A decidere la caduta della Destra non fu certo il deputato siciliano Morana con la sua interrogazione né le proteste che agitavano la Sicilia per il caro-pane. Ad influire maggiormente furono i risultati elettorali del 1874. Rispetto alle elezioni del 1861 la destra, che aveva avuto l’80% dei deputati, era scesa al 54% mentre la sinistra dal 20% era passata al 46%. La crescita della sinistra, contrariamente a quanto si verifica oggi, era praticamente concentrata nel Mezzogiorno e particolarmente in Sicilia [1]. In Sicilia per ogni deputato di destra, ne erano stati eletti ben 9 di sinistra.
Al Sud, gli eserciti piemontesi dei Savoia hanno compiuto un vero e proprio “genocidio”, migliaia di persone scomparse o costrette a subire la deportazione, .rastrellamenti, marce forzate, torture e fucilazioni senza processi ai cosiddetti “briganti”, uomini armati, che si sono permessi di ribellarsi al nuovo ordine imposto da Torino. Il costo umano sofferto dai meridionali a causa della guerra di aggressione scatenata dai savoiardi fù molto alto. Lo storico Christopher Duggan, in “La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi”, pur mancando di dati recenti, ritiene che i morti sono oltre 150.000. Mentre per la Civiltà Cattolica, la rivista dei Gesuiti di allora, sono addirittura oltre un milione e forse non è un numero troppo azzardato! “Erano essere umani; stavano a casa loro. E questo divenne il loro delitto”. Oltre ai cosiddetti “briganti” che presero le armi, furono condannate le mogli, “come manutengole con complicità di primo grado. Fanciulle di 12 anni, figlie di briganti, avevano subito condanne di 10 o 15 anni”, lo scrive Franco Molfese, che ritrovò nella biblioteca della camera dei deputati, resti della relazione Massari sull’opposizione armata al Sud, spacciata per criminalità. Intanto con il procedere delle ricerche, “si è scoperto che il numero dei deportati civili al Nord fu incredibilmente maggiore di quanto si sapeva, e ancora si trovano insospettati archivi da cui emergono, a migliaia, le tracce di vite distrutte”. Peraltro da questi conti è esclusa la Sicilia, perchè era scandaloso ammettere che l’isola, la culla della rivoluzione, si ribellasse al regno sabaudo. Ancora oggi si ripete che in Sicilia è esistita solo una banda di briganti, invece non è così. Basta solo la rivolta del “Sette e mezzo” a Palermo nel 1866, ma non solo, tutte le altre città della Sicilia si sono ribellate al dispotismo piemontese. Ma la cosa più incredibile è che “non c’è mai stata nelle nostre università, una vera ricerca per sapere quanti furono i meridionali uccisi o fatti morire nella guerra condotta dall’esercito sabaudo contro la popolazione civile (quella con l’esercito borbonico, manco dichiarata, nonostante l’invasione di un Paese ufficialmente amico, finì in pochi mesi; l’altra, contro i cittadini disarmati, e formazioni sparse di ribelli, che durò per dieci anni)”. Da più di un secolo e mezzo, “gira un balletto di cifre più o meno attendibili sui ‘fucilati’ (bastava poco: un sospetto, una calunnia, le mire di un vicino sui tuoi beni, persino su tua moglie o tua figlia); o sui ‘briganti’, abbattuti come tali anche se militari che, con la divisa e le proprie armi, affrontavano da guerriglieri un invasore; o perchè contadini derubati delle terre demaniali[…]”. Poco si è scritto sulle deportazioni subite dai meridionali. Un garibaldino, un certo G. Ferrari, passato nell’esercito sabaudo come bersagliere, tornò in Calabria e scrisse un diario sui fatti che risalgono al 1868-69. Lo ha trovato a Novara nel 2015, il professore De Simone, autore