Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Breve Storia delle Due Sicilie

Posted by on Dic 13, 2019

Breve Storia delle Due Sicilie

Nel 1130, notte di Natale, con una fastosa cerimonia Re Ruggero II sancì a Palermo la nascita del Regno di Sicilia. Da quella notte, tutto il Sud della penisola italiana, dagli Abruzzi alla Sicilia, fu unificato nel primo vero Stato come nazione indipendente con capitale Palermo.

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Караччиоло (Lucio Caracciolo) Лючио (1771-1836Караччиоло (Lucio Caracciolo) Лючио (1771-1836)

Posted by on Nov 12, 2019

Караччиоло (Lucio Caracciolo) Лючио (1771-1836Караччиоло (Lucio Caracciolo) Лючио (1771-1836)

Anche i Russi rispettano la nostra storia mentre noi……………………..

Караччиоло (Lucio Caracciolo) Лючио (1771-1836) – герцог ди Миньяно и Роккоромана (Duca di Mignano e di Roccaromana), принц ди Конча и Косполи (Principe di Conca e di Cospoli), генерал-лейтенант неаполитанской службы (26 декабря 1818 года). Родился 14 марта 1771 года в Неаполе (Napoli) в семье герцога Винченцо Караччиоло (Vincenzo Caracciolo, Duca di Mignano e di Roccaromana) (1733-1793) и его супруги Петрониллы де Линевиль (Petronilla de Ligneville) ( -1793), с юности служил в неаполитанской кавалерии, отличился в сражении 8 января 1799 года при Каяццо (Caiazzo), где нанёс поражение отряду французских войск, вторгшихся на территорию Королевства. В том же месяце вместе с принцем Молитерно Жироламо Пиньятелли (Moliterno Girolamo Pignatelli) (1774-1848) возглавил народное восстание в Неаполе, приведшее к провозглашению 21 января 1799 года Партенопейской Республики (Rеpublique parthеnopеenne) и к вступлению в Неаполь 23 января войск генерала Шампионне (Jean-Etienne Vachier Championnet) (1762-1800). Вместе с тем, анархия, воцарившаяся в Неаполе вследствие торжества лаццарони (lazzari), вынудила герцога укрыться в Форте Святого Эльма (Forte di Sant,Elmo), которым командовал его брат Николо (Nicola Caracciolo). После падения Республики оставался вдали от общественной жизни вплоть до воцарения в 1808 году короля Мюрата (Joachim Murat) (1767-1815), когда возвратился на военную службу с чином полковника и в должности командира конных велитов Гвардии (Reggimento Veliti a cavallo). Участвовал в Русской кампании 1812 года, во главе двух эскадронов своего полка и трёх эскадронов неаполитанской Почётной гвардии (Guardia d,Оnore) экскортировал сани с Наполеоном после его отъезда из Сморгони – неаполитанцев прозвали «Белыми дьяволами» (I Diavoli Bianchi), поскольку они из соображений чести отказались несмотря на 20-градусный мороз от плащей и сопровождали Императора в парадных мундирах. При движении к Ошмянам были потеряны почти все лошади, а сам эскорт попал в плен казакам (101 велит и 162 гвардейца захвачены в плен, погибли 43 солдата), а остальные, включая генерала Пепе (Florestano Pepe) (1778-1851), полковника Караччиоло (потерял пальцы левой руки) и командира Почётной гвардии полковника принца ди Кампана (Ferdinando Sambiase, Principe di Campana) (1774-1830) прибыли в Вильно сильно обмороженными. Сражался в 1814 и 1815 годах в Италии, после Реставрации Бурбонов награждён 26 декабря 1818 года чином генерал-лейтенанта, в 1830 году – капитан Королевской гвардии Фердинанда II-го (Real Guardie del Corpo di Ferdinando II). Умер 2 декабря 1836 года в Неаполе в возрасте 65 лет, похоронен в часовне церкви Святого Джованни (Сappella della chiesa di San Giovanni a Carbonara). Высший Крест неаполитанского ордена Святого Георгия. Был женат на Оттавии Ланчелотти (Ottavia Lancellotti), от которой имел сына Эрнесто (Ernesto Caracciolo, Principe di Cospoli) (1792-1815) и дочь Марию Петрониллу (Maria Petronilla Caracciolo) (1793-1822). 

fonte http://impereur.blogspot.com/2016/01/lucio-caracciolo-1771-1836.html

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CARD. FABRIZIO RUFFO UN FORTUNATO AVVENTURIERO O UN UOMO STRAORDINARIO?

Posted by on Ott 31, 2019

CARD. FABRIZIO RUFFO UN FORTUNATO AVVENTURIERO O UN UOMO STRAORDINARIO?

La figura del cardinale Fabrizio Ruffo (d’ora innanzi, semplicemente “il cardinale”) rischia di rimanere un enigma, anche dopo due secoli dalla sua impresa, notissima perché strabiliante: la “riconquista” del Napoletano, in poco più di quattro mesi, al comando di poche migliaia di “briganti calabresi” contro i Francesi armati ed organizzati di tutto punto. Benvenuto allora lo studio di Ruffo-De Maio (IL CARDINALE FABRIZIO RUFFO TRA PSICOLOGIA E STORIA)[1] che, scritto a quattro mani, cerca di rispondere al  dilemma: “docile strumento di quei due esseri inferiori” (Francesco IV e  Carolina di Napoli) ovvero “ personaggio  che con calma e risolutezza  giunge al fine che si era prefisso, affrontando e superando continue difficoltà e pericoli”? (pp. 27 e 50). Una sciarada di non facile soluzione.

E, per cominciare, il motivo della “sorpresa” di fronte al risultato  imprevedibile (anzi disperato) sta, anzitutto, nella mancanza di un diario autobiografico del protagonista. Motivo parallelo sono le reticenze del segretario, l’abate Domenico Sacchinelli, che dovrà limitarsi al racconto delle vicende relative alla marcia vittoriosa, tralasciando il resto della vita del “cardinale”, per il timore troppo giustificato  dei veti della corte, che temeva venisse  alla luce la parte poco onorevole che  essa aveva avuto in quelle circostanze. Si pensi, per farsi un’idea dei procedimenti di re Ferdinando, che ad impedire al “cardinale” di far resistenza agli ordini di impiccare i napoletani passati ai francesi (fra cui l’ammiraglio F. Caracciolo e il giurista F. M. Pagano), il re non esitò a prendersi come ostaggio il fratello di lui,  Francesco, ordinando nel frattempo che lo stesso autore della liberazione fosse imprigionato (Nelson voleva addirittura impiccarlo!). La colpa? Aver garantito una resa onorevole agli insorti, ormai assediati a Napoli in Castel Nuovo e Castel dell’ Ovo. Con una simile censura, non c’erano davvero incentivi a cercare le “cause” del miracolo all’interno dell’animo del cardinale-condottiero.

