I giacobini si
ritennero patrioti e sostennero che la rivoluzione era a favore del popolo, per
risollevarlo dalla miserrima condizione, intanto però, ne fomentavano la
strage, ritenendo quindi che la felicità vada imposta dalle menti elette anche
a prezzo di un bagno di sangue.
Qualche esempio
di stragi di civili:
1300 persone furono uccise a Isola Liri e dintorni;
Itri e Castelforte furono devastate;
1200 persone uccise a Minturno in gennaio, più altre 800 in aprile;
gli abitanti della cittadina di Castellonorato furono tutti massacrati;
persone passate a fil di spada:
1500 nella sola Isernia;
700 nella zona di Rieti;
700 a Guardiagrele;
4000 ad Andria;
2000 a Trani;
3000 a San Severo;
800 a Carbonara;
tutta la popolazione a Coglie.
In un dispaccio
del 21 gennaio 1799 dai giacobini napoletani allo Championnet, al fine di
invitarlo ad affrettarsi a marciare su Napoli per la loro salvezza, troviamo
scritto:
“NON LA NAZIONE MA IL POPOLO E’ IL NEMICO DEI FRANCESI”
Questa
affermazione, scritta dai filofrancesi durante i giorni della rivolta dei
lazzari, con l’evidente paura di fare una brutta fine, dimostra che le poche
decine di giacobini della “Repubblica Napoletana” ben capivano che solo
l’arrivo immediato delle truppe d’invasione francesi poteva salvarli dalla
furia popolare.
Scrive Massimo Viglione: “Ma, proprio scrivendo quelle parole, essi
dimostravano, a se stessi ed alla storia, il loro totale isolamento da tutto il
resto del popolo. Il fare una distinzione fra la categoria di “Nazione” e
quella di “Popolo”, attribuendo la prima a se stessi, cioè poche decine di
giacobini, e la seconda, con valenza dispregiativa, a milioni e milioni di
individui di tutte le classi sociali, dall’ultimo dei contadini al Re, risulta
essere una testimonianza inequivocabile non solo dell’isolamento, ma anche
della loro utopia, e dimostra anche tutto il loro reale disprezzo per il
popolo, atteggiamento tipico di ogni casta intellettuale di ogni tempo e
luogo”.
La parte
continentale del Regno subì una spietata occupazione francese; i giacobini
napoletani istituirono un governo fantoccio denominato “Repubblica Partenopea”
che non fu riconosciuto neanche dalla Francia.
Tutti i beni, compresi gli scavi di Pompei, furono dichiarati proprietà dello
straniero che pretese anche forti indennità di guerra.
Un cardinale
della Chiesa, il principe Fabrizio Ruffo, di sua spontanea iniziativa chiese a
Ferdinando uomini e mezzi per liberare il Regno.
Ottenne, così, il titolo di Vicario plenipotenziario del Re, una nave e sette
uomini.
Ruffo mosse
inizialmente con altri sette uomini contro l’esercito francese e liberò il
Regno dagli eserciti napolconici invasori.
Non ha ricevuto dagli storiografi alcun riconoscimento per la sua azione, né il
suo nome appare nella toponomastica delle città o sulla fiancata di un
incrociatore.
Eppure quella del Ruffo fu un’autentica guerra di liberazione: all’inizio
dell’anno 1799 quasi tutta la penisola italiana era sotto la dominazione
straniera; nel mese di ottobre non vi era più un soldato francese in Italia.
Scrive il Viglione: “La grande marcia di riconquista del Regno effettuata dal
cardinale Ruffo va inquadrata nel contesto generale del vasto fenomeno
dell’Insorgenza. Mentre il Ruffo risaliva il Regno con il suo esercito, 38.000
toscani liberavano il Granducato, decine di migliaia di italiani affossavano la
Repubblica Cisalpina e riconquistavano il Piemonte al seguito degli eserciti
austro-russi; tutti insieme, infine, marciarono su Roma nel mese di settembre,
quasi in una gara a chi arrivava prima a mettere la bandiera su Castel
Sant’Angelo: e la gara fu vinta, ancora una volta, dalle truppe del cardinale
Ruffo, che per prime liberarono la capitale della Cristianità”.
Il popolo si
schierò a difesa delle istituzioni e della fede cattolica, l’insorgenza
popolare divampò in tutto il Regno, inarrestabile. “Probabilmente, chiunque
altro avrebbe rinunciato alla folle idea gridando all’ignavia dei suoi Sovrani.
Non il Ruffo, che veramente partì con quel che aveva, e sbarcò il 7 febbraio
1799 in Calabria nei pressi di Pizzo.
Quattro mesi dopo, l’esercito dei volontari della Santa Fede, o sanfedisti, era
composto di decine di migliaia di persone, ed entrava in Napoli da trionfatore,
restaurando la Monarchia borbonica.