di “Atterrite queste popolazioni”. Il diario si riferisce a Rossano, alle carceri grandissime, dove richiudevano i manutengoli ed i conniventi dei briganti. Queste persone, vecchi e lattanti costrette a spostarsi per 40-50 chilometri, bastonati, senza fermarsi neanche per i bisogni, “venivano sferzati dai carabinieri e dai soldati di scorta”. Qui il diario dell’ex garibaldino è molto preciso, e ci fornisce molti dettagli sulle torture subite da questi poveri cristi. Infatti i carcerieri piemontesi per estorcere informazioni sui briganti, torturavano a più non posso, comportandosi come dei veri e propri carnefici: “In quel paese (Rossano) vi erano carceri grandissime nelle quali rinchiudevano i manutengoli ed i conniventi dei briganti. Due o tre volte al mese giungevano colonne di persone state arrestate dalle pattuglie volanti nei paesi o nei casolari; eranvi anche donne scapigliate coi pargoli al petto, preti, frati, ragazzi vecchi, i quali tutti prima di passare nelle carceri, venivano ricoverati provvisoriamente nei locali vuoti del Quartiere su poca paglia, piantonati da sentinelle, per essere poi interrogati al mattino successivo dal pretore, dal maresciallo e dal mio Capitano”. “Queste colonne di venti o trenta persone ciascuna, la maggior parte pezzenti e macilenti, facevano compassione a chi aveva un po’ di cuore; li vedevo sofferenti per la fame, per la sete, per la stanchezza di un viaggio a piedi di 40 e 50 chilometri, venivano sferzati dai Carabinieri e dai soldati di scorta, se stentavano camminare per i dolori ai piedi, od anche se si fermavano per i bisogni che taluni si dimettevano il pensiero di fermarsi, e si insudiciavano per evitare bastonate, tutti questi incriminati, alcuni dei quali innocenti, e le donne specialmente, venivano slegati per conceder loro riposo, ma per compenso si torturavano coi ferri, detti pollici, che i carabinieri ed i Sergenti in specie stringevano fino a far uscire il sangue dalle unghie. Poteva io assistere a tali supplizi senza sentire pietà! Tosto allontanati i carnefici, io allentava loro i ferri colle mie chiavi, e quei disgraziati riconoscenti, piangevano, baciando i lembi della mia tunica, persino gli stivali. Prima dell’alba, li rimetteva al supplizio come erano stati lasciati. Scene poi da vera inquisizione succedevano dopo, allorquando venivano interrogati i rei nelle loro celle, io fungeva da segretario e da teste, il Capitano ed il Maresciallo dei carabinieri da giudici; questi volevano sapere il rifugio, il nascondiglio ed i nomi dei briganti che essi favorivano, ed alle loro risposte negative erano bastonate sulla testa che ricevevano da far grondar sangue”. Ci fù un piano coordinato per distruggere il Regno delle Due Sicilie dove la Gran Bretagna ha complottato per abbattere il Regno Duosiciliano, sul quale poi si è innestato il piano dei Savoia, “con la lunga opera di corruzione di ministri e alti ufficiali dell’esercito e della Marina napoletani; le trame di Cavour con la Francia; gli accordi con la malavita siciliana, la rete massoniche e liberale allertata per l’insurrezione e l’appoggio ai garibaldini e all’esercito piemontese; le collette dei massoni stranieri per amare la spedizione di don Peppino, rimpolpata da migliaia di ‘disertori’ sabaudi e mercenari di mezzo mondo, e assistiti dalla flotta britannica […]”. L’economia napoletana venne demolita e da allora non si è più ripresa. Chiuse le grandi fabbriche, rubate e spostate al Nord i vari macchinari, stessa cosa per l’oro delle banche, requisiti i beni ecclesiastici che erano parte rilevante del sistema