Alta Terra di Lavoro

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Capitolo IX – Ultimi anni del Regno delle Due Sicilie

Posted by on Mar 28, 2019

Capitolo IX – Ultimi anni del Regno delle Due Sicilie

1. Prima decade del milleottocento – 2. Processo ad Anna Vincenza Novelli – 3. Il Catasto Provvisorio di S.Anatolia – 4. Edward Lear ospite a Sant’Anatolia – 5. Processo ad Alessandro Panei – 6. Processo a Filippo Amanzi – 7. Popolazione nel 1851 – 8. Il Regno delle Due Sicilie prima dell’Unione d’Italia – 9. Servizio militare prima e dopo la fine del Regno – 10. Il brigantaggio – 11. La banda di Cartore – 12. I briganti di S. Anatolia – 13. Il rapimento di Alessandro Panei – 14. Il sacco del Palazzo Placidi – 15. Fine del brigantaggio

Filippo Giuseppe III Colonna Gioieni, nato a Roma il 2 settembre 1760, sposò Caterina di Savoia-Carignano dalla quale ebbe tre figlie femmine: Margherita (1786-1864), principessa di Castiglione, andata in sposa a Giulio Cesare Rospigliosi, Vittoria (1791-1847) andata in sposa a Francesco Barberini, e Maria (1799-1840) andata in sposa a Giulio Lante della Rovere.

Alla morte del padre Filippo ereditò i seguenti titoli: «12° Principe e Duca di Paliano, Principe Assistente al Soglio Pontificio, Gran Connestabile del Regno di Napoli, Principe di Castiglione, 11° Duca di Tagliacozzo, Duca di Miraglia, Duca di Marino, Principe di Sonnino, Marchese di Cave e Giuliano, Conte di Ceccano, Barone di Santa Caterina, Nobile Romano Coscritto, Signore di Genazzano, Castro, Morulo, Fofi, Rocca di Cave, Rocca di Papa, Giuliano,

Aydone, Burgio, Contisa, Valcorrente, Coltumaro, Val Demone, Val Mazzara, ecc.».

Nel 1806, a causa della rivoluzionaria legge sull’abolizione dei feudi, pubblicata da Giuseppe Bonaparte e da Gioacchino Murat, Filippo rimase spoglio di tutti i feudi che possedeva nel regno di Napoli. In quel tempo le terre e le ville comprese nel ducato dei Marsi, erano:

«Albe, Androsciano, Atessa, Avezzano, Canistro, Capistrello, Cappadocia, Cappelli, Carsoli, Castel a Fiume, Castel Nuove, Castel Vecchio, Cese, Civita d’Antino, Civitella, Val di Roveto, Colle, Corcumello, Corvaro, Fara Filiorum Petri, Forme, Gallo, Luco, Magliano, Manopello, Marano, Massa, Meta, Morono, Oricola, Orsognia, Paterno, Penna, Pereto, Peschio Canale, Poggio San Filippo, Puggitello, Pretoro, Rapino, Rocca de’ Vivi, Rocca di Botte, Rocca di Cerro, Rocca di Monte Piano, Rosciolo, San Donato, San Giovanni, San Pelino, Sant’Anatolia, Sante Marie, S.to Stefano, Scanzano, Scurcula, Sorbo, Spedino, Tagliacozzo, Trasacco, Torre Reccio, Tremonti, Tubione, Villa Romana, Villa Sabinese, Villa San Sebastiano».

Il nuovo Regno d’Italia napoleonico fu investito da un rapido programma di riforme in tutti i principali settori a livello politico, sociale, civile, economico, finanziario, e religioso, con l’istituzione di nuovi ordinamenti di governo, di amministrazione centrale e locale, di gestione giuridica e fiscale.

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13 febbraio 1861 cade il regno delle due Sicilie. Inizia il declino del sud

Posted by on Mar 15, 2019

13 febbraio 1861 cade il regno delle due Sicilie. Inizia il declino del sud

Il 13 febbraio 1861 cade il regno delle due Sicilie. Finisce il regno borbonico del Sud e comincia l’Italia unita e la colonizzazione del Sud.

Il 13 Febbraio 1861 la storia del regno delle Due Sicilie finisce: inizia la storia dell’Italia unita.

Francesco II accetta di firmare la capitolazione e di abbandonare il regno. Il 14 il re e la regina salgono sul piroscafo francese Mouette e lasciano Gaeta diretti a Terracina, nello Stato Pontificio.

Il 15 la brigata «Bergamo» prende in consegna la fortezza di Gaeta e la bandiera tricolore viene issata sulla Torre d’Orlando in sostituzione dello stemma borbonico.

CHI SONO STATI DAVVERO I BORBONE, PER CINQUE GENERAZIONI RE DI NAPOLI E DI SICILIA?

Per centocinquant’anni, le vicende del Mezzogiorno borbonico sono state una «storia negata»: da quando Vittorio Emanuele II è stato proclamato primo re d’Italia, l’immagine ufficiale del Sud è stata quella di un territorio sino ad allora mal governato, con re inetti e reazionari, un’economia arretrata e asfittica, una società ignorante e semifeudale.
Le ragioni di questa impostazione sono evidenti: per rappresentare il Risorgimento sabaudo come unica via al progresso e alla libertà, occorreva demonizzarne gli avversari e costruire una memoria strumentale del passato, che condannasse i Borbone come figure antistoriche ed esaltasse i Savoia come i principi della patria liberale.

REGNO DELLE DUE SICILE

Una rielaborazione mistificata si è sedimentata nella coscienza collettiva: secondo la «vulgata nazionale», in un regno delle Due Sicilie collassato, dove è stato sparso il sangue generoso delle camicie rosse di Garibaldi, e dei reggimenti di Vittorio Emanuele II, e insieme portano le libertà dello statuto albertino, aprono la strada dello sviluppo, eliminano oscurantismo e repressione.

Il «prima» viene azzerato e nessuno ricorda che ancora fra il 1830 e il 1840 una parte significativa del movimento liberale immaginava che alla guida del riscatto nazionale potesse esserci la Napoli di Ferdinando II assai più che la Torino di Carlo Alberto. Il «dopo» (la drammatica guerra civile che ha insanguinato le regioni del Sud sino al 1865) viene liquidato affrettatamente e con sprezzo come «lotta al brigantaggio meridionale».

SCOMPAIONO I BORBONE

I Borbone e il loro regno scompaiono dalla storia, vittime predestinate della damnatio memoriae imposta dai vincitori ai vinti.
Tuttavia, come ha scritto l’intellettuale inglese Aldous Huxley, «i fatti non cessano di esistere solo perché vengono ignorati».

FINISCE LA STORIA DEL SUD

La storia del regno borbonico del Sud è stata colpevolmente e volutamente ignorata. I Borbone di Napoli e di Sicilia possono essere demonizzati o celebrati, ma non possono essere dimenticati. Essi sono stati parte significativa della storia d’Europa e parte importante della storia d’Italia.

Quale sarebbe potuta essere la storia del Sud senza l’unificazione nazionale? Ai Borbone all’onore della storia.

Hanno governato per cinque generazioni un regno che è stato grande e che ha dato all’Italia e all’Europa ingegni di assoluto valore.

Popoli delle Due Sicilie

Si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle vostre miserie. Quando veggo i sudditi miei, che tanto amo, in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo come popoli conquistati, calpestati dal piede di straniero padrone, il mio cuore Napoletano batte indignato nel mio petto contro il trionfo della violenza e dell’astuzia. Io sono Napolitano; nato tra voi, non ho respirato altra aria, i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni le mie ambizioni. Ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori di un bombardamento. Ho creduto di buona fede che il Re di Piemonte, che si diceva mio fratello, mio amico, non avrebbe rotto tutti i patti e violate tutte le leggi per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra. Le finanze un tempo così floride sono completamente rovinate: l’Amministrazione è un caos: la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni sono piene di sospetti, in vece di libertà lo stato di assedio regna nelle province, la legge marziale, la fucilazione istantanea per tutti quelli fra i miei sudditi che non s’inchinino alla bandiera di Sardegna. E se la Provvidenza nei suoi alti disegni permetta che cada sotto i colpi del nemico straniero, mi ritirerò con la coscienza sana, farò i più fervidi voti per la prosperità della mia patria, per le felicità di questi Popoli che formano la più grande e più diletta parte della mia famiglia.

