Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Il caso Pell è il nuovo caso Dreyfus. La vergogna è di chi si volta dall’altra parte

Posted by on Feb 28, 2019

Il caso Pell è il nuovo caso Dreyfus. La vergogna è di chi si volta dall’altra parte

 Una campagna anticattolica travestita da lotta agli abusi. Nel silenzio di tutti

di Giuliano Ferrara

pubblicato su “Il Foglio” il 28 febbraio 2019

 Contro il capitano Dreyfus un secolo fa si scatenò l’inferno, e lui finì all’inferno, perché attraverso di lui volevano combattere la sua razza, il cosmopolitismo delle élite, l’antimilitarismo. Contro il cardinale George Pell oggi si è scatenato l’inferno, e lui rischia di finire all’inferno, perché attraverso di lui il pensiero unico dominante vuole mettere in ginocchio la chiesa cattolica e la sua morale considerate l’ultima remora o contraddizione potenziale all’omologazione universale al nuovo credo scristianizzato del sesso, della riproduzione, della famiglia e del gender senza Dio né legge.

Alfred Dreyfus era un capitano ebreo dell’esercito francese. Fu arrestato per spionaggio nel 1894, condannato all’ergastolo e degradato e inviato a scontare la pena all’Isola del Diavolo, nella Guyana francese. La condanna scatenò feroci passioni: un fronte trasversale all’insegna dei diritti umani universali proclamò la sua innocenza, mentre una vasta convergenza patriottarda, antisemita e militarista si batté con rabbia per la conferma della sua condanna. Nel 1899 Dreyfus si vide cassata la sentenza con rinvio a un nuovo processo della corte militare, fu di nuovo condannato l’anno stesso, malgrado l’evidenza delle prove a carico del vero colpevole di spionaggio, e dieci giorni dopo la nuova condanna a dieci anni fu graziato dal presidente della Repubblica, per essere infine riabilitato sotto Clemenceau alla vigilia della Prima guerra mondiale. Maurras, il fondatore dell’Action Française, chiamò “falsi, sì, ma patriottici” i documenti d’accusa, e di questo scandalo tra i due secoli si disse che gli antidreyfusardi, tra i quali anche le frange estreme della sinistra comunarda, colpivano nel capitano la sua razza, il cosmopolitismo delle élite radicali e degli intellettuali dreyfusardi, nel dramma di un nazionalismo e bellicismo frustrati dalla perdita dell’Alsazia e della Lorena a vantaggio della Germania nel 1870.

Un caso analogo è quello del cardinale George Pell, australiano, fino a ieri numero tre della chiesa cattolica, condannato dalla Corte dello stato di Victoria per atti di pedofilia violenta, incarcerato in attesa che sia fissata la pena e in vista di un processo d’appello. Le cose che abbiamo riferite qui ieri e i documenti intorno al processo che pubblichiamo dimostrano che, sebbene in un clima persecutorio infame, segnato da una aggressiva tendenza colpevolista a ogni costo di parte immensa dell’opinione pubblica mondiale e dei media, qualche dubbio, almeno nella lontana Australia, comincia a farsi largo, malgrado una piccola folla urlante abbia gridato all’imputato che “marcirà all’inferno” e i media di tutto il mondo, a ogni latitudine, facciano coro con rarissime eccezioni nella crociata anticristiana.

La parte decisiva del processo a Pell, per un caso di ventitré anni fa, si è svolta con l’interrogatorio a porte chiuse di un trentenne denunciante il cui nome non verrà mai reso noto, per l’opinione internazionale e per il pubblico un accusatore anonimo. La prima giuria convocata nell’agosto dell’anno scorso ha confessato, con alcuni giurati in lagrime, di non poter emettere alcun verdetto. Il retrial o ri-processo, con una giuria convocata ad hoc, ha stabilito, sulla base di una sola testimonianza d’accusa non suffragata dal benché minimo riscontro testimoniale, che il vecchio cardinale e braccio destro del Papa, politicamente scorretto, conservatore, burbero, ambizioso e potente, è colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio di una violenza in una sagrestia a porte aperte subito dopo la processione e la messa domenicale, la sua prima da vescovo di Melbourne, in una finestra temporale instabile ma non superiore ai cinque-sei minuti per la commissione del delitto. Fino a cinquanta anni di galera possibili. Un secondo presunto abusato era morto di eroina nel 2014, un anno prima che il ragazzino tredicenne del coro, ormai trentenne, si decidesse a denunciare il misfatto al riparo della privacy e nello strepito del crucifige di un movimento attivistico incandescente in Australia e nel mondo; e fino alla morte l’altra vittima ha sempre negato che sia accaduto alcunché, rispondendo di “no” alla madre che gli domandava se fosse successo qualcosa (ora la famiglia chiederà un risarcimento alla chiesa, ora dice di aver capito la ragione delle sofferenze e della morte tossica del ragazzo).

Una parte della classe dirigente australiana, che ha convissuto nella vita pubblica con il cardinale Pell e lo ha conosciuto bene in via privata, si dice esterrefatta dalle risultanze giudiziarie, in totale contrasto con l’identità percepita, un uomo intelligente e di carattere, dell’alto prelato (gli ex premier John Howard, Tony Abbott). Si ascoltano voci garantiste e innocentiste anche fra commentatori laici, fuori della chiesa, in particolare nel gruppo editoriale Murdoch. Il Papa ha fatto fatica per incredulità a prendere le misure graduali, ma automatiche nel nuovo costume e regime di curia, che hanno allontanato Pell dalle sue immense responsabilità nel governo della chiesa, dove era stato chiamato da Bergoglio – nonostante campagne già in atto contro di lui – come ministro del Tesoro, e per misure estreme aspetta l’appello, che sarà deciso, immaginiamo in mezzo a quali pressioni ambientali, da una giuria togata di tre persone. Forse intorno a questo processo, che ha tutta l’apparenza di una spietata caccia alle streghe, può cominciare a cambiare qualcosa nella mentalità con cui si guarda a queste vicende drammatiche. Nel mondo non ci sono solo giornalisti conformisti, o pavidi, e facinorosi moralizzatori del mondo cattolico progressista cosiddetto che guardano con sadico compiacimento l’inabissamento nello scandalo e nella “vergogna” (“Pedofilia: la vergogna del cardinale”, titolo vergognoso di Repubblica ieri) di un principe della chiesa giudicato intellettualmente e caratterialmente intrattabile, e che sarebbe stato chiamato in rappresentanza della minoranza da Francesco a Roma, a loro grottesco e fazioso giudizio (sullo sfondo sempre l’insinuazione che tutto il marcio debba farsi risalire a Giovanni Paolo II e a Ratzinger).