economico. Epurazione pure nelle scuole e università , dove il l ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis: “per immettervi docenti il cui unico o maggior pregio era la fedeltà ai Savoia (che molti scoprirono all’istante. E più di sessant’anni dopo, quando Mussolini obbligò i docenti universitari a giurare fedeltà al Fascismo, solo una quindicina su 1.200 rifiutarono)”. Inoltre i piemontesi chiusero tutti gli istituti superiori di Napoli, un migliaio di scuole in tutto il Regno, soprattutto quelle private. Vennero chiuse una trentina di giornali, ecco perché non si è potuto raccontare la vera storia dell’aggressione e conquista militare del Regno da parte dei piemontesi. Chi lo ha fatto doveva usare pseudonimi o pubblicare all’estero. “Dichiararsi cittadino del proprio Paese invaso divenne reato punibile con la morte, la deportazione, il carcere, la perdita dei beni[…]”. Furono rimossi quasi tutti i vescovi, alcuni esiliati, svuotati e chiusi i conventi, soppressi gli ordini religiosi (meno quelli dei mendicanti che non avevano nulla da farsi rubare), sorvegliate le prediche in chiesa e messi sotto vigilanza i fedeli che frequentavano parrocchie di sacerdoti non filo-piemontesi; fù avanzata perfino la pretesa di controllare le confessioni. Praticamente per chi non accettò il nuovo corso o divenne sospetto di non accettarlo o persino di tiepida adesione, la sua vita smise di essere un diritto. Inoltre il Piemonte come Stato violò ogni accordo, legge, trattato e persino ogni limite di decenza e umanità, in nome di un progetto politico-economico. Torino aveva fortemente bisogno di denaro, il Regno di Sardegna stava fallendo, non avevano più soldi per pagare i dipendenti pubblici e i soldati. Così ne approfittò di inglobare il ricco Regno. “Il Piemonte impose se stesso, le sue armi, la sua libertà chiudendo giornali, riempiendo le carceri, deportando e fucilando, impose le sue tasse, le sue leggi e persino i suoi impiegati e le sue balie negli orfanotrofi di Napoli, poi disse che gliel’avevano chiesto gli italiani. E quelli che cercarono di smentire o opporsi fecero una brutta fine”. Normale quindi che “la dimensione del massacro nascosto sotto il mito del Risorgimento è stata sempre contestata (su come si scrive la storia del nostro Paese, basti dire che l’Istituto cui fu affidato tale incarico, nel Regno di Sardegna che poi divenne d’Italia, aveva il compito di impedire la consultazione dei documenti che potessero offuscare la dinastia sabauda; le carte scomode potevano essere distrutte, e l’elaborazione dei documenti avuti in consultazione era sottoposta a doppia censura durante e dopo la stesura dei testi in cui erano citati)”. Bisogna aspettare il 2014, per intravedere qualcosa sull’enormità del prezzo pagato dal Sud, in vite umane. Un rapporto dello Svimez condotto dal dott. Delio Miotti, svela che nel 1867, la popolazione meridionale diminuì, invece di crescere. Succederà solo altre due volte, in un secolo e mezzo. Tutte testimonianze incredibili di un genocidio che ancora oggi viene tenuto nascosto.
Loreto Giovannone considera Francesco De Sanctis,
uno dei protagonisti della transumanza ideologica fatta insieme a tanti altri
borghesi meridionali dopo il 1860
La mistificazione. Un esempio di propaganda risorgimentale, un classico del darwinismo socialeche pervade, non solo tutta la società settentrionale ma tutti gli storici che discriminano il meridione preunitario ed esaltano il preteso “progresso” post unitario, è facilmente leggibile nella voce De Sanctis del dizionario biografico degli italiani Treccani messo in rete.