Francesco Pollasto

fonte https://napolipiu.com/13-febbraio-1861-cade-il-regno-delle-due-sicilie

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L’Inghilterra, il Regno delle due Sicilie e l’unità d’Italia: come provare a creare uno stato satellite

Posted by on Mar 4, 2019

L’Inghilterra, il Regno delle due Sicilie e l’unità d’Italia: come provare a creare uno stato satellite

Secondo la «logica della scacchiera», un’Italia unita faceva comodo a Londra come contraltare a Parigi. Ma prima occorreva demolire il Regno delle Due Sicilie, non disposto a fare «l’ascaro» di Sua Maestà Britannica. Protesa nel Mediterraneo, con migliaia di chilometri di coste da difendere, l’Italia unita voluta e sostenuta da Londra sarebbe stata sempre sotto ricatto della potente flotta inglese. Un progetto che non andò però sempre per il verso giusto (per gli inglesi). Questa è l’immagine che emerge dal colloquio di Eugenio Di Rienzo, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma «La Sapienza» e direttore della «Nuova Rivista Storica». Di Rienzo si è occupato dei problemi relativi ai rapporti fra le potenze europee e lo Stato italiano pre-unitario dalla posizione più strategica: il Regno delle Due Sicilie. Per questo con lui verranno esaminati in questa intervista argomenti che sono più ampiamente trattati nel suo volume Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee, 1830-1861, d’imminente pubblicazione per i tipi di Rubbettino.

Durante il XVI e il XVII secolo l’Italia esercita un grande fascino sull’Inghilterra. Questa fascinazione continua nei secoli successivi e si estende anche al Mezzogiorno. Per tutti i viaggiatori inglesi, l’Italia del Sud appare come un museo a cielo aperto abitato, però, da popolazioni incivili. Nasce allora un pregiudizio anti-italiano e in particolare anti-meridionale? Un pregiudizio fondato?

«Anche se l’espressione un “paradiso abitato da diavoli” riferita a Napoli e alla Campania fu coniata, come ricordava Benedetto Croce, da Daniele Omeis, professore di morale presso l’Università di Altdorf in Germania che, nel 1707, pronunciò una prolusione accademica, intitolata appunto “Regnun Neapolitaum Paradisus est, sed a Diabolis habitatus”, questo giudizio ritorna come un motivo ricorrente nei diari e nelle corrispondenze dei gentlemen inglesi. Lo spettacolo delle meraviglie artistiche e naturali del Mezzogiorno era, infatti, oscurato dall’arretratezza, dalla povertà, dal degrado morale delle popolazioni e dall’inadeguatezza delle classi dirigenti. Se nel passato quelle regioni erano state la culla della civiltà classica, ora, esse apparivano il terreno di coltura di una plebe indocile, ignorante, superstiziosa, tendenzialmente delinquente: i lazzaroni di Napoli e i briganti della Calabria. Ricordiamo, però, che questo giudizio, pur basato su dati di fatto, era potentemente rafforzato da un pregiudizio religioso e anti-cattolico. Il culto di San Gennaro a Napoli e la fastosa e paganeggiante processione in onore di Santa Rosalia a Palermo apparivano, infatti, la testimonianza vivente di come il Papato e il clero avessero mantenuto volutamente le masse del Sud in una situazione di soggezione e di subalternità, utilizzando nel modo più spregiudicato, il precetto di Machiavelli, soprannominato dagli inglesi Old Nick (Vecchio Diavolo), secondo il quale la religione doveva essere instrumentum regni. Aggiungiamo, però, che i rapporti tra Regno di Napoli e Gran Bretagna non si limitarono a questi aspetti. Nel 1842, come illustrava un denso articolo, pubblicato sull’autorevolissimo “Journal of the Statistical Society of London”, una quota rilevante della bilancia commerciale britannica era rappresentata dall’importazione di materie prime provenienti dalla Sicilia. L’ingente traffico era costituito da vino, olio d’oliva, agrumi, mandorle, nocciole, sommacco, barilla e soprattutto dallo zolfo (utilizzato per la preparazione della soda artificiale, dell’acido solforico e della polvere da sparo), che copriva il 90% della richiesta mondiale e di cui venti ditte inglesi avevano ottenuto, di fatto, la prerogativa esclusiva, per l’estrazione e lo sfruttamento, grazie al pagamento di un modico compenso».

Quando i Borbone furono ridotti al possesso della sola Sicilia dall’invasione napoleonica (1805) si trovarono sotto una pesante tutela inglese. Quanto durò l’influenza britannica su Napoli dopo il Congresso di Vienna, e come si manifestò?

«Dopo il 1815, Londra non prese in considerazione la possibilità di un intervento indirizzato a guadagnarle una presenza politico-militare nella Penisola. Il principio della non ingerenza negli affari italiani registrò, tuttavia, una clamorosa eccezione per quello che riguardava il crescente interesse inglese a rafforzare la sua egemonia nel Mediterraneo e quindi a riguadagnare quella posizione di vantaggio, acquisita nel 1806 e ulteriormente incrementatasi poi, tra 1811 e 1815, grazie al protettorato politico-militare instaurato da William Bentick in Sicilia. Protettorato che aveva portato ad ampliare la colonizzazione economica dell’isola già avviata dalla fine del XVIII secolo, poi destinata a irrobustirsi nei decenni seguenti grazie all’attività delle grandi dinastie commerciali dei Woodhouse, degli Ingham, dei Whitaker e di altri mercanti-imprenditori angloamericani. Molto indicativa, a questo riguardo era la presa di posizione del primo ministro, Visconte Castlereagh che, il 21 giugno 1821, aveva ricordato che il dominio diretto o indiretto della Sicilia costituiva, ora come nel passato, un “indispensabile punto d’appoggio” per rendere possibile il controllo dell’Inghilterra sull’Europa meridionale e l’Africa settentrionale. Come, infatti, avrebbe sostenuto Giovanni Aceto, nel volume del 1827, “De la Sicile et de ses rapports avec l’Angleterre”, “quest’isola non rappresenta per l’Inghilterra soltanto un importante avamposto strategico, da preservare, ad ogni costo, da una possibile occupazione della Francia che la minaccia dalle sue coste, ma costituisce anche il centro di tutte le operazioni militari e politiche che il Regno Unito intende intraprendere nell’Italia e nel Mediterraneo”».

Il controllo del Mediterraneo centrale fu tra i principali motivi di conflitto tra Napoli e Londra: prima l’occupazione britannica di Malta, strappata a Napoleone (che a sua volta l’aveva tolta ai Cavalieri di San Giovanni, che riconoscevano la sovranità siciliana sull’isola) ma mai restituita ai Borbone, poi l’incidente dell’Isola Ferdinandea, infine la questione degli «Zolfi». Furono solo questioni geopolitiche o contarono anche altre considerazioni?

«Sicuramente interessi strategici e geopolitici dominarono la politica della Corte di San Giacomo verso le Due Sicilie dalla metà dell’Ottocento al 1860. Nel 1840, Palmerston usò tutta la forza della gunboat diplomacy per mantenere il monopolio inglese sugli zolfi siciliani, ordinando alla Mediterranean Fleet di catturare il naviglio napoletano e di condurlo nelle basi di Malta e di Corfù con un vero e proprio atto di pirateria. Nel 1849, sempre Palmerston, sostenne la rivoluzione separatista siciliana con l’obiettivo di fare dell’isola uno Stato autonomo retto da un principe di Casa Savoia. Nel corso della Guerra di Crimea, ancora Palmerston, propose più volte agli Alleati di effettuare azioni intimidatorie contro il Regno di Ferdinando II, il quale aveva mantenuto una neutralità indulgente e più che benevola verso la Russia. Soltanto l’opposizione della Regina Vittoria impedì nel settembre del 1855 una “naval demonstration” nel golfo di Napoli che, nelle intenzioni del primo ministro, avrebbe dovuto favorire un’insurrezione destinata a rovesciare i Borbone. Il ricorso alla politica delle cannoniere, per ridurre o azzerare la sovranità delle Due Sicilie, trovò, invece, il pieno consenso dell’opinione pubblica del Regno Unito. Un editoriale del “Times” sostenne, infatti, che la visita della flotta britannica doveva ottenere gli stessi risultati delle missioni in Giappone guidate dal Commodoro Matthew Calbraith Perry, nella baia di Edo, tra 1853 e 1854, per ridurre a ragione la resistenza dello shogun, Ieyoshi Tokugawa, che si era opposto alla penetrazione commerciale statunitense. Così come gli Stati Uniti in Estremo Oriente, terminava l’articolo, anche la Gran Bretagna non poteva tollerare l’esistenza di “un Giappone mediterraneo posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da Marsiglia”. Naturalmente l’ingerenza inglese si ammantava di pretesti umanitari: la volontà di smantellare il regime dispotico di Ferdinando II e di sostituirlo con un sistema costituzionale e liberale nel quale fossero garantiti i diritti politici e civili. Prendendo a pretesto la denuncia di Gladstone che, nelle “Two Lettersto the Earl of Lord Aberdeen” del 1851, aveva definito il regime di Ferdinando II “la negazione di Dio”, Palmerston si servì di fondi riservati del Tesoro britannico, per finanziare una spedizione destinata a liberare Luigi Settembrini (autore, nel 1847, della virulenta “Protesta del popolo delle due Sicilie”), Silvio Spaventa e Filippo Agresti condannati a morte nel 1849, la cui pena era stata commutata nel carcere a vita da scontare nell’ergastolo dell’isolotto di Santo Stefano. L’operazione, progettata per la tarda estate del 1855, non arrivò a compimento ma il Secret Service Fund sarebbe stato utilizzato negli anni successivi e fino al 1860 per destabilizzare  il Regno delle Due Sicilie».

