Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

“Voci, Suoni e Canti di Briganti in Terra di Lavoro”

Posted by on Mar 26, 2019

“Voci, Suoni e Canti di Briganti in Terra di Lavoro”

     Il Circolo di San Michele Arcangelo in collaborazione con l’ ”Ass. Id. Alta Terra di Lavoro” e l’associazione culturale “L’Albero di Holda”  organizza presso la sede del Circolo sito a Gallo, frazione di Roccamonfina, il giorno 30 marzo 2019 alle ore 17:30, la rappresentazione teatrale, un inedito e per la prima volta in provincia di Caserta , “Voci, Suoni e Canti di Briganti in Terra di Lavoro”.

     Con l’avvento dell’illuminismo e del razionalismo l’uomo cerca di spiegare e interpretare la realtà e se stesso attraverso la ragione e il pensiero con il solo risultato di aver portato la mente umana in un labirinto senza via d’uscita e con il decadimento dell’ uomo inversamente proporzionale allo progresso tecnologico e scientifico, i protagonisti dello spettacolo hanno l’ardire e la presunzione di cavalcare il tentativo di Ovidio nella “Metamorfosi” di indagare la realtà e di spiegarla attraverso il mito.

     La nostra terra, la Terra di Lavoro che è la provincia più antica d’Italia e forse d’Europa, che nel Regno di Napoli ha raggiunto il suo massimo splendore, dove nasce prima il Mito e poi la storia, che durante la nascita dell’Unità d’Italia e dell’invasione dell’esercito giacobino Francese nel 1799 ha visto come protagonisti personaggi che la vulgata dominante ha etichettato, in senso dispregiativo, come Briganti ma che in realtà sono stati soltanto degli insorgenti che hanno difeso le proprie radici, la propria identità e la propria storia fino ad arrivare all’estreme conseguenze.

     Verranno narrate le gesta di Fra’ Diavolo, Berardo Tancredi, Cosimo Giordano, Rosa Antonucci, Michelina Di Cesare e Domenico Fuoco che a differenza dei personaggi Omerici non sono di fantasia ma sono realmente esistiti, divenuti eroi per come hanno vissuto e dei Miti per come sono morti. L’unico personaggio di fantasia è “Marietta” che è comunque esistita in quegli anni tragici nelle donne del circondario di Sessa e delle terre molisane che cercavano di salvarsi dalla violenza degli “scauzacani” piemontesi.

     Tra i protagonisti dello spettacolo ci sarà il gruppo musicale popolare “La Controra”  di Loredana Terrezza e Silvano Boschin che con un repertorio di più di 500 brani di musica tradizionale calcano le scene di tutta Italia da più di 20 anni.

     La voce narrante maschile sarà quella di Raimondo Rotondi che reciterà testi scritti dall’ Ass. Id. Alta Terra di Lavoro e da lui liberamente tradotti in lingua Laborina, lingua che si parla in Terra di Lavoro. Si ricorda che la Terra di Lavoro iniziava a Sora e terminava a Nola.

     La voce narrante femminile sarà quella di Loredana Terrezza che reciterà anch’ella in lingua Laborina testi scritti dall’ Ass. Id. Alta Terra di Lavoro e sempre liberamente tradotti da Raimondo Rotondi.

     Ci saranno come ospiti d’onore alla recitazione, Elena Sorgente da Cellole e Cinzia Zomparelli da Cassino e come musicista Francesco Smirne 

Read More

“IL 1799 E LA REPUBBLICA NAPOLETANA TRAETTO E SCAVOLI:STRAGI E DEVASTAZIONE”

Posted by on Mar 19, 2019

“IL 1799 E LA REPUBBLICA NAPOLETANA TRAETTO E SCAVOLI:STRAGI E DEVASTAZIONE”

L’ Ass. Id. Alta Terra di Lavoro sabato 23 marzo alle ore 17;00 presso il Castello Ducale di Minturno organizza in collaborazione con il “Comitato Luigi Giura” e con il Comune di Minturno un importante convegno  “IL 1799 E LA REPUBBLICA NAPOLETANA TRAETTO E SCAVOLI:STRAGI E DEVASTAZIONE”

    Interverranno Eduardo Esposito del Comitato “Luigi Giura”, Claudio Saltarelli Pres. Ass. Id. Alta Terra di Lavoro, Fernando Riccardi storico, saggista, membro della Società di Storia Patria di Napoli e Terra di Lavoro e Pres. dell’Ist. Di Ricerca delle Due Sicilie.

     Per i saluti istituzionali interverrà il Sindaco di Minturno Gerardo Stefanelli

     Nel convegno verrà presentato un importante testo che l’ Ass. Id. Alta di Lavoro ha di recente ristampato, in copia anastatica, l’opera scritta da Domenico Petromasi risalente al 1801, “Storia della spedizione del Cardinale Ruffo

     E’ la prima volta che nel nostro paese si compie un’impresa del genere: c’era già stata, infatti, in passato, qualche altra edizione della stessa opera, ma mai una ristampa anastatica, riproducente il testo nella sua versione originale.

     Tale libro, che contiene un corposo ed assai circostanziato saggio introduttivo a firma del suddetto storico Fernando Riccardi, ricostruisce, passo dopo passo e in maniera dettagliata, la straordinaria impresa che nel 1799 portò il cardinale calabrese Fabrizio Ruffo a riconquistare il Regno di Napoli, invaso dai giacobini, con la sua “armata reale e cristiana”, composta esclusivamente o quasi di volontari raccolti strada facendo sotto l’emblema della Santa Croce.

     Una vicenda che la vulgata storiografica dominante non ha trattato, nel corso degli anni, con la dovuta obiettività, gettando sulla stessa una densa patina di oblio.

     La preziosa cronaca di Petromasi, invece, restituisce la giusta proporzione a quegli accadimenti, che molto interessarono anche il territorio del Cilento e la stessa Calabria senza mai sconfinare nella partigianeria oppure distorcere gli eventi.

     Considerata l’importanza dell’opera, che costituisce un “unicum” a livello nazionale, considerato che “Michele Arcangelo Pezza alias Fra’ Diavolo”  e il Popolo di Traetto sono stati principali protagonisti di quel tumultuoso semestre e considerato che l’allora Traetto, oggi Minturno, anche in questa vicenda ha scritto una importante pagina di storia universale è importante che i Minturnesi si accostino ad una vicenda storica, quella del 1799, che ancora oggi resta assai poco conosciuta.

    Raimondo Rotondi reciterà in lingua Laborina monologhi teatrali

Claudio Saltarelli

Associazione Identitaria “Alta Terra di Lavoro

Read More

IL PRINCIPE DI CANOSA UN ESEMPIO DI ONESTÀ PER LA DILAGANTE CORRUZIONE NELL’ATTUALE VITA PUBBLICA: ERA RICCO MA È MORTO POVERO.