Atti del Convegno di Torino 24-25 settembre 1988, a cura di Aldo A. Mola (Centro per la storia della Massoneria, Roma); Foggia, Bastogi, 1990, in 8, pp. 394. L. 30.000. Le logge massoniche piemontesi nell’età napoleonica, l’unificazione italiana nell’opera dei massoni spagnoli, l’attività massonica del condottiero dei Mille, i rapporti tra i Valdesi e la Massoneria a cavallo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, la Massoneria e l’emancipazione femminile, Massoneria ed Ebraismo nel primo e nel secondo Risorgimento: sono questi solo alcuni degli argomenti raccolti in questo elegante volume curato da Aldo A. Mola, che ha cosi reso disponibili gli Atti di un interessante convegno di studi, La liberazione d’Italia nell’opera della Massoneria , tenutosi al Teatro Nuovo di Torino nelle giornate del 24 e 25 settembre 1988. Inserito nel programma delle celebrazioni indette in occasione del Quarantennale della Repubblica, il convegno ed in maniera particolare questi Atti, che ne costituiscono la documentazione ha offerto importanti spunti per lo studio (sempre foriero di interessanti novità) e l’approfondimento dell’apporto fornito dalla Massoneria al conseguimento dell’unificazione nazionale. Un contributo certo non indifferente, anche se si tiene solo conto della statura morale ed intellettuale di quelli che ne furono i principali protagonisti: l’abate Ludovico Frapolli, che fu, di fatto, il trait-d’union tra gruppi di nazionalità diversa (si legga al riguardo l’intervento di LUIGI POLO FRIZ, Ludovico Frapolli: un Gran Maestro nei rapporti con esuli ungheresi e polacchi, pp. 93-112); Garibaldi, iniziato com’è noto alla Massoneria nel 1844 nella Loggia irregolare Asilo de la Vertud di Montevideo ed incurante, o quantomeno al di sopra, dei dissidi interni alla Massonerìa italiana tra il Grande Oriente Italiano di Torino ed il Grande Oriente di Rito Scozzese siciliano (interessanti, pur nella loro sinteticità, le pagine di EDWARD E. STOLPER, Garibaldi Massone, pp. 133-151); Francesco De Sanctis (ANTONIO PIROMALLI, Francesco De Sanctis e il programma massonico di pedagogia nazionale, pp. 197-206); Emesto Nathan (ROMANO UGOLINI, Ernesto Nathan e il Risorgimento, pp. 229-240); Giovanni Merloni (Ivo BIAGIANTI, Massoneria e socialismo nell’età giolittiana: il caso di Giovanni Merloni, pp. 327-358); e poi ancora: il rumeno Constantin Rosetti (DAN BERINDEI, II radicale rumeno Constantin Rosetti e il Risorgimento italiano, pp. 113-132) ed il garibaldino ungherese Istyan Turr (SALVATORE LOI, Stefano Turr, pp. 365-376) e, per concludere, ultimo (ma solo in ordine cronologico, non certo di importanza o di notorietà), Gabriele D’Annunzio, di cui Aldo A. Mola fornisce un documentato e valido resoconto sull’impresa di Fiume (L’ultima impresa del Risorgimento: la Massoneria per D’Annunzio a Fiume, pp. 261-303), corredato nell’appendice finale dalla riproduzione, in alcuni casi anche fotografica, di alcuni documenti d’epoca. Un volume che raccoglie, dunque, materiale estremamente eterogeneo, che va spesso al di là dei termini cronologici e degli argomenti che sarebbe lecito supporre di trovare confidando nella completezza del titolo, ma che fornisce una panoramica dettagliata sul contributo, a livello nazionale, certo, ma anche nei suoi riflessi internazionali, dell’indiscutibile contributo fornito dalla Massoneria all’unificazione italiana.
Le Due Sicilie erano lo stato italiano preunitario più esteso territorialmente e comprendevano tutto
il Sud continentale d’Italia, l’Abruzzo, il Molise, la parte meridionale del
Lazio e la Sicilia, nel 1860 vi erano poco più di nove milioni d’abitanti (poco
più di un terzo di tutta la Penisola)
Era
diviso in 22 province di cui 15 nel Sud continentale e 7 in Sicilia: Napoli e
la sua provincia; Abruzzo Citeriore con capoluogo Chieti; Primo Abruzzo
Ulteriore con capoluogo Teramo; Secondo Abruzzo Ulteriore con capoluogo
L’Aquila; Basilicata con capoluogo Potenza; Calabria Citeriore con capoluogo
Cosenza; prima Calabria Ulteriore con capoluogo Reggio; Seconda Calabria
Ulteriore con capoluogo Catanzaro; Molise con capoluogo Campobasso; Principato
Citeriore con capoluogo Salerno; Principato Ulteriore con capoluogo Avellino;
Capitanata con capoluogo Foggia; Terra di Bari con capoluogo Bari; Terra
d’Otranto con capoluogo Lecce; Terra di Lavoro con capoluogo Capua e poi
Caserta;
in Sicilia i capoluoghi di provincia erano: Palermo, Trapani, Girgenti (Agrigento),
Caltanisetta, Messina, Catania, Noto.