Quale ruolo ebbe l’Inghilterra nella caduta del Regno di Napoli?

«Rosario Romeo nella sua biografia di Cavour definì l’azione inglese di sostegno allo sbarco dei Mille e alla campagna di Garibaldi come una “leggenda risorgimentale”. Si tratta però di un’interpretazione sbagliata. Il supporto militare, economico, diplomatico del Regno Unito fu, invece, indispensabile alla cosiddetta “liberazione del Mezzogiorno”. Come rivelò il dibattito, svoltosi nella Camera dei Comuni, il 17 maggio 1860, la presenza delle fregate inglesi nella rada di Marsala, che impedì la reazione della squadra borbonica, non fu una semplice coincidenza ma un atto deliberato deciso con piena cognizione di causa dal gabinetto britannico. Il sostegno di Londra non si esaurì in questo episodio. In aperta violazione al Foreign Enlistment Act del 1819, che proibiva appunto il reclutamento di sudditi inglesi in eserciti stranieri, Palmerston e il ministro degli Esteri Russell tollerarono e  incoraggiarono  “the subscription for the insurrectionists in Sicily” promossa dal pubblicista italiano Alberto Mario, alla quale aderirono esponenti del partito whig e alcuni ministri tutti egualmente disposti a elargire “ingenti somme da utilizzare nella guerra contro il Regno delle Due Sicilie” e quindi a sostenere economicamente una campagna di arruolamento destinata a ingrossare le fila dei ribelli in camicia rossa. Inoltre la flotta inglese collaborò tacitamente con quella piemontese nella protezione dei convogli che trasportarono rinforzi di uomini e materiali destinati a raggiungere Garibaldi. E non basta! Dalla corrispondenza tra Cavour e l’ammiraglio Persano dei primi del luglio 1860, apprendiamo, infatti, che alla preparazione del “pronunciamento” contro Francesco II, che sarebbe dovuto scoppiare a Napoli per prevenire un’insurrezione mazziniana, doveva fornire un apporto fondamentale “il signor Devicenzi, amico di Lord Russell e di Lord Palmerston, che avrà mezzo d’influire sull’ambasciatore di Sua Maestà britannica Elliot e l’ammiraglio comandante della squadra inglese”. Fu solo, poi, grazie al veto posto da Londra che Napoleone III rinunciò ad attuare un blocco navale nello stretto di Messina che avrebbe potuto impedire a Garibaldi di raggiungere le coste calabre. Non si trattava evidentemente di favori disinteressati. Alla fine di settembre del 1860, Palmerston avrebbe ricordato, infatti, all’esule italiano Antonio Panizzi (divenuto direttore della biblioteca del British Museum) che “se Garibaldi aveva potuto occupare Napoli ed esser causa che il Re scappasse a Gaeta, ciò fu dovuto all’Inghilterra che, invitata dalla Francia a impedire che dalla Sicilia si venisse ad attaccare gli Stati di terraferma, vi si rifiutò”, aggiungendo che “l’aiuto morale e l’influenza britannica non furono meno utili all’Italia delle armi francesi e che sarebbe stata mera ingratitudine per parte dell’Italia lo scordarselo”».

E’ possibile dire, quindi, che con l’unità il Regno d’Italia eredita sostanzialmente la stessa posizione di debolezza geopolitica delle Due Sicilie e che Londra acquista, dopo il 1861, una sorta di protettorato sulla politica mediterranea del nostro Paese?

«Sicuramente sì. Anche se forse il termine “protettorato” rappresenta un’espressione troppo forte, non si può non riconoscere che gli argomenti con i quali Palmerston giustificava l’azione inglese a favore della conquista piemontese delle Due Sicilie miravano proprio a quest’obiettivo. E credo che valga la pena di ricordarli alla fine di questa intervista. Nella lettera inviata alla Regina Vittoria, il 10 gennaio 1861, Palmerston sosteneva che, considerando “la generale bilancia dei poteri in Europa”, uno Stato italiano esteso da Torino a Palermo, posto sotto l’influenza della Gran Bretagna ed esposto al ricatto della sua superiorità navale, risultava “il miglior adattamento possibile” perché “l’Italia non parteggerà mai con la Francia contro di noi, e più forte diventerà questa nazione più sarà in grado di resistere alle imposizioni di qualsiasi Potenza che si dimostrerà ostile al Vostro Regno”. Parole profetiche che, se si esclude l’intervallo della politica estera fascista, la Storia, fino ai nostri giorni, non ha mai completamente smentito. Il Trattato d’alleanza con gli Imperi Centrali, firmato dal governo italiano nel maggio del 1882, non modificò a nostro favore lo status quo mediterraneo che si era venuto creando con l’insediamento francese in Tunisia e di conseguenza rafforzò la nostra situazione di dipendenza dal Regno Unito. Considerato che, nei problemi mediterranei, Germania e Austria non si ritenevano impegnati ad alcuna solidarietà con il suo alleato, l’Italia, per arginare l’espansionismo di Parigi, si trovò obbligata ad orbitare nella sfera d’influenza di Londra, la quale si mostrava desiderosa di stringere un patto di collaborazione con il nostro Paese che le avrebbe consentito, ad un tempo, di mettere in minoranza le forze francesi e di impedire una possibile intesa franco-italiana, il cui effetto avrebbe potuto rendere difficili le comunicazioni tra Gibilterra, Malta e l’Egitto. Il 12 febbraio del 1887 veniva firmato così un accordo con il quale il governo britannico e quello italiano s’impegnavano a “mantenere l’equilibrio mediterraneo e a impedire ogni cambiamento che, sotto forma di annessione, occupazione, protettorato, modifichi la situazione attuale con detrimento delle due Potenze segnatarie”. Con questa convenzione, se l’Italia s’impegnava ad appoggiare la penetrazione inglese in Egitto, la Gran Bretagna si dichiarava disposta “a sostenere, in caso d’ingerenza di una terzo Stato, l’azione italiana su qualunque punto del litorale settentrionale africano e particolarmente in Tripolitania e Cirenaica”. Rinnovato, nel 1902, questo accordo ci avrebbe consentito di portare a termine l’impresa libica nel 1911. Anche dopo questo successo, l’Italia rimase, comunque, per Londra un “volenteroso secondo”, destinato a svolgere un ruolo di sostegno al suo sistema marittimo, ma al quale non poteva essere consentito una più ampia espansione nell’area mediterranea. Che questo fosse il ruolo riservato alla nostra Nazione lo dimostrava, in tutta evidenza, nel 1913, la ferma di presa posizione del Regno Unito che escludeva in linea di principio “la possibilità della conservazione delle isole dell’Egeo, già appartenenti ai domini turchi, da parte del governo di Roma, perché una simile soluzione minaccerebbe di rompere l’equilibrio politico nella parte orientale del Mediterraneo”. Una dichiarazione, questa, che conteneva in nuce le linee maestre della politica inglese successive alla fine della Prima guerra mondiale, quando Londra, d’intesa con Parigi, operò instancabilmente per impedire la realizzazione integrale delle aspirazione italiane sull’Adriatico, appoggiando e fomentando le ambizioni della Iugoslavia, dellAlbania e della Grecia in questo cruciale settore strategico».

