caratterizzato da una dura repressione politica e sociale del garibaldinismo [3], del brigantaggio e della renitenza alla leva. Repressione che, allora come oggi, si servì di una campagna “pubblicitaria” denigratoria nei confronti del popolo meridionale e siciliano presentando la diversa cultura come inferiorità. Cavour e Vittorio Emanuele per mantenere la conquista appena fatta non potevano fare concessioni. Se qualcuno intendeva opporsi al nuovo ordine costituito, e non si riusciva a persuaderlo a desistere, intervenivano i granatieri con la forza delle armi [4].

La repressione contro il garibaldinismo fu più profonda e lacerante in Sicilia, mentre la repressione contro il borbonismo e il brigantaggio interessò il meridione della penisola. Come scrive Renda “…le violenze poliziesche e militari nell’isola furono una sorta di appendice della guerra al brigantaggio nella penisola. Il brigantaggio meridionale ebbe le connotazioni di una vera e propria guerra civile. I Borbone dall’esilio romano promossero contro il potere unitario regio quella resistenza di massa che non avevano saputo opporre a Garibaldi.” [5]

In Sicilia il brigantaggio non era supportato dai Borbone, ma derivava dallo sbando sociale seguito alla rivoluzione, rinforzato dalla delinquenza che cominciava ad organizzarsi in quella nuova forma che prenderà, a partire dal 1865, il nome di mafia e dal rifiuto della leva militare obbligatoria, tributo incomprensibile per un popolo che non l’aveva mai subita. Nei confronti dei renitenti alla leva siciliani fu estesa alla Sicilia la famigerata legge Pica. In virtù a quella legge interi paesi furono cinti d’assedio, incendiati, privati dell’acqua potabile, intere famiglie arrestate e furono compiuti inauditi atti di violenza senza tenere in alcun conto i diritti dei cittadini. (cfr. Le Renitenti di Favarotta).

Sempre in questo primo periodo è da ricordare la rivolta scoppiata a Palermo nel settembre del 1866, conseguenza della perduta prospettiva politica. La sollevazione rimase però chiusa tra le mura cittadine e non ricevette alcun aiuto, nemmeno da Mazzini. Fu violentemente repressa dall’esercito regio e segnò la fine delle rivolte ottocentesche siciliane. (cfr. 1866 – La rivolta del “Sette e Mezzo”).

Altra importante vicenda di quegli anni fu lo scioglimento delle corporazioni religiose (legge del 10 agosto 1862). Garibaldi aveva già espulso la Compagnia di Gesù ma ora, dopo la restaurazione a seguito della rivolta del Sette e Mezzo, lo Stato italiano interveniva in forza. L’effetto fu devastante, perché allo scioglimento delle corporazioni religiose e al confino coatto dei religiosi che avevano appoggiato la rivolta, si accompagnò l’esproprio in massa di tutte le proprietà fondiarie ed edilizie comprese le biblioteche e le opere d’arte. Se da un canto l’uso degli edifici fu congruo in quanto adibiti a scuole, università, uffici o musei, altrettanto non può dirsi per il patrimonio librario: migliaia di volumi furono ammassati in sotterranei e depositi vari, causandone la dispersione e la distruzione. Ovviamente nessuno si scandalizzò per tale “delitto”.

L’esproprio della proprietà fondiaria della Chiesa (Legge 794/1862), la fine della manomorta e la cancellazione degli ultimi residui di feudalesimo avrebbe potuto essere indirizzata a risultati virtuosi, come la ripartizione delle terre tra i contadini. Invece la soluzione che se ne diede, peggiorò le condizioni degli agricoltori, togliendo loro ogni possibilità di riscatto. La priorità del novello Stato era infatti quella di vendere le terre per “far cassa”, e di fronteggiare i

movimenti di opposizione. Fu conferito al generale Medici il comando unico dei poteri militari, amministrativi e di polizia in modo da rassicurare i ceti borghesi e liberali. Lo Stato si interessò pertanto solo dei problemi di sicurezza e di ordine pubblico, dimenticando le gravi questioni sociale ed economica, che si inasprirono sempre più, specie dopo la reintroduzione della tassa sul macinato (giugno 1868) e l’aumento delle imposte su terreni, fabbricati e ricchezza mobile.

La situazione peggiorò ancora nel 1871 quando, finiti i lavori di lottizzazione dei terreni ex-ecclesiastici, diretti dal siciliano Simone Corleo sulla base della legge che prese il suo nome, le assegnazioni finirono per riconcentrare le terre nelle mani dei pochi notabili che si imposero nelle aste pubbliche. Contrariamente a quanto propugnato a parole fin dal decreto del prodittatore Mordini, cioè di dare la terra ai contadini, la legge Corleo non aveva alcun intento sociale o filo-contadino, ma era diretta a rafforzare la borghesia agraria, ed a consolidare il consenso al regime italiano. Ai contadini rimase solo il retaggio della legge Garibaldi [6] del 2 giugno e del citato decreto Mordini del 18 ottobre 1860, mentre alla borghesia terriera andarono i beni ecclesiastici. La riforma agraria di Corleo fu pertanto fallimentare dal punto di vista sociale, ma tuttavia diede una spinta alla modernizzazione e alla conversione delle colture. Non dimentichiamo che fu proprio in seguito a questa spinta che si crearono le zone a colture pregiate intorno a Bagheria e nella Conca d’Oro. Tutto sommato la soppressione del patrimonio ecclesiastico significò l’affermazione di un regime economico e giuridico moderno. La Chiesa fu emarginata dal potere politico e infine con la legge delle guarentigie del 15 maggio 1871 ebbe termine anche la secolare “Apostolica legazia” (cfr. Ruggero I e l’Apostolica Legazia) e la chiesa siciliana ritornò sotto la giurisdizione del pontefice romano.