  Ma è proprio questa la nostra curiosità: che “diavolo” era mai quel cardinale di santa romana Chiesa, che si improvvisava comandante di truppe e le elettrizzava coi suoi discorsi e proclami, in maniera non meno efficace di quanto sapesse fare Napoleone? E’ l’inchiesta affidata al professor Domenico De Maio, neuropsichiatra, che ha steso il primo dei tre capitoli dell’opera. La quale, sia detto en passant, è poi resa preziosa anche da foto di documenti riguardanti  provvedimenti di Napoleone  a favore del “cardinale” o dipinti di personaggi e luoghi legati alla sua attività, una cui panoramica essenziale, ma tutt’altro che  ripetitiva, è offerta dalla parte del volume stesa dal dottor Giovanni Ruffo, un discendente della famiglia del cardinale Fabrizio, esperto degli archivi di famiglia. Questi ha, dunque, potuto conoscerne al meglio le vicende esteriori, dalla fanciullezza alla morte, vicende che sintetizza qui, dopo averne discusso più ampiamente in “Calabria sconosciuta” (XVIII, n. 65: “Il cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara nella storia”) e soprattutto nel saggio “Il cardinale rosso”, Calabria letteraria editrice, 1998. Inquadriamo storicamente il fatto principale.

 Quali siano state le peripezie della “repubblica partenopea” fondata e persa dai francesi proprio due secoli fa, è a tutti noto. Napoleone, occupata la fortezza di Mantova nel febbraio del 1797, minaccia l’Austria da vicino e la costringe alla pace di Campoformio (17 ottobre). Gli stati pontifici erano già stati sistemati il 19 febbraio, a Tolentino: Bologna, Romagna, le Marche occupate, con una taglia, in più, di trentun milioni di lire e di numerose opere d’arte. Ma il Direttorio di Parigi aveva chiesto al suo generale di occupare tutto lo stato del papa: Napoleone aveva umiliato il suo governo. E questo cerca l’occasione per disfarsene. Bonaparte vuole andare in Egitto a tagliare la via delle Indie agli Inglesi? Bene: ecco la flotta, ecco i soldati, ecco il danaro. Dopo la sua partenza, il Direttorio riesce nelle sue mire su Roma: aizzando i rivoluzionari locali con emissari propri, suscita disordini, in uno dei quali perisce il generale francese Duphot (28 dicembre 1798). Era il “casus belli” che il Direttorio cercava. Il generale Championnet occupa Roma e urge su Pio VI perché abdichi. Non essendovisi egli piegato, lo si fa prigioniero e lo si avvia in esilio (morirà a Valence, in Francia il 29 agosto 1799). Ma quando Horatio Nelson distrugge la flotta napoleonica ad Abukir (1 agosto 1798), si forma la terza coalizione contro la Francia, con Austria e Russia pronti ad invadere l’Italia.  Come in precedenza, i Borboni di Napoli sono della partita. Si sentono impegnati a rivendicare i torti subiti dal pontefice e a non lasciar tracimare la rivoluzione in casa propria. E, poi, l’Austria ha fornito, quale comandante per il loro esercito, nientemeno che il generale Karl Mack. Già nel novembre 1798 “Del Tirreno dai liti| con soldati infiniti venne a Roma bravando| il re D. Ferdinando.| E in pochissimi dì,| venne, vide e fuggì” (p. 18).  Il generale Mack ha compiuto il suo primo capolavoro. Un altro lo consumerà ad Ulma nel 1805: dopo di che, ad evitarne ulteriori, verrà giustiziato dal suo governo. I responsabili delle fortezze del Regno si arrendono uno dopo l’altro: dal generale Luigi de Gambs in Teramo,  al comandante Tschudy per Gaeta, al duca di Roccaromana di Capua. Solo viltà, per paura; od anche tradimento, per il fascino delle idee giacobine? Su 130 vescovi del Regno, si fa il conto che ben 19 si professarono repubblicani filofrancesi (a cominciare dall’arcivescovo di Napoli, il cardinale Capece Zurlo) e solo 10 contro di loro, mentre la più parte si trincerò in un silenzio prudenziale. La corte borbonica? Il 21 dicembre 1798 si imbarca sul Vanguard dell’ammiraglio Nelson e si rifugia a Palermo, sotto la custodia della flotta inglese. A Palermo giunge anche, dal Casertano dove è responsabile della colonia di San Leucio, il nostro cardinale. Il re lo nomina “vicario generale del Regno”, cioè suo luogotenente con tutti i poteri (25. 01. 1799) ed egli passa lo stretto di Messina, sbarcando a  Capo Pezzo (Villa San Giovanni) l’8 di febbraio “con sette persone… una misera somma…nemmeno un militare di carriera” (p. 19). Ebbene: il 19 giugno egli ha praticamente terminato la sua missione, ottenendo la firma di resa dai repubblicani rinserrati in Castel Nuovo e Castel dell’Ovo e coi francesi rinchiusi in quello di Sant’Elmo. Che, poi, il Nelson dichiarasse infami le clausole della resa onorevole concessa dal cardinale Ruffo ed impiccasse, d’accordo con la corte tutti i “giacobini” ribellatisi al re e caduti nelle mani degli inglesi, è cosa purtroppo nota. Il 28 giugno, il re privava il “cardinale” d’ogni potere militare, sicché egli scriveva alla regina, licenziando. E, in attesa di essere sostituito, aiutava 500 patrioti a mettersi al sicuro. E si sarebbero potuti salvare anche i “giacobini” dei due castelli, se avessero seguito il suo suggerimento di fuggire per via di terra: li perse quella stessa mancanza di senso della realtà, che V. Cuoco rimprovera loro nel suo “Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli”.

