Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Anti-Risorgimento e intellettualità italiana

Posted by on Mag 31, 2019

Anti-Risorgimento e intellettualità italiana

Una ricostruzione a grandi linee della cultura italiana che da posizioni ideali diverse e differenziate, si oppose al processo unitario e risorgimentale, così come esso veniva elaborato nei disegni ed è stato attuato nei fatti dalla minoranza liberale e democratico-sociale fra il 1800 e il 1870

In memoria di Silvio Vitale
(1928-2005)

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BANDITI O GUERRIGLIERI 1860-1865 una lotta senza quartiere.

Posted by on Mag 31, 2019

BANDITI O GUERRIGLIERI 1860-1865 una lotta senza quartiere.

LA STAMPA SABATO 26 AGOSTO 2000
BANDITI O GUERRIGLIERI 1860-1865 una lotta senza quartiere.
Il fascino antico dell’«esercito straccione» Avventurieri e idealisti, ribelli a un’Italia appena nata.
Ho il cappello piumato, la mia tunica ingallonata, un morello puro sangue; sono armato sino ai denti ed esercito il comando su ottocento uomini e trecento cavalli», cosi si descriveva, nel 1861, Carmine Crocco, detto Donatelli, forse il più famoso dei «briganti» lucani. Meno famoso e meno fortunato di lui (Crocco morì di morte naturale, a 75 anni, nel 1905 nel carcere di Portoferraio) fu il suo luogotenente Ninco Nanco, ucciso in uno scontro a fuoco, nel 1864, tra i boschi di Avigliano, vicino Potenza. Crocco e Ninco Nanco furono i capi di quell’esercito «straccione» che tra il 1860 e il 1865 combattè¨ una guerra senza quartiere, chiamata brigantaggio, contro l’esercito regolare del neo-nato stato italiano. Nella sola Lucania, dal 1861 all’agosto del 1863 si contarono 1038 fucilazioni, 2413 briganti uccisi in conflitto e 2768 arresti. Crocco aveva con se cafoni e disertori, idealisti filo-borbonici e piccoli borghesi in cerca d’avventura. Ma oltre al suo diventarono noti i nomi di briganti abruzzesi e campani, lucani o calabresi come Zappatore o Chiavone, Medichetto o Maccherone, Colarulo, Ciucciariello e Caprariello. Crocco, secondo di cinque fratelli, era figlio di un pastore di Rionero in Vulture. Si era arruolato diciottenne nell’esercito Borbonico e aveva disertato dopo aver ucciso un compagno d’armi. Si era avvicinalo ai liberali e aveva anche indossato la camicia rossa dei garibaldini. Come tutti i grandi guerriglieri conosceva bene il territorio in cui si muoveva, ma non era un «politico», anche se riuscì ad aggregare attorno a sè l’insoddisfazione di quei contadini che si sentivano traditi dal nuovo stato unitario, che non solo non aveva diviso lo terre demaniali, ma aveva anche istituito la leva obbligatoria. Su questa insoddisfazione pensavano di far leva i borbonici per riconquistare il regno perduto. Così dallo stato Pontificio cercarono senza successo, di tirar le fila del movimento insurrezionale. Fecero sbarcare in Calabria un «cabecillu». José Borges, che incarnò l’anima filoborbonica dol brigantaggio. Borges, un ufficiale catalano ormai sulla cinquantina, per un breve periodo combattè con Crocco. Insieme i due, nel novembre del 1861, furono a un passo dal conquistare Potenza. Ben presto però si divisero, al ribelle contadino poco importava di restaurare il regno dei Borboni. Borges, in fuga, fu ucciso, come un Bandito, dai bersaglieri italiani a Tagliacozzo, a pochi chilometri dallo stato pontificio che per lui avrebbe significato la salvezza.