Altri avvenimenti di una certa importanza si verificarono nell’ultimo periodo del quindicennio 1861-1876. Nella seduta del 18 marzo 1876 la Camera fu chiamata a discutere un’interpellanza del deputato

siciliano Giovan Battista Morana sulla tassa sul macinato, dove si mettevano in evidenza gli abusi che l’applicazione di una siffatta tassa consentiva in Sicilia. L’abolizione della tassa sul macinato, o “tassa sulla miseria” come era stata definita da Crispi, era nel programma della sinistra ma De Pretis e gli altri capi dell’opposizione, pur volendo rovesciare il governo facendo leva sul malcontento popolare, non erano tuttavia disposti a rivoluzionare di punto in bianco il sistema tributario nazionale. L’interpellanza del Morana faceva riferimento alla grave situazione siciliana, dove erano in corso agitazioni e proteste dei mugnai che, chiudendo i mulini, causavano penuria di pane e malcontento popolare crescente. Il Ministro Minghetti si dichiarò incapace di dare i chiarimenti necessari e per farla breve si arrivò ad una mozione di sfiducia con cui il governo fu messo in minoranza e dovette dimettersi. La destra storica cessò di governare e al suo posto si insediò la sinistra storica. A presiedere il primo governo, il 25 di aprile, fu Agostino De Pretis, piemontese, che era stato già prodittatore in Sicilia al tempo del governo garibaldino.[7]

La decadenza di Napoli dopo l’unificazione d’Italia del 1860 fu lenta ma continua. La Destra storica governativa attuò una politica liberista che in breve tempo si rivelò fatale per il sistema economico meridionale, basato fino ad allora sul modello di sviluppo protezionistico concepito da Ferdinando II. Inoltre, il sud fu caricato del Debito Pubblico proveniente dal Piemonte, e dell’oneroso sistema fiscale sabaudo.

La grande industria napoletana, per lo più di capitale straniero, che con il Regno delle Due Sicilie aveva goduto della protezione statale, entrò rapidamente in crisi. Vennero a mancare gli ordinativi statali ed  inoltre, il “baricentro” degli affari si spostò di colpo da Napoli a Torino, con evidente vantaggio per le aziende del Nord-Ovest, che furono preferite anche dagli investitori stranieri. Le fabbriche statali dell’ex-reame

furono vendute a privati con procedure neppure tanto cristalline. Emblematica è al riguardo la sorte dell’opificio statale di Pietrarsa, il maggiore stabilimento metalmeccanico italiano dell’epoca, narrata in altra pagina del sito.

Alla decadenza, bisogna dirlo subito, contribuirono con buona lena i tanti uomini di stato e delle istituzioni meridionali.

Le grandi banche del Sud (Banco di Napoli e di Sicilia) effettuarono un vero e proprio rastrellamento del capitale, che venne in gran parte reinvestito nel nascente “triangolo industriale” del Nord-Ovest che, con la nuova Italia unita, godeva di un indubbio vantaggio geografico.

Gli strumenti di questo straordinario prelievo furono principalmente tre:

  1. l’introduzione nel 1861 della carta moneta [8], inesistente nel Sud preunitario;
  2. la legge del 1866 sul “corso forzoso” della Lira italiana;
  3. la legge del 1862 [9] per vendita di 200 mila ettari di terreni ecclesiastici e demaniali, di cui si è già scritto nella prima parte della presente lettura, e che fruttò all’Erario, tra il 1861 ed il 1877, circa 220 milioni di lire di allora [10] (più di due terzi dell’intero provento nazionale).
  4. Circa mezzo miliardo di allora, costituita dalle monete in metalli preziosi circolanti nelle due Sicilie, finirono all’Erario nazionale, che mise in circolazione, grazie alla legge sul “corso forzoso” un valore almeno tre volte superiore di banconote.
  5. La legge del 1° maggio 1866 sul corso forzoso [11] fu elaborata da un napoletano, il ministro delle Finanze Antonio Scialoja [12]. Le disposizioni previste da questa legge incisero profondamente sia sul processo di concentrazione delle emissioni, sia sulla circolazione della moneta e sulla creazione del credito, svantaggiando obiettivamente il Sud.

Tornado all’accaparramento dei terreni, occorre sottolineare come molti degli agrari del Sud, specie quelli delle zone interne (Basilicata, Cilento ecc) preferirono la quantità alla qualità: divennero latifondisti, spossessandosi così del risparmio e delle risorse necessarie agli investimenti per migliorare le colture. Ci furono casi di vero accaparramento. La condizione dei contadini peggiorò, non potendo usufruire più dell’uso gratuito dei terreni per coltivare e raccogliere legna (i c.d. “usi civici”, che avevano consentito la sopravvivenza, ma che allo stesso tempo avevano mantenuto a livello arcaico la società contadina del sud, priva di quella spinta al miglioramento che deriva dalla piccola proprietà). L’agricoltura meridionale, a parte le zone d’eccellenza del Napoletano, Terra di Lavoro e del Pugliese, rimase emarginata dall’economia nazionale, isolata, priva di vie di comunicazioni, e bisognerà attendere il consolidamento dell’Istituzione repubblicana, quindi circa un secolo, per riscontrare dei segnali di miglioramento.