La regina Carolina, come fu la più sanguinaria nel volere la morte dei ribelli e l’annullamento dei patti sottoscritti dal “vicario generale del regno”, così era stata la più scettica all’inizio dell’impresa del “cardinale”: lo riteneva matto. Eppure egli riuscì. Il perché va ricercato nella personalità di Fabrizio Ruffo, che De Maio ci presenta al vivo, seguendo con occhio clinico tutta la vita precedente la “reconquista”. Vorremmo prendere le mosse dalle conclusioni, salvo a documentarle nelle motivazioni: “Ruffo era nato per mettere ordine, per temperamento e per educazione; era un leader carismatico che ha sempre seguito un percorso logico e razionale, in ogni occasione dominando le emozioni e controllando le situazioni, vigile e diffidente come si conveniva ad una persona che per tutta la vita, dovette navigare tra “Scilla e Cariddi” di agguati, maldicenze, invidie e accuse” (p.27). E già prima: “aveva in sé il senso della predestinazione…era in pectore quello che sarebbe diventato” (p. 15). Noi siamo tentati di definirlo un temperamento passionato, cioè attivo (capace di trascinare all’azione gli altri) ed emotivo (capace di scuotere ed impegnare la sfera emozionale altrui), in maniera stabile, cioè non occasionale ma continuata. L’intelligenza privilegiava quella condizionata dall’emisfero destro (concretezza, decisione, dinamismo), mentre sobria,  funzionale, essenziale doveva essere la parola, ignara di retorica e di sfumature poetiche. Che ci pare anche il giudizio di Alessandro Dumas padre (cfr. p. 11). 

Chiediamo ora al professor De Maio gli indizi intuiti nei dati biografici e negli scritti.

Già da ragazzo (o, addirittura, da fanciullo?) i fratelli lo battezzano “biscia ostinata” (“lifitu testarinu”: p. 11). I fratelli lo vedevano   solo per le brevi vacanze estive, ché il prozio, cardinal Tommaso Ruffo (morto a 90 anni nel 1753), fin dai quattro anni lo portò con sé a Roma, affidandolo ad un precettore eccezionale: Giovanni Angelo Braschi, suo segretario e futuro papa Pio VI. Tale distacco , fa notare De Maio, non portò alcuna nevrosi né altra deformazione psicologica nel ragazzo: sano, robusto e intelligente, trasformava in esperienza intellettiva ed in fortezza di volontà le privazioni affettive (pp. 14-15: “ancora in giovane età, Ruffo agì con un perfetto sincronismo emotivo, comportamentale, volitivo e programmatico: si rese subito cosciente delle aspettative che si ponevano su di lui. E lui le fece proprie”. Difficile pensare, a nostro parere, che a quell’età il tipo di formazione impartita da G. Angelo Braschi potesse incidere in modo determinante sulla tenacia e puntigliosità del carattere, da renderlo paragonabile al vitalismo irritante di una biscia: era il suo temperamento che si consolidava con la disciplina e la dedizione allo studio.

Vi è un secondo dato significativo: il prozio muore (il 16 febbraio 1753) quando Fabrizio (nato il 16 settembre 1744) non ha ancora nove anni: eppure egli prosegue negli studi e nella carriera ecclesiastica, come programmato.[2]

Gli indizi a conferma del “tipo” psicologico si moltiplicano. Si è parlato di “studi e disciplina”. Ma non ci si aspetti una dedizione troppo docile e passiva. Almeno con il prelato Braschi, ci informa De Maio: “Comportamentalmente era però un ribelle, che passava da una punizione all’altra, senza modificare punto le linee del suo carattere”. (p.11). Fra le altre marachelle, c’era quella “di giocare con i… lunghi ed inanellati capelli” del suo precettore, che una volta anzi si ricevette uno schiaffo da Fabrizio, “infastidito dall’ostacolo che questi opponeva ai suoi tentativi” (ivi). Se ne può dedurre che “La sua ubbidienza era totale solo quanto agli studi.” (ib.). E, anche a questo proposito, egli seppe ritagliarsi i suoi campi di specializzazione che furono la giurisprudenza (si laureò a 23 anni, alla “Sapienza” di Roma) e l’economia. Lettore dei moderni teorizzatori delle due branche del sapere, egli faceva particolare riferimento a Pietro Verri (p. 53).

Un altro atto rivelatore della sua chiarezza di propositi e di intenti: accettando il diaconato, non proseguì fino al sacerdozio. Nè mai sarà prete (come il cardinale Ercole Consalvi ed a differenza del prozio Tommaso, che divenne anzi arcivescovo di Ferrara): un segnale di impegno non “indissolubile” con la Chiesa, essendo l’obbligo del celibato, al di fuori del sacerdozio, dispensabile con la  fuoruscita dall’ascrizione al clero.

 Con l’elezione a papa Pio VI del suo ex-precettore, le sue chances di carriera si fanno concrete: nel 1785 diviene Tesoriere generale, vale a dire ministro dell’economia dello stato pontificio. Si trova d’accordo con i progetti papali di ammodernare la situazione, attraverso una serie di provvedimenti economicamente e socialmente avanzati: abbattimento delle barriere doganali interne, provvedimenti protettivi delle manifatture dei sudditi, favore alla coltivazione della canapa e del cotone, sviluppo di una marina mercantile. Altre direttive furono l’abolizione dei vincoli produttivistici (monopoli di privati), la concessione di terreni demaniali in enfiteusi a contadini nullatenenti e la diminuzione dei poteri dei “cardinali legati” (delegati, cioè, al governo delle varie regioni dello Stato pontificio). Se il primo gruppo di decisioni era certo destinato a dare, col tempo, vantaggi anche per le casse dello stato, il secondo gruppo erano sorgente immediata di proteste, ostilità, accuse (di aderire ad idee illuministiche e, quindi,  anche religiosamente sospette). Visto che le finanze del pontificato di Pio VI peggioravano sempre più (per le imprese sproporzionate alle disponibilità, come il prosciugamento delle paludi, le costruzioni grandiose, il nepotismo); e che i princìpi seguiti dal papa e dal suo economo erano sfociate in Francia nella rivoluzione, allora la posizione del Ruffo alla Tesoreria divenne insostenibile: fatto già cardinale “in pectore” nel 1791, con un “promoveatur ut amoveatur” Pio VI lo  “pubblicò” nel 1794 e lo licenziò dall’incarico.