Da vent’anni, praticamente in solitario (il che dovrebbe essere una circostanza sospetta per chiunque abbia una visione liberale e garantista del diritto nel suo rapporto con i media e l’opinione pubblica), qui nel Foglio sosteniamo che è in atto una campagna ferocemente anticattolica travestita da lotta al lupo clericale, al prete abusatore e al vescovo che lo copre.

Per farlo non abbiamo bisogno di negare gli abusi, che ci sono stati e in una misura non indifferente, in parallelo con la sordità etica di un mondo pansessualista verso l’integrità dei bambini anche e sopra tutto fuori delle mura della chiesa. Ci basta discernere, comprendere i modi e i timbri antigiuridici, ideologici, del gigantesco ricatto scristianizzatore e anticattolico condotto da grande stampa, organismi giudiziari e ad hoc, commissioni, comitati attivistici che parlano in nome delle vittime e dei poderosi risarcimenti, governi: attraverso i preti, con una azione di generalizzazione ricattatoria che trasforma il clero in una vasta orda di orchi nelle mani di una ossessione satanica per gli agnelli, i nuovi antidreyfusardi vogliono colpire un’istituzione bimillenaria invecchiata, tragicamente incerta tra la sua tradizione e l’aggiornamento mondano, smantellando alcuni suoi caposaldi come il celibato, la cura d’anime, l’indipendenza del culto e della sua amministrazione da parte del clero consacrato, il celibato, il sacramento della confessione segreta, l’esclusione delle donne dall’ordinazione, la morale sessuale, la sua autorità di cultura e umanità, la fiducia dei fedeli, la sua gerarchia a partire dal vescovo di Roma, il Papa.

La chiesa cattolica non ha saputo o potuto reagire, si è affidata com’è nella sua natura a uno spirito di resa, prima di tutto alle leggi della provvidenza divina, mediante espiazione e preghiera, poi alle leggi dell’omologazione al mondo: un vecchio Papa antirelativista e antimoderno, Benedetto XVI, ha rinunciato al Soglio di Pietro con un gesto inaudito per secoli, spettacolare e amarissimo, esito e origine di una delegittimazione profonda dell’istituzione; un nuovo Papa, per la prima volta un gesuita, ha cercato di contrastare il fenomeno in una logica progressiva di adattamento alle sue leggi e di resa ai Diktat moralistici del secolo, con risultati grotteschi, fino all’autoflagellazione sinodale e alla prosternazione della chiesa in ginocchio davanti all’autorità inquisitoria della stampa e dei media. Oggi la chiesa di Papa Francesco è messa così: i tradizionalisti antibergogliani lo accusano di subire le pressioni di una vasta lobby gay dell’immoralismo interessato e omertoso (ultimi i cardinali Brandmüller e Burke in una lettera alla vigilia del convegno sinodale recente); gli Lgbt definiscono “Sodoma” il Vaticano e il clero cattolico, rilanciano sul

mercato il sospetto generalizzato sui “comportamenti dell’80 per cento dei preti”, per dimostrare che la sessuofobia antigay è il prodotto o il riflesso della sessuomania predatoria sui più piccoli e vulnerabili, e che per superare il segreto criminale la chiesa ha bisogno di un colossale coming out; proliferano dovunque nel mondo indagini e accuse le più varie, estese su decenni e decenni, arrivate a toccare migliaia e migliaia di preti, decine di vescovi e molti cardinali con imputazioni che dannano generazioni di ministri ordinati e il modo di essere della gerarchia e della gestione del clero, su su fino alla curia romana e al Papa stesso, con il caso del suo confessore accusato di pedofilia, il vescovo di Orán Gustavo Oscar Zanchetta (in Belgio, prima della Renuntiatio di Ratzinger, l’intera conferenza episcopale fu messa ai domiciliari per una intera giornata, e la polizia giudiziaria procedette allo scavo nelle tombe di cardinali come Leo Suenens, uno di padri del Concilio Vaticano II, allo scopo dichiarato di trovare prove di abusi ivi sepolte).

In questa storia gotica e noir, dove un mondo che predica e pratica in tutto il suo luccicante splendore di cultura e di mercato gay culture e gender culture, salvo mescolare fede e perversione mettendole in carico come speciale patologia al clero cattolico, suo magnifico caprone espiatorio, l’impressione è di una chiesa boccheggiante. Per i credenti, si può dire che è affar loro e della fede nella divina provvidenza; ma per i non credenti e i laici extra muros, per chi ha un amore anche vago per il diritto eguale e per una conoscenza non pregiudiziale e oggettiva della realtà storica, il dipanarsi impunito da decenni di un’orchestrazione d’accusa generalizzante, inquinante, ai danni di una cosa preziosa come la chiesa cattolica, testimone e contraddittore del mondo e delle sue parzialità, dovrebbe essere uno stimolo per conoscere, per interessarsi, per contro-accusare e sceverare il vero dal falso. Non per voltarsi dall’altra parte e plaudire alla condanna universale senza contraddittorio, come fecero i peggiori antidreyfusardi, con conseguenze che macchiarono di orgoglio luciferino tutto il Novecento.

Read More

I vincitori scrivono la storia, non la verità

Posted by on Feb 1, 2019

I vincitori scrivono la storia, non la verità

Pubblicato il 22 agosto 2017 da Giovanni Dall’Orto

Dopo l’attentato nazista che a Charlotteville ha causato morti e feriti, sono stato inghiottito mio malgrado dalle polemiche per una questione marginale se non irrilevante, ossia l’oltraggio che ho espresso, in quanto storico, di fronte all’idea che sia “progressista” o comunque scusabile vandalizzare opere d’arte solo perché rappresentano personaggi “odiosi”, come un soldato del Sud nella Guerra di Secessione americana.