Ma il brigantaggio non fu solo un fenomeno maschile, a condividere la vita all’addiaccio, tra ricoveri di fortuna e fughe a cavallo, c’erano anche donne, come Filomena Pennacchio, figlia di un macellaio, compagna del brigante Schiavone, che fu una dello prime «pentite» e con la sua delazione fece catturare un buon numero di uomini di Crocco. O Arcangela Cotugno, moglie del brigante Rocco Chirichigno, alias Coppolone: al suo attivo una lunga serie di crimini, dal furto alla rapina, dall’omicidio alla «grassazione», secondo i verbali di polizia dell’epoca. O ancora Elisabetta Blasucci, alias Pignatara, una contadina che dopo la morte del marito, fucilato dall’esercito italiano, si diede alla macchia. Le «brigantesse» vestivano abiti maschili e spesso erano più feroci degli uomini. E nel vestire abiti maschili non erano in fondo dissimili dalla regina Maria Sofia, moglie di Francesco II, che dall’esilio cercava di aiutarle, tanto che arrivò a scrivere al generale francese Henry de Cathelineau “Preferirei morire in Abruzzo, con i briganti, che vivere a Roma”. Da un lato e dall’altro ci furono efferatezze. Se i briganti bruciavano e saccheggiavano le case dei benestanti che non li aiutavano, tendevano sanguinosi agguati alle truppe dell’esercito italiano (che aveva ereditato uomini e quadri dall’esercito sabaudo) questo dal canto suo non giocò meno duro. Per stroncare la rivolta fu prima dichiarato lo stato di assedio nelle ragioni meridionali e poi nel ’63 approvata la legge Pica, che stabiliva all’articolo 2 «i colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica saranno puniti con la fucilazione». E in molti paesi i corpi dei fucilati venivano esposti, come ammonizione: «spuntano ai pali ancora le teste dei briganti» recita un verso di Rocco Scotellaro, il sindaco poeta di Tricarico.

fonte https://www.pontelandolfonews.com/storia/il-brigantaggio/banditi-o-guerriglieri-1860-1865-una-lotta-senza-quartiere/

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CHI ERA GIUSEPPE GARIBALDI?

Posted by on Mag 21, 2019

CHI ERA GIUSEPPE GARIBALDI?

Una premessa doverosa prima di scrivere le gesta di un sanguinario.
I detrattori e gli scettici arriccino pure il nasino… Sono stanca e sapete perché? A noi spetta produrre continuamente documentazione e fonti “altamente qualificate “(di regime, oserei dire…) perché i servi sabaudi avendo prodotto una squallida, sordida e favolistica storia risorgimentale con la quale hanno indottrinato milioni di italiani ( e non solo) e almeno sei generazioni premono ed insistono affinché la verità non salti fuori… e vogliono generare e instillare dubbi … sono spregiudicati e pure nu poco strunz!

LA VERITÀ SU GARIBALDI
Garibaldi era di corporatura bassa, alto 1,65, ed aveva le gambe arcuate. Era pieno di reumatismi e per salire a cavallo occorreva che due persone lo sollevassero. Portava i capelli lunghi perché, avendo violentato una ragazza, questa gli aveva staccato un orecchio con un morso. Era un avventuriero che nel 1835 si era rifugiato in Brasile, dove all’epoca emigravano i piemontesi che in patria non avevano di che vivere. Fra i 28 e i 40 anni visse come un corsaro assaltando navi spagnole nel mare del Rio Grande do Sul al servizio degli inglesi che miravano ad accaparrarsi il commercio in quelle aree. In Sud America non è mai stato considerato un eroe, ma un delinquente della peggior specie. Per la spedizione dei mille fu finanziato dagli Inglesi con denaro rapinato ai turchi, equivalente oggi a molti milioni di dollari. In una lettera, Vittorio Emanuele II ebbe a lamentarsi con Cavour circa le ruberie del nizzardo, proprio dopo “l’incontro di Teano”: “… come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene – siatene certo – questo personaggio non è affatto docile né cosí onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa”.

SBARCO DI MARSALA: fu di proposito “visto” in ritardo dalla marina duosiciliana, i cui capi erano già passati ai piemontesi, e fu protetto dalla flotta inglese, che con le sue evoluzioni impedí ogni eventuale offesa. Tra i famosi “mille”, che lo stesso Garibaldi il giorno 5 dicembre 1861 a Torino li definí “Tutti generalmente di origine pessima e per lo piú ladra ; e tranne poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto”, sbarcarono in Sicilia, francesi, svizzeri, inglesi, indiani, polacchi, russi e soprattutto ungheresi, tanto che fu costituita una legione ungherese utilizzata per le repressioni piú feroci. Al seguito di questa vera e propria feccia umana, sbarcarono altri 22.000 soldati piemontesi appositamente dichiarati “congedati o disertori”.