Ed ecco che il “cardinale” si rende indipendente, si porta a Napoli, dove il re lo fa sovrintendente di Caserta, con il compito particolare di sorveglianza sul gioiello della corona: la colonia agricolo-industriale di San Leucio dove, a parte altri provvedimenti sociali d’avanguardia, l’istruzione gratuita era obbligatoria anche per le ragazze! Per garantirgli lo stipendio, gli conferì le rendite dell’abbazia di S. Sofia in Benevento, dichiarata arbitrariamente di “regio patronato”. Erano tempi in cui il giurisdizionalismo faceva soffrire la Chiesa un po’ ovunque (Pio VI si era recato a Vienna nel 1782, nel vano tentativo di stornare le leggi ostili di Giuseppe II, imperatore illuminista, massone e sacrestano) e il provvedimento di Ferdinando IV era solo un colpo di spillo in più tra le ferite che egli ed il ministro Bernardo Tanucci avevano già inferto al papa. Solo quando la rivoluzione francese toccherà da vicino Austria e Napoletano, ci si rivolgerà di nuovo alla Chiesa come a garanzia del senso morale, necessario per mantenere l’ordine e governare. Ma quello che a noi interessa è rilevare come anche il cardinale non tenne conto della disapprovazione del papa e continuò nella sua opera di governo e di socialità. Il “cardinale”, cioè, cavalcava i tempi: le sfide che questi gli presentavano, erano per lui non sorgenti di paure e fughe, ma occasioni di lotta e di superamento. Citiamo da De Maio: “Nelle vicende che lo videro coinvolto, sempre da protagonista, il cardinale dimostrò saggezza ed equilibrio, ossia da uomo normale in armonia con la definizione datane da Freud – l’individuo normale è una persona in grado di amare e lavorare -. Nel caso del cardinale, – l’amare -, ovviamente, è l’equivalente di – amore -, che egli metteva in tutti i suoi progetti” (p. 23).

         Dopo questa “psicostoria” (p.10), l’impresa da Capo Pezzo a Napoli non può più apparire come un “raptus”, un caso fortuito, un colpo fortunato: il suo successo nella marcia politico-militare non è che l’esprimersi, poste le circostanze, di “valori” coerentemente costruiti in un’intera esistenza, a  partire dalle doti biologiche (cfr. pp.21-22). E, tra i valori, vi sono quelli della giustizia, dell’equità e della compassione. La prima è presente nei continui appelli ed interventi, perché ci si astenga da carneficine e da saccheggi; e perché, anche a tal fine, questi stessi uomini siano pagati regolarmente. La seconda genera la preoccupazione di creare una condizione di vita tollerabile nelle terre “liberate” (ridimensionamento del latifondo; abolizione dei dazi interni, provvedimenti per regolare la produzione e il commercio della seta: pp.33-34 e 57). La terza preordina il perdono ai “repubblicani” pentiti, fino a prevederne il rientro al servizio della monarchia (brani delle lettere al ministro Acton, riportate a pp. 32 e 52; sintesi di altre lettere allo stesso Acton, al re ed alla regina: pp. 50-2).

 E’ alla luce di questo “cristianesimo secondario”, ossia delle ricadute dei princìpi evangelici sui rapporti sociali, che egli poté trovare le parole giuste al momento giusto per infervorare, trascinare e condurre alla vittoria i contadini calabresi. De Maio sottolinea giustamente le geniali intuizioni presenti nel “proclama di Palmi”. Anzitutto, in due parole, la riabilitazione dei popolani dal marchio di briganti e peggio (“crocifissori di Cristo”, secondo la leggenda che calabresi fossero i soldati assegnati, il venerdì santo, alla tragedia del Calvario): egli si rivolge loro come ai “bravi e coraggiosi calabresi”. In secondo luogo, il richiamo di tutti gli ideali più sentiti dall’uomo preilluminista: religione e monarchia, Dio e re, Chiesa e famiglia. Infine si rivela la praticità dell’organizzatore: come segnale del proprio partito, egli stabilisce una ben visibile croce bianca, ritagliata in stoffa, cucita sul vestito. Egli creava l’esercito della “santa fede”, con un’icona inconfondibile, impegnativa, nobilitante: anche confortatrice in casi di ferite o di morte.

Ma gli eccidi di Crotone?  E il saccheggio di Altamura? A Crotone il “cardinale” non era presente il 22 marzo, quando la città venne inaspettatamente consegnata, in seguito al tradimento della guarnigione interna: vi accorse il 26, appena seppe del comportamento delle sue truppe; e fece cessare la carneficina. Altamura non volle arrendersi e fu sottoposta a regolare saccheggio: ma il “cardinale” riuscì a salvare la gente (stabilì una porta della città come sicura uscita per gli abitanti); anzi, del bottino, fece restituire i mobili e le masserizie più vistose. Tanto che, a Catanzaro, dove i cittadini si sollevarono contro i giacobini prima dell’occupazione della città, le truppe del “cardinale” furono invitate dentro dagli stessi repubblicani, per evitare vendette ed eccessi da parte degli esasperati e scatenati monarchici. D’altronde egli   era troppo cosciente che i “suoi” uomini erano quelli da cui dipendeva la riuscita dell’impresa: e doveva tollerare, quando non poteva frenare. Lo seppe troppo bene, non appena la Calabria fu liberata del tutto: molti dei capibriganti che l’avevano seguito se ne andarono, soddisfatti  del loro bottino. Per rifare la propria “Armata Cristiana e Reale”, egli dovette attendere a lungo: solo alla fine di aprile poté pervenire alla liberazione della Basilicata…

         E, sulla scorta di Domenico De Maio e di Giovanni Ruffo, si potrebbe continuare a mettere le fondamenta per una ricostruzione in positivo dell’opera del cardinal Fabrizio, fino a fondare la grandezza dell’uomo, più che sulla riuscita effimera della “riconquista”, nel suo sforzo per una maggiore giustizia sociale e, forse, nel suo sogno di una monarchia costituzionale (pp.52 e 69).

