Il problema della tratta minorile in varie nazioni europee, soprattutto Francia e Inghilterra, era tristemente presente, nella seconda metà dell’ottocento, in varie zone d’Italia. Il territorio dell’attuale provincia di Frosinone, ad esempio, fu coinvolto nell’incetta di fanciulli da impiegare come garzoni nelle vetrerie francesi e non furono pochi i casi di coloro che, per i massacranti turni di lavoro e per la vita di stenti, morirono o si ammalarono gravemente, specialmente di tubercolosi1.
L’epoca seconda di
queste memorie non sarà creduta da’ posteri. Io racconterò fatti incredibili,
ma veri.
Ora cominciano le diserzioni dei soldati e degli uffiziali, la viltà e le
inesplicabili ritirate de’ Generali, ove non si vogliano chiamare
vergognosissimi tradimenti.
Un’anima nobile e
dignitosa rifugge da queste rimembranze: è troppo tristo ricordare come una
prode armata di circa 100,000 uomini fosse stata distrutta non già dal nemico,
ma da varii dei capi stessi, i quali disonorarono il proprio paese, e quella
divisa gallonata, che con tanta burbanza indossavano.
La striscia di sangue
che bagnò la via da Boccadifalco a Gaeta sgorgò solamente dalle vene de’
soldati, i figli del popolo, e dell’ufficialità subalterna e se non fosse stato
per questi, l’onor militare del disgraziato Regno di Napoli sarebbe rotolato
nel fango.
Gli scrittori
garibaldini descrissero pugne omeriche; ma la storia imparziale dirà, che le
bande garibaldine sarebbero valse meno delle bande siciliane, se non fosse
stata l’ignavia, la viltà, e il tradimento di alcuni duci napoletani. I fatti
che racconterò saranno una splendida prova del mio asserto.
Dopo le vicende guerresche di aprile, la truppa era
rientrata ne’ quartieri, e riprendea le sue abitudini, e tutto sembrava quieto.
Il 13 maggio, corse voce, che Garibaldi fosse sbarcato in Marsala con 600
uomini di truppa piemontese.
Questa notizia fu
tenuta per una favoletta, una spiritosa invenzione. Tutti dicevano: l’hanno
detta assai grossa.
Conciosiachè le
relazioni diplomatiche tra Torino e Napoli fossero cordiali, e quindi non era
da supporre che quel Governo volesse tentare un’invasione in un Regno amico,
senza alcuna ragione, almeno apparente, e senza intimazione di guerra, come si
usa ne’ paesi civili.
Tuttavia la sera di
quel giorno 13, la notizia venne confermata ufficialmente, ma corretta in
questo modo: che Garibaldi fosse sbarcato in Marsala con più di 1000 volontari
vestiti con camicia rossa: che i legni di guerra napoletani, cioè la fregata
Partenope, e i due vapori Stromboli, e Capri, non avessero potuto impedire lo
sbarco di quei volontari, perché protetti da due legni di guerra inglesi,
l’Intrepido e l’Argo, partiti due giorni prima dalla rada di Palermo: che
Garibaldi non venisse in Sicilia a far la guerra per ordine del Governo Sardo,
ma per aiutare la rivoluzione siciliana.
Queste notizie furono
accolte con entusiasmo dalla truppa; tutti desideravano essere condotti a
Marsala per combattere Carlobardi, così i soldati chiamavano Garibaldi farsi
onore ed ottenere decorazioni e gradi militari. Vi era pure un certo dispetto,
che uno straniero si venisse ad immischiare nelle nostre lotte politiche.
Garibaldi, in Marsala,
non trovò cordiale accoglienza. Il Municipio andò via, i marsalesi agiati
fuggirono, le vie erano deserte. Di che fortemente indignato fece occupare le
porte della città dai suoi volontarii, e dichiarò lo stato di assedio.
È necessario qui
notare, che Garibaldi appena toccata la terra siciliana, che dovea redimere
dalla schiavitù, per primo atto del suo inqualificabile potere dichiarò lo
stato di assedio in una città non ostile, ma riservata e indifferente alla
libertà e redenzione che volea largirle.