Read More

MAESTRO SAMUELE PAGANO di ATINA IN ALTA TERRA DI LAVORO

Posted by on Gen 24, 2019

MAESTRO SAMUELE PAGANO di ATINA IN ALTA TERRA DI LAVORO

COMPOSITORE – DIRETTORE – CONCERTISTA

DEL CONSERVATORIO DI MUSICA S. PIETRO A MAIELLA DI NAPOLI

LORETO PAGANO

La prima persona coinvolta nella passione musicale nella famiglia Pagano è Loreto Pagano, padre di Samuele e figlio di Antonio Pagano che si era trasferito da Napoli ad Atina per esercitare il commercio di vini. Costui, che sposò la sorella del Parroco, coltivava ambizioni di una brillante carriera per il figlio Loreto e per questo motivo lo manda a Trisulti fra i Certosini per studiare latino, greco, teologia e l’arte farmaceutica del dispensario delle medicine del monastero. Successivamente, dal 1858 al 1860, lo trasferisce  a Napoli per frequentare la Scuola di Bassa Chirurgia presso la scuola medica del Monterossi.

1883. Nasce il 18.05.1883 ad Atina (Caserta) in Terra di Lavoro, nono di diciannove figli che suonano tutti uno o più strumenti.

1892. Fin dall’adolescenza mostra sempre una speciale tendenza musicale tanto che da semplice dilettante suona il violino, è già un esperto suonatore di

flauto e di chitarra e scrive delle” suonatine  di sua iniziativa”.

Loreto Pagano, padre di Samuele,“Flauto solista” della Banda di Atina dal 1860  al 1890, dopo le continue  e insistenti richieste del figlio, decide di assecondare l’inclinazione che il ragazzo ha per la musica mandandolo a Napoli a studiare.

Con la certezza che i sacrifici che dovrà fare non saranno inutili, chiede all’Amministrazione Comunale di Atina, guidata dal sindaco Giuseppe

Visocchi, di concedere con il Bilancio Comunale un sussidio di almeno duecento lire annue per la durata di quattro anni. Il Consiglio accetta la

domanda e delibera di stanziare una apposita categoria nel Bilancio per il sussidio suddetto il quale dovrà pagarsi a rate trimestrali posticipate e

previa esibizione di attestati dai quali risulti che Samuele Pagano trae profitto dall’insegnamento.

Successivamente, però,  il richiedente giunge alla determinazione di far studiare Samuele ad Atina limitando la dimora a Napoli a soli due o tre mesi circa sotto la direzione di “maestri particolari” i quali  devono essere ricompensati.

1894. Accompagnato dall’On. Alfonso Visocchi, supera l’esame di ammissione al Reale Conservatorio di Musica” San Pietro a Maiella” di Napoli, privilegio destinato a pochi dotati di straordinarie qualità musicali. Ha per insegnanti illustri maestri  come Camillo De Nardis, Pietro Platania, Ettore Fieramosca, Francesco Ancona e Giuseppe Martucci  dai quali derivò una severa concezione dell’arte. Per tali studi il ragazzo supera brillantemente gli esami del Reale Conservatorio come risulta dai certificati rilasciati dal Direttore di detto Conservatorio.

1903. Consegue, il 16 novembre, il Diploma di licenza e di Magistero nel ramo Istrumentazione per Banda e nel Pianoforte e Violino complementari, con il massimo dei voti.

Dal 1903 al 1906 presta Servizio Militare di leva nel II Reggimento dei Granatieri di Sardegna e si distingue come musicista, come tiratore scelto e come attore teatrale. Dopo  il congedo la passione per il tiro non svanisce  e ciò è documentato dalla nomina di Vice Direttore della Società di Tiro a Segno Nazionale e della Società di Tiro a Segno di Atina.

1906.  Il sette dicembre viene nominato maestro di musica  del Complesso Bandistico “ Città di Atina” a titolo di esperimento  per l’anno 1907 con uno stipendio di L.75 mensili.

1907. Il 3 dicembre il Consiglio Comunale conferma la nomina del maestro Samuele Pagano con lo stipendio di L. 1200 annue “lorde di Ricchezza Mobile”.Dirigerà, poi, il corpo musicale fino al 1964.

Quando è invitato alla Direzione della Banda dal Cav. Orazio Visocchi, che ne è  Presidente,  si imbatte in una situazione poco confortante in quanto vi è insufficiente preparazione e i brani spesso presentano errori di strumentazione e di armonizzazione. Attraverso un paziente lavoro di oltre mezzo secolo,  egli riesce a  perfezionare il complesso fino a raggiungere il giusto equilibrio tra i vari strumenti.

1915. Vince il Concorso per la Direzione della Banda Presidiaria del 59° Reggimento di Fanteria di stanza a Frosinone.

          Al termine dell’incarico, nel 1918, riceve un’attestazione di merito per le capacità organizzative, artistiche, tecniche e per le sue “ottime maniere”.

1918. Avviene la fusione della Banda di Atina con metà Fanfara per la quale  scrive diversi brani. In epoca fascista ne scriverà altri.

1920. Il 20 settembre a Parigi dirige in Concerto”La Banda Musicale della Lira Italiana”.

1921. Dirige in Concerto la Southwairk Boro Prize Band a Londra. In programma anche la Symphonic March “The Tiber” di sua composizione.

          Tale marcia in Inghilterra verrà ripetutamente eseguita  da parecchie bande.

  Dal 1920 al 1921 la Banda di Atina è alle dipendenze del fratello Beniamino, diplomatosi anche lui a S. Pietro a Majella.

          Alla fine dell’anno 1921 ritorna ad Atina. In tale anno la Banda conta 43 elementi. Dal 1922 al 1944   essa si esibisce ogni domenica in

          Piazza Garibaldi ed effettua esecuzioni musicali   anche nei paesi vicini.

1922. E’ vincitore del Concorso per la direzione del “Quartetto Haydan di Londra”.

 Il 18 settembre  gli perviene  un contratto per la direzione della “Banda G. Rossini” di Parigi. Il 22 settembre è preparata la pratica per il  

           trasferimento, ma egli decide di non partire.

1923. Viene molto applaudita la sua marcia sinfonica “ Capricciosa” eseguita durante il “Concerto Musicale, Vocale e Instrumentale “ diretto dal Maestro

            B. Pagano in occasione del Genetliaco di Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III.

1924. Il 14.10  di quest’anno gli perviene una richiesta da parte di “Cimino Frères”, una importante casa musicale di Parigi che chiede la gentilezza di inviargli una decina di brani musicali per piano automatico.