La storia delle Due Sicilie era cominciata nel
lontano 1130 con i Normanni e il loro sovrano Ruggero II, il regno durò 730
anni e i suoi confini rimasero in pratica invariati comprendendo comuni che
avevano spesso origine greca; le dinastie che si susseguirono ebbero origini
straniere e questo avvenne per l’oggettiva incapacità di generarne una propria
ma occorre rilevare che i loro sovrani divennero in breve dei Meridionali a
tutti gli effetti, assumendone la lingua e le usanze.
Ai
Normanni (1130-1194), seguirono gli Svevi (1194-1266), gli Angioini (1266-1442)
e gli Aragona (1442-1503); a loro subentrarono gli Spagnoli (1503-1707) e poi
gli austriaci per solo ventisette anni (1707-1734);
i più importanti sovrani delle varie casate furono nell’ordine: Ruggero II
d’Altavilla , Federico II di Svevia, Carlo I d’Angiò, Alfonso I d’Aragona e il
vicerè spagnolo Pedro de Toledo.
Nel 1734 la Spagna rioccupò il Regno strappandolo agli Asburgo e iniziò l’era
borbonica con i suoi re: Carlo (1734-1759), Ferdinando I (1759-1825), Francesco
I (1825-1830), Ferdinando II (1830-1859) e Francesco II (1859-1861).
Carlo, figlio di Filippo V, re di Spagna e di
Elisabetta Farnese, entrò in Napoli il 10 maggio 1734, sconfisse il 25 maggio
gli Austriaci nella battaglia di Bitonto e restituì alla Nazione la piena
indipendenza, sotto uno scettro
“che
unisce ai gigli d’oro della Casa di Francia ed ai sei d’azzurro di Casa Farnese
le armi tradizionali delle Due Sicilie: il cavallo sfrenato, vecchia assise di
Napoli e la Trinacria per la Sicilia” ;
l’incoronazione di Carlo si celebrò nel duomo normanno di Palermo nel 1735, a
testimoniare la continuità della monarchia meridionale nata nello stesso luogo
nella notte di Natale del 1130 con Ruggero II.
Nella successiva guerra contro l’Austria, del
1744, Carlo fu vittorioso a Velletri, e si confermò nuovo interprete e simbolo
della secolare Nazione: il Sud d’Italia non aveva più a capo un semplice vicerè
ma un sovrano tutto suo:
A.Genovesi,
Lettera a Giuseppe De Sanctis, 3 agosto 1754
“Amico, cominciamo anche noi ad avere una patria e ad intendere quale vantaggio
sia per una nazione avere un proprio principe. Interessianci all’onore della
nazione. I forestieri conoscono, e il dicono chiaro, quanto potremmo noi fare
se avessimo miglior teste. Il nostro augusto sovrano fa quanto può per
destarne” .
Successivamente, con la Prammatica del 6
ottobre 1759, re Carlo stabilì la definitiva separazione tra la corona spagnola
e quella delle Due Sicilie.
L’opera dei sovrani della dinastia borbonica
fu, per molti versi, meritoria, con loro il Sud non solo riaffermò la propria
indipendenza ma ebbe un indiscutibile progresso nel campo economico, culturale,
istituzionale; grazie a ciò, all’epoca dell’ultimo re, Francesco II,
l’emigrazione era sconosciuta, le tasse molto basse come pure il costo della
vita, il tesoro era floridissimo per non parlare poi dello sviluppo culturale
che fece contendere a Napoli la supremazia culturale europea di Parigi; al
momento dell’unità la percentuale dei poveri nel Sud era pari al 1.34% (come si
ricava dal censimento ufficiale del 1861) in linea con quella degli altri stati
preunitari.