Il 14 maggio, Garibaldi
ed i suoi volontarii partirono per Salemi, paese 20 miglia dentro l’isola, ove
fu incontrato dal celebre padre Pantaleo di Castelvetrano, frate de’ Minori
osservanti, oggi ammogliato e libero pensatore.
Alcuni duci gallonati
di Palermo invece di attendere ed arrestare la marcia di Garibaldi, si
bisticciavano tra loro: aveano perduta la bussola prima di mettersi in mare.
Nondimeno dovendosi decidere a qualche cosa, si decisero pessimamente, cioè
mandarono il generale Landi a combattere Garibaldi. Il Landi era stato
comandante del 9° cacciatori, ed io non avea inteso buone notizie intorno alla
sua delicatezza amministrativa e capacità militare.
Landi partì per Alcamo;
il 14 maggio radunò in quella piccola città più di 3000 uomini di truppa
scelta, avidissima di battersi: avea cannoni, cavalleria, e tutto quello che fa
di bisogno ad un piccolo corpo di esercito in campagna. Il contenersi del
Generale in Alcamo era come se si trattasse di una passeggiata o parata
militare, in che riuscivano mediocri non poca parte de’ duci napoletani. Landi
non prendeva alcuna precauzione, non dava quegli ordini che si richiedevano,
avendo il nemico quasi di fronte: stava inoperoso.
Spinto dagli ordini
urgenti del Luogotenente Castelcicala, si partì d’Alcamo per Calatafimi. Il 15
maggio anche Garibaldi con i suoi volontari, e le squadre siciliane, che avea
raccolte, si spinse verso Calatafimi.
BATTAGLIA DI CALATAFIMI
Garibaldi si fermò prima di giungere a Calatafimi, e
sembrava incerto di ciò che si dovesse risolvere. Vedendo la truppa di fronte,
cercò scansarla; lasciò la via e prese i monti.
Landi per mostrare di far qualche cosa, prima che comparisse Garibaldi, avea
spinto verso Salemi il maggiore Sforza comandante l’8° cacciatori, ma con
quattro sole compagnie, per fare una ricognizione militare, e se attaccato,
ritirarsi.
Giunto lo Sforza non
più lungi di un tiro di fucile da’ garibaldini, vide che lasciavano la via e
prendevano i monti per evitare un combattimento. A questo i soldati non si
contennero e si diedero a gridare che volevano battersi ad ogni costo. Il
comandante Sforza protestò che avea altri ordini dal Generale, ma lo scambio
delle fucilate cominciava, e lo Sforza finì di secondare il desiderio de’ suoi
soldati, spingendosi alla loro testa ed attaccò vigorosamente i garibaldini.
La mischia fu
terribile: i garibaldini si erano appiattati a terra, ed in quellaposizione
facevano un fuoco ben nutrito. Prevalse però la bravura e disciplina delle quattro
compagnie, e le bande rosse furono sgominate ed inseguite.
Menotti Garibaldi che
portava una magnifica bandiera tricolore, venne ferito ad un braccio, ed
obbligato di consegnarla ad uno de’ suoi compagni. Questi fu ucciso da un
soldato napoletano di nome Angelo de Vito, il quale s’impadronì della bandiera
che poi fu portata a Palermo. Era certa la disfatta di Garibaldi; de’ suoi, chi
fuggiva, chi combatteva in disordine.
Il Landi, che
certamente tutto vedea ed osservava da lungi, invece di spingere altri
battaglioni che avea disponibili per compiere la non dubbia vittoria, diede
l’ordine della ritirata, e cominciò a retrocedere verso Alcamo, senza avvertire
il maggiore Sforza, il quale inseguiva i garibaldini. Costui avvertito che la
colonna si ritirava verso Alcamo, non volle crederlo; quando poi si accertò con
i suoi propri occhi, credè prudente anch’egli di ritirarsi, chè già cominciava
a difettare di munizioni.
I garibaldini vedendo quella inesplicabile ed inattesa
ritirata della colonna Landi, presero animo: coadiuvati dalle squadre siciliane
che non aveano preso parte in quel combattimento, diedero addosso a’ regii, e
la scena cambiò totalmente.
In quella disordinatissima ritirata della truppa cadde una mula che portava un
obice. I soldati lo buttarono in un burrone, e di colà fu poi raccolto da’
garibaldini che ne menarono gran vanto.