CALATAFIMI: contrariamente a quanto viene detto nei libri di storia, il Garibaldi fu messo in fuga il giorno 15 maggio dal maggiore Sforza, comandante dell’8° cacciatori, con sole quattro compagnie. Mentre inseguiva le orde del Garibaldi, lo Sforza ricevette dal generale Landi l’ordine incomprensibile di ritirarsi. Il comportamento del Landi risultò comprensibilissimo quando si scoprí che aveva ricevuto dagli emissari garibaldini una fede di credito di quattordicimila ducati come prezzo del suo tradimento. Landi qualche mese piú tardi morí di un colpo apoplettico quando si accorse che la fede di credito era falsa: aveva infatti un valore di soli 14 ducati.

PALERMO: il Garibaldi, il 27 maggio, si rifugiò in Palermo praticamente indisturbato dai 16.000 soldati duosiciliani che il generale Lanza aveva dato ordine di tenere chiusi nelle fortezze. Il filibustiere cosí poté saccheggiare al Banco delle Due Sicilie cinque milioni di ducati ed installarsi nel palazzo Pretorio, designandolo a suo quartier generale. In Palermo i garibaldini si abbandonarono a violenze e saccheggi di ogni genere. A tarda sera del 28 arrivarono, però, le fedeli truppe duosiciliane comandate dal generale svizzero Von Meckel. Queste truppe, che erano quelle trattenute dal generale Landi, dopo essersi organizzate, all’alba del 30 attaccarono i garibaldini, sfondando con i cannoni Porta di Termini ed eliminando via via tutte le barricate che incontravano. L’irruenza del comandante svizzero fu tale che arrivò rapidamente alla piazza della Fieravecchia. Nel mentre si accingeva ad assaltare anche il quartiere S. Anna, vicino al palazzo di Garibaldi, che praticamente non aveva piú vie di scampo, arrivarono i capitani di Stato Maggiore Michele Bellucci e Domenico Nicoletti con l’ordine del Lanza di sospendere i combattimenti perché … era stato fatto un armistizio, che in realtà non era mai stato chiesto.

L’8 giugno tutte le truppe duosiciliane, composte da oltre 24.000 uomini, lasciarono Palermo per imbarcarsi, tra lo stupore e la paura della popolazione che non riusciva a capire come un esercito cosí numeroso si fosse potuto arrendere senza quasi neanche avere combattuto. La rabbia dei soldati la interpretò un caporale dell’8° di linea che, al passaggio del Lanza a cavallo, uscí dalle file e gli gridò “Eccellé, o’ vvi quante simme. E ce n’aimma’í accussí ?”. Ed il Lanza gli rispose : “Va via, ubriaco”. Lanza, appena giunse a Napoli, fu confinato ad Ischia per essere processato.

I garibaldini nella loro avanzata in Sicilia compirono efferati delitti. Esemplare e notissimo è quello di Bronte, dove “l’eroe” Nino Bixio fece fucilare quasi un centinaio di contadini che, proprio in nome del Garibaldi, avevano osato occupare alcune terre di proprietà inglese.

MILAZZO: Il giorno 20 luglio vi fu una cruenta battaglia a Milazzo, dove 2000 dei nostri valorosissimi soldati, condotti dal colonnello Bosco, sgominarono circa 10.000 garibaldini. Lo stesso Garibaldi accerchiato dagli ussari duosiciliani rischiò di morire. La battaglia terminò per il mancato invio dei rinforzi da parte del generale Clary e i nostri furono costretti a ritirarsi nel forte per il numero preponderante degli assalitori. Nello scontro i soldati duosiciliani, ebbero solo 120 caduti, mentre i garibaldini ne ebbero 780. Eroici, e da ricordare, furono i valorosi comportamenti del Tenente di artiglieria Gabriele, del Tenente dei cacciatori a cavallo Faraone e del Capitano Giuliano, che morí durante un assalto.

Episodi di tradimento si ebbero anche in Calabria, dove nel paese di Filetto lo sdegno dei soldati arrivò tanto al colmo che fucilarono il generale Briganti, che il giorno prima, senza nemmeno combattere, aveva dato ordine alle sue truppe di ritirarsi.