Ruffo iniziò la riconquista della Calabria verso il mese di aprile, e in maggio
mosse verso il Nord, passando attraverso Matera, quindi Altamura, per dirigere
poi verso Manfredonia ed Ariano, ove giunse il 5 giugno, preparandosi a
marciare sulla capitale.
Liberò Napoli il 13 giugno dopo una tragica battaglia che rivide i lazzari in
azione al suo fianco.
Il 21 giugno
1799 i francesi e i collaborazionisti giacobini si arresero”.
Da buon cristiano concesse ai giacobini condizioni di resa più che
caritatevoli, ma l’ammiraglio Nelson, giunto a Napoli il 24 giugno 1799, non
riconobbe la capitolazione accordata dal cardinale Ruffo che fu messo a tacere.
Se non fosse stato per Nelson essi sarebbero potuti partire per la Francia, e
sarebbero stati dimenticati; senza saperlo egli li trasformò in martiri. Le
navi trasporto furono portate a tiro dei cannoni, i passeggeri erano come, topi
in trappola e i più noti furono imprigionati nelle stive delle navi inglesi.
Racconta il Viglione: “Ruffo fece di tutto per salvare i giacobinii napoletani.
Molti storici, nelle loro opere chiariscono senza ombra di dubbio come l’unico
vero responsabile della condanna dei giacobini fu Orazio Nelson con l’avallo
della Regina. E, in fondo, furono gli stessi democratici ad autocondannarsi.
Infatti, quando l’Armata giunse a circondare la capitale, il Ruffo in persona
entrò in contatto con i comandi giacobini, e promise che avrebbe loro messo a
disposizione navi regie per partire per la Francia.
I repubblicani ebbero anche da ridire, e pretesero dal Ruffo che desse pubblico
ed ufficiale riconoscimento alla Repubblica Napoletana, altrimenti non
avrebbero accettato l’offerta.
Il cardinale, con cristiana pazienza, andò anche oltre i suoi legittimi poteri
di Vicario del Re e riconobbe a nome del Sovrano la Repubblica”.
E chiarisce subito: “E’ chiaro che fece ciò solo allo scopo di salvarli. I
giacobini allora iniziarono ad imbarcarsi, ma nel frattempo giunse nel porto il
Nelson con la sua flotta, e fece subito sapere che il patto era infame e che
non ne avrebbe permesso l’esecuzione, anche a costo di decapitare il Ruffo!
Questi allora andò personalmente a protestare sulla nave dell’ammiraglio,
ricordandogli che aveva dato la sua parola e che era il Vicario del Re.
Ma il Nelson, forte dell’appoggio della Regina, rispose insolentemente tramite
la sua amante Lady Hamilton che non era dignitoso per un ammiraglio parlare
troppo a lungo con un prete cattolico.
Il Ruffo, benché umiliato, non si diede per vinto, e provò nuovamente a
convincere i giacobini a consegnarsi a lui, promettendo di farli fuggire via
terra.
I repubblicani però preferirono consegnarsi al Nelson, reputando che era meglio
fidarsi di un ammiraglio protestante piuttosto che di un prete cattolico.
Appena costoro si imbarcarono sulla nave, Nelson li fece arrestare tutti.”
La decapitazione
di suo cugino Luigi XVI e di Maria Antonietta, le sofferenze e l’allontanamento
da Napoli non predisponevano il Re alla clemenza verso i traditori, verso
coloro che avevano appoggiato l’invasore straniero, in nome di una “civiltà”
imposta con la violenza.
Fu istituita una Giunta di Stato che doveva giudicare i civili e una Giunta di
generali per i militari.
Di 8000 prigionieri:
105 furono condannati a morte, di cui 6 graziati;
222 furono condannati all’ergastolo;
322 a pene minori;
288 a deportazione;
67 all’esilio;
tutti gli altri furono liberati.
Durante i pochi mesi della repubblica vennero condannati a morte e fucilati 1563 legittimisti
da “La storia proibita – Quando i Piemontesi invasero il Sud”, AA.VV., Controcorrente, Napoli, 2001
Il 13 gennaio abbiamo organizzato di concerto con la Proloco di Sessa, con la Biblioteca Comunale di Sessa e con il patrocinio del Comune di Sessa, un convegno dove veniva presentato la copia anastatica della marcia dei Sanfedisti del Card. Ruffo. Stando a Sessa non si poteva non parlare dei fatti del 1779 accaduti a Sessa e a questo ci ha pensato Fernando Riccardi che ha regalato all’aristocratica Sessa momenti di altissima cultura degni del blasone che la perla Regnicola ha nel suo Dna.