Nella ritirata di Landi
fu grandissima confusione. I battaglioni disorganizzati marciavano alla
ventura, mischiati con carri, artiglieria o cavalleria: vi era un caos! Giunti
ad Alcamo furono attaccati da’ ribelli che tiravano fucilate dalle finestre e
da’ balconi: i soldati risposero con incendiare molte di quelle case ove si
facea fuoco vivissimo. Lo stesso avvenne al passaggio di Partinico.
Il Landi fuggiva alla testa di quella truppa che avea
disorganizzata, e demoralizzata, e cambiava strada appena avea notizia di
qualche piccola banda che lo inseguiva.
Fu il primo ad arrivare a Palermo, ove fu seguito poi dalla sua colonna in
massimo disordine ed affamata.
Garibaldi a Calatafimi
perdette centodieci volontari. Se le sole compagnie dell’8° Cacciatori,
equivalenti a meno di cinquecento uomini, lo sbaragliarono e gli fecero quel
danno, qual sarebbe stata la fine della temeraria impresa del futuro dittatore
delle Due Sicilie, se Landi si fosse battuto con tutti i suoi?
Ma Garibaldi avea forse
certezza che il duce napoletano si sarebbe condotto come realmente si condusse,
ove si volesse ammettere come vera la notizia non mai smentita, e che io come
semplice cronista riporterò: cioè che Landi avesse ricevuto da Garibaldi per
prezzo della sua condotta, una fede di credito di quattordicimila ducati, che
il Banco di Napoli trovò poi falsa, cioè, era di soli ducati quattordici; e che
ne morì di dolore sorpreso da un colpo apoplettico.
Il fatto d’armi di
Calatafimi segnò la caduta della Dinastia delle Due Sicilie; imperocchè il
generale Landi non fu chiamato a dar conto della sua vergognosissima condotta,
ed inesplicabile ritirata; ma quello che fa più meraviglia si è, che rimase al
comando della brigata che avea disorganizzata e demoralizzata. Questo esempio
incoraggiò i duci, o vili o traditori, a tradire impunemente.
INSEGUIMENTO DI
GARIBALDI
Dopo Calatafimi,
Garibaldi ingrossando sempre le sua bande di nuovi rivoluzionari, marciò per
Alcamo, Partinico, e fece alto in un piccolo villaggio detto il Pioppo, tre
miglia incirca sopra Monreale, meno di sette da Palermo, ove si trovavano
ventimila uomini di buona truppa, e benissimo equipaggiata.
Dopo il fatto d’armi di
Calatafimi il Luogotenente Castelcicala si dimise dall’alta sua carica e partì
per Napoli. Corse voce nell’armata che si sarebbe recato a Palermo con l’alter
ego il Conte generale Giuseppe Statella. Questa notizia fu accolta con
entusiasmo, dapoichè il nome degli Statella era popolarissimo in tutta
l’armata.
Quel Generale nato da
una famiglia assai distinta, e di una antichissima aristocrazia siciliana,
oltre di essere sufficientemente istruito, avea quelle qualità che si
richiedevano alle condizioni dell’Isola: fedeltà incrollabile a’ Borboni,
ereditaria nella famiglia Statella, un coraggio da reggere a qualunque prova,
attivissimo, una fermezza di carattere ammirabile, severissimo per la
disciplina militare: del resto uomo semplice e cordiale.
Era un uomo che non
sarebbe venuto meno in qualsiasi difficoltà militare o diplomatica, perché in
que’ casi avrebbe operato sempre alla soldatesca; oso affermare che avrebbe
disubbidito al proprio Sovrano, se costui gli avesse dato un ordine da
compromettere la Dinastia, o la dignità militare. Lo Statella si sarebbe fatto
condannare da un alto consiglio di guerra anzichè eseguire un ordine
pregiudizievole al Regno, alla sua dignità di gentiluomo e di Generale.
Oh! se il generale
Statella fosse andato a comandare l’armata di Sicilia con pieni poteri, oggi
Garibaldi non si chiamerebbe da’ suoi ammiratori liberatore e redentore
dell’Italia Meridionale. Ma la setta che circondava il giovine sovrano, invece
di mandare in Sicilia uno de’ pochissimi Generali che avrebbe salvata la
Dinastia e il Regno, scelse il generale Lanza, che finì di uccidere l’armata di
Palermo.
