Parlare e scrivere su quello che si produce non è cosa giusta e nemmeno corretta ed infatti non mi accingo a giudicare lo spettacolo “VOCI, SUONI E CANTI DEI BRIGANTI IN TERRA DI LAVORO” che l’Ass.Id.Alta Terra di Lavoro ha portato in scena a Picinisco il 19 agosto 2021 e a Ceprano il 20 di agosto 2021 ma lo farò per i singoli protagonisti per come si sono comportati e per quello che hanno rappresentato.
I piemontesi, subito dopo la ‘presunta’ unificazione italiana, avevano il fucile facile. E fucilavano anche i bambini. Come hanno fatto in Sicilia, a Castellammare del Golfo, nei primi giorni di Gennaio del 1862. Ma lo hanno fatto anche in altre parti del Sud, come testimonia un articolo e ‘L’Osservatore Romano’. Perché non bisogna dimenticare
Ovvero quando i bambini molisani, e non solo, erano “venduti” per miseria ed erano la vergogna d’Italia.
Quella che vado a raccontare è una storia sconosciuta ai più. È, senza dubbio, la pagina più drammatica dell’emigrazione molisana e laborina. Vide per protagonisti tantissimi bambini provenienti dal Circondario di Isernia, specificatamente dalla valle del Volturno e da San Polo Matese, territori accomunati dalla tradizione della zampogna. L’ho ricostruita sulla base di documenti conservati negli archivi che ci raccontano della “vendita” , da parte dei genitori, dei propri figli a quelli che venivano definiti “padroni”.
Con note introduttive sulla storia dell’Avvocatura
L’Italia è universalmente riconosciuta come la culla del diritto e Roma viene celebrata come la fucina dove le regole del vivere civile venivano costruite e codificate per diventare, nel tempo, patrimonio dell’umanità.
In questa ottava parte del volume “…
e nel mese di maggio del 1860 la Sicilia diventò Colonia”, Giuseppe
Scianò
elenca le prese di posizione di alcuni storici e commentatori. Dalle
dichiarazioni sincere – ma anche dalle bugie – emerge con chiarezza il ruolo
degli Inglesi, che avevano preparato lo ‘sbarco dei mille’ con meticolosità. Ed
viene fuori, soprattutto, il ruolo dei ‘picciotti’ di mafia
di Giuseppe Scianò
Commenti e
testimonianze sullo Sbarco dei garibaldini avvenuto a Marsala l’11 maggio 1860 – Sulle vicende di Marsala si
è scritto parecchio e si è detto tutto ed il contrario di tutto. La verità che
si sia trattato di un colpo di mano inglese, non occasionale, ma inserito in un
piano ben preciso, tuttavia, emerge a poco a poco e in modo inoppugnabile dalle
tante dichiarazioni sincere e, paradossalmente, anche dalle tante bugie. Si
tratta di testimonianze tirate in ballo, le une e le altre, da coloro che, da
diversi punti di vista e talvolta con interessi contrapposti, si sono occupati,
volontariamente o involontariamente, delle vicende risorgimentali siciliane.
Non
potendole citare tutte, abbiamo riportato le testimonianze più significative,
citandone di volta in volta le fonti.
Indro Montanelli – Un unitario e risorgimentalista
impenitente, Indro Montanelli, il quale già in altre occasioni aveva fatto
qualche battuta a proposito dell’accoglienza che i Siciliani avevano riservato
a Garibaldi ed ai suoi Mille a proposito dello sbarco così ebbe modo di
esprimersi:
«Gli
inizi non furono promettenti. L’unico che diede un caldo benvenuto ai volontari
fu il Console inglese. La popolazione si chiude in casa. E lo stesso vuoto
incontrò la colonna l’indomani, quando si mise in marcia. Solo a Salemi,
Garibaldi fu accolto con entusiasmo, perché a lui si unì una banda di
“picciuotti” comandata dal Barone Sant’Anna. Se un “pezzo di novanta” come lui
si schierava con Garibaldi, voleva dire che su costui c’era da fare
affidamento». (13)
Ci
sentiamo in dovere di precisare che le virgolette sono nostre. Non ne potevamo
fare a meno, soprattutto nel momento in cui appaiono i picciotti di mafia ed il
loro pezzo da novanta, Barone Sant’Anna.