Istoria delli fatti accaduti a D. Michele Pezza dal giorno 17 DICEMBRE 1798 PER LA RIVOLUZIONE ACCADUTA NEL REGNO DI NAPOLI ALL’ENTRATA DE’ FRANCESI[1].
Un dolce ticchettio al mattino presto rincorre speranze spezzate di sogni… stacca, rabbonisce ogni cosa e la roccia obbedisce la visione dello scultore all’interno della forma il mazzuolo spinge…il cesello vola…e la roccia diventa il pensiero di Henry lavora con lo scalpello…questa vita…da una pietra senza vita risorge… (Michael Simpson, President of Utica University, NY)
Tempo fa in una conversazione leggera con Benedetto Vecchio scopro che la Rai aveva realizzato una trasmissione su i Briganti dell’alta Terra di Lavoro dove è stato coinvolto l’amico storico laborinoMaurizio Zambardi che s’è fin dall’inizio interfacciato con Lorenzo Di Majo, autore del documentario, per la realizzazione del programma creando la mappatura geografica del viaggio e fornendo i giusti contatti che ha poi permesso l’ottima realizzazione del programma, ma non ci diedi molto peso perché pensavo che la trasmissione era già passata.
Questo pensavo fino a quando venerdi 18 giugno ’21 noto su i social che domenica 20 giugno ’21 alle 22 Rai 5 trasmette il programma di cui mi parlò Benedetto, e, anche se rassegnato a vedere la solita trasmissione salariata che mamma Rai ci regala quando si parla di Storia pre unitaria, la domenica sera mi metto davanti alla tv a vedere la trasmissione.
La presentazione del programma, pensato e costruito da Lorenzo Di Majo, viene fatta da una bella donna immersa in uno dei nostri meravigliosi e inimitabili boschi dell’alta terra di lavoro che inizia dicendo che nell’antica terra di lavoro a seguito “dell’invasione piemontese” la popolazione non accettava questo cambiamento e con armi in pugno reagì ferocemente alla suddetta invasione.
Sorpreso da questo inusuale inizio comincio a vedere il programma con occhi diversi, una narrazione che si basa sulle gesta dell’insorgente Domenico Fuoco, l’ultimo a cadere tra i nostri eroi, ben narrate dal testo dall’amicoMaurizio Zambardi che l’ideatore del programma Lorenzo Di Majo ripropone in un viaggio partendo da Roccasecca ripercorrendo una parte dei luoghi che sono stati teatro di quella terribile guerra nata come lotta all’invasore, trasformatasi in guerra civile e terminata come fenomeno delinquenziale. Lorenzo dopo Roccasecca arriva a San Pietro Infine ad intervistare Maurizio che attraverso il suo libro gli ha dato l’ispirazione per realizzare il programma e dopodichè percorre a tappe i luoghi piu importanti del territorio battuto dai nostri mitici avi intervistando di volta in volta i personaggi che più sono in grado di raccontare la storia dei Briganti che gli hanno tramandato i loro padri, i loro nonni e bisnonni.
L’ingenua ignoranza, non so quanto ingenua, di Lorenzo che è stata la forza propulsiva della trasmissione, lo porta a voler cercare e a cogliere l’aspetto romantico dei Briganti cercando di capire se erano buoni o cattivi ma come fanno in molti rimane deluso perché in quelle vicende di romantico c’è ben poco, la crudeltà e la ferocia di quelle lotte raggiunse livelli altissimi e come si sa la violenza più cruenta e quella che c’è tra caino e abele. Nelle varie interviste emerge quello accadde in quel periodo e di come si spaccarono le famiglie e le comunità con il terremoto “umano” che dopo quasi 8 secoli cambio l’aspetto, la storia e la politica dell’antico Regno di Napoli. C’è chi li ha definiti cattivi e chi buoni a seconda della storia personale e familiare dei vari intervistati ma sviando come sempre dal vero nocciolo della questione che quasi tutti ignorano e che dal 1799 fino al 1860 s’è combattuta una guerra di civiltà tra due mondi, quello antico, che affonda le sue radici nella notte dei tempi dove le virtù, i valori, l’onore sono sempre stati elementi fondanti di un vivere quotidiano, che si stava difendendo dal modernismo generato dal razionalismo illuminista e giacobino dove se il fine è giusto, quel giusto come che è sempre deciso da un pensiero gnostico e d’elites, qualsiasi mezzo è lecito per ottenerlo compreso il tradimento. Non c’è da meravigliarsi, altresì, che Domenico Fuoco, che si faceva chiamare Fra Diavolo perché come tutti gli insorgenti post-unitari voleva emulare le gesta dei suoi avi che nel 1799 furono i primi a combattere contro l’esercito invasore francese giacobino, non avesse pietà e non faceva prigionieri quando beccava i traditori mentre era generoso con chi era un suo sostenitore, in queste differenze emerge chiaramente la lotta tra due mondi ed ognuno doveva scegliere, come oggi, da che parte stare. Come affermo spesso la nostra è la terra dove nasce prima il Mito e poi la storia e se oggi si parla del Brigantaggio Insorgente lo dobbiamo solo grazie alla fiamma sempre accesa che da generazione in generazione viene alimentata, e che ricorda le gesta epiche di quella gente che sono ultimi difensori di un mondo che oggi purtroppo e quasi scomparso ma che sta permettendo, da qualche decennio, di ripristinare verità storiche che la vulgata dominante ha cercato di far sparire e che in tutti i modi cerca di non far emergere.