Il 20 maggio giunse in
Monreale il colonnello Won Meckel col 3° cacciatori esteri, detti svizzeri, ma
erano un’accozzaglia di svizzeri, francesi, boemi e bavaresi, de’ quali molti
aveano combattuto sotto Garibaldi nel Varese.
Giunsero altri
battaglioni e si formò una brigata sotto il comando di Meckel con i seguenti
battaglioni: 3° esteri, 2° cacciatori, comandato dal maggiore Murgante, 9°
cacciatori comandato dal maggiore Bosco, quattro compagnie del 5° di linea
comandate dal maggiore Marra, quattro cannoni di montagna, pochi cacciatori a
cavallo, e la compagnia d’armi di Palermo comandata dal capitano Chinnici.
Tutti incirca quattromila uomini. In Monreale rimasero altri tre battaglioni
sotto il comando del colonnello Buonanno.
Il 21 maggio la brigata
Meckel marciò sul Pioppo. Sopra la Casina di Buarra trovammo gli avamposti di
Garibaldi, erano bande siciliane. Appena cominciò il fuoco coteste bande si
ritirarono sopra la montagna. Io vidi due soldati esteri che conducevano, anzi
strascinavano un prigioniero, un’uomo già disarmato, e tra loro vi era un
diverbio animatissimo.
Temendo che quel
prigioniero patisse qualche sinistro, chiamai due soldati napoletani e corsi ad
incontrare que’ tre. Il malcapitato era un uomo su’ 30 anni, senza cappello, in
gran disordine. Gli aveano strappato il fucile, e se l’avea preso uno dei
soldati esteri:gridava come un energumeno, dicendo: vili satelliti della tirannide,
lasciate libero un cittadino che combatte per la libertà della sua patria, ed
altre parole diceva, contro i soldati e contro il Sovrano.
Fortuna per lui che i
soldati esteri neppure intendevano l’italiano, sebbene i due soldati napoletani
capivano benissimo il dialetto siciliano, ed uno di questi alzò il fucile per
darlo in testa al prigioniero: io lo contenni. Seppi che quel prigioniero
faceva la professione di notaio in un paese vicino, ebbi a pregarlo e
minacciarlo perché tacesse. Egli cercava di convertire i soldati e me con essi:
io gli dissi di nuovo di tacere, altrimenti l’avrei abbandonato al suo destino,
perché i soldati napoletani cominciavano a mormorare contro di me. Persuasi i
soldati esteri a cedermi il prigioniero, lo ricondussi alla retroguardia
raccomandandolo ad un uffiziale mio amico. Forse altri direbbe, quel notaio
prigioniero essere un gran patriota, ed io affermo ch’era un gran fanatico, un
gran pazzo da catena.
La brigata Meckel si
avanzava baldanzosa contro il Pioppo. Una compagnia di cacciatori, comandata
dal capitano Giudice, spiegata da fiancheggiatori, era giunta sopra l’alta
collina che domina il Pioppo. Io vidi che i garibaldini fuggivano in disordine
verso Partinico, e vidi che più di 50 carri di equipaggi aveano presa la stessa
via. In quella sento la nostra tromba battere a ritirata. Io non volea credere
né ai miei occhi, né a’ miei orecchi. Ritirata…! e perché? Vedo venire Bosco
con una faccia che mettea paura: martirizzava il cavallo su cui montava, era al
colmo dell’irritazione. Io che non era soggetto alla disciplina militare quanto
erano soggetti gli uffiziali, ed avendo molto confidenza col Bosco, gli dissi:
ritirarci, e perché? mi rispose con parole sdegnose ed inintellegibili e passò
via.
Non ho avuto mai sicura
certezza della vera causa di quella inesplicabile ritirata. Il Meckel non potea
esser sospetto né di viltà né di tradimento; quindi non si parlò che di un
ordine superiore venuto da Palermo, cui tutti attribuivamo quella ritirata che
sembrava inesplicabile.
Intanto i soldati
mormoravano e cominciavano a profferire la parola tradimento, e non si faticò
poco a farli ritornare alla volta di Monreale.