Posted by on Feb 11, 2019

IL PRINCIPE DI CANOSA UN ESEMPIO DI ONESTÀ PER LA DILAGANTE CORRUZIONE NELL’ATTUALE VITA PUBBLICA: ERA RICCO MA È MORTO POVERO.

Sommario: 1. – La vita e l’attività pubblicistica. 2. – Condannato dai rivoluzionari repubblicani e dal tribunale del Re. 3. – La “leggenda nera”. 4. – La complessa personalità costellata da eminenti doti. 5. – Riflessioni conclusive.

1. – La vita e l’attività pubblicistica. – Antonio Luigi Capece Minutolo, Principe di Canosa, nasce a Napoli il 5 marzo 1768(1), terzogenito dei coniugi don Fabrizio e donna Rosalia de Sangro dei Principi di San Severo (è, perciò, nipote ex matre di Raimondo, grande genio del settecento); dalla sua fede di battesimo conservata nell’Archivio di Stato di Napoli apprendiamo anche il nome della “mammana” (ostetrica): Antonia Ferrara.

Appartiene ad una antica famiglia con signoria sul feudo di Canosa ed era ascritta al primo dei Sedili di Napoli, quello di Capuana.

Nel Duomo di Napoli fa bella mostra la cappella dei Capece Minutolo, ricordata anche da Boccaccio nella novella di Andreuccio da Perugia, dove i ritratti di tredici viceré, due cardinali e una schiera di guerrieri denotano la nobiltà e onorabilità della stirpe.

Compie i suoi studi nel collegio Nazzareno di Roma, sotto la guida dei Gesuiti; successivamente viene avviato alla professione forense, dove si distingue nella trattazione delle cause penali. 2. – Condannato dai rivoluzionari repubblicani e dal tribunale del Re. – Il Principe di Canosa ha avuto il triste privilegio di aver subito la condanna a morte dai repubblicani rivoluzionari, perché incolpato di essere monarchico, ed

ugualmente una sonora condanna dal Tribunale del Re, allorché venne restaurata la monarchia, perché ritenuto colpevole di essersi posto contro l’autorità regale, rappresentata dal suo Vicario.

All’inizio del 1799, invero, nelle torbide giornate della repubblica napoletana, i giacobini lo condannarono a morte per aver organizzato la plebe ed armato i lazzari(2) che, in nome del Re, si opponevano allo straniero invasore ed ai cittadini suoi fiancheggiatori. “I lazzaroni, questi uomini meravigliosi scampati dall’esercito che era fuggito avanti a noi, chiusi in Napoli, sono degli eroi. Si combatte in tutte le strade, il territorio è disputato palmo a palmo, i lazzaroni sono comandati da capi intrepidi, il forte di S. Elmo li fulmina, la terribile baionetta li atterra, essi ripiegano, in ordine, tornando alla carica”(3).

Fortunosamente scampato alla pena capitale, ebbe a subire dolorose traversie con il ritorno di re Ferdinando IV a Napoli e la restaurazione della monarchia: uscito dal carcere repubblicano l’11 luglio 1799, a seguito della capitolazione dei rivoluzionari asserragliati nel castello di Sant’Elmo, il 1° agosto successivo venne rinchiuso nelle regie carceri.

A suo carico pesava, infatti, la contestazione del potere del “Vicario” (Francesco Pignatelli di Strongoli), lasciato come alter ego dal re quando con la corte si era trasferito in Sicilia. Si sosteneva, in proposito, che, secondo antica tradizione, in assenza del sovrano, la potestà di governare la Nazione spettasse ai “Cavalieri della Città” ed ai componenti della “Deputazione straordinaria per il buon governo e per l’interna tranquillità”, che rappresentavano la città di Napoli(4); il Vicario, al più, avrebbe dovuto agire d’intesa con i “sedili”.

In questa situazione erano inevitabili dissidi ed incertezze nel governo della città, per cui lo stesso Vicario decise di rifugiarsi in Sicilia. Peraltro, una volta restaurata la monarchia e ritornato il Re nei suoi poteri, il Canosa venne nuovamente portato in carcere e sottoposto a giudizio per il suo comportamento nei riguardi del Vicario.

Il Presidente del Tribunale della Giunta di Stato, Vincenzo Speciale, che il Canosa definisce “pazzamente feroce”, chiede per lui la somma condanna, ma il Re, sollecitato dalle famiglie dei Cavalieri della Città, decise di affidare il giudizio finale anche alla Giunta del buon Governo, presieduta dal Principe di Cassaro, persona molto equilibrata. Lo stesso Canosa così racconta la vicenda: “i membri della Giunta di Stato furono scissi tra loro nella decisione della causa. La scissura toccò tanto gli estremi, che mentre uno votò per la morte, votarono due affinché venisse fatta relazione al Monarca intorno ai meriti che contratto avea colla buona causa il supposto reo. Tra le tante sentenze strampalate si cavò quasi come media proporzionale, tra chiassi ripetuti e cachinni la condanna di cinque anni di castello”. Precisamente, alla più mite condanna si giunse per l’assoluzione dalla reità di Stato e cioè dall’accusa di aver promosso l’instaurazione di una “repubblica aristocratica”, e per il riconoscimento solo dell’insubordinazione al Vicario(5).

Tuttavia, nel 1801, a seguito del Trattato di Firenze con cui Napoleone aveva imposto una generale amnistia per i giacobini condannati, anche il Canosa, che certamente non rientrava tra costoro, riacquista la libertà.

I repubblicani rivoluzionari, dunque, lo avevano condannato perché “monarchico” ed il Tribunale del re lo condannava perché incolpato di aver voluto instaurare una sorta di repubblica aristocratica: “monarchia” e “aristocrazia”, come rileva Benedetto Croce(6), sono proprio “i due elementi che egli bensì componeva armonicamente nella sua antiquata personalità, ma che la storia aveva scissi e messi in contrasto”.

3. – La “leggenda nera”. – Il Principe di Canosa è perseguitato da una leggenda nera che l’ha dipinto a fosche tinte in vita e continua a perseguitarlo anche dopo la morte; si è giunti ad incolparlo della strage di centinaia di migliaia di “giacobini, murattisti e carbonari”, fino ad attribuire alla sua nefasta influenza presso la Corte di Modena, il supplizio di Ciro Menotti. 4

Vincenzo Gioberti lo ritiene “uomo d’infame memoria, che, dopo commesso in Napoli ogni sorta di ribellione, trovò asilo tra le braccia dei gesuiti alle sponde del Crostole”(7).