1925. Contrae le nozze con Lucia Mancini.

Dalle esperienze musicali fatte a Roma, a Parigi, a Londra, a Glasgow appare come un artista di respiro nazionale ed europeo, eppure rinuncia alla possibilità di successo e di carriera che offrono le grandi capitali per vivere nella  sua valle e dedicarsi  alla composizione delle sue opere.

1932. E’ nominato Membro Onorario dell’Accademia Musicale “G. Verdi” per i suoi meriti artistico-culturali.

1945.  Ricostituisce e dirige il Complesso Bandistico  “Città di Alvito”, il primo a riprendere il discorso musicale nella valle dopo gli eventi bellici.

 In varie epoche è invitato frequentemente alla direzione di importanti complessi bandistici Abruzzesi e Pugliesi.

Raggiunge la piena maturazione artistica nel 1946-48 quando sarà costituita la “Grande Banda Città di Atina” la cui direzione gli è affidata da Guglielmo Visocchi, Presidente della “ Società Musicale Città di Atina”

Accresce il numero degli elementi portando a 64 il numero complessivo dei musicanti sia reclutandoli in vari conservatori musicali sia formando numerosi allievi e crea un vero repertorio originale per banda. Il complesso, nel caso in cui esegue il Gran Canzoniere, raggiunge il numero di 75 esecutori. Per le grandi occasioni vi è la partecipazione del grande flautista Severino Gazzelloni. Il successo , documentato dalla stampa, è strepitoso e la banda è giudicata tra le migliori in Italia. A tale epoca risale la composizione delle opere più significative.

Molte delle sue numerose composizioni hanno il riconoscimento di Medaglie d’oro in Concorsi nazionali e lusinghiere valutazioni in Inghilterra, in Francia e in America.

1947.  Dal 1947 al 1960 insegna musica presso gli Istituti Magistrali di Pontecorvo e di Cassino e presso la Scuola di Avviamento di Atina.

Impartisce, fino al 1967, lezioni private di pianoforte,di violino, di chitarra,di  fisarmonica e di altri strumenti.

E’ formatore di ben tre generazioni di allievi che ricordano con venerazione il Maestro  e tengono alta la cultura e la tradizione musicale nella Valle. Alcuni di essi hanno ricevuto lusinghiere affermazioni all’estero.

1948. La Società Musicale “Città di Atina”, presieduta dall’Ing. Guglielmo Visocchi,  sindaco di Atina, non è più in grado di sostenere le spese per la Banda  e Samuele accetta di dirigere, per tutto il 1948, la Banda di Monte San Giovanni Campano.

1949. Dal 1949  aumentano le difficoltà finanziare per sovvenzionare il complesso bandistico di Atina.

1956.  La Banda conclude l’attività che per tanto tempo aveva brillantemente rappresentato  la nostra città.

1970. Al 24 maggio di quest’anno risale l’ ultima apparizione ufficiale  di Samuele Pagano per ricevere l’onorificenza di “ Cavaliere di Vittorio

         Veneto”concessa con decreto del presidente della Repubblica ai combattenti della prima Guerra Mondiale in riconoscimento del

          servizio prestato.

 1972. Il dieci dicembre viene dato l’annuncio della  morte del Maestro.

1923. Lo stesso anno il fratello Beniamino, che lui aveva sostenuto negli studi dopo la morte del padre Loreto, fu nominato maestro Direttore della Banda “ Gioacchino Rossini” di Parigi e, in seguito, fu chiamato  a dirigere anche la Banda della “Lira italiana di Parigi”. Pianista solista, concertista e violinista, le sue composizioni sono state incise da varie case discografiche.

1982. La “Pro Loco” di Atina premia il Maestro Pagano con un Diploma di Medaglia d’oro.

1983. Samuele Pagano  non pubblicò quasi nulla da vivo, forse perché la sua natura aristocratica, solitaria  e  a momenti spirituale lo portò a trovare  pieno appagamento nella creazione dell’opera musicale in sé.  Può darsi che sia questo  il motivo per cui che egli non volle mai staccarsi dalla fonte della sua ispirazione, la terra natale, per inseguire le lusinghe del successo che lo avrebbero portato in altri luoghi.

Della  produzione del maestro  fanno parte circa 3000 pagine di manoscritti. Le composizioni scampate  allo scempio della seconda guerra mondiale e al logorio del tempo sono 260. Una quarantina sono quelle andate disperse. Quelle sottratte all’oblio sono state  raggruppate tenendo conto del genere di musica e delle dimensioni dei manoscritti.

 Nel centenario della sua  nascita , nel corso di una manifestazione commemorativa in cui  gli fu intitolata la  strada in cui ebbe la sua

dimora  per cinquanta anni, viene presentato, per interessamento dei figli Flavio, Concetta e Franca, il primo volume della raccolta di musiche “ Antologia Pianistica” e il II volume “Fantasie Musicali .Nel salone del Palazzo Ducale  si tiene un concerto vocale e strumentale durante il quale vengono eseguite numerose composizioni inedite. La Famiglia Pagano, alla quale l’Amministrazione P. di Fr. fa omaggio di una Medaglia d’Oro, dona la Museo Comunale tutti i manoscritti del Compositore, i Diplomi di Ben.  e di Concorsi  e molti cimeli.

1984. Il 17 e il 18  Novembre il Comune di Atina organizza due manifestazioni in memoria del Maestro: il primo giorno si tiene un Concerto di Musica Strumentale del Rinascimento del “Concentus Concert” di Budapest, il secondo si esibiscono nelle piazze e per le vie del paese le bande convenute al “III raduno Nazionale di Bande”.

1985.  Nel mese di marzo  è dato alle stampe il III volume di manoscritti  “Antologia musicale n. 1”.

            Il 29 settembre sono presentati i volumi IV e V  di musiche “Antologia musicale n.2 ” e   “Marce sinfoniche”

1987.    Viene presentato il VI volume di manoscritti”Marce militari”.

Il Corpo Bandistico di Atina fu fondato nel 1835. Fino al 1956 ebbe sempre annessa una scuola di musica  e lavorò ininterrottamente tanto da rappresentare una tradizionale fonte di educazione artistica generatrice dei più nobili sentimenti  tramite l’opera  compiuta da tanti bravi maestri. I suonatori erano tutti artigiani del posto animati da passione musicale .

  Gli strumenti musicali, avendo  il Corpo sempre avuto la qualifica di concerto civico, erano di proprietà del comune e  ceduti in uso alla banda stessa.  . Molti venivano regalati annualmente  dalla famiglia Visocchi.