I Corleo e gli Scialoja, cioè i politici meridionali che contribuirono attivamente alla decadenza del sud, non furono dei casi isolati. Il movimento liberale e la destra in generale, fin d’allora erano subordinati al potere capitalistico, che aveva centro e radicamento al nord. Invece di procedere ad una vera unificazione della politica, si agì con la forza, la prevaricazione e la brutale repressione. Per questioni ideologiche, anche i nazionalisti e monarchici meridionali si subordinarono di fatto al potere sabaudo, così come i cattolici per la loro feroce avversione al nascente socialismo. Anche in politica estera prevalsero gli umori ultra-nazionalistici con la partecipazione nel 1866 alla guerra contro l’Austria, in cui si sprecarono vite e risorse.

In definitiva, i politici meridionali di destra, anche se ebbero incarichi – spesso importanti e decisivi – a livello governativo, non seppero scrollarsi di dosso i condizionamenti negativi di cui si è detto. Se in quegli anni fu mancato l’obiettivo di una reale unificazione nazionale, e se furono le popolazioni del sud a farne principalmente le spese, non si può pertanto attribuirne tutte le colpe genericamente al “nord” (come si dilettano a fare alcuni sedicenti meridionalisti di oggi).

«La rigogliosa vita della democrazia napoletana, che ha avuto momenti di rilievo nazionale, intorno al 1878 si è affievolita, è diventata anemica per non aver saputo mettere radici fra i lavoratori…» [13].

fonte http://www.ilportaledelsud.org/1861-1876.htm

Note

[1] Renda, storia della Sicilia, vol. III, p. 977

[2] F. Renda, Storia della Sicilia, vol III, p. 977

[3] Garibaldi era divenuto nell’isola simbolo di liberazione politica e riscatto sociale. Ebbe tanto seguito in Sicilia da fargli credere di poter intraprendere, nel 1862, una spedizione per la conquista di Roma con circa 2000 volontari questa volta tutti siciliani. Questo ci fa capire quanto fossero mutate le condizioni rispetto al 1860 quando i suoi 1000 erano al 90% settentrionali. L’impresa fu immediatamente bocciata da Vittorio Emanuele . In Aspromonte Garibaldi e i suoi volontari furono fatti prigionieri e denunciati al tribunale militare. Vittorio Emanuele, su consiglio di Napoleone III, evitò di trasformare in martire Garibaldi e approfittando del matrimonio della figlia con il re del Portogallo, concesse l’amnistia. L’operazione non fu tuttavia esente da risvolti sgradevoli, come l’arresto di parlamentari siciliani e la fucilazione, a Fantina, con giudizio sommario di alcuni soldati che avevano abbandonato i reparti per seguire Garibaldi. Senza contare la caccia ai garibaldini che, nonostante l’amnistia, venivano arrestati e incarcerati per futili motivi.

[4] Cavour a Vittorio Emanuele, il 18 dicembre 1860, cit. da Mack Smith, Garibaldi e Cavour, p. 513

[5]F. Renda, Storia della Sicilia, vol III, 983

[6] A sollevare il problema della terra fu proprio Garibaldi che su proposta di Crispi, il 2 giugno 1860 aveva emanato un decreto con cui prometteva una quota di terra del demanio comunale non ancora ripartita a chiunque avesse combattuto a suo fianco per la patria. I beni demaniali dovevano però essere divisi per sorteggio, l’assegnazione di diritto ai combattenti risultava perciò lesiva di questo diritto. Ne nacquero controversie e i parecchie zone dell’isola scoppiarono rivolte. Le più drammatiche furono quelle di Biancavilla e di Bronte. A Bronte soprattutto si assistette alla feroce e agghiacciante rappresaglia di Bixio, che come inviato di Garibaldi in difesa dei possedimenti dei Nelson, si comportò da giudice militare nei confronti di civili, fucilandoli a seguito di un processo sommario. Bixio non avrebbe potuto rendere peggior servizio a Garibaldi e di questo si servì abilmente Cavour per iniziare la demolizione del mito di Garibaldi che cominciava a diventare un pericoloso avversario.

[7] Una bella descrizione di quel 25 aprile si può trovare nel libro di Francesco Ingrao, un siciliano mazziniano, nel libro La bandiera degli elettori italiani, ristampato da Sellerio (2001)

[8] La lira italiana fu introdotta con la legge Pepoli “Legge fondamentale sull’unificazione del sistema monetario” del 24 agosto 1862, n. 788. Gli istituti di credito che potevano emettere biglietti erano di proprietà privata al Centro-Nord (La Banca Nazionale, che veniva dalla fusione fra la Banca di Genova e la Banca di Torino, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito per le Industrie e il Commercio d’Italia), statali al Sud (Banco di Napoli e Banco di Sicilia). Dopo l’annessione di Roma del 1870, la Banca degli Stati pontifici divenne Banca Romana.

[9] Legge 21 agosto 1862, n. 794

[10] Bevilacqua Piero, Breve storia dell’Italia meridionale: dall’Ottocento a oggi, Donzelli 2005, p. 75.

[11] Nel maggio 1866, in seguito alla crisi finanziaria, i titoli del debito pubblico italiano crollarono alla Borsa di Parigi. Il ministro delle Finanze Antonio Scialoja proclamò il corso forzoso, ossia l’inconvertibilità in oro ed argento della moneta circolante. La Banca Nazionale fu obbligata a fornire al Tesoro un mutuo di 250 milioni di lire. Si sarebbe decretato poi l’emissione di un prestito redimibile forzoso (l’antenato dei BOT). La legge dettava, in particolare, le seguenti disposizioni:

1) tutti i biglietti della Banca Nazionale (ex Banca Nazionale degli Stati Sardi), compresi quelli creati nelle operazioni commerciali con i privati, diventano inconvertibili a vista in metallo; i biglietti emessi dagli altri istituti (Banca Nazionale Toscana, Banca Toscana di Credito, Banca Romana, Banco di Napoli e Banco di Sicilia), sono invece obbligatoriamente convertibili su richiesta in banconote della Banca Nazionale nel Regno;