Il capitano del Giudice
mi dicea: dal sommo della collina, ove mi trovavo, avrei potuto distruggere la
metà de’ garibaldini, facendo scorrere delle grosse pietre sopra di loro, ed
avrei potuto benissimo tagliar la ritirata sopra Palermo: ma fu necessità
ubbidire e ritirarmi.
Si giunse in Monreale;
e lasciato tranquillo il nemico più pericoloso, che ormai avevamo nelle mani,
si risolvette di mandare il capitano del Giudice con la sua compagnia a
sorvegliare la valle di S. Martino ch’è dietro i monti di Monreale al Nord-Est.
Costui giunto in quella valle fu assalito da una moltitudine di bande siciliane
guidate da Rosolino Pilo, il quale fu ucciso in quel conflitto.
Garibaldi al Pioppo
aspettava la rivoluzione di Palermo, e vedendo che non iscoppiava, come gli
aveano promesso, trovandosi seriamente minacciato da’ regii, la notte del 21
maggio, riunì i suoi già dispersi per la paura che aveano avuta del tentato
attacco della colonna Meckel, prese la via de’ monti a destra e marciò
versoParco, piccolo paese fabbricato a metà della costa di una gran montagna,
dirimpetto Monreale dalla parte del Nord-Est.
Fece una divisione in due colonne, una comandata da
lui accampò sull’alta montagna in un luogo detto Pizzodelfico, l’altra
comandata dall’ungarese Turr occupò Parco.
In Monreale era molta truppa e stava in ozio, perché si attendeano gli ordini
da Palermo. Intanto i soldati erano condannati a stare a bracciarmi in quella
che vedeano i garibaldini a Parco o su la montagna, occupati pacificamente alle
manovre militari.
Le mormorazioni de’
soldati cominciavano ad inquietarci, e non avvenne una rivolta militare perché
né Bosco, né Meckel poteano cadere in sospetto di tradimento. Questa condizione
di cose durò tre lunghi giorni. Se quello fu un tempo prezioso per Garibaldi,
io lo lascio pensare a quelli che conoscono i raggiri della setta, e l’attività
del duce nizzardo.
ENTRATA AL PIOPPO E IN
PARCO
Finalmente la sera del
23 venne l’ordine da Palermo di attaccare i garibaldini. La brigata Meckel
marciò la mattina seguente per la via di Renna per prendere i garibaldini di
rovescio. Il generale Colonna partì da Palermo con un’altra brigata per
attaccarli di fronte. Verso le 6 del mattino i soldati di Meckel avevano
raggiunto Pizzodelfico, e si scagliarono contro i garibaldini, ma questi non
opposero che piccola resistenza, e fuggirono inseguiti sulla cima della
montagna, ove soffersero non poco danno a causa de’ luoghi alpestri e scoscesi:
i soldati erano avvezzi a quelle marce, vantaggio che non aveano i nemici.
Un grosso distaccamento
entrò in Parco dalla parte dell’ovest: Turr e i suoi fuggirono sulla montagna.
Il generale Colonna era intanto alle mani con le bande siciliane fortificate
nella semipianura sotto Parco, dalla parte di Palermo; dopo di avere fugate
quelle masse di gente armata che combattea da dentro le case di quella
campagna, si avanzò su Parco, ove non trovò più nemici da combattere.
In cambio d’inseguire
un nemico che fuggiva in disordine, e tanto più che le bande siciliane
cominciavano a sciogliersi, e dar la volta verso i loro paesi, si diede ordine
che la truppa restasse lì ove era; e così il nemico ebbe il tempo di riaversi e
riordinarsi. Si vide che il generale Lanza che comandava da Palermo non volea
far davvero.
Io entrai in Parco, e
trovai che il paese era stato manomesso da’ garibaldini e dalle bande
siciliane. La maggior parte degli abitanti erano fuggiti all’arrivo de’
garibaldini. Le povere donne e i fanciulli rimasti si erano rifugiati nelle
Chiesa madre, altre donne e fanciulli nell’unico monastero che vi era in quel
paese.