Non
ci pare nemmeno corretto che il Console di S.M. Britannica sia lì, in piazza, a
farsi in quattro per festeggiare l’inizio dell’invasione di quel Regno delle
Due Sicilie, presso il quale egli stesso ha svolto e continua a svolgere compiti
di rappresentanza diplomatica (si fa per dire, perché è fin troppo evidente il
suo ruolo di agente del Governo di Londra incaricato di agevolare azioni
destabilizzanti di ogni tipo). Analoga considerazione vale per il Console
Sabaudo. Ma Montanelli non si preoccupa di evidenziare questo particolare.
Va
tutto bene lo stesso? No, certamente. Ma è sufficiente constatare che il famoso
Indro abbia ammesso che a Marsala la gente si chiuse in casa e vi restò chiusa
anche durante la partenza di Garibaldi alla volta di Salemi. Ed
il Montanelli parla chiaramente anche dell’apporto della mafia.
E non è poco… per un unitario di ferro.
Giuseppe
Cesare Abba
– Persino l’Abba è costretto a parlare delle bandiere Inglesi. Si vede che
erano veramente molte. Anzi: troppe! A sbarco già avvenuto, scrive nelle sue
noterelle, proprio con la data dell’11 maggio 1860:
«Siedo
sopra un sasso, dinanzi al fascio di armi della mia compagnia, in questa
piazzetta squallida, solitaria, paurosa».
Dopo
qualche osservazione sul Capitano Alessandro Ciaccio, che piange di gioia e
dopo aver fatto qualche altro piccolo riferimento di cronaca, il nostro Autore
aggiunge:
«Su
molte case sventolano bandiere di altre nazioni. Le più sono Inglesi. Che vuol
dire questo?». (14)
Si
è detto che l’Abba pone un quesito al quale crediamo di avere risposto
abbondantemente. Ma riteniamo che gli avessero già risposto esaurientemente
quasi subito altri autori. E riteniamo altresì che l’Abba si sia risposto da
sé, nel momento in cui è costretto ad ammettere che sventola una grande
quantità di bandiere Inglesi.
Un
fatto strano, comunque. Per un cantore, per un apologeta dell’impresa
garibaldina, per un operatore di disinformazione storica e politica del
Risorgimento, è senza dubbio un sacrificio dare spazio a questo scorcio di
verità. Ma non può farne a meno: il fenomeno è dilagante e si ripeterà a
Palermo, a Catania, a Messina. Ovunque in Sicilia.
Va
da sé un’altra considerazione. L’Abba non afferma di aver visto
bandiere italiane. Ci fa quindi dedurre che non ve ne siano. Neppure una.
Non si tratta di un fatto secondario. Se infatti un agiografo come l’Abba
avesse visto a Marsala un solo fazzoletto tricolore, lo avrebbe moltiplicato
per cento… Saranno poi i pittori, i pennaioli ed i poeti (incaricati dal
Governo di Vittorio Emanuele o mossi dalla voglia di far carriera o dalla
necessità di sopravvivere) che faranno miracoli, descrivendo folle osannanti,
talvolta in ginocchio, che accolgono il Duce dei Mille fin dal molo del porto,
in un tripudio di gigantesche bandiere tricolori.
Dobbiamo
tuttavia ricordare che uno dei più famosi commentatori del libro di Abba, in
una nota, cerca di mettere una pezza alla testimonianza in questione. Ed
infatti scrive:
«(La
bandiera inglese significa) che molti Inglesi vi si trovavano per l’industria
vinicola. La bandiera metteva al riparo dal bombardamento». (15)
È
appena il caso di fare rilevare che il bombardamento vero e proprio, per la
verità, non vi era mai stato. E che si trattava di pochissime cannonate a vuoto
e puramente simboliche che peraltro erano già terminate. Mentre – come abbiamo
già puntualizzato – le bandiere Inglesi e le tabelle con la scritta domicilio
inglese si sarebbero viste (e mantenute a lungo) anche in altre città della
Sicilia, dove non vi erano industrie vinicole degli Inglesi… e neppure gli
Inglesi stessi.
Bandiere
e tabelle sarebbero servite in verità a moltissime famiglie siciliane per
mettersi al sicuro (o meglio, per tentare di mettersi al sicuro) dai saccheggi,
dalle violenze e dagli stupri, che non sarebbero certamente mancati. E che,
anzi, in non poche occasioni, avrebbero caratterizzato il comportamento dei
liberatori, nonché dei banditi e dei malfattori locali loro alleati.