Niccolò Tommaseo lo definisce “villano di Canosa, cacciato da Napoli e dalla Toscana come uomo stolidamente torbido e vituperevolmente irrequieto”(8); “prepotente, fanatico e cieco reazionario, nemico di ognuno che aspirasse ad ordini più civili di governo”, lo considera Matteo Mazziotti(9).

Giuseppe Mazzini – dal sicuro dei suoi esili, nota S. Vitale(10) – lo raffigura “colle baionette d’intorno e il carnefice a fianco”(11).

Più astioso è il giudizio di Pietro Colletta, che, ricordando il carcere subito dopo i moti del 1821, lo taccia di essere “aristocratico per dottrina, plebeo per genio”, “diffamato per opere pessime”, “orditore sagace… di trame, ribellioni, delitti”, “cagione di mille morti, o da lui date o dall’avversa parte, per vendetta e condanne”, “doppiamente adultero, sempre ubriaco di vino e di furore”, autore di “opere inique sotto le immagini del Salvatore e dei Santi”, “tenuto malvagio nel mondo”(12).

Sono affermazioni senza alcun fondamento, di cui specialmente quelle del Colletta furono dal Canosa puntigliosamente confutate in vita nell’Epistola ovvero riflessioni critiche sulla moderna storia del reame di Napoli del generale Pietro Colletta, pubblicata a Capolago nel 1834 e recentemente ripubblicata dal Vitale in appendice al suo volume “Il Principe di Canosa”.

A sua volta, il Blanch, dopo un generico apprezzamento dell’umanità del Canosa, bolla le sue vedute politiche come “una idea esagerata che ha la forza di rendere nulle le migliori intenzioni e le virtù stesse”(13).

Più benevolo è il giudizio di B. Croce(14) che di fronte alle voci calunniose della polizia del Saliceti e alle tenaci difese dello stesso Canosa, dichiara di propendere per queste, osservando che “l’uomo era bensì un don Chisciotte(15) della reazione, ma non punto sanguinario, né malvagio e nemmeno ingeneroso”.

Pur dichiarando di non volersi discostare dalle considerazioni del Croce, il Maturi(16) ridimensiona alquanto il sostanzialmente positivo giudizio del Croce osservando che “Accanto al generoso cavaliere, v’è nel Canosa il settario capace per odio di parte delle più basse delazioni e delle più odiose quali l’inasprimento delle pene in materia di opinioni, gli atti più odiosi quali i processi napoletani del 1799 e i processi piemontesi del 1833”.

Il conte Clemente Solaro della Margarita, che pure come il Canosa è fedele al trono e devoto all’altare, non è tenero nei suoi confronti: gli riconosce che è “uomo onesto, devoto ai buoni principi”, ma aggiunge che è “incapace di maneggiare affari di Stato, specialmente nell’epoca difficile di una restaurazione. Più poteva in lui la passione che il senno; non aveva idee fisse; non perseveranza di condotta; voleva il bene non sapeva operarlo; fu tremendo coi carbonari della plebe, i più accorti delle classi sociali riuscirono a schermirsene”.

4. – La complessa personalità costellata da eminenti doti. – I negativi giudizi espressi sul Canosa sono unilaterali e mostrano di non considerare le qualità che il personaggio possedeva in grande misura, come il sommo disinteresse personale, la generosità d’animo non venata da rancori, la costanza dei sentimenti, lo spirito di indipendenza alieno da cortigianeria.

I suoi sentimenti non sono stati mai contaminati da venature di interesse economico: “Io, afferma il Canosa, ero il capo di una patrizia famiglia commoda bastantemente nel mio paese.

Abbandonai tutto sul fondato timore di perder tutto, ed in effetti tutto perdei fuor che il mio onore. Nel venire non ebbi presente giammai altro che il mio dovere, l’odio verso la rivoluzione”(17).

Il tornaconto personale non ha mai ispirato o condizionato la sua attività, per difendere i suoi ideali sacrificò la famiglia (giovane moglie, teneri figli, vecchi genitori), gli studi, la tranquillità ed i suoi averi, tra cui la libreria che aveva “carissima”(18). 6

E’ anche il caso di ricordare che, quando si avvicina il pericolo dell’invasione straniera, il Canosa si arruola volontario nell’esercito regio e recluta, a proprie spese, una cinquantina di uomini a difesa di Napoli e della monarchia.

Il disinteresse economico ha, perciò, costituito la nota dominante della sua attività, come viene dimostrato dal fatto che è morto povero; in un mondo in cui l’utile personale costituisce la direttiva principale per ogni azione, questa sola connotazione contribuisce ad elevare la figura del Canosa ed a farlo assurgere a modello da imitare, anziché a farlo sprofondare tra i soggetti da scansare.

Canosa era senza dubbio generoso, così come può aspettarsi da una persona, come lui, di alto lignaggio; sono significativi, in proposito, alcuni episodi, forse di no grande rilievo, che però aiutano a comprendere meglio la sua personalità.

Così, nel soggiorno in toscano (1816), incontrato un vecchio compagno d’armi che si trovava in difficoltà economiche, gli concede il suo aiuto versandogli mensilmente la somma di cento lire. Si tratta di Giuseppe Torelli che non era propriamente un amico del Canosa perché a Ponza (1807), dove era stato costituito un “punto d’appoggio”, una specie di “resistenza”, per la preparazione di un movimento anti francese a Napoli, aveva cercato di metterlo in cattiva luce con la stessa Regina; in seguito, scomparsa la Regina, il Torelli aveva chiesto inutilmente aiuto al Ministro Medici che lo scacciò in malo modo. In Toscana, dunque, avvicina il Principe che, ricordando che era stato “nemico della rivoluzione, e fedele alla grande Maria Carolina… due attributi che per me canonizzano il demonio”, dimentica precedenti contrasti e gli concede concreto sostegno(19).

Meritevole di essere segnalato è anche il comportamento tenuto nei confronti del generale A. Bergani, che aveva aderito al regime costituzionale ed era rimasto fedele fino all’ultimo a Gioacchino Murat: mosso a compassione dalla supplica della moglie del generale, lo giustificò davanti al Re, facendo richiamo all’osservanza dello spirito militare e alle materiali necessità di sopravvivenza, e lo fece rimettere in libertà(20). 7

In precedenza aveva mostrato la sua magnanimità graziando alcuni sicari inviati a Ponza per la sua eliminazione dal ministro di polizia del napoleonide Giuseppe Bonaparte.

Un altro elemento costante della sua attività è stata l’avversione senza indulgenza ai moti rivoluzionari che cozzavano profondamente con la sua profonda convinzione di legittimista. Contro lo spirito rivoluzionario sostiene che la lotta non può essere affidata ai poteri ordinari e molto meno al potere costituzionale: “il solo che può vincerlo è un dispotismo vigoroso ed estremamente attivo”(21).