Mi diressi a quelle
poche persone che incontrai, e seppi ove si erano rifugiate le donne ed i
fanciulli. Mi recai alla Chiesa, trovai uno spettacolo tristo: il sacro tempio
era gremito di quegli infelici spaventati e piangenti. Io feci di tutto per
confortarli, e li persuasi a seguirmi, assicurando loro che li avrei ricondotti
nelle proprie abitazioni. In fatti mi convenne far molti viaggi per condurli in
diversi punti del paese. Le povere monache mandarono una persona a pregarmi che
mi recassi subito al monastero, ove trovai un’altra scena desolante. La maggior
parte di quelle donne, riparatesi nel monastero, erano ammalate, quali svenute,
tutte spaventate.
Molte di quelle donne
mi seguirono, ed io le condussi alle proprie case. Però le derelitte monache
stavano sempre in gran paura, perché la sera precedente si era tentato scalare
le alte mura del monastero. Io a volerle difendere da qualunque aggressione, me
ne andai subito a pregare il comandante Bosco che mi assegnasse un
distaccamento di soldati da me scelti per guardare quel monastero, per quietare
la paura delle monache. Il Bosco non se lo fece dire, mi diede subito 30
soldati, ed un sergente di mia fiducia, i quali si posero a far la guardia
intorno al monastero.
Ne’ tre giorni che i
garibaldini dimorarono in Parco, furono scassinati non pochi magazzini, in
particolarità quelli che conteneano vino, e tutto era stato messo a saccheggio.
Ladri del paese, garibaldini e squadre siciliane, tutti aveano saccheggiato,
chi più chi meno.
Qui debbo avvertire che
i soldati della brigata Colonna, i quali rimasero nel paese commisero azioni
indegne non solo di chi veste una divisa militare, ma di chi è nato in paesi
civili. Quei soldati istigati da’ ladri del paese, e sommamente digiuni, perché
la truppa tante fiate restava digiuna per la incuria de’ comandanti, finirono
di saccheggiare magazzini già saccheggiati, e ne saccheggiarono altri.
Alcuni compagni d’armi
rubavano pure nelle case deserte de’ proprietarii. La sera del 24 maggio il
Parco era un disordine indescrivibile. I soldati della brigata Colonna erano
quasi tutti ubbriachi, e non sentivano più né preghiere né minacce. Io mi
rivolsi a molti uffiziali perché mi aiutassero a mettere a dovere i soldati, ma
nulla ottennero. Il male lo fecero i duci, i quali lasciarono così affamata la
truppa in un paese mezzo saccheggiato. Io non credo di errare se dico, che
alcuni duci napoletani fomentassero indirettamente que’ disordini per
disonorare la causa del proprio sovrano, che fingevano di difendere.
Fortuna per le povere monache che il distaccamento
datomi da Bosco, vegliò intorno al monastero per tutta quella infausta notte.
Io addolorato e vergognoso di que’ disordini che vedea, e che non potea impedire,
uscì dal paese salì un poco la montagna, e mi recai al Camposanto, ov’era
accampato il 9° cacciatori, ed ivi passai la notte coricato sopra le sepolture.
La mattina del 25 di
buon’ora battè la generale, e tutti partimmo per la piana de’ Greci. La truppa
si riunì tutta sulla montagna, cioè tra le due brigate di Meckel e l’altra di
Colonna, e da lì marciò in ordine di battaglia.
Era, anche, norma che per ogni seggio si scegliesse un eletto tra i sei nominati, (per un totale di sei per le piazze nobili, che si appellavano “capitani dei nobili”, ed uno per il Popolo, detto “capitano di strada Popolare”), con mandato annuale, ai quali si affidavano le chiavi di ogni porta cittadina , una copia ai capitani ed altra all’eletto del Popolo.
“Poesia”, una nota rivista di settore diretta da Nicola Crocetti, ha pubblicato nel numero da poco apparso in edicola (aprile 2017) un interessante contributo di Enza Silvestrini dal titolo Vittorio Bodini. Il Sud come categoria dell’esistenza (pp. 42-47).