Abbiamo
già ricordato che l’11 maggio 1860, a Piazza della Loggia, a Marsala, durante
la parata garibaldina si era rimediata a stento la sola bandiera italiana che
Giorgio Manin aveva tirato fuori da un apposito astuccio. Questo fatto la dice
lunga, troppo lunga… E conferma che le bandiere italiane non esistevano
nel maggio 1860. Né a Marsala, né in tante città della Sicilia. Fatte salve
ovviamente quelle poche eccezioni che confermano la regola.
Faremmo un torto a
G. C. Abba se non dicessimo che egli stesso si incarica di fare qualche
affermazione atta a compensare, probabilmente, gli
effetti negativi di alcune considerazioni, in apparenza ingenue, o di qualche
lapsus freudiano. Come quando, ad esempio, ha fatto cenno alla «piazzetta,
squallida, solitaria, paurosa». La compensazione avviene allorché, per
restare in tema, fa appunto una poco credibile descrizione dei festeggiamenti
(probabilmente inventati ed idealizzati nel lungo periodo di tempo trascorso
fra la sua partecipazione all’impresa ed il momento in cui avrebbe curato
l’ultima stesura della sua opera) dei quali nemmeno Garibaldi in persona ed il
suo fedele ufficiale Bandi fanno cenno, come vedremo.
Così
scrive Cesare Abba:
«Ora la
città è nostra. Dal porto alle mura corremmo bersagliati di fianco. Nessun male.
Il popolo applaudiva per le vie; frati di ogni colore (sic!) si squarciavano la
gola gridando; donne e fanciulli dai balconi ammiravano. “Beddi! Beddi!” si
sentiva da tutte le parti».
Eppure
poco prima aveva scritto:
«La
città non aveva ancora capito nulla; ma la ragazzaglia era già lì, venuta giù a
turba».(16)
Ci
insospettisce, altresì, ma non più di tanto, il fatto che l’Abba non abbia
detto «alcuni ragazzi» bensì abbia usato il termine, piuttosto dispregiativo,
di «ragazzaglia». Ci dovrebbe far riflettere anche la precedente frase:
«La
città non aveva ancora capito nulla…». (17)
Come
mai la città avrebbe festeggiato se non aveva «capito nulla»? E come mai pur
non avendo capito nulla aveva atteso l’evento liberatore? E come mai, senza
avere ancora capito nulla, secondo quanto attestano le fonti ufficiali,
sarebbero stati proprio i cittadini di Marsala quelli che volevano ad ogni
costo Garibaldi alla testa della loro rivoluzione?
L’agiografia
risorgimentale dell’Abba diventa, insomma, un boomerang per l’eccessivo
entusiasmo patriottico dell’Autore del testo «sacro» Da
Quarto al Volturno.
Non
sottilizziamo ed andiamo ad uno di quegli episodi secondari che però, a tempo e
luogo opportuni, possono assumere ruolo e funzione di testimonianza. L’Abba ci
aveva, sempre nella noterella del giorno undici, parlato di un incontro
interessante:
«Alcuni
frati bianchi ci salutavano coi loro grandi cappelli: ci spalancavano le loro
enormi tabacchiere: e stringendoci le mani, ci domandavano:
“Siete
reduci, emigrati, svizzeri?”».
Francamente
ci sembra strano che i frati, i quali dovevano necessariamente possedere un
bagaglio di cultura e di informazioni politiche (…oltre che di tabacco)
superiore alla media, facessero una domanda del genere e dimostrassero quindi
di non essere coinvolti nell’entusiasmo popolare, del quale lo stesso Abba
parlerà di lì a poco (di cui abbiamo fatto riferimento).
Una cosa, seppur
inquietante, i frati l’avevano comunque confessata. Per loro i Garibaldini
potevano anche essere stranieri. Meglio se svizzeri…
Non li avrebbero comunque conosciuti, né riconosciuti.
Bolton
King. Inglesi a Marsala? Bolton non lo sa… – Nel 1903, Benedetto Croce,
mostro sacro della filosofia e della storiografia italiana, unitario di ferro
(ancorquando meridionale), nel corso della presentazione di una nuova opera di
Bolton King, volle fare cenno a quella che era l’opera più conosciuta in Italia
e sulla quale avrebbero studiato diverse generazioni di docenti, di allievi e
di studiosi: La storia dell’unità
d’Italia, in quattro volumi. La prima edizione della quale era
stata pubblicata in lingua inglese nel 1899.