Con apprensione rileva, quindi, al ritorno di Ferdinando IV sul trono di Napoli, che i murattiani continuano a mantenere alte cariche nell’amministrazione statale e nell’esercito, i beni confiscati al clero e alla nobiltà non vengono restituiti, la fedeltà dei sudditi non viene in alcun modo ricompensata.

Teme, perciò, che la politica, seguita dai ministri Medici e Tommasi, finisca per isolare il Re che si troverà senza la difesa dei nobili, i cui poteri sono stati annullati, e senza l’ausilio del clero la cui autorità religiosa viene scossa da una diffusa miscredenza.

In questa situazione, osserva il Canosa, le forze rivoluzionarie si faranno vive e finiranno con il prevalere.

Le pessimistiche considerazioni del Canosa vennero esposte nel lavoro “I Piffari di montagna”, pubblicato nel maggio del 1820 ed assunsero subito il significato di una negativa profezia, in quanto, nel luglio successivo, scoppiano i moti rivoluzionari che costringeranno il Re a cedere il potere, salvo poi l’intervento restauratore delle truppe austriache.

Ricordando quegli avvenimenti qualche tempo dopo, il Cav. Luigi Medici, principe di Ottaviano, mestamente osservava che “Quando non si possa (rimettersi la feudalità), come veramente ben che non si possa, qual altro principio vi si surrogherà? Qui Canosa vuole dispotismo puro, i liberali costituzione e rappresentanza. Gli uni e gli altri dicon male: ma sarebbe lunga diceria e non ho tempo. Dico di volo che nel quinquennio [1815-1820] credei di sciogliere il 8

problema; ma, disgraziatamente, due tenenti [Silvati e Morelli che insorsero a Nola, chiedendo la costituzione] mi provarono che ero un coglione, e tutto fu rovesciato. Ond’è che non ci penso più”(22).

Qui, dunque, il Canosa ha avuto ragione; lo ammette anche Croce nel suo interessante saggio sul Principe di Canosa(23).

Senza alcun tentennamento od ombra di dubbio, il Canosa, era convinto monarchico; del resto, in quanto nobile, riteneva fermamente che “ove non vi è Monarchia, non vi è nobiltà”. Dei nobili, però, ricordava le tradizioni di fedeltà e di eroismo a difesa del Re e si rammaricava che, all’epoca, essi si fossero ridotti da aristocratici feudali in accidiosi cortigiani, rinunciando alla propria funzione di comando e di giustizia(24).

Il Canosa, però, non ha assunto mai atteggiamenti di cortigianeria e quando si è presentata l’occasione, senza venir meno all’ossequio dovuto alla maestà del capo dello Stato, ha palesato la difformità delle sue opinioni, mostrando l’indipendenza del suo spirito e nello stesso tempo la rettitudine del suo comportamento.

E’ sintomatico l’episodio del comando impartitogli dalla regina Maria Carolina, con la quale peraltro esisteva una grande comunanza di vedute, e che il Canosa dichiarò di non poter eseguire, perché era contrario alle leggi.

La Regina gli osservò: “Ma le leggi non le facciamo noi? Ebbene noi la sospenderemo o revocheremo”; il Canosa, tuttavia, mantenne il suo rifiuto, dichiarando: “Signora giustissima… non tutte le leggi sono fatte dal Re. Ce ne sono talune che sono leggi di cui la sorgente si trova naturale, nella legge emanata da Dio, che è il Re dei Re. La legge alla quale si oppone il comando, per equivoco, datomi da Vostra Maestà, è appunto una legge universale, una legge di natura”.

L’episodio merita particolare attenzione. Il Canosa, monarchico perinde ac cadaver, non esegue l’ordine regale perentoriamente impartitogli, ma la Regina, che pur sovente ricorda di essere “figlia di Maria Teresa” e perciò abituata a farsi ubbidire senza discussioni, non dubitava della realtà del Principe ed ha accettato le sue spiegazioni. Personaggi di diversa levatura, in simili frangenti si sarebbero

comportati in altro modo e sarebbero stati lieti di appiattirsi sui superiori regii voleri. Rifulge, quindi, nel Canosa la profonda conoscenza del diritto, acquisita in gioventù con l’esercizio della professione forense, e la spiccata accortezza nell’assolvere, al di là di ogni condizionamento, il suo ruolo di consigliere, additando la via più corretta per l’espletamento dell’attività di governo.

Strenuo difensore dei diritti della nobiltà, si oppose alla richiesta, loro rivolta, dall’avvocato fiscale Nicola Vivenzio di prestare il servizio militare in tempo di guerra.

In proposito, rifacendosi al giasnaturalismo, sostenne con fermezza che lo Stato, alla stessa guisa dei privati, deve rispettare i contratti. Orbene, gli antichi feudi concessi o donati dal Re, comportavano l’obbligo del servizio militare; ma l’obbligo venne abolito da Alfonso I d’Aragona e da Ferdinando il Cattolico e convertito in donativi.

Per quanto concerne i feudi moderni, osserva che venivano acquisiti a condizioni venali, ma che tra queste non era contemplato l’obbligo del servizio militare.

Per conseguenza, il Re non poteva pretendere dai nobili il servizio militare perché non era compreso nel contratto; ma, sostiene il Canosa, quando la monarchia si trova in pericolo, i nobili devono accorrere in suo aiuto spontaneamente, fornendo denaro ed uomini contro le avverse minacce.

Coerente con le sue opinioni, quando il Re con la corte si ritira in Sicilia e sorge la necessità di rinforzare l’esercito regio con altre truppe, il Canosa, come abbiamo accennato sopra, si reca nei casali vicini a Napoli, solleva gli animi contro i francesi e raduna, a proprie spese, circa cinquanta reclute.

Ma non “s’indusse a chiedere rimunerazione alcuna dalla generosità del Sovrano, trovandosi molto contento d’aver servito S. M. (D. G.)”(25).

6. – Riflessioni conclusive. – Anche oggi, pur dopo le importanti ricerche di W. Maturi e di S. Vitale e gli interessanti studi di B. Croce che hanno esaminato più estesamente la vita e le opere del Canosa, permane una generale avversione nei 10

suoi confronti, avversione che richiama singoli e certamente secolari episodi per farne discendere giudizi assolutamente negativi e perentori.

In effetti, il Canosa, quale arguto polemista, nel suo discorrere era solito avvalersi di paradossi e di enfatizzazione per colorire meglio le sue argomentazioni e sminuire quelle dei suoi oppositori.