NAPOLI: Il giorno 9 settembre arrivarono a Napoli i garibaldini. Mai si vide uno spettacolo piú disgustoso. Quell’accozzaglia era formata da gente bieca, sudicia, famelica, disordinata, di razze diverse, ignorante e senza religione. Occuparono all’inizio Pizzofalcone, poi nei giorni seguenti si sparsero per la città, tutto depredando, saccheggiando ogni casa. Furono violentate le donne e assassinato chi si opponeva. Furono lordati i monumenti, violati i monasteri, profanate le chiese. Il giorno 11 il Garibaldi con un decreto abolí l’ordine dei Gesuiti e ne fece confiscare tutti i beni. Furono incarcerati tutti quei nobili, sacerdoti, civili e militari che non volevano aderire al Piemonte, mentre furono liberati tutti i delinquenti comuni. Il Palazzo Reale fu spogliato di tutto quanto conteneva. Gli arredi e gli oggetti piú preziosi furono inviati a Torino nella Reggia dei Savoia. Il filibustiere con un decreto confiscò il capitale personale e tutti beni privati del Re dal Banco delle Due Sicilie, che fu rapinato di tutti i suoi depositi. Napoli in tutta la sua storia non ebbe mai a subire un cosí grande oltraggio, eppure nessun libro di storia “patria” ne ha mai minimamente accennato.

CAPUA, VOLTURNO, GARIGLIANO, GAETA: eliminati i generali traditori i soldati duosiciliani dimostrarono il loro valore in numerosi episodi. La vittoriosa battaglia sul Volturno non fu sfruttata solo per l’inesperienza dei nostri comandanti militari. In seguito, la vile aggressione piemontese alle spalle costrinse il nostro esercito alla ritirata nella fortezza di Gaeta, dove il giovane Re Francesco II e la Regina Maria Sofia, di soli 19 anni, diventata poi famosa con l’appellativo di “eroina di Gaeta”, si coprirono di gloria in una resistenza durata circa 6 mesi. Gaeta non poté mai essere espugnata dai piemontesi, ma solo bombardata. Con la resa di Gaeta (13.2.61), di Messina (14 marzo) e di Civitella del Tronto (20 marzo), il Regno delle Due Sicilie cessò di esistere. I Piemontesi non rispettarono i patti di capitolazione e i soldati duosiciliani in parte furono fucilati, altri vennero deportati in campi di concentramento
in Piemonte. Di questi soldati, morti per la loro Patria, oggi non c’è nemmeno una segno che li ricordi e non meritavano l’oblio cui li ha condannati la leggenda risorgimentale.

PLEBISCITO. Il giorno 21 ottobre 1860 vi fu a Napoli e in tutte le provincie del Regno la farsa del Plebiscito. A Napoli, davanti al porticato della Chiesa di S. Francesco di Paola, proprio di fronte al Palazzo Reale, erano state poste, su di un palco alla vista di tutti, due urne: una per il Sí ed una per il NO. Si votava davanti ad una schiera minacciosa di garibaldini, guardie nazionali e soldati piemontesi. Il giorno prima erano stati affissi sui muri dei cartelli sui quali era dichiarato “Nemico della Patria” chi si astenesse o votasse per il NO. Votarono per primi i camorristi, poi i garibaldini, che erano per la maggior parte stranieri, e i soldati piemontesi. Qualcuno dei civili che aveva tentato di votare per il NO fu bastonato, qualche altro, come a Montecalvario, fu assassinato. Poiché non venivano registrati quelli che votavano per il Sí, la maggior parte andò a votare in tutti e dodici comizi elettorali costituiti in Napoli. Allo stesso modo si procedette in tutto il Regno, dove si votò solo nei centri presidiati dai militari con ogni genere di violenze ed assassini.

Segnalato da

Patrizia Stabile

Fonte: Verso Sud

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L’Insorgenza come categoria storico-politica

Posted by on Mag 17, 2019

L’Insorgenza come categoria storico-politica

Nota del 17 novembre 2018
In occasione del Capitolo Nazionale di Alleanza Cattolica svoltosi oggi a Piacenza Francesco Pappalardo ha svolto una relazione dal titolo «L’Insorgenza come categoria politica nell’intuizione e nel pensiero di Giovanni Cantoni». Riproponiamo qui lo scritto del fondatore di Alleanza Cattolica che espone il suo pensiero sull’argomento.

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LA CALUNNIA E’ COME UN VENTICELLO

Posted by on Apr 17, 2019

LA CALUNNIA E’ COME UN VENTICELLO

Quando gli studiosi di… regime si scagliano in modo selvaggio contro i Borbone, non posso che prendere la penna e cercare di difendere il mio Sud, le mie tradizioni e la mia Storia, quella che mi è stata insegnata, fin dalla tenera età, quando nonno Antonino, vicino al focone, mi parlava dei briganti, che si riunivano sul monte Polveracchio, dei Borbone, che amavano le nostre zone e che cercavano di rendere la vita nel loro regno il più vivibile possibile.

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