Ebbene,
il Croce in proposito affermò:
«La
“Storia dell’Unità d’Italia” benché elaborata con conoscenza completa del vasto
materiale erudito di quel periodo, pur non tanto mi era parsa notevole per
l’erudizione quanto per la finezza ed equilibrio del giudizio, che mette sotto
giusta luce uomini ed avvenimenti controversi, e desta quasi di continuo quella
persuasione, quell’intimo assenso, che si esprime con un “così è”». (18)
Ipse
dixit, insomma… L’opera dell’illustre inglese è senza dubbio ponderosa ed
interessante. Parte, però, da alcuni dati che ritiene scontati e certi, ma che
invece a nostro giudizio sono discutibili. Talvolta mai avvenuti.
Il
buon Bolton King, del resto, se in buona fede, non avrebbe mai potuto
immaginare che il materiale erudito da cui avrebbe attinto la conoscenza della
storia d’Italia, in realtà gli avesse fornito una serie di notizie rielaborate
e/o falsificate ab origine. Non sappiamo se, venendo in Italia, visitando i
luoghi del delitto, interrogando i testimoni oculari, lo scrittore inglese
avrebbe smentito se stesso.
Fatto
sta che il King non aveva mai messo piede in Sicilia fino al mese di maggio del
1860 (né lo avrebbe fatto dopo), né in Sicilia, né tantomeno in Italia. A
questo punto abbiamo il sospetto che Bolton King non fosse stato in buona fede
e che anche lui facesse parte della grande congiura della disinformazione per
giustificare e legittimare la grande operazione di conquista del Regno delle Due
Sicilie.
Ecco,
ad esempio, come ci descrive lo Sbarco dei Mille:
«Intanto
con i suoi piroscafi Garibaldi giunse a Marsala l’11 maggio. Era riuscito a
sfuggire ai vascelli Napoletani in alto mare, ma mentre si stava avvicinando a
terra fu avvistato da due incrociatori, che lo inseguirono accanitamente fino
nel porto. Una delle sue navi si incagliò e, se il fuoco aperto dai Napoletani
non fosse stato troppo largo e sparso, una metà dei suoi uomini non sarebbe
certo riuscita a giungere sana e salva sulla terraferma. A Marsala non esisteva
la guarnigione, ma la spedizione corse egualmente il rischio di rimanere
inchiodata in quel lembo dell’isola, per cui Garibaldi decise di marciare
immediatamente su Palermo: salutato con indicibile entusiasmo dalla
popolazione, si proclamò Dittatore dell’isola in nome di Vittorio Emanuele e si
affrettò quindi ad avanzare su Palermo, mentre La Masa incitava gli abitanti
dei villaggi a prendere le armi e mentre le squadre sopravvissute all’impresa
della Gancia si univano alle sue forze».(19)
Così
fu? Non ci pare. Manca peraltro ogni riferimento proprio all’intervento
inglese. Ed invece spunta un entusiasmo che, soprattutto a Marsala, nella
realtà, non era mai esistito. E questa descrizione dei fatti non ci pare
ammissibile per un Autore così importante. Eppure egli aveva scritto:
«La
politica del Governo Palmerston verso l’Italia si proponeva tre obiettivi
fondamentali: soddisfare le aspirazioni italiane cacciando dal Paese gli
austriaci; far cessare l’influenza francese in Italia; indebolire o distruggere
il potere temporale (del Papa)». (20)
Ammetteva
quindi che l’Inghilterra aveva scelto fra i due sovrani (peraltro imparentati
fra loro, Vittorio Emanuele II e Francesco II, legati da vincoli di sangue e di
parentela agli Asburgo), quale dei due buttare giù dalla torre e quale invece
salvare adottandolo ed aiutandolo a crescere. Se non addirittura
costruendolo a suo uso e consumo.
Come
poteva l’Inghilterra rischiare, ormai, che a Marsala il proprio progetto
colasse a picco? Qualcosa doveva fare e doveva già aver pur fatto!… O no? Ma
Bolton King finge di non vedere, di non sapere. Anzi si inventa una sua verità a
totale supporto della propaganda filo-unitaria.
Garibaldi: una
frase che rafforza i sospetti
– Scrive il Rosada:
«Dodici
anni dopo, il Duce dei Mille riconosce lealmente il suo debito scrivendo nelle
sue memorie:
“La
presenza dei due legni da guerra Inglesi influì alquanto sulla determinazione
dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò
diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera di Albione contribuì,
anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed, io,
beniamino di cotesti signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro
Protetto”».