Nel 1942 l ’Amministrazione Comunale corrispondeva al Dopolavoro Comunale di Atina, alle cui dipendenze era passato il concerto civico, un contributo per il mantenimento dello stesso corrispondente a L. 6.000. Per tale sostegno il “concerto” aveva l’obbligo di suonare sia  nelle Feste Nazionali  che nelle grandi occasioni a titolo gratuito ed a semplice richiesta del Capo dell’Amministrazione. Nei “periodi estivi e normali prestava servizio serale e ogni domenica”. ( Archivio Storico Comunale di Atina)

1946. Dirige il Complesso Bandistico “Città di Monte San Giovanni Campano”.

————————————————————————————————————

Nono di diciannove figli che suonavano tutti uno o più strumenti, nacque ad Atina il 10 maggio del 1883.

Fin dall’adolescenza mostrò sempre una speciale tendenza musicale tanto che da semplice dilettante suonava diversi strumenti e scriveva anche delle suonatine di sua iniziativa. Grazie alla determinazione del padre che volle assecondare la sua inclinazione musicale e  grazie  anche alla filantropia dell’amministrazione comunale di Atina, guidata dal sindaco Giuseppe Visocchi,  fu condotto  a Napoli dal senatore Alfonso Visocchi dove superò l’esame di ammissione presso il Regio Conservatorio di Musica “San Pietro a Maiella. Nel 1903 conseguì, col massimo dei voti, il Diploma di Licenza e di Magistero nel ramo Istrumentazione per Banda. Nel 1907 fu nominato Maestro della Banda musicale di Atina percependo uno  stipendio di £. 75 mensili lorde ( Archivio storico comunale di Atina, Registro Deliberazioni Comunali ,1893-1908).

Nel 1946 diresse la Banda di “Città di Monte S. Giovanni Campano” e nel 1954  il Complesso Bandistico “Città di Alvito”. In varie epoche fu  vincitore di concorsi  e  Direttore di grandi complessi bandistici pugliesi e Abruzzesi e diresse concerti a  Londra e a Parigi dove si affermò come compositore, direttore d’orchestra e concertista. Formatore di ben tre generazione di allievi, morì  ad Atina il 10 dicembre del 1972.

Sostenne negli studi musicali il fratello Beniamino (1894-1989)  il quale nel 1923 fu nominato maestro Direttore della Banda “ Gioacchino Rossini” di Parigi e, in seguito, fu chiamato  a dirigere anche la Banda della “Lira italiana di Parigi”. Pianista solista, concertista e violinista, le sue composizioni sono state incise da varie case discografiche.

ricerca effettuata da

Mario Riccardi

Read More

1918-2018: “Tutto crolla, il centro non regge più”

Posted by on Dic 21, 2018

1918-2018: “Tutto crolla, il centro non regge più”

Nel dicembre del 1918 l’Europa celebrò il primo Natale di pace dopo quattro anni di sangue ininterrottamente versato. Il mondo che nasceva, però, non era più quello di ieri. Il 3 novembre l’Impero austro-ungarico aveva firmato a Padova l’armistizio di Villa Giusti con le Forze Alleate.

Il 7 novembre giunse al cancelliere tedesco Max von Baden l’ultimatum dei socialisti tedeschi i quali imponevano, per venerdì 8 novembre a mezzogiorno, la abdicazione del Kaiser Guglielmo II. Il Granduca di Baden comunicò al Sovrano, che si trova nel suo Quartier Generale di Spa, che l’esercito non era più sicuro e si andava verso la guerra civile. Fino alla mattina dell’8 novembre, il Sovrano manifestò l’intenzione di ristabilire l’ordine e di domare la Rivoluzione alla testa delle sue truppe.

Ma nella notte dall’8 al 9 tutto precipitò. I consiglieri militari e civili dell’Imperatore, riuniti a Spa insistettero perché il Kaiser abdicasse e partisse per l’Olanda. Il 9 novembre Guglielmo comunicò di abdicare come Imperatore di Germania, non come Re di Prussia e affidò al maresciallo von Hindenburg il Comando dell’Esercito, incaricandolo di trattare l’armistizio. Il giorno stesso l’Imperatore lasciò la Germania per non più tornarvi.

L’8 novembre la direzione del Partito socialdemocratico austriaco si pronunziò pubblicamente per una “Repubblica democratica e socialista dell’Austria tedesca”. A mezzanotte l’Imperatore Carlo I convocò nel suo studio del palazzo di Schönbrunn, i due consiglieri più intimi, il conte Hunyadi e il barone Werkmann, e dichiarò calmo: «Anche l’Austria crollerà sull’esempio della rivoluzione tedesca. Proclameranno la repubblica e non vi sarà più nessuno per difendere la monarchia…Io non voglio abdicare e non voglio fuggire dal Paese…».

Seguirono momenti convulsi, in cui, nell’entourage dell’Imperatore, ognuno aveva proposte e suggerimenti diversi per far fronte alla drammatica situazione. L’ammiraglio Miklós Horthy, che era giunto dall’Adriatico per discutere la consegna della flotta ai croati, si mise sull’attenti dinanzi al sovrano e con la mano destra protesa giurò, senza che nessuno glielo avesse chiesto: «Non mi concederò tregua fintantoché non rimetterò la Maestà vostra sul trono di Vienna e di Budapest».

Tre anni dopo sarebbe stato proprio il generale Horthy, reggente del Regno di Ungheria, a prendere le armi contro il suo sovrano alla periferia di Budapest e a farlo addirittura arrestare e deportare, pur di conservare il potere in Ungheria.

Alle undici di mattina dell’11 novembre, si presentarono a Schönbrunn il presidente del Consiglio Heinrich Lammasch e il ministro degli Interni Edmund von Gayer, i quali portavano con sé il testo dell’abdicazione di Carlo, concordato con gli uomini politici del vecchio e del nuovo regime.

Il documento era stato approvato dal cardinale di Vienna, il principe-arcivescovo Friedrich Gustav Piffl, che esattamente una settimana prima, il 4 novembre aveva celebrato l’onomastico di Carlo con una solenne messa officiata nella cattedrale di Santo Stefano. Fu uno dei suoi sacerdoti Ignaz Seipel a trovare la formula di compromesso per cui il sovrano rinunciava al trono, senza pronunciare la parola “abdicazione”.