         A favore di una sua rivalutazione stanno non soltanto le sue lettere e le “Memorie economiche” (pp.50 e 66), ma anche una palinodia di Benedetto Croce, parallela a quella che gli toccò di scrivere a proposito dei “Promessi Sposi”. Convinto che ogni forma di letteratura finalizzata a scopi morali si escludesse automaticamente dalla perfezione artistica, egli pubblicò una stroncatura del romanzo manzoniano nel 1926 (ora in “Conversazioni critiche”, III, 247-256). Ma, a pochi mesi dalla morte, fece riparazione riconoscendo la sublimità estetica del capolavoro e attribuendo l’errore ad una insufficiente riflessione (“Lo spettatore italiano”, marzo 1952). Ebbene, anche a riguardo del nostro personaggio, nel 1897 (“La rivoluzione napoletana del 1799”, Bari, Laterza) egli ebbe a dare un giudizio sprezzante, definendolo “docile strumento nelle mani di quei due esseri inferiori”. Ma, pubblicando “La riconquista del Regno di Napoli nel 1799. Lettere del cardinal Ruffo, del Re, della Regina e del ministro Acton”(ivi, 1943), egli elogia il “cardinale” in questi termini: “Il personaggio che nella lettura di questo carteggio spicca ai nostri occhi è lui, Fabrizio Ruffo, che pensa e opera e, con calma risolutezza, affrontando e superando continue difficoltà e pericoli, giunge al segno che si era prefisso… A siffatti propositi (di vendetta, da parte del re e della regina) il Ruffo, pur nel mezzo delle sue cure e dei suoi affanni, opponeva chiaramente e fermamente, fin dal primo delinearsi del felice andamento della sua impresa, il diverso sentimento suo e il diverso suo pensiero e la diversa sua pratica: cioè, che invece di punizioni o restringendo a pochi casi le punizioni, fosse da adoperare larga clemenza e indulgenza…” E cita dalla lettera all’Acton questa riflessione sulla condizione tormentata del suo spirito: “E’ certo che il caso di far guerra e temere la rovina del nemico è la più crudele situazione, ed è la nostra”. C’è molto da ridire sulla religiosità del “cardinale” (e il prof. De Maio è piuttosto sulla negativa: cfr. p. 24 “egli non fu uomo di Chiesa, anche se certamente fu uomo della Chiesa”; anzi, “Il cardinale…forse non era nemmeno religioso” p. 23), ma una cosa ci sembra certa: il sentirsi angosciato per la salvezza del nemico, che pur si è costretti a combattere, non è sentimento che  si riesca a trovare espresso fuori del Vangelo e della fede  che vi si riferisce: è un “proprium” della civiltà cristiana.

         Ma, qualunque sia stato il peso dell’educazione nel far maturare il suo temperamento (innato) in carattere (liberamente forgiato), pare di dover proprio assentire con De Maio quando conclude (p. 38) che la sua eccezionale personalità e le sue opere eccezionali “giustificano in pieno il prestigio di cui il cardinale godette dopo”: sia presso il re Ferdinando, che presso Napoleone, che presso il papa. A Napoli fu fatto ambasciatore presso la S. Sede e Consigliere di Stato; a Roma Pio VII gli affidò la soprintendenza alla Deputazione dell’annona e della grascia e lo nominò in due diverse occasioni membro della congregazione economica ; Napoleone  lo volle presente al suo matrimonio con Maria Luisa, nel 1810 e gli conferì la Legion d’onore nel 1813.

Perché gli storiografi posteriori non sono unanimi nel giudizio di lode ad un personaggio così eccezionale? Cedano alfine i pregiudizi alla verità dei fatti.        

                                                                           don Marcello De Grandi.

[1] Giovanni Ruffo e Domenico De Maio- Il cardinale Fabrizio Ruffo tra psicologia e storia- Rubbettino- 88049- Soveria Mannelli, 1999, pp.118, Lire 18.000.

[2] Ma chi aveva preordinato il curricolo della sua vita? In che misura egli lo faceva proprio? Anche nelle dimensioni religiose? Forse la domanda non ha molto senso per lui: l’obbedienza ai genitori era allora non solo un comandamento di Dio, ma un mito sociale, almeno in certe classi nobiliari (i Ruffo, non si dimentichi, erano prìncipi): implicava anche la scelta dello stato, nonostante le precauzioni in contrario della Chiesa. E, poi, in un parentado che fra il 1706 ed il 1891 poté vedere eletti al cardinalato altri quattro membri, l’ambizione di Fabrizio alla carriera ecclesiastica poteva parere cosa appetibile e degna,  senza per questo escludere nè includere necessariamente la fede. D’altra parte, questa, era un’eredità ovvia nell’ambiente in cui era cresciuto, sia di famiglia che nel contatto con il precettore romano e nel collegio Clementino dove, ad un certo punto,  anch’egli si iscrisse come lo zio, per gli studi teologici: era la scuola dove si formavano i diplomatici e  i candidati alle alte cariche ecclesiastiche, anche attraverso gli studi di teologia dogmatica e morale. Ma l’aver rifiutato il sacerdozio per tutta la vita, fa del nostro “cardinale” un enigma su questo punto. Almeno fino ad un certo segno. Angelo Braschi si fece ordinare sacerdote solo a quarantuno anni, quando già da tre era canonico maggiore di San Pietro. E, cardinale dell’ordine dei preti, fu consacrato vescovo dopo la nomina a papa. Consalvi, il segretario di Stato di Pio VII, non fu mai sacerdote, ma seppe rispondere a Napoleone che non si illudesse di riuscire a distruggere lui la Chiesa, visto che non c’era riuscito il clero in diciotto secoli!  

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1799-1999 Repubblica Napoletana e Insorgenza antigiacobina

Posted by on Ott 29, 2019

1799-1999 Repubblica Napoletana e Insorgenza antigiacobina

1. Appunti di storia dell’Insorgenza / 9

Pubblichiamo la trascrizione — rivista dall’autore e annotata redazionalmente — dei due interventi che Francesco Pappalardo ha svolto in occasione della tavola rotonda 1799-1999 Repubblica Napoletana e Insorgenza antigiacobina. Fra modernizzazione politica e rivendicazione dell’identità del 27 marzo 1999 a Milano, di cui riportiamo più sotto una breve cronaca.

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Il casato Burali d’Arezzo, uno dei più antichi d’Europa

Posted by on Lug 29, 2019

Il casato Burali d’Arezzo, uno dei più antichi d’Europa

   La famiglia  gentilizia Burali d’Arezzo va divisa in sei rami, che sono Arezzo, Firenze, Pisa, Parma, Napoli e Sicilia. Essa, che possedette vari castelli, è originaria di Buro, in Francia, città di cui scrive Giulio Cesare nel “De Bello Gallico”, definendola “fortissima fra le città tutte della Gallia e della Germania”, onde Burali, che sono tra le famiglie più antiche d’Europa, come si evince dai documenti degli archivi pubblici e privati nazionali.