Questa
frase di Garibaldi, anziché dissipare insinuazioni e sospetti, li avrebbe rafforzati.
Ne condividiamo il contenuto, perché l’influenza e gli interventi
dell’Inghilterra furono veramente decisivi nei fatti del 1860 e degli anni
immediatamente successivi. Ma la macchina dell’agiografia risorgimentale non
sarebbe stata neppure sfiorata da questo momento di sincerità dell’Eroe dei
Mille.
Se
quest’ultimo avesse capito, fin dall’inizio, dove sarebbe arrivato il suo mito,
probabilmente non si sarebbe lasciato andare ad una confessione così
significativa e compromettente.
(20)
Bolton King, op. cit., vol. III,
pag. 140.
Denis
Mack Smith e Ippolito Nievo
– Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo,
Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia
che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un
vero best-seller, è La storia della
Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo
stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i
Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane
però immutata.
Ci
confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il
caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur
senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito
Nievo:
«La rivoluzione era
sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche
banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano
ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e
qualche paura dei proprietari».
(21)
Un giudizio,
questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto al
guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in
guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da
settentrionale». Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in
particolare per il Nievo. Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere
dalla considerazione che la diversità etnica non ha niente a che vedere con i
fatti) ciò non significa che il grande scrittore non avesse capito meglio di
tanti Meridionali e di tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri
Settentrionali e di tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza
degli eroi Garibaldini e dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)
Cosa,
questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi
alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono
il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in
piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel
rispetto della… ragion di Stato.
Ma
per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato
spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo
Bianchi:
«Ippolito
Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un
ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei
Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla
‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario)
come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza
Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per
fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno
politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel
marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che
fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque. Perì in lui il poeta che avrebbe
cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne
poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».
Il
Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero,
attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato
molto la verità.
Ancora
oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si
ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far
fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua
qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione
«unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.
Infatti,
dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili
(riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel
periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia
diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.
Si
può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che,
del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere
cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non
sopravvisse nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena
trent’anni.
Sulla
tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé
un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso
aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a
man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo;
l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono
stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la
certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un
naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…
(13)
Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento,
Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli,
scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo.
In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente
«picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante»,
apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…
Fine ottava
puntata/ continua
Foto
tratta da questionegiustizia.it
(14)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50.
(15)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.
(16)
G. C. Abba, op. cit., pag. 51.
(17)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50.
(18)
Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag.
11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.
Denis Mack Smith e
Ippolito Nievo
– Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo,
Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia
che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un
vero best-seller, è La storia della
Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo
stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i
Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane
però immutata.
Ci
confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il
caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur
senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito
Nievo:
«La rivoluzione era
sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche
banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano
ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e
qualche paura dei proprietari».
(21)
Un
giudizio, questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto
al guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in
guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da settentrionale».
Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in particolare per il Nievo.
Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere dalla considerazione che
la diversità etnica non ha niente a che vedere con i fatti) ciò non significa
che il grande scrittore non avesse capito
meglio di tanti Meridionali e di
tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri Settentrionali e di
tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza degli eroi Garibaldini e
dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)
Cosa,
questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi
alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono
il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in
piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel
rispetto della… ragion di Stato.
Ma
per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato
spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo
Bianchi:
«Ippolito
Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un
ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei
Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla
‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario)
come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza
Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per
fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno
politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel
marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che
fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque.
Perì in
lui il poeta che avrebbe cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere
che fu creduto lui, venne poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».
Il
Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero,
attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato
molto la verità.
Ancora
oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si
ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far
fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua
qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione
«unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.
Infatti,
dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili
(riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel
periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia
diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.
Si
può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che,
del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere
cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non sopravvisse
nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena trent’anni.
Sulla
tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé
un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso
aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a
man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo;
l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono
stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la
certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un
naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…
(13)
Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento,
Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli,
scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo.
In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente
«picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante»,
apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…
Fine ottava
puntata/ continua
(14) G.
C. Abba, op. cit., pag. 50.
(15)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.
(16)
G. C. Abba, op. cit., pag. 51.
(17)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50.
(18)
Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag.
11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.