2) le banconote della Banca Nazionale hanno corso legale, ovvero valore liberatorio coatto, su tutto il territorio dello Stato, mentre quelle degli altri istituti nella sola regione di appartenenza;

3) la Banca Nazionale assumeva la funzione di tesoriere dello Stato in virtù del privilegio, ad essa attribuito, dell’emissione di biglietti per conto del Tesoro, i quali, non essendo ricompresi nella circolazione propria dell’istituto, sono tuttavia svincolati dall’obbligo di riserva che investe invece le banconote emesse dalla Banca stessa a fronte del proprio attivo. Il corso forzoso fece sì che la circolazione di moneta cartacea superasse quella metallica. L’abolizione del corso forzoso, decretata nel 1881 e attuata nel 1883, segnò l’inizio di una breve illusione: l’euforia provocò un surriscaldamento dell’economia al quale non si reagì con le politiche giuste. Intorno al 1887 il corso forzoso era restaurato di fatto. Il boom edilizio innescato da Roma capitale, sostenuto in parte da capitali esteri, coinvolse anche gli istituti di emissione. L’espansione eccessiva portò a una bolla speculativa, e poi alla crisi. La crisi bancaria dei primi anni Novanta, accoppiata a una crisi di cambio, assunse anche una dimensione politica e giudiziaria clamorosa nel dicembre del 1892, quando fu rivelata la grave situazione delle banche di emissione e soprattutto i gravi illeciti della Banca Romana, fino a quel momento coperti dal Governo. il Governo è costretto ad emanare un decreto con il quale viene dichiarata la sospensione della convertibilità in oro delle banconote e, dunque, l’inizio del corso forzoso. Questo avvia l’Italia all’introduzione della moneta cartacea, assicurando contemporaneamente allo Stato la possibilità di far fronte alle spese più urgenti con la semplice stampa di banconote, almeno entro determinati limiti. Inoltre, il provvedimento intende effettuare un primo tentativo di regolamentazione dell’attività delle banche di emissione, orientato alla concentrazione delle emissioni in un unico istituto, in coerenza con il programma di accentramento politico-amministrativo perseguito dalla Destra storica.

[12] Il napoletano Antonio Scialoja (1817 – 1877) era all’epoca ministro delle Finanze. Già ministro del Regno delle Due Sicilie nel 1848 (governo liberale di Carlo Troja), era stato condannato all’esilio dopo la restaurazione dell’assolutismo regio a seguito dei tumulti del maggio 1848. Fu quindi Ministro delle Finanze nel governo dittatoriale di Garibaldi (1860).

[13] Scirocco A., Democrazia e socialismo a Napoli dopo l’Unità, Napoli, 1973 p. 312. Bibliografia AAVV Storia della Sicilia, Società Editrice Storica di Napoli e Sicilia Di Matteo, F., Storia della Sicilia, Edizioni Arbor, 2006 Fortunato, G., Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Firenze, Vallecchi, 1973. Fortunato, G., Galantuomini e cafoni prima e dopo l’Unità, Reggio Calabria, Casa del Libro, 1982 Galasso, G., Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”, Piero Lacaita editore 2005 Gleijeses, V., La Storia di Napoli, Società Editrice Napoletana, 1977 Gramsci, A., La questione meridionale, Editori Riuniti 2005 Ingrao, F., La bandiera degli elettori italiani, ristampato da Sellerio, 2001 Mack Smith, D., Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, 1971 Mack Smith, D., Garibaldi e Cavour, Rizzoli 1999 Mack Smith, D., La storia manipolata, Laterza, 2002 Renda, F., Storia della Sicilia, Sellerio, 2003

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La trattativa tra Stato e mafia è cominciata con l’unità d’Italia e non è mai stata interrotta

Posted by on Lug 27, 2019

La trattativa tra Stato e mafia è cominciata con l’unità d’Italia e non è mai stata interrotta

Per questo e’ difficile sconfiggere i mafiosi. Perche’ dal 1860 si annidano dentro le istituzioni. Ai piu’ alti livelli. Era cosi’ gia’ ai tempi di garibaldi, di crispi e di giolitti. Ed e’ cosi’ ancora oggi. Da qui le enormi difficolta’ dei magistrati che oggi indagano sulle stragi del 1992. Perche’ vanno a toccare gli interessi di ‘p’ezzi’ dello stato. Cioe’ di uomini ancora al vertice del nostro paese

PER QUESTO E’ DIFFICILE SCONFIGGERE I MAFIOSI. PERCHE’ DAL 1860 SI ANNIDANO DENTRO LE ISTITUZIONI. AI PIU’ ALTI LIVELLI. ERA COSI’ GIA’ AI TEMPI DI GARIBALDI, DI CRISPI E DI GIOLITTI. ED E’ COSI’ ANCORA OGGI. DA QUI LE ENORMI DIFFICOLTA’ DEI MAGISTRATI CHE OGGI INDAGANO SULLE STRAGI DEL 1992. PERCHE’ VANNO A TOCCARE GLI INTERESSI DI ‘P’EZZI’ DELLO STATO. CIOE’ DI UOMINI ANCORA AL VERTICE DEL NOSTRO PAESE

Quando oggi parliamo di trattativa “Stato-mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’Unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia e sin dai tempi dell’invasione garibaldina che si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli.

In Sicilia, in quel lontano maggio del 1860, accorsero con i loro “famosi picciotti” in soccorso di Garibaldi i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola di Erice i fratelli Sant’Anna di Alcamo, i Miceli di Monreale, il famigerato Santo Mele così bene descritto da Cesare Abba, Giovanni Corrao referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi addirittura diverrà generale garibaldino e che verrà ucciso 3 anni dopo nell’agosto del 1863 nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose.

Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro ”Storia della mafia”, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore de Crescenzo , Michele “o chiazziere” e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o no a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e detrminante contributo all’Unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato,per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale.

Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo, Giuseppe Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joe Bananas, che nel suo libro autobiografico “Uomo d’onore”, a cura di Sergio Lalli, a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione, così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina. “Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra ‘tradizione’ (= mafia) si schierarono con le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere.

Con l’Unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà di fatto una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese. E di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia ed una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico, a Palermo.

Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato in qualità di capo dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo ed ideatore come anzidetto del pool antimafia di cui allora fecero parte tra gli altri giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello, fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche.

Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi promosso a Grottaferrata il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia”.

“La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quella occasione a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Ed ancora in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e successivamente con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire: “La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”.

Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi come sosteneva Rocco Chinnici dall’Unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che sin dagli albori dell’unità d’Italia hanno insanguinato la nostra terra per iniziare con la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti dei pugnalatori di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palazzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che della lotta alla mafia ne hanno fatto una ragione di vita e purtroppo anche di estremo sacrificio sino alla morte.

Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quello stesso Paolo Borsellino che da quanto, in questi ultimi tempi e alla luce di nuove risultanze processuali che hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi, ci è stato dato da apprendere si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia” e per questo ha pagato, per le connivenze tra mafia e servizi segreti deviati, con la vita il suo atto di coraggio.

Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti un mix di soggetti: Stato, mafia,banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quant’altro che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare, da 153 anni a questa parte, la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.

fonte https://palermo.meridionews.it/articolo/22313/la-trattativa-tra-stato-e-mafia-e-cominciata-con-lunita-ditalia-e-non-e-mai-stata-interrotta/

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La mafia? Creata dai massoni inglesi, per sabotare l’Italia

Posted by on Lug 24, 2019

La mafia? Creata dai massoni inglesi, per sabotare l’Italia

Spaghetti, pizza e mafia. Sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti».

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La tratta degli italiani di Fernando Ritter

Posted by on Lug 17, 2019

La tratta degli italiani  di Fernando Ritter

Alla fine degli anni ’60 vi erano ufficialmente, sparsi attraverso il mondo, 6 milioni di individui in possesso di passaporto italiano. Di questi, oltre 2,4 milioni vivevano in Europa: 900 mila in Francia, 700 mila in Svizzera, 400 mila in Germania, 250 mila nel Benelux, 150 mila in Gran Bretagna. In realtà, il numero degli italiani all’estero era allora sensibilmente superiore alla cifra ufficiale, in quanto da essa erano stati esclusi tutti coloro che, nel corso degli anni, avevano rinunciato o dovuto rinunciare alla propria cittadinanza originaria. Innumerevoli quindi sono stati gli italiani costretti a prendere la via dell’esilio per cercare, all’estero, quel pane che veniva loro negato in patria. Ciò avvenne precisamente da quando, conquistato dai piemontesi il Regno delle due Sicilie, cominciò in nome dell’Unità d’Italia, il pesante saccheggio del più vasto, più potente e più ricco Stato della Penisola; di quello Stato che poteva vantarsi di un’amministrazione pubblica modello e di un patrimonio aureo di poco inferiore al mezzo miliardo di lire oro, più che doppio di quello complessivo degli altri Stati d’Italia. Stato pacifico che, tra l’altro, non conosceva la coscrizione obbligatoria e la leva in massa, e che si era posto all’avanguardia del progresso tecnico; a esso i Borboni avevano dato la prima ferrovia in Italia, la prima nave a vapore, il primo telegrafo elettrico (sia pure sperimentale) e, alla sua capitale, l’illuminazione a gas, con 10 anni d’anticipo sulle altre città della Penisola. Stato dove non attecchì la grande usura, che vide anzi fallire il ramo dei Rothschild che si era stabilito a Napoli. L’Unità d’Italia, per il Meridione, significò il crollo della sua agricoltura e quello delle sue industrie -già più sviluppate e floride di quelle del Nord – con conseguenze che si fecero sempre più gravi e tragiche per le popolazioni. L’Unità portò anzitutto alla completa rovina dei contadini, considerati sino alla conquista legalmente inamovibili dalle terre feudali, ecclesiastiche e comunali da loro coltivate, nonché proprietari di quelle coloniche; contadini praticamente esenti da doppie imposizioni e tributi, e da qualsiasi servitù militari. L’incameramento di queste terre, in ossequio ai nuovi principî, da parte del demanio piemontese, la loro messa in vendita, il loro acquisto, furono il trionfo degli speculatori, degli usurai, dei manipolatori di ogni specie, locali e piovuti dal Nord, i quali – sotto la protezione di un esercito di occupazione forte di 120 mila uomini e che, in 10 anni, bruciando paesi e paesani, massacrò 20 mila contadini in lotta per il pane, gabbandoli per briganti -diventarono, con l’ausilio di leggi non meno infami di coloro che le applicavano, i padroni inesorabili del contadino. Questi, messo nell’impossibilità materiale di pagare le tasse e i balzelli imposti da un Piemonte in eterno disavanzo finanziario, si vide portare via le scorte, gli attrezzi, la capanna, il campo; e ciò non da un feudatario “spietato”, ma dal borghese “liberale”. Così il contadino dell’ex reame delle Due Sicilie, il quale dal 1830 al 1860 aveva fruito di una condizione economica assai migliore di quella dei lavoratori della terra del resto della Penisola, si vide con l’Unità depredato addirittura anche del lavoro. E questo in quanto i nuovi proprietari della terra – introducendo colture industriali (agrumi e ulivo) in sostituzione di quelle che coprivano il fabbisogno alimentare e tessile delle popolazioni locali, contadine e cittadine – non ebbero che una preoccupazione: quella di realizzare sempre maggiori profitti finanziari, pure a totale scapito del lavoro (l’industrializzazione di quei tempi!). Così le campagne del Mezzogiorno, sacrificate all’industrializzazione agricola locale e tradite dalla politica per lo sviluppo delle manifatture del Nord, non furono più nella possibilità materiale, come lo erano state nei secoli, di assicurare alla popolazione del Sud, anche delle città, neppure la propria alimentazione. E fu lo sfacelo [1]. Si interruppe in conseguenza – tra l’altro – la corrente migratoria della mano d’opera, che sino allora si era spostata dal Nord al Sud, mentre i contadini meridionali, cacciati per fame dalle loro terre, furono costretti alla fuga verso il Nord e l’estero. Fenomeno che non tardò a trasformare l’intera Penisola in una immane colonia di sfruttamento umano, dove nuovi negrieri razziavano ogni anno, non più africani, ma un crescente contingente di disperati bianchi, il cui numero salì progressivamente da 107 mila – media annua del periodo 1876 -1880 – a 310 mila, media annua del periodo 1896 -1900, a 554 mila, media annua del periodo 1901-1905, a 651 mila, media annua del periodo 1906-1910, a 711 mila nell’anno 1912, a 872 mila nell’anno 1913, anno di vigilia della prima guerra mondiale, che troncò questa tratta, sino alla fine delle ostilità, per fornire carne da cannone, in abbondanza, alle offensive, negazione della strategia, di un altro piemontese. Nessun documento meglio di queste cifre potrebbe illustrare i risultati economici, sociali e umani della politica della borghesia italiana “liberale” di quegli anni. Borghesia che doveva trovare in Giovanni Giolitti il suo personaggio più rappresentativo, diventato direttamente o – per pochi mesi – tramite i suoi luogotenenti Fortis e Luzzato, dal 1903 al marzo 1914 capo del governo e, attraverso la burocrazia e la corruzione, padrone assoluto del Paese. Politica che costrinse, nell’ultimo biennio dell’era giolittiana, oltre un milione e mezzo di italiani a emigrare; più della metà dei quali oltre Atlantico, verso l’inferno delle fazende brasiliane, delle miniere e ferriere della Pennsylvania, dei mattatoi di Chicago, degli angiporti e dei bassifondi di Buenos Aires e di New York; caricata per maggior utile degli armatori del Nord, in condizioni di poco meno disumane di quelle fatte all’inizio del secolo scorso dai negrieri agli schiavi portati sui mercati delle due Americhe.