   Essi calarono in Italia nel 700 e si stanziarono nella Valle Superiore del fiume Arno, fondando la città di Ostina, governata da loro per cinque secoli con ottime istituzioni. Di questo centro restano sparsi ruderi nel Valdarno di Sopra, in provincia di Arezzo, distrutto per la guerra tra guelfi e ghibellini. Altri componenti della medesima famiglia, partiti da Buro, si fermarono in Parma, dove si distinsero, meritando il primato tra i cittadini parmensi. I Burali di Arezzo  e di Parma sono dello stesso casato, come lo prova lo stesso sigillo adottato da essi e numerose lettere scritte dal Cavaliere Anfione Burali, Consigliere del Serenissimo Duca di Parma, al Governatore di Arezzo, Giacomo Burali.

   I Burali avevano ricevuto dai re longobardi, per i servigi resi agli stessi, un diritto illimitato, tra cui la facoltà di fondare delle città. Essi innalzarono le mura di Ostina, magnifici edifici, sontuosi palazzi e un Foro. Il dominio dei Burali su Ostina durò circa 570 anni, sino al 1269, quando  la città, che si difese ostinatamente, fu distrutta quasi completamente dagli esuli ghibellini di Firenze e dai Pazzi, signori della Superiore Valle d’Arno: La famiglia  fu costretta all’esilio. Allora i Burali, principi di Ostina, marchesi e conti della Repubblica Fiorentina, Gran Capitani della Superiore Valle d’Arno, si insediarono in Arezzo, dove acquistarono magnifici palazzi.Un ramo , da cui discende il cardinale, passò al servizio di Ladislao, re di Napoli. Sappiamo che un Donato Burali d’Arezzo , che svolse la duplice funzione di consigliere del sovrano  e di luogotenente del grande cancelliere; conosciamo anche la figura di un Checco  Burali d’Arezzo,che, anch’egli sotto Ladislao, fu castellano e governatore nella campagna di Eboli, nel Salernitano. Siccome Ladislao, assieme alla madre Margherita d’Angiò, risiedeva a Gaeta, essendo stata occupata Napoli da Luigi d’Angiò, la famiglia Burali d’Arezzo acquistò proprietà terriere di notevole estensione ad Itri, dove ebbe i natali il cardinale Paolo.

   Numerosi storici hanno documentato la nobiltà e le gesta dei Burali d’Arezzo. Tra gli altri, l’illustre Francesco Guicciardini nella celeberrima “Storia d’Italia”, in venti libri scritta tra il 1537 e il 1540, in forma annalistica, forse sull’esempio di Tacito, opera di potente unità, tanto esteriore quanto intrinseca.

   Il gloriosi casato, a cui hanno reso onori tante Corti europee, ha dato alle ambascerie di pace, alla Chiesa, alla giurisprudenza, agli studi umanistici, alle armi, tanti uomini preclari, ai quali sovrani ed autorità municipali conferirono beni, poteri e titoli.

   I Burali d’Arezzo  edificarono chiese e cappelle in molte città, italiane e straniere Ne diamo un breve accenno : la chiesa di S. Maria e quella di S. Francesco con il vasto convento nelle adiacenze di Arezzo, a memoria del Beato Giovanni Burali di Parma, settimo General  Ministro dell’Ordine dei Minori; la grandiosa cappella nella vetusta chiesa di S. Michele; l’altra di Maria Immacolata in Guascogna;  la cappella di S. Andrea nella chiesa di S. Germiniano;  la cappella della SS.  Trinità nel monumentale tempio di S. Maria in Gradi, la cappella  della Conversione di S. Paolo nella chiesa  della collegiata ed altra di S. Onofrio, pure in Arezzo;  la cappella dell’Angelo Custode nel convento dei Padri Francescani in Gaeta; la cappella, anch’essa dedicata all’Angelo Custode nella chiesa di S. Francesco in Itri; la chiesetta di S. Maria della Misericordia e l’altra di S. Erasmo, entrambe in Itri; le cappelle gentilizie nel duomo di Gaeta, nella chiesa dei  SS. Apostoli e in quella di S. Paolo Maggiore in Napoli, dedicate, queste ultime, al Beato Paolo Burali d’Arezzo, cardinale Arcivescovo di Piacenza e di Napoli.   

     Il Beato Paolo (al secolo Scipione)  Burali d’Arezzo fu una figura straordinaria, una delle più espressive del periodo della riforma cattolica, che affascinò S. Carlo Borromeo e tanti altri, sempre con la sua profonda umiltà, virtù caratteristica di tutta la sua vita, con la sua purezza, nella quale si innestavano una vasta dottrina, una pietà evangelica e  il rigore. La candidatura alla tiara pontificia del Burali, alla morte di Pio V, fu bocciata dalla cosiddetta corrente mondana del conclave, perché si temeva che egli avrebbe trasformato il Sacro Collegio in un convento teatino. Dunque Paolo  non fu eletto pontefice nel 1572, per la sua soverchia rigidezza ed austerità, nonostante S. Carlo Borromeo e il cardinale Michele Bonelli,  l’“Alessandrino”,  nipote del defunto papa, avessero puntato decisamente le proprie carte su di lui, che, invece, concorse efficacemente, il 13 maggio 1572, all’elezione di Ugo Boncompagni, suo antico maestro di diritto canonico all’università di Bologna, elevato al soglio pontificio con il  nome di Gregorio XIII.

    Il cardinale Burali d’Arezzo, del titolo di S. Pudenziana, intransigente difensore della fede, nasce all’ombra del castello di Itri, uno dei più grandiosi d’Europa, che ha svolto un ruolo strategico nelle comunicazioni tra i vari Stati, essendo in posizione dominante sull’Appia. Alla storica famiglia altomedioevale, tra le più nobili della Toscana (il padre è il principe Paolo Burali d’Arezzo, Segretario di Stato dell’Imperatore Carlo V, la madre è Victoria Oliveres di Barcellona, dell’alta nobiltà spagnola, figlia di Pere Oliveres, consigliere  e poi uditore reale nel vicereame di Napoli), vennero conferiti feudi, poteri e titoli.