Se l’Imperatore non avesse firmato, disse Gayer al sovrano: «quest’oggi pomeriggio stesso vedremo le masse operaie davanti a Schönbrunn…e allora i pochi che si rifiuteranno di abbandonare Vostra Maestà perderanno la vita tentando di resistere e insieme con loro cadranno uccisi anche la Maestà Vostra e la sua augusta famiglia».

I ministri esigevano che la firma fosse apposta immediatamente, senza lasciare neppure qualche ora di riflessione. L’imperatore esitò. Egli era un uomo di grande nobiltà di carattere, ma non aveva l’energia della moglie Zita, che in quel momento fu la sola a protestare, con tutte le sue forze, rivolgendosi con queste parole a Carlo: «Un sovrano non può mai abdicare, può essere deposto e i suoi diritti sovrani possono essere dichiarati decaduti. Abdicare però…mai, mai e poi mai! Preferirei morire qui accanto a te. Perché poi rimarrebbe Otto e se anche ci ammazzassero tutti quanti vi sarebbero altri Asburgo!».

A mezzogiorno dell’11 novembre 1919 il Sovrano firmò l’atto di rinuncia al potere in cui riconosceva anticipatamente «la decisione che l’Austria tedesca prenderà per la sua futura forma costituzionale».

Nel pomeriggio l’Imperatore e la sua famiglia dopo aver pregato nella cappella reale, salutarono gli ultimi dignitari e si diressero verso le automobili che li avrebbero portati nel loro palazzetto di caccia di Eckartsau. «Lungo le arcate – ricorda Zita – schierati in duplice fila c’erano i nostri cadetti delle Accademie Militari, adolescenti fra i sedici e i diciassette anni, con gli occhi lucidi ma ritti sull’attenti e devoti sino all’ultimo all’imperatore, degni in tutto e per tutto del motto che avevano ricevuto in passato da Maria Teresa, Allzeit Getreu (perennemente fedeli)».

Il 12 novembre a Vienna venne proclamata ufficialmente la repubblica. Il giorno prima, in un vagone ferroviario nei boschi vicino a Compiègne, fu firmato l’armistizio tra l’Impero tedesco e le Forze alleate. Questo atto segno la fine militare della prima Guerra mondiale.

Il 4 dicembre 1918 la nave George Washington salpò dal porto di New York per la Francia, recando a bordo il presidente Woodrow Wilson e la delegazione americana alla Conferenza di Pace.  Wilson, violando il diritto internazionale, era intervenuto personalmente sui governi provvisori socialisti di Austria e di Germania, per imporre il cambiamento istituzionale.

Il 14 dicembre il presidente americano incontrò a Parigi il primo ministro francese Georges Clemenceau. I due uomini politici furono i principali artefici della repubblicanizzazione dell’Europa che seguì alla Prima Guerra Mondiale. Clemenceau, mistico del giacobinismo, vedeva nella vittoria il compimento degli ideali della Rivoluzione francese. Wilson voleva trasformare il globo in una confederazione di repubbliche rigorosamente uguali, ricalcata sugli Stati Uniti d’America.

Il principale ostacolo da abbattere era l’Austria-Ungheria, ultimo riflesso della Christianitas medioevale. Charles Seymour, uno dei negoziatori americani del Trattato di Versailles, ricorda: «La Conferenza di pace si trovò posta nella posizione di un autentico liquidatore dello Stato asburgico. (…) In forza del principio di autodeterminazione dei popoli, spettava alle nazioni danubiane di determinare da sole il loro destino».

La Conferenza di pace si aprì a Parigi il 18 gennaio 1919. In quegli stessi giorni la terribile epidemia di influenza detta “spagnola” raggiungeva il suo apice. In Italia avrebbe fatto 600.000 morti, lo stesso numero di vittime dei tre anni di guerra. Anche due dei tre veggenti di Fatima, Giacinta e Francesco, contrassero la malattia nel dicembre 1918. Francesco morì il 4 aprile 1919. Giacinta venne ricoverata all’ospedale di Lisbona, dove morì il 20 febbraio 1920.

Il 22 dicembre papa Benedetto XV manifestava la sua speranza per «le deliberazioni, che non tarderanno ad essere prese dall’Areopago di pace, a cui si volgono ora i sospiri di tutti i cuori».  Il 1919, scriveva L’Illustrazione italiana del 22 dicembre 1918, «sarà l’anno della trasfigurazione del mondo».Le illusioni dei “ruggenti anni Venti”, furono presto spazzate vie da un nuovo uragano di guerra, che aveva le sue premesse proprio nei Trattati di pace conclusi a Parigi nel 1919-1920.

Il secolo che seguì è considerato il più terribile della storia d’Occidente. Ad esso si possono applicare i versi di William B. Yeats: «Things fall apart; the centre cannot hold; Mere anarchy is loosed upon the world» (“tutto crolla; il centro non regge più; sul mondo si è scatenata l’anarchia”).  Il Sacro Romano Impero era stato ufficialmente dissolto da Napoleone nel 1806, ma l’Austria-Ungheria continuò a svolgere fino al 1918 la sua missione, costituendo il fulcro dell’equilibrio e della stabilità dell’Europa.

Poi si aprì il vortice dell’instabilità, che dalla sfera politica oggi è passato a quella religiosa, provocando lo smarrimento di milioni di anime. Ma la Chiesa sopravvive alle tempeste che travolgono gli Imperi e il Bambino Gesù, ogni Santo Natale, ci invita ad abbandonarci con immensa fiducia a Lui, come bambini addormentati nelle braccia materne.

Roberto de Mattei

fonte https://www.corrispondenzaromana.it/1918-2018-tutto-crolla-il-centro-non-regge-piu/

Read More

EMANUELE NOTARBARTOLO: “…un delitto eccellente rimasto impunito”

Posted by on Dic 15, 2018

EMANUELE NOTARBARTOLO: “…un delitto eccellente rimasto impunito”

Quello di Emanuele Notarbartolo è il primo grande delitto nella storia della mafia siciliana e, forse, delle mafie italiane. Un omicidio dalla portata talmente ampia da riuscire a scuotere l’opinione pubblica per diversi anni, addirittura fino all’inizio del Novecento. Peccato che il finale sia stato praticamente lo stesso rispetto ad altri reati che la mafia già aveva compiuto, cioè che gli autori del crimine siano rimasti impuniti.