[1] Codificato dalle leggi protezioniste del 1887 a favore delle industrie del Nord.

fonte https://www.eleaml.org/sud/den_spada/tratta_degli_italiani.html

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OMELIA PER I MARTIRI DELLA TRADIZIONE E PER I CADUTI NAPOLETANI

Posted by on Lug 5, 2019

OMELIA PER I MARTIRI DELLA TRADIZIONE E PER I CADUTI NAPOLETANI

Messa per i Martiri della Tradizione e i Caduti Napoletani

Chiesa di San Giacomo nella Fortezza di Civitella del Tronto

30 marzo 2003

Omelia di  Mons. Ignacio Barreiro  

Nel Nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

Siamo radunati in questa storica chiesa di San Giacomo per offrire il Santo Sacrificio della Messa in suffragio delle anime dei martiri della Tradizione e dei Caduti Napoletani.

Non dobbiamo dimenticare che questi due ultimi secoli sono stati tempi di martiri. L’insurrezione contro la verità che ha visto il suo inizio nella Germania del cinquecento arriva al suo logico traguardo nella rivoluzione in Francia, e dilaga per tutta l’Europa e l’America in pochi anni.

Conoscete bene tutti gli efferati crimini compiuti nel Regno delle Due Sicilie dai Giacobini e dall’esercito Napoleonico d’occupazione. Ricordate come le truppe rivoluzionarie hanno reagito con particolare crudeltà contro l’eroica resistenza del popolo nella Calabria.

La bufera rivoluzionaria che si scaglia contro questo Regno è purtroppo soltanto una parte di una concertata offensiva che si lancia contro le diverse società tradizionali in gran parte del mondo Cristiano alla fine del settecento e all’inizio dell’ottocento.  I diversi moti rivoluzionari che si scagliano contro le autorità legittime nell’America sono parte di questa stessa cospirazione. L’aggressione armata che segna la fine temporanea di questo Regno è veramente una continuazione di quella rivoluzione, perché come ben sapete è stata ispirata dagli stessi falsi principi.

Ciò che è più grave e in più di una forma apre le porte alla rivoluzione è quando questi errori sono accettati da una porzione influente della società, come vediamo nel Settecento e nei tempi che precedono l’aggressione.

Le persecuzioni contro i cristiani sono continuate nel secolo che è appena terminato. Il ventesimo secolo è stato il secolo dei martiri. Molto probabilmente in questo secolo che si è appena concluso, sono stati uccisi in odio alla fede più cristiani che in tutto il resto della storia della Chiesa.

I primi casi clamorosi in questo secolo è stato il massacro di oltre un milione e mezzo di Cristiani Armeni da parte dei Turchi, nel corso della prima guerra mondiale.

Con l’inizio della Rivoluzione Comunista saranno sterminati milioni di Cristiani in Russia, in una persecuzione che prosegue anche adesso nei paesi che continuano ad essere sottomessi al giogo della stella rossa.