  Il principe Paolo Burali d’Arezzo è un protagonista nelle ambascerie, contribuendo, fra l’altro, in maniera ragguardevole, a sanare i profondi  contrasti tra Carlo V di Spagna e Francesco I di Francia. Egli, in qualità di ambasciatore del pontefice Clemente VII e del  duca di Milano Francesco Sforza, si muove con grande competenza presso l’imperatore, che nutre per lui grande ammirazione, come pure il sovrano francese Francesco I di Francia.

   Finalmente, nel giugno del 1529, viene firmato il trattato di pace di Barcellona. Il papa riceveva alcuni compensi territoriali ed investiva Carlo V re di Napoli, promettendogli anche di incoronarlo imperatore in Italia. Il principe Paolo,morta, ancora giovane, la moglie, abbracciò la vita religiosa nel 1557, nominato prelato e cameriere di Clemente VII.   

   Ricordiamo, sulla base di un’opera dello storico Camerini, il ruolo  svolto dal Beato di casa Burali, Giovanni di Parma, nato nel 1208 e morto ottantunenne. Seguace di S. Francesco d’Assisi, fu ambasciatore papale,  inviato presso il sovrano di Francia Luigi IX, per chiedere aiuti per la Crociata. Poi, come scrive Ireneo di Busseto, spedito da Innocenzo IV a Costantinopoli per trattare l’unione delle Chiese. Egli, nelle credenziali da esibire all’imperatore, è qualificato come “Angelo della Pace”. L’ambasciata è coronata da successo, perchè la chiesa greca sii pacifica con quella latina. Anche nel Concilio di Lione, del 1245, Giovanni Burali di Parma ricopre un ruolo di rilievo. In esso (XIII ecumenico) si sanzionò la scomunica di Federico II. Lo stesso fu il primo professore d’italiano alla Sorbona di Parigi. Sappiamo che Enrico III, re d’Inghilterra, scende sin sulla soglia del suo palazzo per venir incontro al Beato Giovanni Burali e che Luigi IX, sovrano di Francia, che fu canonizzato da Bonifacio VIII nel 1297,va a mensa, suo ospite.

   Il moto popolare di Masaniello a Napoli, nel 1647, che scomnvolse il Mezzogiorno d’Italia, ebbe ripercussioni nelle province. La rivolta si diffuse, come fuoco divampante al soffiar del vento, in molti centri del reame assumendo caratteri sempre più politici, perché i ribelli proclamaromno la repubblica. L’insurrezione contro gli Spagnoli si estese con facilità, fino a Fondi, Sperlonga ed Itri, sotto l’energica spinta di Giuseppe Burali d’Arezzo, che guidò la ribellione con fortuna, potendo disporre di più di 600 uomini.

   L’opera di Giuseppe Burali d’Arezzo fu di così notevole importanza nello sviluppo della rivolta, da destare inquietudini serie negli Spagnoli. Dopo aver alluso ai moti delle altre province, così il De Turri in “Dissidentis desciscentis receptaeque Neapolis”, Napoli, 1770, p. 537, accenna a quelli di Itri e di Fondi: “His Tristiores, etiam, successibus erant qui aeque ad regni limites sed ad inferum mare contigere. Fundos et cum eis Sperlingam cum universis circumiacentibus oppidis Dominicus quidam Aloysii vulgo Peponus, et Josephus de Aretio tumultuarii Duces, occupavere.” E il Piacente in “Le Rivoluzioni del Regno di Napoli negli anni 1647-1648”, Napoli, 1861, p. 255, “Sollevatosi Itri, terra non meno di 40 miglia lontana,  per la via di ponente, da Capua, Giuseppe d’Arezzo gentiluomo di quella terra e forse il oprimo che incominciasse tra i nobili a lazzarizzarsi, non solo la costrinse a dichiararsi a devozione del popolo, ma prese patente di Maestro di Campo dall’Ambasciadore di Francia, e divenutto Capo di 600 persone che raccolse dai vari villaggi di quel contorno, si spinse, emulando la (sic!) Colessa, sotto le mura di Fondi, città non meno considerabile.” Il Burali d’Arezzo si impadronì subito del convento di S. Francesco, da cui lanciava all’assalto i suoi. Vedi il Piacente. Con un assedio di parecchi giorni, il signor  Burali d’Arezzo costrinse alla resa i soldati regii ben provvisti, che si difendevano gagliardemente; resa che parve tanto strana allo stesso Comandante Martino De Berrio, da indurlo al sospetto di un tradimento. Perciò fece imprigionare il capitano Francesco Inglese. Ma, siccome l’inchiesta risultò favorevole, l’Inglese fu posto in libertà. Consultare P: Oliva, “Discorso della Sollevatione”, p. 50.

   Il Burali d’Arezzo, instancabile nel presidiare i posti e nell’estendere la rivolta, avuto in mano sua anche Itri e Sperlonga, tentò di occupare Castellone e Mola, ma vi fu respinto dai 50 Spagnoli che vi erano di guardia, prima ancora che vi giungessero i rinforzi del duca di Marzano, del marchese della Pietra, dei Grimaldi di Genova, e del Mormile, duca di Vairano. Nel “Diario di Francesco Capecelatro contenente la storia delle cose avvenute nel Reame di Napoli negli anni 1647-1650”, opera primaria, edita, per la prima volta, sulla rivoluzione di Masaniello, in data 1850-1854, il Capecelatro scrive: “Due fratelli della famiglia di Arezzo, nipoti del già Cardinale di tal nome, naturali della terra d’Itri, avuti alcuni capi Francesi da Terracina, avevano fatta rubellare la loro patria ed occupato Castiglione (sic!) presso Gaeta  (Castellone e Mola, oggi Formia, n. d. r.), ove s’erano fortificati e, tentato parimente di occupare Mola, vicino borgo della detta città, ne erano stati ributtati da cinquanta Spagnuoli che v’erano di guardia;il perché fu inviato a quella volta il Mormile duca di Vairano (che poi perfidamente rubellandosi con Giovan Battista del Balzo di Capua Barone di Presenzano suo cognato, s’unirono ai popolari) ed il laudato gentiluomo di Gaeta e cavaliere dell’abito di Caltrava Duca di Marzano, che con il Marchese della Pietra dei Grimaldi di Genova, che ersa in prima gito in Teano, raunando soldati si fussero opposti a quei rumori.” Ciò, prima del 20 dicembre 1647. Poi con 300 cittadini gaetani e 200 soldati, il maggiore Pedro Sanchez, introdottosi, per occulte vie, in Itri, saccheggiò il paese e delle alle fiamme la casa del Comandante.  Gli insorti riconquistarono Itri e fortificarono meglio Sperlonga.Ciò impressionò tanto il conte di Onatte, che nel viaggio da Roma verso Napoli, dove si recava come nuovo viceré, si indugiò apposta alcuni giorni a Terracina, per farvi con il Burali d’Arezzo le trattative della resa delle terre da lui mantenute così tenacemente; trattative continuate da Napoli, tramite il Principe di Roccaromana.