Chi, come il conte Monaldo Leopardi, lo aveva avuto vicino per affinità di idee e per familiarità di rapporti e, quindi, si trovava in posizione privilegiata per valutare i suoi intimi pensieri ed i suoi concreti atteggiamenti, aveva chiaramente affermato che “Egli è l’Argante del Re, e bisognerebbe avere l’animo di Giuda per negargli il diritto all’omaggio e alla riconoscenza di quanti combattono per la difesa della legittimità”; e più oltre sottolineava che “In sostanza, se Voltaire fu il Patriarca dell’empietà, La Fajette è stato il Patriarca della bugiarda libertà, è Canosa incontra stabilmente il Patriarca del realismo e della legittimità”(26).

Alla morte del Canosa, è ancora il Leopardi che unicamente ne tesse l’elogio funebre, con appropriate espressioni che lungi dal diffondersi in ipocriti elogi, come si è soliti in simili occasioni, suonano a monito degli indolenti: “… una vergogna dell’Italia il non aver alzato una voce d’encomio”; ed a coloro che non volessero intendere ricorda apparentemente enfatiche ma rispondenti pienamente alla realtà che “Canosa era un gran dotto, un gran politico, un vero galantuomo e un vero cristiano”(27).

Domenico LA MEDICA

(1) non il 6 marzo, come afferma N. Del Corno, in Gli “scritti sani”, Dottrina e propaganda della reazione italiana dalla Restaurazione all’Unità, Milano, Franco Angeli, 1992, 37; il 6 marzo è la data di battesimo. (2) Il termine “lazzaro” non si rinviene nella letteratura napoletana anteriormente alla rivolta di Masaniello (1647) e forse deriva dallo spagnolo lazaro , cencioso, pezzente, con cui i signori napoletanoi, che spagnoleggiavano nella lingua, indicavano la torma dei popolani seminudi, di cui si circondava quel capopopolo; proprio perché vestiti di stracci, richiamavano alla mente il Lazzaro resuscitato e quello cencioso dell’Evangelo. Di lazzari si torna a parlare nelle burrascose giornate del 1799, per la loro resistenza alle truppe di occupazione francesi e, successivamente, quando, sotto la guida del cardinale Ruffo, si distinsero per la lotta contro i “giacobini”.

In seguito con l’espressione lazzaro si intese quella categoria del sottoproletariato che non aveva alcuna occupazione e viveva accontentandosi del minimo, ma che non per questo aveva perso la sua spensieratezza; come ideali, poi, nutriva “in religione, il culto devoto e fanatico dei Santi protettori e, in primo luogo, di San Gennaro, e in politica, il culto del re” (Croce B., I “lazzari, in Aneddoti di varia letteratura, II, Napoli, 1942, 428 ss.; Benigno F., Trasformazioni discorsive e identità sociali, il caso dei lazzari, in Storica, 2005, 7 ss.).

(3) Così si esprimeva il gen. Championnet, nella sua relazione al Direttorio, come riporta Colletta P., Storia del reame di Napoli, libro III, cap. XXII.

(4) Il privilegio della Città di Napoli di rappresentare la Nazione e di assumerne il governo, in caso di assenza o di imbecillità del Sovrano, si fa risalire all’antico patto tra il Re e Nazione sul quale si fondava la Monarchia. Questo privilegio si sarebbe dovuto ritenere ancora in vigore, in quanto Carlo di Borbone con il manifesto del 1753 aveva conservato alla Nazione i suoi privilegi, ricevendone in cambio il giuramento di fedeltà e con l’atto di cessione del 5 ottobre 1759, aveva trasmesso al suo figlio Ferdinando IV l’obbligo di osservare quei privilegi.

Pertanto, quando il Re si era allontanato da Napoli, la nomina del Vicario venne ritenuta come abuso regio contro i diritti della Città.

In effetti, la monarchia borbonica aveva perso l’antica fisionomia di monarchia feudale temperata dai privilegi per assumere quella di monarchia assoluta, perciò le pretese della Città, più che dirette a restaurare un diritto esistente, erano sembrate che dessero adito alla instaurazione di una sorta di repubblica aristocratica (v. Maturi W., Il Principe di Canosa, Firenze, 1944, 16 ss.)

(5) Merita di essere ricordata la memoria scritta a difesa del suo operato, in cui è evidente lo spirito polemista che caratterizza il suo stile e la cultura giuridica rafforzata nell’esercizio della professione di avvocato (a Napoli, li chiamavano e li chiamano tuttora “paglietta”) precedentemente svolta: “Non v’ha dubbio alcuno, che la lettera di dimissione scritta al signor Vicario Generale fu di vari giorni posteriore all’anarchia accaduta. Dunque la lettera fu scritta quando il potere civile non esisteva nelle mani del Vicario generale, anzi quando, cessato assolutamente tra tutti, era veramente Civitas dissoluta, … Dunque, il generale Pignatelli, nel momento in cui fu scritta la lettera, non era più nel fatto Vicario generale. Dunque con la lettera non se gli venne a togliere se non ciò che aveva col fatto già perduto. Dunque non venendo ad avere alcun affetto di fatto, non poteva averlo neanche di diritto” (riportata da Maturi W., Op. cit., 33).

(6) B. CROCE, Uomini e cose della vecchia Italia, Bari, 1927, 242.

(7) GIOBERTI V., Gesuita moderno, Losanna, 1846, II, 325.

(8) TOMMASEO N., Dell’Italia, I, cap. VII.

(9) MAZZIOTTI M., L’esilio di Pietro Colletta in Austria, in Nuova Antologia, 1° gennaio 1916, 4.

(10) VITALE S., Il Principe di Canosa e l’Epistola contro Pietro Colletta, Napoli, s.d., 8

(11) MAZZINI G., La Giovane Italia, Roma, 1902, 99.

(12) Storia del reame di Napoli (1734 – 1825), Capolago, 1834, I, 314: II, 16ss-; la colpa dell’adulterio si spiega forse perché dopo aver sposato donna Teresa Galluccio, dei duchi di Toro, aveva avuto relazioni con altre due donne che, però, si conclusero, appena il Canosa rimase libero, con regolare matrimonio: precisamente, la seconda moglie, Anna Orsellini, figlia di un cenciaio di Pisa, gli diede tre figli (due femmine ed uno maschio); alla morte di questa (31 dicembre 1836), sposò a Pesaro Teresa Gabellini di Roma, anch’essa di umili origini, alla quale era legato da precedente relazione.

(13) Scritti storici, II, Nota: Il sistema del Principe di Canosa, Bari, 1945, 121 ss.

(14) Op., cit., 244.

(15) Simile definizione era stata data a Metternich dal poeta austriaco Grillparzer, come vicorda Bagger E., Francesco Giuseppe, Milano, 1935, 22.