Chi è Notarbartolo

Il suo nome era Emanuele Notarbartolo ma per via delle sue aristocratiche e raffinate origini, divenne presto marchese di San Giovanni. Discendente dei Duchi di Villarosa e appartenente alla dinastia dei Principi di Sciara, Emanuele nacque a Palermo il 23 febbraio del 1834. Già bambino divenne presto orfano di entrambi i genitori. Dalla tenera infanzia fino ai ventitré anni, Emanuele era rimasto in Sicilia. Desideroso di vivere nuove appassionanti esperienze, nel 1857, lasciò Palermo per trasferirsi a Parigi. Continuando a girovagare per l’Europa, giunse prima a Bruxelles e poi a Londra. Lasciando l’Inghilterra, rientrò in Italia stabilendosi a Firenze. Fu proprio in questo periodo, che conobbe alcuni dei più autorevoli e illustri rappresentanti della futura classe politica italiana e siciliana. Uno di questi era il futuro senatore del Regno D’Italia, Francesco Lanza di Scalea. Maturando le proprie idee politiche, Emanuele si apprestò a far parte del movimento politico della Destra Storica. Animato da un verace patriottismo, si schierò al fianco dei Mille nei panni di giovane garibaldino. Lasciato l’esercito, ritorno in Sicilia e si unì in matrimonio con Marianna Merlo. Correva l’annata del 1865 quando poco più che trentenne, si apprestò a ufficializzare il suo esordio in politica. Restando in perfetta convergenza con gli obiettivi dei moderati di destra, Emanuele prese parte alla giunta presieduta dal sindaco Antonio Starrabba di Rudinì. Quest’ultimo, decise di nominarlo assessore alla polizia urbana del Comune di Palermo. Un paio di anni dopo, nel 1869, fondò e diresse un nuovo quotidiano giornalistico che prese il nome di “Corriere Siciliano”. Quella moderna esperienza fu alquanto breve per Emanuele. Infatti, a seguito di un importante incarico, Emanuele lasciò subito la testata. Nello specifico, era stato invitato a entrare nel consiglio di amministrazione dell’ospedale cittadino. Cosciente dell’inadeguata e grave condizione dell’ospedale, il marchese accettò immediatamente quell’invito. Dal 1870 fino al 1873, fu designato per dirigere il medesimo Ospedale. In soli tre anni, l’Ospedale Civico era ritornato del tutto efficiente e funzionale. Le molteplici inadempienze che gravavano sul sistema sanitario, furono poco a poco annientate dall’efficace e integerrimo intervento del marchese. La sua gestione ridiede respiro alle casse sanitarie rendendo pulite e accoglienti tutte le strutture dell’ospedale. In aggiunta, fu anche raddoppiata la quantità dei posti letto. Quella sua magnifica condotta amministrativa gli valse la fama di uomo affidabile e onesto. Lasciata la dirigenza dell’Ospedale Civico, Emanuele ritornò al Comune nella rappresentativa veste di primo cittadino. Eletto il 28 settembre del 1873, rimase in carica fino al 30 settembre del 1876. Svolgendo fino in fondo il proprio dovere, il marchese rivalutò con incisività l’intero patrimonio urbanistico di Palermo. Nel corso di tutto il suo mandato, contribuì ad attuare una serie di opere nel solo e unico interesse dei suoi cittadini. Opere significative come il completamento del mercato degli Aragonesi, la copertura del teatro Politeama, l’ammodernamento della rete viaria, i vari interventi per migliorare le condotte idriche, il collegamento della stazione centrale con il porto, i lavori di costruzione del cimitero dei Rotoli e la posa della prima pietra per avviare la realizzazione del Teatro Massimo. Come se non bastasse, s’impegnò fortemente nel fronteggiare la diffusa e grave corruzione nelle dogane. Nella sua agenda comunale non c’era posto per le consolidate clientele della cattiva politica locale. Sotto la sua vigile e rigorosa guida, il sistema di assegnazione degli appalti fu sottoposto a un vero e proprio processo di normalità amministrativa. Anziché riservarli ai soliti loschi personaggi, Emanuele decise di assegnarli soltanto a ditte in odor di legalità. Questa perseveranza nel diffidare da ogni forma d’ingiustizia, a più di qualcuno non piaceva. Ovvero, quella deplorevole zona  grigia che si aggirava tra gli insalubri e avidi ambienti della malavita locale. In conseguenza di ciò, la coscienziosa attività di Emanuele, fu ostacolata da un delegittimante progetto d’isolamento. Dal 1876 fino al 1890, ricoprì l’impegnativo ruolo di direttore generale del Banco di Sicilia. Appena insediato, la situazione del Banco era alquanto tragica.

L’istituto di credito era quasi ad un passo dal fallimento. Dopo l’avvento dell’Unità d’Italia, il Banco di Sicilia era stato oppresso da una miriade di operazioni speculative che avevano prosciugato gran parte delle risorse finanziarie di cui beneficiava l’istituto. I provvedimenti messi in atto dal marchese si dimostrarono tutt’altro che inefficaci. Investendo tutte le proprie astute competenze economiche, Emanuele riuscì a scongiurare la preannunciata possibilità di un definitivo decadimento dell’economia siciliana. Nel giro di pochi anni, l’istituto era stato risanato con una radicale riorganizzazione del sistema bancario. Impedendo l’affiorare di nuove speculazioni, Emanuele ideò una serie d’innovativi e adeguati provvedimenti come l’istituzione dei concorsi fra le società operaie di Mutuo Soccorso, gli aiuti rivolti alla cassa dei piccoli prestiti per la categoria della classe operaia, la creazione della cassa di assicurazione contro gli infortuni degli operai sul lavoro, la modifica dello statuto del Banco. Modificando le norme previste dall’ordinamento dello statuto, egli smantellò una consolidata e immorale tendenza finanziaria. Purtroppo, quelle innovative e costruttive scelte, furono boicottate da un consiglio di amministrazione che non aveva di certo a cuore il futuro della Sicilia. La maggioranza di quel consiglio era prevalentemente formata da politici. Tra questi era presente anche l’onorevole Raffaele Palizzolo. Raffaele Palizzolo era un deputato del Regno d’Italia abbastanza noto per le sue poco raccomandabili frequentazioni.