Emanuele Mastrangelo

fonte http://www.nuovarivistastorica.it/?p=3211

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Il benessere nel Regno delle Due Sicilie

Posted by on Gen 12, 2019

Il benessere nel Regno delle Due Sicilie

A più di 60 anni dalla caduta della monarchia sabauda e dalla nascita della Repubblica Italiana, la storiografia tende ancora oggi a sottovalutare un aspetto essenziale: il Regno delle Due Sicilie ha visto il suo tramonto perché oggettivamente rappresentava un elemento storicamente e politicamente superato, e non perché fosse un aggregato di barbari o di cafoni, degno di essere colonizzato e civilizzato da popolazioni portatrici di alte virtù civili, morali e militari.

Riscrivere la storia è un esercizio che viene fatto solo quando c’è di mezzo un interesse politico e economico. Oggi in pochi pensano che ne valga la pena per l’Antico Regno, essendo gli interessi della maggioranza rivolti a tutt’altro e, soprattutto, essendo questi interessi ancora concentrati in quella parte del Paese che abilmente seppe volgere a suo vantaggio la crisi degli Stati indipendenti preunitari. Inoltre, chi si prende la briga di riscrivere, more solito, riscrive a sua volta a proprio uso e consumo, tralasciando quella che dovrebbe essere la caratteristica principale della Storia: l’obiettività.

In questa sede quindi ci piace ricordare che il Regno delle Due Sicilie non era uno staterello nato come contropartita ad una fuggevole alleanza, bensì lo Stato italiano preunitario più antico e più esteso territorialmente, comprendendo tutto il Sud continentale d’Italia: Campania, Calabrie, Puglie, Abruzzi, Molise, la parte meridionale del Lazio e la Sicilia [1]. La sua situazione economica era, rispetto a quella dei molti altri stati italici, una delle più floride. Lo studio, non preconcetto, della sua storia ci trasmette l’immagine di un Regno e di una società non sradicati dalle correnti del pensiero illuministico europeo, di una amministrazione che cerca, a dispetto del ribellismo popolare e tra gli sconvolgimenti sollevati dalla rivoluzione francese e dalla occupazione napoleonica, di spezzare i tradizionali e duri a morire rapporti feudali e di avviare una industrializzazione, in alcuni settori chiave come la siderurgia, le miniere, l’enologia, la navigazione, ecc. (cfr: I records del Regno delle due Sicilie).

È necessario però tenere presente che stiamo pur sempre parlando di uno stato assoluto, e che la ricchezza, come il potere, era concentrata in poche mani: quelle del sovrano e dell’aristocrazia. Scarsa era la presenza della borghesia, praticamente ininfluente la presenza operaia, non organizzata e priva di una coscienza di classe. Con Carlo di Borbone ed il ritorno alla indipendenza dalla Spagna, si avvia un processo di modernizzazione della macchina burocratica con nuovi codici, leggi e regolamenti. Si avvia la sprovincializzazione della cultura meridionale. Si cerca anche di fare sorgere una coscienza “nazionale”, che tuttavia cozza contro l’atavica contrapposizione tra Napoli e Sicilia, aggravata ancora di più dalle differenti vicende vissute dai due Regni tra il 1799 e il 1815 (La Repubblica Napoletana, il periodo napoleonico, il protezionismo inglese).

Da Carlo III in poi assistiamo allo sviluppo di industrie a carattere artistico, come quella della porcellana, della ceramica e della seta di pregio. Tra la fine del ‘700 e i primi decenni dell’800, furono costituite le prime società per il funzionamento della ferrovia, della navigazione, dell’illuminazione a gas, per la tessitura. Fu favorito l’allevamento degli ovini, al fine di incrementare la produzione e l’arte della lana, contemporaneamente a quella del lino e del cotone. Molto importante divenne anche la lavorazione del ferro, con la creazione di industrie metallurgiche e meccaniche. Ferdinando II fece impiantare nella città di Napoli un arsenale, un cantiere navale, e delle fabbriche di armi che diedero lavoro a molti napoletani, consentendogli anche di specializzarsi e di venire a conoscenza di alcune tecniche di lavorazione fondamentali. Fu potenziata la lavorazione delle pelli, e per alcuni manufatti, come ad esempio i guanti, si raggiunsero livelli d’eccellenza, favorendo il Mady in Naples nei commerci con l’estero. Sorsero fabbriche per la lavorazione dei vetri e del cristallo, i cui prodotti venivano inviati anche nelle Americhe (cfr: elenco monografie in calce).

Tutto ciò, se ebbe un peso nell’arricchire l’Erario, certamente non influì sulla gran massa della popolazione che rimaneva rurale e in una condizione semifeudale. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che il ministro De Medici prima e Ferdinando II poi, hanno avuto il loro bel da fare per cercare di liberarsi dall’influenza inglese (E. Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell’Ottocento, Roma 1945). Il Regno si trovò spesso in difficoltà nella grande politica internazionale del tempo, in quanto era veramente difficile acquisire una posizione autonoma nell’ambito dei rapporti tra le varie potenze. Basti pensare ad esempio alla vicenda del “privilegio di bandiera” di cui godevano Inghilterra, Francia e Spagna: Murat lo aveva abrogato, ma poi il Congresso di Vienna si affrettò a ripristinarlo. Bisognerà aspettare il 1845 perché il Regno delle Due Sicilie potesse vedere accolto, nei suoi rapporti commerciali con le altre potenze europee, il cosiddetto “principio di reciprocità”. E non dimentichiamo neppure la umiliazione che Ferdinando II dovette subire in seguito all’affaire Taix-Aycard per il commercio degli zolfi. Episodi di questo genere non impedirono tuttavia al Regno di svolgere i suoi traffici commerciali, in discreta autonomia, e che al suo interno sorgessero numeroso fabbriche ed imprese. Il sito ha dedicato a tale sviluppo numerose pagine. Qui basti ricordare: l’industria metalmeccanica e siderurgica, con circa 100 opifici metalmeccanici, di cui 21 con più di 100 addetti, e l’eccellenza costituita dallo stabilimento di Stato di Pietrarsa; la Cantieristica navale (Castellammare di Stabia, con 1.800 operai, l’Arsenale di Napoli con annesso bacino in muratura, i Florio con la loro fonderia i loro cantieri e le loro cantine a Palermo); l’industria tessile, capillarmente diffusa in tutto il Regno; le circa duecento cartiere; i pastifici alimentari; le fabbriche di cristalli e ceramiche, tra cui la rinomata Capodimonte.

È possibile analizzare la situazione finanziaria, di bilancio e fiscale del Regno con consapevolezza che le vicende economiche e politiche non sono mai indipendenti le une dalle altre, ma si intrecciano e vanno a formare un complesso sistema, in cui l’evidenza delle cose è solo la punta dell’iceberg.

La documentazione che va dal 1848 al 1859 fornisce alcuni spunti per introdurre la riflessione. Nel 1848 il Regno fu colpito dalla violenza dei moti rivoluzionari, sedati nel 1849. Si determinò una contrazione degli introiti effettivi rispetto a quelli preventivati, e parallelamente un forte aumento delle spese, a testimonianza del processo di ricostruzione e “normalizzazione” seguito alla restaurazione. Variabilità che potrebbe essere stata causata anche, specialmente per i dati degli ultimi anni, dalla crescente ostilità manifestata dal Regno Piemontese, che conduceva la politica di annessione degli stati sparsi sulla penisola italiana, e dalla continua e persistente instabilità della Sicilia, riconducibile alle istanze di autonomia politica che da lì provenivano. Una interpretazione in tale senso ci viene data dallo scritto di Savarese, “Le Finanze Napoletane e le Finanze Piemontesi dal 1848 al 1860”: La storia delle nostre finanze è la storia delle nostre rivoluzioni, e delle restaurazioni che a quelle si sono succedute.

La relazione Sacchi

Subito dopo l’annessione del 1861 delle Due Sicilie al Piemonte, un ministro sabaudo, Vittorio Sacchi, titolare del Ministero delle Finanze in Napoli dal 1° aprile al 31 ottobre 1861, fece circolare un resoconto in cui si sosteneva che nel 1860 l’ex Regno di Napoli avevano presentato un disavanzo di 62 milioni di ducati, dipingendo l’Antico Regno come gravato di debiti, destinato al fallimento, se non fosse intervenuta la “pietosa mano piemontese”.

Un funzionario napoletano, Giacomo Savarese, si sentì in dovere di controbattere, dati alla mano e per iscritto.

La replica del Savarese

La sua prima considerazione è di natura fiscale: con l’ascesa al trono di Carlo III nel 1734, il governo Tanucci avviò una politica tesa all’abbattimento della pressione fiscale e del debito pubblico. Questa politica fu scrupolosamente seguita dai suoi successori, ed identificata quale strumento di stabilità dello Stato, che aveva quali principi basilari il rispetto della proprietà privata, la solidarietà sociale e l’amicizia con gli altri Paesi. Il governo del ministro de’Medici continuò la politica del Tanucci per la quale “le risorse finanziarie non vanno ricercate nell’indebitamento, né in nuove imposte, ma esclusivamente nell’ordine e nella

, perché veramente il miglior governo è quello che costa meno”.