(16) Op. cit., 281.

(17) Un dottore in filosofia e un uomo di Stato, dialogo del Principe di Canosa sulla politica amalgamatrice, 1832, 15 seg.

(18) V. Epistola, cit., 133; per necessità economiche, fu in seguito costretto a disfarsi dei suoi libri (v. Maturi W., Il principe, cit., 146 n. 3).

(19) MATURI W., Op. cit., 136 n. 3.

(20) MATURI W., Op. cit., 155 seg..

(21) I Piffari di montagna ossia cenno estemporaneo di un cittadino imparziale sulla congiura del principe di Canosa e sopra i Carbonari, 1820, 163.

(22) Si tratta di una lettera scritta dal Medici nel 1823, di cui dà notizia B. Croce, Uomini e cose, cit., 246. 12 P

Read More

Dem Usa, dall’aborto all’infanticidio il passo è breve

Posted by on Feb 1, 2019

Dem Usa, dall’aborto all’infanticidio il passo è breve

Sulla scia dello Stato di New York, dove i democratici hanno approvato una legge che consente di abortire fino alla nascita praticamente per qualsiasi ragione, i compagni di partito di Hillary Clinton stanno avanzando progetti legislativi molto simili in altri Stati federati come il Rhode Island, il Vermont e la Virginia. Proprio in Virginia la democratica Kathy Tran ha ammesso in un video shock che il suo disegno di legge permetterebbe di abortire anche al momento del parto e il governatore Ralph Northam ha aggiunto che sarebbe legale lasciar morire il bambino nato vivo. Appena appresa la notizia, il presidente Donald Trump ha commentato: “È terribile”.

Tutta l’oscurità che è legata al considerare l’aborto una libera scelta, permessa dalle leggi umane, sta emergendo in questi giorni negli Stati Uniti. Ogni volta che si pensa si sia toccato il punto più basso, ecco che nuove spinte intervengono a indicare quanto possa essere profondo e davvero insondabile il baratro infernale di chi rifiuta Dio e finisce per rifiutare il suo prossimo, a partire dal nascituro per arrivare conseguentemente al già nato. E solo Dio sa fino a quando permetterà, sopporterà, tutto questo.

Sulla scia dello Stato di New York, dove i democratici hanno approvato una legge che consente di abortire fino alla nascita praticamente per qualsiasi ragione, i compagni di partito di Hillary Clinton stanno avanzando progetti legislativi molto simili in altri Stati federati come il Rhode Island, il Vermont (anche qui l’iniziativa è di matrice democratica, ma è sostenuta dal governatore repubblicano Phil Scott che si definisce pro choice) e la Virginia.

Proprio da quest’ultimo territorio proviene l’esempio più eclatante dello scivolamento morale a cui conduce la cultura dell’aborto. Qui, la democratica Kathy Tran ha presentato un disegno di legge, l’HB-2491, che ancora una volta (auto)contraddice tutti i falsi slogan sulla «libera scelta» e la «salute» delle donne, prevedendo in sintesi i seguenti contenuti: a) elimina il requisito che l’aborto nel secondo trimestre venga praticato in un ospedale; b) elimina la necessità dell’ecografia per ottenere il «consenso informato» della donna (questo perché gli abortisti sanno benissimo che l’ecografia è spesso decisiva nell’orientare la scelta della madre verso la continuazione della gravidanza), eppure si premura di dire subito dopo che il «consenso informato» scritto è ancora richiesto (dovrebbe essere un’esplicitazione dell’ovvio ma ricordate, per andare al Regno Unito, l’eutanasia non richiesta sui piccoli Charlie Gard, Isaiah Haastrup e Alfie Evans?); c) elimina il requisito che ci siano altri due medici a certificare la «necessità» di un aborto al terzo trimestre nei casi in cui sia ritenuta a rischio la vita della madre o «la sua salute fisica o mentale».

In sostanza anche questo disegno di legge – proprio come quello firmato a New York con il sorriso sulle labbra dal governatore Andrew Cuomo – permette l’uccisione del bambino nel grembo (e non solo) in qualunque momento, stante la portata onnicomprensiva della definizione di «salute» adottata nel XX secolo (vedi la definizione dell’Oms del 1946 e per la specifica giurisprudenza degli Usa il contenuto della sentenza Doe contro Bolton del 22 gennaio 1973, “gemella” nella data e nel male della più famosa Roe contro Wade) che comprende ogni aspetto fisico, mentale e sociale, quindi pure economico.

Del resto, nel caso della Virginia, che l’uso attuale del termine «salute» implichi per gli abortisti un’arbitrarietà senza limiti lo conferma un breve video shock in cui la relatrice Tran risponde alle domande del presidente di una sottocommissione della Camera, il repubblicano Todd Gilbert. A Gilbert che le chiede fino a che punto del terzo trimestre di gravidanza verrà consentito l’aborto secondo il suo disegno di legge, la relatrice democratica – non riuscendo di fatto a nascondere la propria difficoltà (vergogna?) nell’ammettere i contenuti della sua stessa proposta normativa – risponde prima temporeggiando e poi chiarendo che «il terzo trimestre arriva fino a 40 settimane». Gilbert, come per essere certo di aver capito bene, replica: «Ok. Ma fino alla fine del terzo trimestre?». E la Tran: «Sì, non penso che abbiamo un limite nel disegno di legge». Ancora Gilbert chiede se in prossimità del momento del parto, e anzi già nella fase della dilatazione, sarà ugualmente possibile abortire. L’esponente dem abbozza una risposta: «Signor presidente, quella sarebbe una decisione che il dottore, il medico e la donna farebbero a quel punto…». Al che il repubblicano la incalza: «Lo capisco, sto chiedendo se il tuo disegno di legge lo permette». «Il mio disegno di legge lo permetterebbe, sì». Gettata la maschera.

Come se tanta malvagità non bastasse, all’indomani mattina il governatore democratico della Virginia, Ralph Northam, ha rincarato la dose rispondendo a una domanda nel corso del programma Ask the governor. È stato lì che Northam, un neurologo pediatrico, ha spiegato che secondo il disegno di legge della sua collega – almeno temporaneamente stoppato – sarà possibile rifiutarsi di rianimare un bambino nato vivo dopo un aborto fallito o desiderato. Il governatore ha fatto l’esempio – un “classico” della mentalità eugenetica – di un bambino che dovesse nascere con una grave malformazione o ancora incapace di vivere autonomamente fuori dal grembo: «Quindi, in questo particolare esempio, se la madre è in travaglio, posso dirvi esattamente cosa succederebbe: il bambino verrebbe partorito; il bambino sarebbe tenuto a suo agio, il bambino verrebbe rianimato se questo è ciò che la madre e la famiglia desiderano, e poi seguirebbe una discussione tra i medici e la madre».