Ricordate anche l’orribile persecuzione della Chiesa in Messico e in Spagna, frutto di un’alleanza fra la massoneria e la sinistra internazionale. Lì vediamo come il liberalismo e il comunismo diventano alleati nella loro lotta contro la Chiesa, perché ambedue sono figli della stessa rivoluzione. Va fatta memoria anche delle migliaia di Cattolici morti sotto il regime Nazional Socialista.

Questa persecuzione continua ad essere in atto in tutto il mondo. Oltre che nei paesi comunisti, come la Cina Continentale, la Chiesa oggi soffre persecuzioni in tanti paesi dominati dagli islamici come il Sudan e l’Indonesia.

In altri paesi islamici sebbene la persecuzione non sia abitualmente sanguinosa, vediamo come i cristiani siano discriminati e trattati come persone di seconda classe. Nella terra dove è nato il Signore vediamo anche come lo stato d’Israele discrimini i cristiani.

A tutti questi morti dobbiamo anche aggiungere la cifra clamorosa dei milioni di bambini trucidati dall’omicidio dell’aborto nel ventre delle loro madri. Dobbiamo anche considerare i milioni di esseri umani uccisi anche da altre pratiche immorali come la pillola del giorno dopo, o da mezzi chiamati in forma ingannevole contraccettivi ma che in realtà causano aborti e da tante altre forme di pratiche immorali come la fecondazione artificiale. All’olocausto dei bambini dobbiamo aggiungere tutte le persone che sono uccise dall’eutanasia, che adesso è stata legalizzata sia in Olanda che in Belgio. È particolarmente doloroso che un paese che è considerato Cattolico come il Belgio abbia legalizzato questa forma d’omicidio.

Tutte le persecuzioni sono accomunate da un odio verso la verità che ha radici tanto antiche quanto la ribellione di Satana contro Dio e il primo peccato dei nostri primi genitori.

Il primo giugno del 1877, il Beato Pio IX, rivolgendosi ad un gruppo di pellegrini francesi, ricordò loro: “Il demonio è stato il primo rivoluzionario del mondo… ma la rivoluzione finisce sempre col trionfo dell’ordine che presto o tardi risorge.”  

Sebbene le radici siano vecchie, è chiaramente dimostrabile che l’accanimento contro la verità ha subito un cambiamento qualitativo in questi ultimi secoli. Questo cambiamento si deve soprattutto ad una progressiva decristianizzazione della società che ha avuto la sua origine nell’autunno del Medioevo, quando gli uomini cercarono di rendersi indipendenti dalla verità pronunciando lo stesso “non servirò” che fu dichiarato all’inizio della storia dal principe dei demoni.

Questo cambiamento qualitativo dell’aggressione contro la verità è conseguenza di un processo che cerca la definitiva eliminazione del soprannaturale e del trascendente dalla storia.

Sebbene constatiamo con dolore come la rivoluzione continui a progredire, allo stesso tempo dobbiamo essere sicuri che sarà sconfitta perché é profondamente contraria alla natura dell’uomo che è aperta a Dio, e poiché nulla di anti-naturale può durare, come afferma in molte occasioni San Tommaso d’Aquino, la chiusura dell’uomo a Dio non potrà durare. Siamo sicuri che la verità regnerà, perché abbiamo piena fiducia che Dio mai sarà sconfitto e il trionfo finale della rivoluzione sarebbe una sconfitta per Dio.

Nel vangelo d’oggi vediamo come Gesù Cristo leva gli occhi e vede una gran folla affamata che viene da Lui. Il Signore è profondamente sensibile ai bisogni spirituali e materiali degli uomini. Qui lo vediamo assumere l’iniziativa per saziare la fame della folla che lo seguiva. Con questo miracolo Gesù c’insegna ad avere fiducia in lui e nella sua Provvidenza davanti alle difficoltà della vita e in particolare oggi, contro i mali che soffriamo per il dilagarsi della rivoluzione.

Il racconto di questo miracolo inizia con le medesime parole con le quali i Vangeli sinottici e san Paolo riferiscono l’istituzione dell’Eucaristia. Tale coincidenza sta ad indicare che il miracolo, oltre ad essere una prova della compassione di Cristo verso i nostri bisogni materiali, è un chiaro annuncio della Santa Eucaristia. Nell’Eucaristia Cristo è diventato il nostro pane, il pane vivo disceso dal cielo per nutrimento delle anime nostre.

Quando serviamo il ricordo di tutto quello che i nostri hanno sofferto nella difesa della tradizione questo potrebbe essere causa di un certo scoraggiamento, ancora di più se vediamo come stanno andando le cose. In realtà il Signore non ci abbandona mai, se non siamo noi i primi a lasciarlo. Soltanto si nasconde, e nasconde anche l’opera che Egli fa in beneficio nostro per metterci alla prova. Allora è il momento d’attendere con piena fiducia, perché il suo aiuto mai ci mancherà. Quest’aiuto non ci mancherà mai, ma saremo in grado di sperimentarlo solo nella misura in cui cercheremo di vivere con fedeltà.

Le nostre risorse sono poche in confronto ai mezzi apparentemente sconfinati della rivoluzione, ma nel miracolo della moltiplicazione dei pani abbiamo un chiaro messaggio di Cristo che ci conforta dicendoci che se noi collochiamo a disposizione di Dio le nostre povertà, forse Egli le farà crescere come ha moltiplicato i cinque pani e i due pesci. Pochi minuti fa vedendo come il giovane Riccardo, nella sua debole condizione di salute, reggeva con le sue mani la bandiera delle Due Sicilie, con piena coscienza e volontà, vedo in questo un segno profetico che il Regno forse un giorno tornerà.