L’imposizione diretta fu fissata come segue (Decreto del 10 agosto 1815):

Tav. 1 – Il prelievo fiscale diretto nel Regno di Napoli (Ducati)

Imposta fondiaria6.150.000
Addizionali per il debito pubblico615.000
Addizionali per le Province307.500
Esazione282.900
Totale 7.355.400

La contribuzione diretta restò uguale fino al 1860. Il prelievo indiretto era così articolato:

Tav. 2 – Gli strumenti fiscali indiretti nel Regno di Napoli

Dazi (dogane e monopoli)
Imposta del Registro
Tassa postale
Imposta sulla Lotteria

La relazione Sacchi

Subito dopo l’annessione del 1861 delle Due Sicilie al Piemonte, un ministro sabaudo, Vittorio Sacchi, titolare del Ministero delle Finanze in Napoli dal 1° aprile al 31 ottobre 1861, fece circolare un resoconto in cui si sosteneva che nel 1860 l’ex Regno di Napoli avevano presentato un disavanzo di 62 milioni di ducati, dipingendo l’Antico Regno come gravato di debiti, destinato al fallimento, se non fosse intervenuta la “pietosa mano piemontese”.

Un funzionario napoletano, Giacomo Savarese, si sentì in dovere di controbattere, dati alla mano e per iscritto.

La replica del Savarese

La sua prima considerazione è di natura fiscale: con l’ascesa al trono di Carlo III nel 1734, il governo Tanucci avviò una politica tesa all’abbattimento della pressione fiscale e del debito pubblico. Questa politica fu scrupolosamente seguita dai suoi successori, ed identificata quale strumento di stabilità dello Stato, che aveva quali principi basilari il rispetto della proprietà privata, la solidarietà sociale e l’amicizia con gli altri Paesi. Il governo del ministro de’Medici continuò la politica del Tanucci per la quale “le risorse finanziarie non vanno ricercate nell’indebitamento, né in nuove imposte, ma esclusivamente nell’ordine e nella

, perché veramente il miglior governo è quello che costa meno”.

L’imposizione diretta fu fissata come segue (Decreto del 10 agosto 1815):

Tav. 1 – Il prelievo fiscale diretto nel Regno di Napoli (Ducati)

Imposta fondiaria6.150.000
Addizionali per il debito pubblico615.000
Addizionali per le Province307.500
Esazione282.900
Totale 7.355.400

La contribuzione diretta restò uguale fino al 1860. Il prelievo indiretto era così articolato:

Tav. 2 – Gli strumenti fiscali indiretti nel Regno di Napoli

Dazi (dogane e monopoli)
Imposta del Registro
Tassa postale
Imposta sulla Lotteria

I tributi diretti ed indiretti non furono mai più aumentati né in numero né in aliquota, tranne in circostanze particolarissime e per tempi limitati, eppure le entrate passarono dai 16 milioni di ducati del 1815, ai 30 milioni del 1859, a dimostrazione della crescita generale di quella fiorente economia. Le entrate pubbliche rimasero strettamente correlate alla ricchezza generale: “entrambi questi patrimoni sono soggetti alle medesime leggi; crescono e decrescono insieme, ma la proporzione rimane sempre la stessa. Or se vi è un paese dove questa regola sia stata rigorosamente applicata, e fino alla superstizione, noi non temiamo di affermare che questo paese è stato il Regno di Napoli”.

La nota rivolta carbonara del 1820, cui seguì l’esperienza costituzionale, la sommossa siciliana, quindi l’intervento e l’occupazione austriaca, costò allo Stato 80 milioni di ducati e gli interessi del debito pubblico consolidato, che nel 1820 erano di 1,42 milioni di ducati annui, passarono a 5,19 milioni di ducati. Ma non si ricorse a nuove tasse, bensì le risorse furono cercate nel risparmio. Rivoluzionario per l’epoca, fu il nuovo regolamento del 15 dicembre 1823, con cui fu introdotta la Tesoreria Unica, sottoponendo le spese allo stretto controllo del Ministro delle Finanze. Inoltre le dogane e la vendita dei generi di monopolio furono dati in concessione (regie interessate), con un aumento del relativo introito da 4,65 milioni di ducati annui a 5,83 milioni.

Nel 1830 Ferdinando II, re a venti anni, promulgò nuove misure a sostegno dell’economia. Il de’Medici era morto e fu nominato Ministro delle Finanze il marchese d’Andrea. In pochi anni gli interessi sul debito pubblico si ridussero a 4,15 milioni di ducati; furono costruiti le prime vie ferrate; si gettarono ponti in ferro sui fiumi; la Marina Militare fu dotata di undici navi a vapore; l’industria progredì ed il bilancio offriva un avanzo di cassa.

Gli avvenimenti degli anni 1848-49, l’intervento a fianco del Piemonte e la composizione della nuova rivolta siciliana, gravarono l’erario per oltre 30 milioni: gli interessi sul debito pubblico passarono da 4,15 milioni a 5,19 milioni e si ebbe un deficit di cassa di ben 15,73 milioni di ducati. Ma anche in tale occasione non si fece ricorso a nuove tasse: il fabbisogno fu colmato con l’emissione di una rendita che fruttò 11,12 milioni, e con la riscossione di crediti per 8,42 milioni.

Nel luglio 1860 fu pubblicato dal Ministero delle Finanze la situazione delle nostre finanze dal 1848 al 1859. Per la storia delle finanze piemontesi, sebbene lì ci fosse un regime parlamentare, l’assestamento definitivo dei bilanci giunge solo all’anno 1853. Savarese, per fare i confronti, usò quindi per l’anno 1854 il conto amministrativo presentato al parlamento, ed approvato con legge del 17 luglio 1858. Per gli anni successivi passò a rassegna tutte le leggi piemontesi di autorizzazione alla spesa. “Così abbiamo potuto stabilire il disavanzo annuale del Piemonte. Ma le nostre cifre dal 1855 in poi debbono necessariamente essere molto al di sotto del vero”. Mancano infatti i dati di disavanzo di cassa; soprattutto non vi è traccia delle approvazioni dei finanziamenti occulti che, come vedremo, furono smisurati.

Tav.3 – Nuovi prelievi fiscali, e aumento degli esistenti, nel Regno di NAPOLI e nel Piemonte, dal 1848 al 1859.

Regno di NapoliRegno di SardegnaData
Nessuna tassa  nuova e  nessun  aumento di tassa esistente             Aumento nel prezzo dei tabacchi 1° febbraio 1850
Aumento del prezzo della polvere da sparo e piombo da caccia 19 febbraio 1850
Tassa per pesi e misure 26 marzo 1850
Diritto di esportazione sulla paglia, fieno, ed avena5 giugno 1850
Aumento del 33 % del prezzo della carta bollata22 giugno 1850
Aumento del 20% dei diritti d’insinuazione22 giugno 1850
Tassa sulle fabbriche31 marzo 1851
Tassa sulle mani morte23 maggio 1851
Tassa sulle successioni17 giugno 1851
Tassa sull’industria 16 luglio 1851
Tassa sulle pensioni28 maggio 1852
Tassa sulle donazioni, mutui e doti; sulla emancipazione ed adozione 18 giugno 1852
Aumento d’imposta sul consumo delle carni, pelli, acquavite e birra1° gennaio 1853
Aumento d’imposta personale28 aprile 1853
Tassa sulle vetture1° maggio 1853
Tassa per la caccia26 giugno 1853
Tassa sulle società industriali30 giugno 1853
Aumento di tassa sull’industria7 luglio 1853
Tassa sanitaria 13 aprile 1854
Aumento della tassa sulle successioni9 settembre 1854
Aumento del prezzo della carta bollata9 settembre 1854
Aumento della tassa sull’industria13 febbraio 1856

Tav.4 – Disavanzi annui di bilancio del Regno di Napoli e del Piemonte (Lire)