Tradotto: se la madre e la famiglia non lo desiderano o se eventualmente cedono alle pressioni dei medici in tal senso, il bambino nato vivo verrà lasciato morire. Anche questo un infanticidio in piena regola. Curioso che i democratici siano tra coloro che più sbandierano il loro anti-nazismo, no? Vero che le origini dell’eugenetica precedono il  nazismo, ma il ragionamento di Northam, Tran e compagni è identico, seppur molto più sofisticato e liberamente sostenuto dai grandi media, al programma eutanasico hitleriano noto come Aktion T4 che portò all’uccisione di decine di migliaia di persone affette da malattie genetiche e disabili.

Il video con Kathy Tran che difende il suo progetto di legge sull’aborto fino al parto è stato visto pure da Donald Trump. Il presidente repubblicano, parlando con il Daily Caller, ha commentato: «Ho pensato che è terribile». Aggiungendo: «Ricordate quando ho detto che Hillary Clinton era disposta a fare a pezzi il bambino fuori dal grembo? Questo è quello che è, quello che stanno facendo, è terribile». Effettivamente già nella campagna presidenziale del 2016, Trump aveva detto che votare la Clinton avrebbe significato introdurre l’aborto fino al nono mese. Non perché il presidente sia un profeta, bensì perché bastava ascoltare le dichiarazioni di Hillary e della cerchia democratica per capirlo.

Così, mentre negli Stati a guida repubblicana si registrano nel complesso – in mezzo alle solite eccezioni – tentativi per cercare di restringere le maglie dell’aborto, da ultimo il Tennessee dove il governatore Bill Lee sostiene un disegno di legge per proteggere i nascituri dal momento in cui è rilevabile il battito del cuore, in quelli a guida democratica si punta ad allargare quelle stesse maglie, fino all’omicidio dei già nati. Continuando a commentare le parole della Tran e di Northam, sempre Trump, che nel suo ultimo videomessaggio alla Marcia per la Vita aveva detto che «ogni bambino è un dono sacro di Dio», ha aggiunto: «Questo farà sollevare l’intero movimento pro life come forse non si è mai sollevato prima». C’è da pregare che avvenga così, perché davvero ce n’è un grande bisogno.

Ermes Dovico

fonte

http://lanuovabq.it/it/dem-usa-dallaborto-allinfanticidio-il-passo-e-breve


 

Read More

IL MONITORE NAPOLITANO?……….MA

Posted by on Gen 14, 2019

IL MONITORE NAPOLITANO?……….MA

La povertà dei temi e delle idee che la repubblica napoletana, Capecelatro la definì “Repubblica da Operetta” ha prodotto e trasmesso sono racchiuse nel monitore napolitano fondato, durante quei pochi mesi del 1799, da donna Eleonora Pimentel Fonseca diventata un simbolo della città di Napoli da fine 800 fino ai giorni nostri, nonostante non abbiamo lasciato nessuna traccia, nessuna innovazione, nessuna nuova idea se non per la sua irriconoscenza verso la casa Reale che l’aveva tolta dalla miseria, se non per il suo alto tradimento verso il popolo napoletano e verso lo stato, se non per la sua attività di collaborazionista dell’esercito Francese invasore che non pensava che a saccheggiare i tesori del Regno e se non per la creazione del suddetto giornale “Monitore Napolitano” che fu solo uno strumento diffamatorio verso i Borbone, verso la realtà dei fatti che stavano accadendo e verso la cosa più importante che è la verità.

Gli stessi organi di stampa e i dispacci militari francesi erano costretti a smentire molti articoli che venivano pubblicati dal giornale che non ha fatto altro che anticipare la stampa e la tv spazzatura che ogni giorno dobbiamo sopportare.

Ancora oggi esiste il “Monitore Napolitano” organo di informazione storica che i giacobini napoletani continuano ad usare per disinformare e modificare la verità storica isolandosi dal reso del mondo che ormai ha preso coscienza di come la verità storica dal 1799 fino ai giorni nostri sia ben diversa. Di seguito pubblichiamo una storia che il nostro Raimondo Rotondi ha ritrovato che non merita nessun commento ma soltanto esser letto, nemmeno i Soviet sono arrivati a tanto.

Claudio Saltarelli

Tra i vari tipi di brigantaggio che caratterizzarono il periodo postunitario è importante evidenziare quello della zona di Sessa Aurunca in quanto, tra coloro che lo combatterono, si distinse il famoso pittore e patriota sessano Luigi Toro, che tanto aveva sacrificato per gli ideali di Libertà e Unità della Nazione.

Egli sentì il dovere di ritornare a combattere e lo fece contro i Briganti del suo territorio, quello aurunco.

Nel 1859 Luigi Toro (Lauro di Sessa CE – 1835- Pignataro Maggiore CE – 1900) si era arruolato nei Cacciatori delle Alpi ove aveva conosciuto Pilade Bronzetti di Cuneo, a cui dedicherà uno dei suoi migliori dipinti per celebrarne il sacrificio nella battaglia del Volturno.

In seguito si unì ai Mille col grado di sergente alla compagnia delle “Guide Garibaldine“ preposte alla protezione del futuro Generale.

Durante la campagna siciliana dimostrò tutto il suo valore, conquistandosi la fiducia dello stesso Garibaldi che lo volle accanto a sé in diverse occasioni.

Purtroppo dovette assistere alla morte del suo grande commilitone piemontese Pilade Bronzetti, al quale dedicò nel 1885 una tela che riproduce “La morte di Pilade Bronzetti a Castelmorrone”, oggi presente nei depositi del Museo Napoletano di San Martino.

Luigi Toro fu, dunque, uno dei protagonisti della Unificazione italiana nei momenti decisivi. Quando il brigantaggio endemico della zona sessana assunse i connotati della reazione con Francesco II che finanziava i briganti dell’alto casertano, il pittore e patriota Luigi Toro pensò che fosse il momento di difendere gli ideali per cui aveva combattuto, nonostante tutto il suo impegno era tutto dedito alla passione artistica.

In questa fase Luigi Toro fece parte della Guardia Nazionale con il grado di Maggiore e Comandante del 2° Battaglione.

La Guardia Nazionale, che era sta un’istituzione del Governo Borbonico, viene riproposta al fine di svolgere compiti di sorveglianza del territorio a sostegno delle forze governative.