Il 3 marzo 2024 s’è vissuta in quel di Cassino presso l’Aula Pacis, una giornata memorabile che è andata al di là di qualsiasi più rosea aspettativa per il successo di pubblico, per il consenso umanine e assoluto della critica e per l’impeccabile esibizione di tutti gli artisti che grazie al loro attento e scrupoloso impegno, hanno messo in scena lo spettacolo “Voci, Suoni e Canti di Briganti in Terra di Lavoro“ come mai è accaduto prima. Lo scopo di poter divulgare la storia poco conosciuta che riguarda la Terra di Lavoro e del Regno di Napoli che poggia sul piedistallo dell’identità, utilizzando la recitazione, la musica, il canto e i balli popolari, è sempre stato lo scopo principale della rappresentazione teatrale ottenendo sempre ottimi risultati facendolo definire, ovunque è andato in scena, uno spettacolo colto e non dialettale, come più volte affermato. Con la novità del “Brigante Narratore” abbiamo preso per mano il pubblico per accompagnarlo nel viaggio storico che parte da Fra Diavoloe finisce alla Prima Guerra Mondiale senza fargli perdere la bussola o l’orientamento, dandogli la sensazione di leggere un piccolo saggio storico che grazie alla bravura di tutti gli artisti non risulta mai ostico ma piacevole da seguire. A Cassino la gente è stata attentissima dall’inizio alla fine e in tanti hanno chiesto se i fatti narrati sono documentati e realmente accaduti rimanendo sorpresi e accettati anche se con difficoltà, a questo punto cerco di spiegare i vari passaggi e perchè sono collocati in un certo modo.
Lo spettacolo inizia con l’assolo di zampogna per accogliere i presenti con il suono sacro di uno degli strumenti più carattestici della Terra di Lavoro e certamente quello principe nella zona alta della provincia più antica d’Europa, che anticipa la poesia di Pasolini “Terra di Lavoro” che oltre ad essere sublime, è importante per far comprendere che gli abitanti laborini non sono dei perdenti ma solo degli sconfitti. Si prosegue con gli eventi del1799 mettendo a confronto l’eroismo e il mito di Fra Diavolo con la figura poco edificante diEleonora Pimentel Fonseca che nella breve prosa da lei stessa scritta, appare per quello che realmente è stata: una reggicida, una femminicida, un’ infanticida, una liberticita, una napolicida e forse anche misogena mettendo con le spalle al muro i “briganti se more” che giocano a fare i briganti pur essendo degli ammiratori della Repubblica Napoletana ignorando che gli insorgenti postunitari si ispiravano ai loro nonni del 1799, non si può essere figli di due mamme. Il viaggio continua addentrandoci nel decennio di invasione francese cantando le gesta di Pit Panettada Agnone, oggi Villa Latina, e discepolo di Fra Diavolo, dove la neonata borghesia italiana, che scaldò i muscoli dieci anni prima, certifica ufficialmente la sua reale natura che è quella dell’attaccamento “alla robba” con le vicende, poche narrate per non esercitare lesa maestà alla repubblica madre che è quella francese, dei briganti insorgenti che per il loro eroismo subirono opere di macellaria da parte di Giuseppe Bonaparte, diMurate dal suo fedele Manhesche appiccava le teste dei nostri illustri antenati sui pali non lesinando crudeltà e ferocia nella repressione delle insorgenze disseminate in tutte il Regno.
Tralasciando i danni arrecati dalle Massonerie, il periodo della carboneria e i moti del “48”, facciamo un balzo di 40 anni narrando quattro fasi importanti che si legano di tra loro e fondamentali per il passaggio da un’epoca all’altra con protagonisti importanti che, citandoli, in pochi minuti ci fanno capire la causa che genera l’effetto che è la guerra postunitaria; morte di Ferdinando II, proclama di Francesco II fatto a Gaeta ai suoi sudditi che annuncia la fine della patria napolitana, esaltazione dell’ultima Regina di Napoli,Maria Sofiaed eroina di Gaeta e perchè s’è saliti sulle montagne per diventare briganti. Senza queste fondamentali letture la narrazione si spegnerebbe e si svuoterebbe di tutto il suo intento, come ben sa chi legge saggi storici, e lo spettacolo diventerebbe soltanto un “appiccicare” le varie esibizioni che vanno in competizione tra di loro.
Dopo questo passaggio si passa al neonato Regno d’Italia e si cominciano a narrare le storie di briganti e brigantesse più o meno conosciuti, che hanno scritto pagine epiche della resistenza napolitana compresa la testimonianza di chi è riuscito a sopravvivere alla morte.