Da che ero scettico sul programma e quasi costretto dagli amici a vederlo, vi posso dire che in una settimana l’ho visto tre volte perché è ben fatto dal punto di vista artistico grazie alla bellezza della nostra antica terra di lavoro, ricordo che il Volturno faceva da confine tra la Terra di Lavoro che arrivava fino a San Vincenzo a Volturno e il Molise, che è stata magistralmente narrata da Lorenzo e ripresa con maestria dall’operatore che mi ha emozionato anche vedendola con i colori d’orati e ramati del pieno inverno e che mi fa dire “quann ‘e bella la terra mia”. Unico neo del viaggio paesaggistico e che e stata ignorata l’alta parte di terra di lavoro battuta da Domenico Fuoco e gli altri guerriglieri, ed è che quella lato mare dove ci sono altre perle come Sessa, Castelforte, Coreno Ausonio, Formia, Itri, Gaeta e Fondi anche se bisogna ammettere che ci vorrebbero varie puntate per visitare tutto.
Gli intervistati sono stati ottimamente scelti e hanno rappresentato le varie anime presenti nel nostro territorio dove ha spiccato certamente la figura di quel giovane che non vuole andare via, non vuole emigrare e non lo fa cercando di mendicare un posto fisso ma continuando l’attivita di famiglia senza aver paura di sporcarsi le mani. Abbiamo visto nobili, discendenti diretti dei protagonisti di questa storia, naturalisti, gente che ha studiato nei comodi libri ufficiali come il pescatore che volendo passare per dotto ha voluto mettere in evidenza il terrore che diffondevano i Briganti nei paesi dimenticando che i paesi erano più terrorizzati per quello che facevano i Piemontesi, che Isernia ancora nel 1866 accolse a braccia aperte la banda di Domenico Fuocoauspicando il ritorno diRe Francesco II e che la Terra di Lavoro come il Molise e gli Abruzzi sono state le ultime terre che accettarono il nuovo corso e che dopo il 1860 diventammo un popolo di mendicanti che cominciò ad emigrare per la prima volta nella storia e chi rimaneva, era cosi disperato, che si vedeva costretto a mandare i propri bambini nelle vetrerie in Francia con la speranza di vedere un tozzo di pane ma sprofondando invece in un grande dolore perchè si sentivano responsabili della sparizione dei propri figli, parlo della tratta dei bimbi.
Abbiamo visto persone colte come Maurizioma abbiamo visto un uomo di cultura che ha chiuso la trasmissione, come Benedetto, che con la sua arte interpreta l’animo di un popolo, di una terra che è sempre stata di confine ma fortemente legata al Regno di Napoli e che da quando s’è legata a Roma è diventata il suo pozzo nero.
Il programma si chiude da dove era partito, a Roccasecca, con il meraviglioso tramonto che si ammira alla Chiesa di San Tommaso con l’autore che giustamente afferma di aver fatto una narrazione leggera ma che è stata la sua forza, questa è la vera cultura narrare senza inarpicarsi in teorie astruse e astratte lasciando a chi vede e ascolta la libertà di pensare quello che desidera, e a chi è militante come me può solo considerarlo, o almeno ci spera, un punto di partenza perché prima o poi bisognerà capire cosa volesse dire Massimo d’Azzeglio quando affermava che “quaggiù non è che non vogliono noi ma non vogliono l’Italia” per smetterla di iniziare qualsiasi discorso identitario dicendo che il Regno non era il paradiso in terra ma anche che eravamo i piu poveri, una favoletta che piace anche “ai nostri” mentre invece, da come viene fuori dagli scritti di “altri”, le nostre miserie erano inferiori a quelle che si vivevano in altri luoghi, vi invito a leggere gli studi che il famigerato Cesare Lombroso ha fatto sulla pellagra.
Chiudo invitandovi a vedere il programma di seguito dal link della Rai e aggiungo alla citazione fatta da Lorenzo di Oscar Wilde quella di Cretineau “l’unica carità che possiamo concedere alla Storia è la verità”