Disavanzo napoletanoDisavanzo piemonteseLegge finanziaria (Piemonte)
184828.588.760,5437.951.431,02Legge del 21 giugno 1856
184938.257.830,7693.032.244,64Legge del 19 luglio 1857
185010.480.075,4823.438.945,75Legge del 19 luglio 1857
18515.708.927,543.716.225,11Legge del 19 luglio 1857
1852 10.676.108,1035.896.368,45Legge del 19 luglio 1857
185318.995.573,2735.024.020,60Legge del 19 luglio 1857
185411.969.226,7822.026.255,27Legge del 17 luglio 1858
18554.782.746,967.915.922,71manca
1856attivo82.858.206,15Legge del 24 marzo 1856
18577.467.561,9212.244.592,88manca
18582.005.311,6015.203.794,01manca
1859avanzo
– 4.591.023,76
126.600.311,04Ferrovie (provvedimenti vari)
134.341.099,19495.908.317,63TOTALE

Tav.5 – Interessi annui sul debito del Regno di Napoli e del Piemonte dal 1848 al 1859

REGNO DI NAPOLIPIEMONTE
DenominazioneRendita (lire)LeggeDenominazioneRendita (lire)Legge
    Rendita consolidata 5%   424.989,3826 aprile 1848Debito redimibile 5%3.044.036,237.9.48 e 26.3.51
2.549.936,252 ottobre 1848Obbligazioni 4%1.194.120,0026.3.1849
76.498,093 agosto 1850Redimibile 5%43.430.398,1612 e 16.6.1849
110.497,2421 agosto 1851Obbligazioni 4%1.080.000,009.7.1850
110.497,241° marzo 1853Redimibile 5%5.416.25026.6.1851
424.989,3826 ottobre 1853Redimibile 3%2.310.386,6613.2.1853
1.062.473,4423 ottobre 1854Prestito inglese2.000.000,008.3.1855
450.246,9813 ottobre 1859Prestito per la carta moneta di Sardegna28.228,9827.2.1856.
Prestito ferrovia di San Pier d’Arena108.050,004.7.1858
SUBTOTALE5.210.128  58.611.470,03 
Interessi al 184717.637.5009.362.707,07
TOTALE 185922.847.628 67.974.177,1

Tav.6 – Beni demaniali venduti dal Regno di Napoli e dal Piemonte dal 1848 al 1859

REGNO DI NAPOLIPIEMONTE
  Nessuna Alienazione   DenominazionePrezzo (lire)Legge
Tenuta di Torino, 6.100.000,008 febbraio 1851
Chieri, Gassino. Casella,2.778.422,3211 luglio 1852
Chiavasso, Genova, Cuneo,4.628.436,2919 maggio 1853
806.137,1323 giugno 1857
Stabilimento di S. Pier d’Arena.800.000,0019 giugno 1853
Lire 15.112.995,74

Tav.7 – Andamento del debito pubblico nel Regno di Napoli e in Piemonte

REGNO DI NAPOLIPIEMONTE
Debito a tutto il 1847Lire317.475.000168.530.000
Debito a tutto il 1859Lire411.475.0001.121.430.000
Incremento nel periodo%29,61%565,42%
Interessi sul D.P.Lire22.847.62867.974.177,1
Popolazione residente6.970.0184.282.553
Debito pro-capiteLire59,03261,86
Reddito pro-capiteLire291
PILLire2.620.860.7001.610.322.220
D.P./PIL%16,57%73,86%
Interessi D.B./PIL%0,87%4,22%

Il Piemonte dal 1848 al 1859 si indebitò per 952,9 milioni di lire (tav.7), ma le spese “legittime” assommano a 495,9 milioni (tav.4). Come fu impiegata la differenza pari a ben 457 milioni di lire? Perché dal 1855 al 1859 non furono più presentati i bilanci per l’approvazione di legge? La risposta di Savarese è che questi “contengono spese ingiustificabili, ovvero spese tali, che un ministro non oserebbe confessare al cospetto del parlamento”.

Al 1° gennaio 1860 la Tesoreria di Stato (Madrefede) disponeva di:

Tav. 8 – Regno di Napoli: disponibilità di cassa al 1° gennaio 1860

Introito dalla vendita dei grani del governo ducati2.335.227,20
Cambiali tratte dal governo per l’approvvigionamento dei grani negli Abruzzi115.000,00
Cambiali tratte per servizio dei grani, dedottone le già soddisfatte1.017.879,94
Resto della rendita iscritta del 13 ottobre 18591.878.300
Resta di Tesoreria e portafoglio al 31 dicembre 1859453.507,27
Totale ducati 5.799.914,41

Pari a 24,65 milioni di lire. Il bilancio dell’anno 1860 prevedeva entrate per ducati 30.135.442, pari a 128,08 milioni di lire. Prevedeva una spesa di ducati 35.536.411,35 pari a 151,03 milioni di lire. Si prevedeva dunque un disavanzo di ducati 5.400.969,35 pari a 22,95 milioni di lire, inferiore al valore in portafoglio (tav. 8). Al termine dell’anno la tesoreria napoletana avrebbe dovuto presentare un avanzo di ducati 398.945,06 pari a 1,70 milioni di lire. L’invasione mutò questa prospera situazione. Dal 1° gennaio al 30 giugno, le entrate si ridussero a ducati 13.563.968,92 e le spese assommarono a ducati 20.080.299,27. Sicché si verificò un disavanzo di ducati 6.516.330,35 pari a 27,69 milioni di lire.

A questo disavanzo si fece fronte come segue:

Tav.9 – Misure per il contenimento del deficit del giugno 1860.

Rendita iscritta in ragione di 111,13 su 53.408.107,07
Rendita pignorata di ducati 16.650333.000,00
Rendita pignorata di ducati 29.132582.640,00
Cessione in pagamento di una rendita di ducati 11.764264.690,00
Buoni della Tesoreria scontati alla cassa di sconto1.345.360,74
Trasferimento dalla Tesoreria582.532,54
Totale ducati 6.516.330,35

Tav. 10 – Situazione della finanza napoletana al 30 giugno 1860

Disponibilità al 31 dicembre 18595.799.914,41
Trasferimento dalla Tesoreria-582.532,54
Buoni del Tesoro-1.345.360,74
Rendita del 1° maggio e 6 giugno (valore in portafoglio) 2.943.168,60
Totale ducati 6.815.189,73

pari a 28,96 milioni di lire al 30 giugno 1860.

Dal 30 giugno al 7 settembre 1860

In base al rendiconto pubblicato dal piemontese Sacchi si ebbero nel periodo:

Entrateducati3.152.803,80
Usciteducati-10.096.672,23
Disavanzoducati -6.943.868,43

Il disavanzo però era saldato con le risorse riportate in tav.10 ( di ducati). Ciò nonostante il governo Spinelli con due decreti del 6 agosto e del 1° settembre 1860, creava altri ducati 350 mila di rendita iscritta sul gran libro, che rappresentano un valore di 7 milioni di ducati, ossia 29,75 milioni di lire.

Questi soldi, lasciati a Napoli dai regi nella ritirata del 6 settembre, furono subito fagocitati dai piemontesi e da Garibaldi. Francesco II non pensò neanche di ritirare la sua liquidità personale, né la dote materna, che i Savoia restituirono solo in parte 30 anni dopo.

Tav. 11 – Situazione al 6 settembre 1860

NAPOLI
Disavanzo d’esercizioducati13.460.198,78
Disponibilità di cassaducati7.000.000,00
Oro a garanzia monetaducati104.750.000,00

Tav. 12 – 1860: raffronto in milioni di lire

NAPOLIPIEMONTE
Debito pubblico consolidato441,2251.271,43
Interessi annui25,18175,474

Tav. 13 – Valore oro della moneta degli antichi stati italiani al momento dell’annessione

Milioni di lire – oro
Due Sicilie 445,2
Lombardia 8,1
Ducato di Modena 0,4
Parma e Piacenza 1,2
Roma (1870) 35,3
Romagna, Marche e Umbria 55,3
Piemonte 27,0
Toscana 85,2
Venezia (1866) 12,7
TOTALE 670,4

Lo Stato delle Due Sicilie possedeva un “patrimonio” doppio rispetto a tutti gli altri stati della penisola messi assieme.

Dal 7 settembre al 31 dicembre 1860.

L’allegra gestione dittatoriale fece lievitare le spese a ducati 17.422.385,80, mentre le entrate ammontarono a ducati 6.970.347,82. Il disavanzo nel periodo fu perciò fu di ulteriori ducati 10.452.037,98.

Seguiva l’anno 1861, ed il regno d’Italia s’inaugurava a Torino con un altro debito di 500 milioni di lire. Il bilancio per l’anno 1862 prevedeva un nuovo disavanzo di lire 308.846.372,02. Contemporaneamente le provincie dell’Antico Regno furono gravate dalla nuova tassa del decimo di guerra, e da quella del registro graduale, e dalla nuova tassa sull’industria, la mobiliare, e la personale.