Conosciuto anche con il soprannome di “U Cignu” il cigno, Palizzolo era divenuto uno dei principali referenti politici di Cosa Nostra. Nel maggio del 1882, Emanuele fu sequestrato da un gruppo di uomini. Lo liberarono dopo il pagamento di un consistente riscatto. Dietro quel sequestro si nascondeva un chiaro avvertimento intimidatorio. Un segnale che con molta probabilità, era stato attuato dal Palizzolo e dai suoi complici. Nonostante tutto, Emanuele non abbassò la testa. Senza alcun timore, nel 1889, redisse un dettagliato fascicolo di denuncia. Fiducioso che fosse fatta giustizia, lo inviò all’allora ministro dell’agricoltura Luigi Miceli. All’interno di tale fascicolo, era presente il nome dell’onorevole Palazzolo e di altre maestranze della politica siciliana. Onorevoli senza onore che si erano impropriamente arricchiti con i soldi di migliaia e migliaia di risparmiatori. In particolare, Emanuele rivelò dei rapporti che sussistevano tra Palizzolo e il capomafia di Caccamo.

La morte

Emanuele Notarbartolo muore il 1 febbraio del 1993. L’uomo, dalla stazione di Sciara, salì sul treno che avrebbe dovuto condurlo a Palermo. Notarbartolo, dopo il sequestro di cui era stato vittima, aveva cominciato a preoccuparsi della sia sicurezza e si era munito di armi da poter utilizzare in caso di emergenza. Mai si sarebbe aspettato di incontrare problemi sui vagoni di un treno. A Termini Imerese salirono due uomini. Non appena il treni raggiunse una galleria, i due ne approfittarono per mettere a segno il delitto, utilizzando come armi un pugnale ed un coltello. I due uomini lo trafissero con 27 pugnalate…  Dopo esserci accertati della morte della vittima, i due assassini cercarono di fare razzia dei documenti e degli oggetti di Notarbartolo. Lanciarono il cadavere dal treno con la speranza che finisse in un torrente e che, poi, raggiungesse il mare. Il corpo, però, rimase vicino ai binari e, dunque, non fu difficile ritrovarlo. La mafia aveva compiuto la sua prima vile e brutale vendetta.

Il processo

Il processo cominciò a Milano addirittura sul finire del secolo, sebbene l’omicidio fosse stato compiuto nel 1893. Era stato scoperto che nel periodo precedente l’omicidio il Banco di Sicilia era finito nell’occhio del ciclone a causa di una condotta scorretta e per diverse violazioni delle norme bancarie. Quando il processo prese il via, nel novembre del 1899, gli unici imputati erano due ferrovieri. La Polizia era convinta del fatto che i due si fossero fatti corrompere e che avessero offerto le necessarie coperture per consentire agli assassini di ammazzare Emanuele Notarbartolo.

La deposizione di Leopoldo Notarbartolo

Cinque giorni dopo l’inizio del processo fu sentito come testimone Leopoldo Notarbartolo, il figlio dell’ex sindaco. Fu lui a muovere un’accusa gravissima destinata a cambiare le sorti del processo. Disse, infatti, che il mandante dell’omicidio era don Raffaele Palizzolo, deputato ed imprenditore ritenuto molto vicino alla mafia. Leopoldo ripercorse le varie tappe degli incontri tra suo padre e Palizzolo. Lasciò intendere che ci fosse un’ampia responsabilità dell’uomo anche per il sequestro del 1882. Palizzolo era stato membro del Cda del Banco di Sicilia e contrastava apertamente con le idee di Notarbartolo il quale non era disposto a scendere a compromessi e voleva evitare che la Banca venisse utilizzata per elargire favori a chiunque ne avesse bisogno, anche e soprattutto a persone poco raccomandabili. Notarbartolo fu, però, messo con le spalle al muro e costretto a dimettersi.

Gli arresti di Palizzolo e Fontana

Palizzolo, dopo le accuse di Leopoldo Notarbartolo, si vide crollare il mondo addosso. Essendo deputato poteva contare sull’immunità parlamentare ma la Camera votò a favore in merito alla richiesta di autorizzazione a procedere. Don Raffaele Palizzolo finì in carcere e, dopo poco, lo stesso destino toccò all’uomo accusato di essere l’esecutore materiale dell’omicidio: Giuseppe Fontana. Quest’ultimo fu incastrato dalle dichiarazioni del vicecapostazione di Termini Imerese ma in un primo momento preferì darsi alla fuga. Il questore Sangiorgi lo convinse a consegnarsi. Agli inizi del Novecento i due responsabili del delitto di Emanuele Notarbartolo erano in carcere. Nel 1902 il processo riprese e fu spostato a Bologna. Per Fontana e Palizzolo arrivò una condanna a trent’anni di carcere.

La sentenza della Cassazione e il nuovo processo

La decisione della Corte d’Assise di Bologna fu annullata dalla Cassazione a causa di un vizio di forma. Nel 1903, dieci anni dopo la morte di Emanuele Notarbartolo, il processo ripartì da Firenze. L’attenzione dell’opinione pubblica sull’intera vicenda era nettamente calata. L’esistenza di un’organizzazione criminale chiamata mafia fu minimizzata ancora una volta. Le difese, stavolta, ebbero la meglio dell’accusa e nel 1904 Palizzolo e Fontana furono scarcerati per insufficienza di prove. Insieme a Fontana l’altro autore del delitto era stato un certo Matteo Filippello ma l’uomo fu trovato morto, probabilmente suicida, prima di essere ascoltato in tribunale.

Nessun colpevole

Dal punto di vista giudiziario, dunque, la vicenda legata all’assassinio di Emanuele Notarbartolo si concluse in modo deludente. Palizzolo perse il suo potere politico a livello nazionale ma non a livello locale. A Leopoldo Notarbartolo non rimase che onorare la memoria del padre raccontando la sua vita. Il libro verrà pubblicato due anni dopo il decesso di Leopoldo, avvenuto nel 1947.

Agli inizi del Novecento,con l’avvicinarsi della Prima Guerra Mondiale, la mafia era stata tutt’altroche sconfitta e gli eventi politici di quegli anni non fecero altre chedistogliere l’attenzione su un’organizzazione criminale che continuava a prosperare nel silenzio.

fonte 

http://siciliastoriaemito.altervista.org/emanuele-notarbartolo-un-delitto-eccellente-rimasto-impunito/

Read More