Diciamo mille volte che Cristo non ci lascia mai soli nella nostra peregrinazione sulla terra, ma purtroppo allo stesso tempo non aggiungiamo abbastanza, che il principale luogo dove Cristo sta con noi è nella Santa Eucaristia. Qui troviamo, se siamo ben disposti a riceverla, la pienezza delle sue grazie. Nella Santa Ostia Cristo ci aspetta per darci le forze di cui abbiamo bisogno per cambiare e diventare cristiani coerenti e uniti a Cristo in tutti i momenti della nostra vita. Nel ricevere la Santa Eucaristia cerchiamo di fare in modo che nella nostra vita non sia più il vecchio uomo che vive, con tutte le sue limitazioni e peccati, ma un nuovo uomo formato alla presenza reale di Cristo in noi.

Se noi cambiamo e la luce di Cristo esce da noi, saremo anche in grado di cambiare il mondo. Ma cambieremo il mondo non con la forza di un’ideologia basata sul potere temporale, né sulla forza delle armi o della politica, ma con la forza che emerge dall’unione personale con Dio di migliaia di Cristiani che si sono trasformati in Cristo, come diceva quell’uomo saggio che fu Dietriech von Hildebrand. Nella misura in cui la presenza reale di Cristo in noi sia veramente operativa, emergerà di noi una luce che aiuterà il povero mondo dove viviamo ad uscire dalle tenebre spirituali e materiali in cui oggi si trova.

Tutti questi morti ci chiamano alla lotta in difesa della verità e della gloria di Dio. Questo combattimento non è principalmente la lotta contro le diverse manifestazioni specifiche dello spirito dell’errore, siano queste manifestazioni antiche come l’islam o il neo paganesimo, o vecchie ma apparentemente piene di vitalità come il liberalismo democratico, o nuove come il consumismo materialista. Chiaro che, anche queste dovranno essere denunciate perché pongono a rischio le anime tramite le loro ingannevoli pretese.

La lotta del cristiano non è una negazione, é fondamentalmente un’affermazione. Un’affermazione della verità che Cristo ci ha dato e che è preservata e custodita dalla Chiesa Cattolica. Questa è la tradizione nei suoi termini più puri che consiste nel ricevere e custodire senza innovazioni né tergiversazioni il messaggio che Cristo ci ha lasciato, come sottolineava il Santo Padre Giovani Paolo II nel suo recente discorso ai partecipanti al Corso promosso dalla Penitenzieria Apostolica.

Un messaggio che si è reso vivo nelle grandi società del passato come diceva il Papa Leone XIII e che é la volontà di Dio che si faccia presente e vivificante nella società dei nostri tempi. La tradizione non è qualcosa di ossificato e morto che si preserva come un cimelio in un museo, ma una verità viva che dà senso alla vita. Non è soltanto una nostalgia di tempi passati e per certo migliori, ma una speranza per il futuro. Non si deve confondere né con il nazionalismo né con il conservatorismo.

Il nazionalismo molte volte è una forma pericolosa di esaltazione della nazione d’origine romantica e per questo anche d’origine rivoluzionaria.

Il conservatorismo si nutre del desiderio di conservare molte istituzioni esistenti, e qui è utile ricordare che molte istituzioni che oggi abbiamo, sono nate sotto il cattivo sole della Rivoluzione.

Senza tradizione non c’è speranza, perché qualsiasi tipo di società che non si trovi ancorata nella verità e nell’amore che Cristo ci ha dato, è destinata al fallimento. Nella tradizione abbiamo una visione perenne della realtà delle cose che domanda per coerenza un’azione.

Essere fedeli al patrimonio della tradizione non è soltanto la sua curante preservazione, ma richiede un impegno coraggioso perché le verità eterne si facciano presenti e operanti nei tempi d’oggi. Il patrimonio della tradizione non è soltanto un patrimonio intellettuale ma un patrimonio del cuore, un amore profondo e saldo per una società Cattolica che in una forma organica ci assista a dare gloria a Dio.

L’impegno per la tradizione non è facile, in primo luogo per la nostra natura ferita, e in secondo luogo perché viviamo in una società che fa tutto il possibile per distoglierci dalla fede. Ma questo non ci deve scoraggiare perché tutto è possibile con Dio, tutto è possibile con la grazia e con l’ausilio immancabile della Santissima Vergine Maria. Dovremo stare in guardia perché lo spirito cattivo dei tempi non entri nella nostra mente né nel nostro modo d’agire, lo spirito rivoluzionario che ci spinge ad accettare molte delle bugie dei nostri tempi.

Dovremo avere la stessa lucidità che ha avuto il Beato Pio IX che dopo un breve tempo nel pontificato, capisce che non si può conciliare la verità che gli aveva dato Cristo da custodire con le forze rivoluzionarie, anche le più moderate.

Questo santissimo Papa ha visto qual era la posta in gioco: o la permanenza della fede o la continuazione di un processo rivoluzionario di dissoluzione della fede. Allo stesso modo in cui Pio IX non l’ha accettato, neppure noi possiamo accettare delle concessioni e dei patteggiamenti apparentemente necessari dovuti alle condizioni dei tempi; accettare questi compromessi e lasciare che lo spirito della rivoluzione cominci ad entrare nelle nostre anime e a logorare il nostro spirito cattolico.

Per questo oggi dopo aver pregato la Santissima Vergine Immacolata, e San Giacomo il gran patrono dei popoli ispanici, che intercedano per tutte le vittime della rivoluzione perché presto abbiano un posto di gloria nel cielo, la preghiamo, affinché noi possiamo imitare le loro virtù e portare con fierezza le bandiere sempre giovani della tradizione.

Sia lodato Gesù Cristo.

fonte http://www.editorialeilgiglio.it/cultura-cattolica-omelia-per-i-caduti-napoletani/

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