Si passa a Matilde Serao, nata a Napoli ma di origine laborina per l’esattezza di Vernaroli, che grazie al suo necrologio suFrancesco II, comprendiamo che con la sua morte muore un Regno dopo quasi otto secoli di vita portandosi dietro un mondo che non tornerà più e per dare spazio ad un altro che esordisce con l’emigrazione che le nostre terre non avevano mai conosciuto prima e la tragedia della tratta dei fanciulli citando, altresì, le vicende dei fasci siciliani e delle cannonate di Bava Beccaris dove il giacobinismo, vestito da liberale, dimostra tutta la sua miseria, il suo positivismo e razzismo alimentato dalle teorie lombrosiane. Si arriva tutto di un fiato alla prima guerra mondiale, considerata la IV guerra di Indipendenza e dove nasce realmente l’Italia fondata sul mito del soldato italiano, dove morirono 700 mila giovani di cui i 3/4 erano napolitani e dove l’unica nota felice è ancora una volta quella di S.A.R. Maria Sofia ultima Regina di Napoli che porta il suo conforto ai suoi antichi sudditi prigionieri di guerra.
Il libro si chiude con l’analisi di Milan Kundera e l’appello di Jacques Crétineau-Jolyper far comprendere il senso del viaggio e la genesi del mondo che oggi viviamo in occidente, e con “Il canto dei Sanfedisti“, in Terra di Lavoro c’erano nuclei molto importanti e numerosi che si riconoscevano nel sanfedismo, che è un manifesto politico del popolo unico e irripetibile che purtroppo è sempre più attuale.
Tutte le musiche, i canti e le ballate sono rigorosamente identitarie che rispecchiano i luoghi dove hanno agito gli insorgenti, come le varie sfumature della lingua laborina utilizzate nelle recitazione e nei suddetti canti che rafforzano il senso antropologico dello spettacolo. Tra i canti ce ne sono alcuni poco conosciuti che cantano le gesta di Briganti Insorgenti in Terra di Lavoro che sono molto conosciuti tra gli addetti ai lavori e non solo.
Questo modo di narrare la storia ogni volta che è andato in scena, è stato sempre apprezzato e compreso con la massima attenzione dal pubblico accorso nonostante non sapesse cosa avrebbe visto, rimanendo sorpreso ed esterefatto, come è accaduto domenica 3 marzo 2024 a Cassino, ma al contempo soddisfatto per aver saputo leggere il “libro” che gli è stato offerto che ci fa comprendere come ha catturato l’attenzione di tutti senza nessuno escluso.
Spero di aver fatto comprendere perchè lo spettacolo, che rientra nella categoria del Teatro narrativo drammatico, ha questa forma e struttura, che ha un suo filo logico in un arco temporale ben definito e che se viene cambiato o stravolto perde la sua fluidità e linearità. Molti personaggi e fatti siamo stati costretti a non inserirli per il nostro dispiacere, ma Raimondo ed io crediamo che di più non si potesse fare e chi vorrà potrà continuare a farlo in un altro spettacolo e siamo disposti a dare una consulenza storica.
Una riflessione va fatta per gli artisti, sono quattordici, che grazie al loro impegno, attenzione e bravura hanno permesso la lettura del “libro” entrando nello spirito della storia e dei singoli personaggi facendoli propri dando la sensazione di rappresentare se stessi soddisfando al massimo le aspettative che Raimondo ed io avevamo.
Ultima riflessione fa fatta sulla Terra di Lavoro che ci ha agevolato molto il lavoro perchè nessuna provincia al mondo ha un’identità antropologica così composita frutto della multietnicità che s’è sviluppata nel corso di 3000 di storia con la mescolanza delle genti del mare e delle montagne facilitato dalla posizione geografica che la pone al centro del Mediterraneo. Nessuna altra provincia ha, altresì, culture, arti, filosofie e teologie cosi variegate, Napoli è fuori concorso, da cui attingere per sviluppare nuove entità che ci permette di creare cultura dal basso senza scimmiottarne altre o farcene calare dall’alto, basta pensare che esistono cinque stili di musica popolare quali tarantella, ballarella, saltarello, tammurriata da ballo e da ascolto, farcendoci guidare, nella stesura dello spettacolo, da questa enorme ricchezza. Nel chiudere vi annuncio che a breve pubblicheremo su i nostri canali lo spettacolo integralmente