Appendice

Relazione del Direttore Generale alla Commissione Parlamentare di Vigilanza

Il Debito Pubblico in Italia 1861 – 1987: Volume I

Parte I – La Storia

Capitolo 1 – La finanza di “emergenza” all’inizio del Regno d’Italia. 1861 – 1872

Dopo l’istituzione del Gran Libro del Debito Pubblico italiano, avvenuta con legge 10 luglio 1861, n. 94, in cui confluirono i debiti degli stati preunitari si aprì un decennio di fuoco per la finanza pubblica, che dovette ad un tempo far fronte ai costi smisurati di azzardati eventi militari e alla creazione di una struttura unitaria.

Tav. 14 – Periodo 1861-1872

 18611872
Debito Pubblico/PIL45%95%
Spesa Pubblicabase+ 17%
Entrate/Spesa60% 

La classe dirigente dell’epoca non seppe far altro di aumentare le imposte.

Tav. 15 – Contribuzioni introdotte con la proclamazione del regno d’Italia

DenominazioneAnno
Tassa del decimo di guerra1861
Tassa del registro graduale1861
Tassa sull’industria1862
Imposta sui redditi di ricchezza mobile1864
Fondiaria1864
Imposta sul macinato1868
Imposta sui redditi dei titoli pubblici1868

La rapida conquista dell’unità nazionale e la volontà di consolidarla a ogni costo costituiscono il grande evento del decennio e il problema che ossessiona i gruppi dirigenti. Le componenti liberalmoderate della nuova classe politica italiana dedicano le loro energie soprattutto all’unificazione e allo sviluppo del mercato nazionale. In vista di questo obiettivo si procede all’immediato abbattimento delle tariffe doganali interne (1861) e all’estensione all’intero paese della tariffa liberista in vigore in Piemonte. L’unificazione amministrativa viene imposta analogamente attraverso l’estensione e la generalizzazione della legislazione del Regno di Sardegna, che peraltro non è sempre la più avanzata, né la più adatta a regioni molto diverse dal punto di vista dell’economia, dell’assetto sociale, delle consuetudini. Per quel che riguarda l’andamento dell’economia nel decennio, si nota una crescita del prodotto interno abbastanza soddisfacente fino al 1866 e dovuta soprattutto ad annate agricole favorevoli. La guerra del 1866 con l’Austria si rivela però disastrosa per le finanze del giovane regno, già fortemente indebitato: in particolare mostra un maggior dinamismo il settore industriale, che anche in seguito all’introduzione del corso forzoso (cioè la fine della convertibilità della moneta in oro) è avvantaggiato nelle esportazioni. L’aumento dei prezzi, che non è seguito da corrispondenti aumenti dei salari, produce una diminuzione della domanda dei beni di consumo. La drastica cura imposta dalla destra storica al bilancio statale, riducendo l’indebitamento, rende meno necessario il ricorso al credito e alla raccolta del risparmio privato da parte dello stato. Una massa di capitali precedentemente investiti in titoli di stato è così resa disponibile per impieghi produttivi. Contemporaneamente, però, il prelievo fiscale, assai elevato nei confronti dei consumi popolari, frena lo sviluppo del mercato interno. La politica doganale fortemente orientata in senso liberistico, già in vigore da dieci anni nel Regno di Sardegna, accresce gli scambi commerciali con l’Europa, ma crea notevoli difficoltà in ampi settori della produzione manifatturiera nazionale. Ne risultano in particolare danneggiati gli impianti di minori dimensioni, e le grandi industrie meridionali. Nell’insieme la politica delle “porte aperte” si rivela poco efficace, in quanto i danni che produce in alcuni comparti del sistema produttivo non trovano un contrappeso adeguato nella modernizzazione di altri settori. La politica economica dell’età della destra finisce col favorire soprattutto gli interessi dei proprietari terrieri. Infatti la politica doganale serve a incentivare in particolare modo le esportazioni di prodotti agricoli, e quella fiscale è assai blanda nei confronti della grande proprietà fondiaria, mentre si rivela invece severa verso i redditi industriali, commerciali e professionali e decisamente punitiva verso i consumi popolari, dato il massiccio ricorso all’imposizione indiretta che tocca l’apice nel 1868 con l’introduzione dell’imposta sul macinato. Costituito formalmente il 17 marzo 1861 il Regno d’Italia, la classe dirigente del nuovo stato si trovò ad affrontare una serie di gravi problemi legati ai settori economico e finanziario. La situazione ereditata dal periodo precedente era abbastanza complessa: ai sette stati preunitari corrispondevano infatti ben nove amministrazioni finanziarie (la Sicilia e l’Emilia godevano infatti di uno statuto autonomo), con differenti sistemi monetari e criteri di riscossione delle imposte. Il ministro delle finanze del nuovo regno, Pietro Bastogi, dovette fare i conti con un debito pubblico già piuttosto alto: 111.500.000 lire, di cui il 57% di origine sabauda. Per tentare di contenere il deficit, aggravato dall’abolizione di una gran parte dei dazi doganali che vigevano tra gli stati preunitari, vennero estese a tutto il regno tasse e gabelle proprie del Regno di Sardegna. Mentre, nel frattempo, tutte le aliquote impositive venivano progressivamente inasprite. Per le sconsiderate spese militari, e per opere sproporzionate alle risorse, la spesa aumentò e, al netto degli interessi, restò su di un livello molto elevato rispetto al PIL. Fu quindi inevitabile che il riequilibrio di bilancio provenisse quasi interamente dal lato delle entrate, con l’aumento della pressione fiscale. Ci fu inoltre l’assunzione del debito veneto nel 1868, il pagamento dell’indennità di guerra all’Austria nel 1866 e l’acquisto delle ferrovie dell’Austria meridionale nel 1876, per un totale di poco più di 2 miliardi di capitale nominale e circa 80 milioni annui di rendita. Si procedette alla vendita di beni demaniali ed ecclesiastici del Sud, alla cessione nel 1865 alla Società Alta Italia delle ferrovie per 188 milioni di lire, alla concessione nel 1869 della Privativa dei Tabacchi ad una regìa interessata per 15 anni, contro anticipazione di 180 milioni di lire. In media, nel decennio 1860 le entrate extra tributarie ebbero un’incidenza del 16% circa sul totale delle entrate. Fu così che tra il 1862 e il 1868 le entrate aumentarono del 79%, ed il pareggio di bilancio al netto degli interessi si raggiunse nel 1867. La spesa per interessi, che era però ormai diventata insostenibile, fu coperta solo nel 1872. Di fronte a queste imponenti esigenze di reperimento di capitali, la politica del Debito subì notevoli cambiamenti nel corso del decennio. Il primo prestito di 500 milioni netti fu collocato sul mercato dal Ministro delle Finanze Bastogi nel luglio del 1861 a 70,5 lire effettive per 100 lire di capitale nominale. Doveva servire per colmare il deficit del 1861 e quello previsto del 1862. Durante il corso del 1862, Sella, subentrato a Bastogi, fece molte proposte di aumento delle entrate, fra cui la vendita dei beni demaniali e dei beni della neo­costituita Cassa ecclesiastica, vendita che venne autorizzata nell’agosto 1862. Il risultato finanziario dei provvedimenti presi fu, a breve termine, così scarso che Minghetti si trovò l’anno successivo a dover ricorrere nuovamente ad un prestito di ben 700 milioni netti, collocati a 71 lire. Oltre a ciò, veniva allargata la circolazione dei Buoni del Tesoro, che passarono tra il 1861 e il 1862 da 38,9 a 227,5 milioni di lire, restando poi sempre su cifre molto elevate. Con il ritorno di Sella l’anno dopo al Ministero delle Finanze, si iniziò a cercare delle alternative alla emissione dei prestiti assai onerosi, precedentemente collocati. Sella, concluse una convenzione con una neo­costituita Società Anonima per la vendita di beni demaniali, in base alla quale tale società anticipava 150 milioni al Governo. La “novità” di Sella venne ampiamente discussa in Parlamento, dove si levarono molte critiche, ma alla fine la convenzione venne approvata il 20 novembre 1864. L’anno dopo, il Sella non poté evitare di proporre un nuovo prestito per 425 milioni netti, oltre alla alienazione delle ferrovie per 185 milioni circa. Non vennero risparmiati sarcastici commenti in Parlamento. “A me pare ­ dichiarò l’on. Lazzaro nella seduta del 13 aprile 1865 ­ che in quattro o cinque anni dacché stiamo qui riuniti, la questione finanziaria non ci abbia presentato null’altroché una serie di illusioni, e per conseguenza una serie di disinganni; e si potrebbe ancora dire che i diversi Ministeri si sono demoliti gli uni e gli altri; i precedenti illudevano sé e il paese; ed i successori demolivano i primi mostrandosi illusi, aspettando gli altri che li demolissero a volta loro dimostrando il disinganno”. “Nell’amministrazione finanziaria, ­ rilevava l’On. La Porta ­ che cosa abbiamo noi osservato? Un sistema che si puntella sui prestiti ogni due anni: un prestito al 1861, un prestito al 1863, un prestito al 1865! Due miliardi di lire!”. Crispi osservava: “Contrarre degli imprestiti per le spese ordinarie è uno di quei fatti anomali di cui a noi sembra dato privilegio. Gli imprestiti si fanno per le spese straordinarie, in caso di guerra, per grandi lavori pubblici, per esigenze eccezionali, e che non è possibile soddisfare con mezzi normali; ma quando si tratta di avere, bisogna tenersi a quello che si ha”. E il senatore Siotto­Pintor concludeva: “il malcontento è grave, un senso di malessere si diffonde in tutte le classi della società. Le sorgenti della ricchezza vanno a disseccarsi. Noi facciamo il lavoro di Tantalo o di Penelope. Il signor Rothschild, re del milione, è, finanziariamente parlando, re dell’Italia”. Il miglioramento nel bilancio corrente che nel frattempo si era registrato venne vanificato dagli eventi del 1866. In primo luogo una crisi finanziaria internazionale fece precipitare le quotazioni della rendita italiana all’estero, dalle 66 lire di marzo alle 49 di fine aprile. Le banche restringevano il credito; s’iniziava la corsa agli sportelli. Fu in questo clima che il Ministro delle Finanze Scialoja fece approvare il 30 aprile un disegno di legge che accordava “al governo la facoltà di provvedere per via di decreti reali, anche con mezzi straordinari, ai bisogni della finanza”. Il 1° maggio successivo fu emanato un decreto che obbligava la Banca Nazionale a dare un mutuo al Tesoro di 250 milioni di lire al tasso di interesse dell’1,1/2%, proclamando al contempo il “corso forzoso” di tutti i biglietti di banca in circolazione. Questa decisione si rivelò determinante per i destini del Debito Pubblico italiano: se, infatti, prima di tale provvedimento, l’unica alternativa al collocamento di prestiti consolidati (e di Buoni del Tesoro) era stata l’alienazione di patrimoni pubblici, ora si presentava anche percorribile il canale della creazione di moneta. Intanto, però, dobbiamo ricordare che nel giugno 1866 era scoppiata la guerra con l’Austria che fece notevolmente lievitare le spese.