   Però, in soccorso dell’Onatte,che si insediò a Napoli con la crudeltà,vennero presto, anziché le pratiche già iniziate, le disgrazie del capo degli insorti. Venuto in sospetto dei Francesi, fu imprigionato, a tradimento, nel castello di Fondi, ma, liberato dai suoi partigiani, cadde, presso Terracina, nelle mani dei soldati pontificii, che lo rinchiusero a Frosinone. Si ignora che sorte gli toccasse in seguito.Sembra che, essendo poco sicuro il carcere di Frosinone, la Santa Sede ritenne opportuno trasferire Giuseppe Burali d’Arezzo a Civitavecchia. Durante il tragitto, però, i Francesi riuscirono a liberarlo. Per la sollevazione di questi paesi, i fratelli Burali d’Arezzo furono condannati alla pena capitale, ma la madre di essi, una Vipereschi di Benevento, si presentò da Masaniello e, ricordando i meriti del santo arcivescovo di Napoli, Paolo Burali d’Arezzo, poi beato, di cui gli agitatori erano pronipoti, riuscì ad ottenere il condono del castigo.

   Secondo il Capocelatro, forse il più autorevole testimone della rivoluzione, filospagnolo, le accuse contro di lui sarebbero queste: la dispersione del danaro gallico, inteso alla propaganda antispagnuola, e l’odiosità insolente con cui tenne il governo del paese. Si riportano le parole del Caracciolo. I ricorsi degli stessi concittadini all’ambasciatore francese di Roma costrinsero questi ad inviare a Fondi una persona di fiducia, il capitano Troyna, che, appurata la verità delle accuse, procedette all’arresto dei fratelli Burali d’Arezzo. Egli venne con 130 soldati, cenò lietamente con loro nel castello e, all’improvviso, li fece arrestare. Ma il brutto complimento gli costò la vita. I loro aderenti riuscirono, dopo quattro giorni, ad uccidere, di notte,il Capitano, mentre era a letto, o si recava da una sua donna, e, in tal modo, a sciogliere dalla prigione i signori Burali d’Arezzo. Uno di loro fuggì in campagna, a “Valle d’Itri”, dove i Burali d’Arezzo avevano una casa rurale, senza essere raggiunto. Gli altri due, uno dei quali D. Giuseppe, passarono nella prigione pontificia, arrestati presso Terracina.

   A quanto scrive lo stesso Capocelatro, i soldati papalini li avrebbero assicurati alla giustizia per i “molti gravi delitti da loro commessi” nello Stato del papa. Non pare ammissibile, né l’Oliva ha il minimo accenno a tale corcostanza infamante! Presumibilmente, l’ambasciatore francese a Roma volle colpire in loro la strage fatta del capitano Troyna, oppure, come scrive l’Oliva, furono presi come “banditi” dello stato ecclesiastico.In quanto alle colpe attribuite loro, esse vanno non solo ridotte, ma discusse. L’appropriazione, da parte dei fratelli Burali d’Arezzo, dei 14.000 scudi francesi dati loro allo scopo di “assoldare” uomini- ciò che, secondo il Caracciolo, non avrebbero fatto- non pare si possa sostenere, quando si pensi alla rapidità ed estensione del tumulto che essi provocarono e mantennero a lungo, in molti paesi del regno di Napoli. Ed il danaro dovette andar disperso e profuso nell’istigare alla rivolta e nel fortifoicare i posti. Cosa che fu eseguita prontamente, senza alcun dubbio. Forse il diarista registrò, senza ombra di riserva, una diceria pubblica, sorta in ambienti ostili.L’Oliva, che poteva saperne per i facili contatti fra Gaeta ed Itri, parla solo del “conto” che l’inviato francese doveva chiedere a Giuseppe Burali d’Arezzo di “alcune migliaia di ducati” spediti per “soccorrere le genti” ed insiste sugli “eccessi” e mire interessate, che travolsero nella rovina “quel giovane”, che “viveva con ogni comodo nella sua terra d’Itri, nella quale teneva il primo luoco, amato, temuto e servito da tutti”. Egli, invece, fu accecato dall’ambizione (“Discorso della Sollevatione” di P. Oliva, pp. 59,61). Altrove accenna anche all’opera di malvagità “degli amici et aderenti” suoi, che, “vedendosi privi delle loro solite rapine”, lo scarcerarono uccidendo il Troyna. Giuseppe Burali d’Arezzo fu sempre il capro espiatorio di colpe anche non sue, ma le gelosie o le vendette private dovettero aver gran parte (è lecito congetturarlo) nel muovere e nell’accreditare le accuse contro di lui, che avrebbero bisogno di essere avvalorate da altri documenti, perché si possa crederle definitive. Malgrado la gravità di un arresto indetto dai Francesi stessi, che avevano interesse ad evitarlo, le fontoi del Caracciolo e dell’Oliva, devoti alla Spagna, restano decisamente sospette e appassionate. Del resto, pur dando all’ipotesi di quell’appropriazione valore storico, è da riflettere che per la rivoluzione i Burali d’Arezzo ebbero la casa arsa e saccheggiata, nonché la prigione!

   Comunque sia, la sua scomparsa incoraggiò tanto gli Spagnoli, che ne approfittarono gettandosi subito all’occupazione dei paesi ancora sollevati. Con uno squadrone di cavalleria, al comando del principe di Minervino, e 1200 soldati, agli ordini del principe di Garaguso, del conte di Loreto e del duca di Marzano, D: Martino De Berrio, dopo aver sorpreso Itri, che finì di saccheggiare orrendamente, ed aver accettato la capitolazione di Fondi, che gli aveva già inviato, per via, le chiavi della città, si diresse a Sperlonga, dove si erano concentrati i nemici, disponendosi a prenderla d’assalto, a detta di Francesco Capecelatro e di Paolo Oliva.

Alfredo Saccoccio

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