“La rappresentazione del Mezzogiorno come un
blocco unitario di arretratezza economica e sociale non trova fondamento sul
piano storico ma ha genesi e natura ideologiche. I primi a diffondere giudizi
falsi sugli inferiori coefficienti di civiltà su quell’area sono gli esuli
napoletani che, nel decennio 1850-1860, con la loro propaganda antiborbonica non
solo contribuiscono a demolire il prestigio e l’onore della Dinastia, ma
determinano anche una trasformazione decisiva nell’immagine del Sud”.
“La storiografia ufficiale continua ancora oggi
a sostenere che, al momento dell’unificazione della penisola, fosse profondo il
divario tra il Mezzogiorno d’Italia e il resto dell’Italia: Sud agricolo ed
arretrato, Nord industriale ed avanzato.
Questa tesi è insostenibile a fronte di
documenti inoppugnabili che dimostrano il contrario ma gli studi in proposito, già
pubblicati all’inizio del 1900 e poi proseguiti fino ai giorni nostri, sono
considerati, dai difensori della storiografia ufficiale: faziosi,
filoborbonici, antiliberali e quindi non attendibili “ .
Dopo la caduta del regno del Sud al coro di
lagnanze degli esuli rientrati in Patria si aggiunsero anche gli uomini che
avevano servito i Borbone e, come faceva rilevare Francesco Saverio Nitti ai
primi del 1900:
“Una delle letture più interessanti è quella
dell’Almanacco Reale dei Borboni e degli organici delle grandi amministrazioni
borboniche. Figurano quasi tutti i nomi di coloro che ora esaltano più le
istituzioni nostre [del regno d’Italia] o figurano, tra i beneficiati, i loro
padri , i loro figli, i loro fratelli, le loro famiglie“ .
“La memoria dei vinti è stata sottoposta ad
un’incredibile umiliazione … più grave è stato il taglio del filo genetico per
cui c’è un pezzo d’Italia che ha dovuto vergognarsi del proprio passato, e poi
ci si lamenta che manca la dignità, ma la dignità proviene dal riconoscimento
della propria ascendenza … bisogna prima di tutto ridare al Mezzogiorno il
senso della sua precedente grandiosità, riscattare questa presunta inferiorità
etnica del Sud da operazioni di tentata cancellazione della sua memoria.
Ricordo che Rosario Romeo scrisse nella sua
storia su Cavour un elogio a Ferdinando II, confrontandolo con il vincitore
Vittorio Emanuele II, con grande scandalo dei risorgimentalisti che
consideravano ciò intollerabile”
In realtà la “Questione meridionale”, tutt’oggi
irrisolta, nacque dopo e non prima dell’unità; persino un ufficiale piemontese,
il conte Alessandro Bianco di Saint-Joroz, capitano nel Corpo di Stato Maggiore
Generale, scrisse nel 1864 che
“Il 1860 trovò questo popolo del 1859, vestito,
calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta e
vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la
famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato
materiale. Adesso è l’opposto. La pubblica istruzione era sino al 1859
gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di
ogni provincia. Adesso veruna cattedra scientifica……Nobili e plebei, ricchi e
poveri, qui tutti aspirano, meno qualche onorevole eccezione, ad una prossima
restaurazione borbonica” .
La popolazione dai tempi del primo re della dinastia borbonica Carlo III (1734) a quelli di Ferdinando II (1859) si era triplicata ad indicare l’aumentato benessere (è chiaro che si parla di livelli di vita relativi a quei tempi quando il reddito pro capite in Italia era meno di un quarantesimo di quello di oggi e molte delle comodità attuali erano inesistenti), la parte attiva era poco meno del 48%.