Il ministro Scialoja decise dunque di ricorrere ad un prestito redimibile forzoso interamente collocato in Italia. L’anno dopo l’attenzione del Parlamento fu polarizzata dalla liquidazione dell’Asse ecclesiastico, una delle questioni più lunghe ed intricate della storia della finanza (e dell’agricoltura) italiana. Per quanto riguarda i suoi effetti sul Debito Pubblico, nel giugno 1866, era stata decretata la conversione dei beni delle corporazioni religiose, ma fu nel 1867 che si discusse come effettuarla. Durante la sua breve permanenza al Ministero delle Finanze, Ferrara concluse una convenzione con il banchiere Erlanger, che avrebbe dovuto versare al Tesoro italiano 600 milioni e avrebbe dovuto provvedere alla liquidazione dei beni. La convenzione suscitò la opposizione parlamentare e fu accantonata. Fu invece approvato il disegno di legge Rattazzi (15 agosto 1867) che prevedeva l’emissione d’obbligazioni per 500 milioni nominali per 395 milioni di ricavo netto, obbligazioni da accettare in pagamento dei beni dell’Asse ecclesiastico acquistati dai privati e quindi da annullare. Ma l’accoglimento presso il pubblico di queste obbligazioni non fu buono, così che i 150 milioni della prima tranche vennero depositati presso la Banca Nazionale a garanzia di un anticipo di 100 milioni concesso al Tesoro nel 1868. Nello stesso anno, si pensò di varare un’altra operazione che sistemasse ad un tempo l’amministrazione poco florida del monopolio dei tabacchi e alcuni buchi di bilancio. Fu Cambray­Digny a concludere, nel 1868, con la Società Generale di Credito Mobiliare, la creazione di una Regìa cointeressata dei tabacchi alla quale veniva ceduto per 15 anni l’esercizio del monopolio dei tabacchi: la proposta di Cambray­Digny sollevò una grossa battaglia parlamentare, ma alla fine venne approvata. Dopo un anno (il 1869) di relativa calma, nel 1870 Sella, ritornato al Ministero delle Finanze, si ritrovò di nuovo di fronte al problema del ripianamento dei deficit residui, comunque meno preoccupanti di quelli dei suoi primi ministeri. Nella sua esposizione finanziaria davanti alla Camera dei deputati del 10­11 marzo 1870, Sella concludeva di avere bisogno di altri 200 milioni. “Come si fa, o signori ­ si interrogava ­ a trovare questi 200 milioni? Ecco la questione. Volete procacciarvi tutta questa somma con prestiti? Combinateli con rimborsi, o senza rimborsi, fate quel che volete, se esaminate la cosa attentamente, voi troverete che questi prestiti a rimborso hanno costato tutti assai caro alla finanza, salvo il Prestito Nazionale che fu imposto al paese, e gliene furono quindi imposte le condizioni …Vorreste procedere per prestito forzato, o signori? Una misura di tal genere, per regola, è bene riservarla per i momenti gravissimi pel paese, e poi crederei impossibile di ottenerla oggi”. Sella propose quindi una convenzione con la Banca Nazionale per il versamento di altri 122 milioni, il che avrebbe portato il debito totale del governo verso la Banca a 500 milioni. Nel contempo, si annullarono tutte le obbligazioni ecclesiastiche ancora invendute e si stabilì l’emissione di una nuova serie d’obbligazioni per 333 milioni nominali. Questo prestito venne dato in garanzia alla Banca Nazionale, la quale doveva provvedere al suo collocamento, il cui ricavato sarebbe andato a diminuire l’esposizione del Tesoro nei confronti della Banca. Altri 80 milioni (netti) vennero ricavati con un normale prestito. l “rubinetto” della Banca Nazionale era assai allettante e, in un primo tempo, sembrava privo del tutto di effetti collaterali negativi che non fossero quelli dell’aggio dell’oro. Mentre il deflatore implicito del PIL aumentò in 10 anni (1861­71) di meno del 10%, mostrò poi una forte crescita nel 1872­73 (nei due anni aumentò del 23%). Il mercato dei capitali, praticamente monopolizzato dai titoli pubblici, non lasciava spazio ai titoli privati. Si continuò in tale direzione per sistemare gli ultimi buchi di bilancio, evitando la crescita esponenziale della spesa per interessi che si era verificata nei primi 10 anni: tra il 1862 e il 1871 essa si era pressoché triplicata! Le operazioni di credito con la Banca Nazionale erano però diventate ormai di importo talmente consistente, che la Banca si prestò a farle solo contro deposito in garanzia di titoli di Stato, ossia seguendo il metodo instaurato nel 1870 in occasione della convenzione relativa alle obbligazioni ecclesiastiche. “Sebbene a caro prezzo…. –concludeva J. Tivaroni ­ il Governo allontanava così la necessità di ricorrere a nuovi ingenti debiti per far fronte ai disavanzi dei bilanci e sino al 1881 non troviamo stipulati altri debiti a tale scopo”. I “biglietti di Stato” ascesero nel 1872 a 790 milioni di lire, per raggiungere 940 milioni nel 1875: il tasso d’inflazione s’impennò, passando dal 2 per cento del 1871 al 12 per cento nel 1872. Si chiuse in questo modo il primo grande ciclo della storia del Debito Pubblico italiano, durante il quale si registrò una violenta crescita dello stesso e una progressiva diversificazione delle sue fonti di finanziamento.

Note

[1] Il territorio era diviso in 22 province di cui 15 nel Sud continentale e 7 in Sicilia


Bibliografia e fonti

  • Relazione “Sacchi”, Ministero delle Finanze, Torino 1861
  • Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860, Giacomo Savarese, Napoli – tipografia Gaetano Cardamone – 1862
  • Annuario ISTAT 2002
  • Relazione del Direttore Generale della Banca d’Italia alla Commissione Parlamentare di Vigilanza, Roma, 2001.

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