Luigi Toro si guadagnò la fama di leggendario e intrepido combattente nella repressione del brigantaggio e Giovanni Sopiti, che gli dedicò una breve biografia così si esprime al riguardo del pittore e patriota sessano:

“Tutti sapevano del suo meraviglioso coraggio, e come fosse tiratore insuperabile… e dovunque si annunciasse che egli fosse per giungere, si disperdevano le masnade brigantesche…tale elevava a sé luminoso prestigio, che ne era conquista eziandio tutta la efferatezza di quei malfattori, i quali altresì lo ammiravano, ed erano costretti ad amarlo, per gli umanitari riguardi che egli adoperava verso le famiglie di quegli che aveanla abbandonata per darsi alla vita del bandito.”

Allo stesso modo il pittore e critico d’arte di Frosinone Costantino Abbatecola rivela:

“Toro mostrò molto coraggio nella lotta contro i Briganti… In quel tempo Toro si esercitava al tiro della pistola ed era giunto a tale perfezione che metteva cento colpi l’un dopo l’altro nel medesimo bersaglio. Questa qualità del Toro, accoppiata ad una grande influenza morale che esercitava sul mandamento di Sessa Aurunca, ben conosciuta dai Briganti, bastò a salvare il Paese dalle loro oppressioni perché credettero prudente non affrontare il Toro, come raccontarono parecchi Briganti venuti poi in potere della giustizia.“

Ed è proprio sul brigantaggio sessano che lo storico pignatarese Nicola Borrelli, allievo dell’artista e patriota risorgimentale Luigi Toro, dà un giudizio “tranchant” molto negativo del fenomeno del Brigantaggio nell’Alto Casertano, definendolo fanaticamente “reazionario “ in un testo che avrà tanto successo.

Il titolo del testo è Episodi di brigantaggio reazionario nella campagna sessana con la cui pubblicazione il Borrelli volle anche rendere omaggio al suo maestro Luigi Toro, che , proprio nel natio territorio aurunco, dopo essere stato uno degli artefici dell’Unità lasciò la passione artistica per dedicarsi alla repressione del Brigantaggio e riaffermare in tal modo gli ideali di libertà e di giustizia, che avevano caratterizzato la sua carriera quale Patriota.

Nel libro di Borrelli si fa riferimento al Posto di Guardia in Piedimonte di Sessa, istituito dal Maggiore Luigi Toro in relazione ad un documento inviato al Comandante della Guardia Nazionale di Carano in data 8 aprile 1862.

In esso il Comandante Toro informa:

“Conseguentemente alle mie ispezioni fatte ai diversi Quartieri, ho avuto agio di osservare la posizione strategica di Piedimonte, la quale richiede un Posto di Guardia a sé; perlocché Ella sarà compiacente disporre che sia subito aperto il locale e fornito della corrispondente forza, nella intelligenza che tale servizio dovrà prestarsi dai militi del Paese nel qual caso essi non presteranno più servizio nel Posto di Carano”.

Anche in tale momento storico Luigi Toro dimostra la sua audacia e il suo coraggio misto alla generosità che lo stesso Borrelli esplicita nella maniera seguente:

“La sua maschia figura di gentiluomo franco, benefico, generoso, coraggioso fino alla temerarietà gli ottennero l’illimitato rispetto da parte dei tristi banditi che nei primi anni postunitari gettavano il terrore nella Provincia, proprio quando il Toro, nella qualità di Maggiore della Guardia Nazionale, era incaricato della repressione del Brigantaggio e da questi mostri feroci che egli sfidava ogni giorno non gli fu torto un capello… anche quando avrebbero potuto impadronirsi di lui, vendicarsi , finirlo, ma che, per rispetto, non l’avrebbero mai fatto…”

Furono soprattutto le bande dei fratelli Francesco ed Evangelista Guerra, di Alessandro Pace, di Francesco Tommassino e di Giacomo Ciccone e Luigi Alonzo detto Chiavone ad imprimere una direzione politica reazionaria al fenomeno del brigantaggio.

Inoltre vi era quel Domenico Fuoco che si definiva “ Capitano e ajutante del Re Francesco II”.

In raccordo storico con il Brigantaggio prodotto dalla reazione “borbonico-pontificia ” del Cardinale Ruffo che si era servito dei “famigerati” Fra Diavolo e Mammone, i ” tristissimi ” briganti che furono sovvenzionati dai Borbone, anche in tal caso la ferocia dei Capibriganti – sostiene Borrelli – era dovuta anche alla speranza che un probabile ritorno del re Borbone avrebbe apportato benefici notevoli.

Nell’agro aurunco, secondo lo storico, i Borbone aveva lasciato tale “scia di ignoranza, di incoscienza e di abbruttimento” da procurare un forte sentimento di odio contro la società borghese dell’ agiatezza e, dell’ozio e dello sfruttamento. Precisa infatti lo storico Nicola Borrelli:

“le barbari leggi che regolavano le triste accolte, perfezionarono via via la criminalità del gregario e trasformavano presto in terribili tipi di grassatori o di assassini i novizi, sovente passati alla banda, come dicemmo, per una leggerezza, un errore, in un momento di sovreccitazione, sotto l’impulso di un rammarico o d’uno sdegno talvolta giustissimi”!

Scrive ancora Borrelli: “V’era, in tal caso – disperata ma vera – una via di salvezza, una via irta di pericoli e d’incognite, ma ricca di speranza, di promesse, di rivendicazione: la campagna, la banda” ma alcuni andavano ad ingrossare le file dei Pace dei Guerra, dei Cedroni, degli Anfrozzi, dei Ciccone, che però non erano altro che “bieche figure di malvagi, spesso avanzi dell’esercito Borbonico.

La ribellione del brigantaggio nella zona sessana aveva quindi un’impronta ed un’insidia in quanto collegato al revanscismo borbonico.

Il Borrelli , appassionato di pittura e che diventerà un discepolo di Luigi Toro, accogliendolo nella sua casa di Pignataro Maggiore (CE) negli ultimi anni di vita, rende omaggio alla sua figura di patriota che fu coerente con i propri ideali di libertà nel periodo di conquista dell’Unità della Patria, prima combattendo con i Mille per liberare il Mezzogiorno dai Borbone e poi ritornando in prima linea a difendere l’Italia dai briganti prezzolati dagli stessi nel periodo postunitario nel proprio territorio natio di Sessa Aurunca, a confine con lo Stato Pontificio.

Lo storico Borrelli, a proposito di tale brigantaggio che imperversava nella zona sessana, non ha esitazione a collocarlo, quindi, in maniera decisa quale tentativo borbonico di suscitare una guerriglia politica ai fini della restaurazione scrivendo:

“Questo, nella sua semplice trama psicologica, il fenomeno del Brigantaggio così detto politico – reazionario, di cui fu teatro Terra di Lavoro, e particolarmente la contrada di cui trattiamo, negli albori della nostra santa indipendenza.”


Read More