Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Apologia dei Luciani

Posted by on Dic 5, 2019

Apologia dei Luciani

Se davvero esiste il cielo dei pazzi d’amore per Napoli, in quel cielo un posto privilegiato spetta di diritto, senz’alcun dubbio, ai Luciani. E se il cuore della Napoli antica e bella batte ancora in alcune parti della città, una di queste è, senz’altro, quel che resta del vecchio Borgo Marinaro di Santa Lucia.

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Quando Mastriani scrisse sui briganti

Posted by on Ott 31, 2019

Quando Mastriani scrisse sui briganti

Morì quasi cieco e indebitato, ma fu uno dei più prolifici romanzieri dell’Ottocento napoletano. Francesco Mastriani scriveva, scriveva, per crescere i figli e onorare i debiti.

Molti suoi titoli divennero famosi, come “La cieca di Sorrento”. Alcuni furono anche rappresentati in teatro dalla compagnia di Federico Stella, in una Napoli nel passaggio tra capitale borbonica e città italiana. Mastriani unitario, Mastriani liberale, Mastriani apprezzato anche da Matilde Serao.

Scriveva della plebe, dei diseredati di Napoli, di quei “Vermi” delle classi inferiori come aveva fatto Victor Hugo per Parigi. I suoi riflettori erano accesi soprattutto su Napoli città, ma fece una eccezione, sempre a puntate per il quotidiano “Roma”, nel settembre del 1886. Pubblicò allora un romanzo, “d’appendice” come si diceva allora, sempre nella classica collocazione del piede di prima pagina, interamente ispirato ai briganti post-unitari.

Il titolo era “Cosimo Giordano e la sua banda”, scovato dal cultore di storia sannita Salvatore D’Onofrio e ristampato dall’appassionato editore cavese Vincenzo D’Amico. Fonti d’ispirazione furono per Mastriani gli articoli di giornali, gli atti della Corte d’Assise di Benevento, anche un precedente libro di Pasquale Villani.

Come era nelle corde della penna di Mastriani, personaggi e vicende storiche si intrecciano a protagonisti di fantasia. Cosimo Giordano, il più famoso capobrigante del Sannio oggetto di uno studio di Abele De Blasio, è nel romanzo un feroce brigante. Un criminale tout court, responsabile con Angelo Pica del massacro dei 41 tra soldati e carabinieri con il loro comandante Bracci agli inizi dell’agosto 1861 tra Pontelandolfo e Casalduni.

Nulla racconta Mastriani del dopo, della rappresaglia successiva dei soldati, concentrato soltanto su Giordano e i personaggi che gli ruotano attorno. Fece così anche Giustino Fortunato, nel suo articolo sui “fatti di Pontelandolfo”. Ma Mastriani aggiunge qualcosa di più, nel suo romanzo. Riconosce al brigantaggio post-unitario insieme caratteristiche politiche e sociali.

Scriveva infatti: “Il brigante sciolse a modo suo il gran problema sociale. La legge esercita il suo impero in nome del re. C’è il brigantaggio sociale e il brigantaggio politico. Il problema non risoluto o mal risoluto degli utili tra i diversi fattori è una delle cause più efficienti del brigantaggio sociale”. E ancora: “Finché l’esistenza non sarà assicurata a tutti per via del lavoro obbligatorio, finchè il ricco e potente calpesteranno il Cristo, non sperate che il brigantaggio si estingua”.

Un’idea chiara, espressa 25 anni dopo le vicende raccontate. Mastriani era anti-borbonico, unitario, liberale. E guardava con attento paternalismo alla miseria e alle classi povere. Pochi sapevano che si fosse occupato anche del brigantaggio e dei briganti. Ora è possibile colmare questa lacuna, nel testo anastatico dell’editore D’Amico. E meno male.

Gigi Di Fiore

fonte https://www.ilmattino.it/blog/controstorie/mastriani_brigante_cosimigiordano-4826155.html?fbclid=IwAR0pf7HWCyiG-xJ3WftUHpxHQTMO_Y9mnPu7VdcXhVrlKtMKvL9pDrTaEF8

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Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia La Destra e il Meridione (II)

Posted by on Ago 10, 2019

Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia  La Destra e il Meridione (II)

La Destra e il Meridione

A decidere la caduta della Destra non fu certo il deputato siciliano Morana con la sua interrogazione né le proteste che agitavano la Sicilia per il caro-pane. Ad influire maggiormente furono i risultati elettorali del 1874. Rispetto alle elezioni del 1861 la destra, che aveva avuto l’80% dei deputati, era scesa al 54% mentre la sinistra dal 20% era passata al 46%. La crescita della sinistra, contrariamente a quanto si verifica oggi, era praticamente concentrata nel Mezzogiorno e particolarmente in Sicilia [1]. In Sicilia per ogni deputato di destra, ne erano stati eletti ben 9 di sinistra.

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La Galleria Umberto I di Napoli: un tempio di simboli massonici celati nell’arte

Posted by on Lug 31, 2019

La Galleria Umberto I di Napoli: un tempio di simboli massonici celati nell’arte

La Galleria Umberto I di Napoli, la maestosa architettura in ferro e vetro in pieno stile Liberty, cela alla vista dei passanti alcuni segreti: un tempio massonico, simboli e segni misteriosi che rimandano ad un profondo messaggio esoterico.

Pochi sono a conoscenza che la Galleria Umberto I di Napoli, oltre a rappresentare un piccolo e ingegnoso gioiello dell’architettura in ferro e vetro con chiaro riferimento al gusto eclettico di fine Ottocento, nasconde al suo interno un vero scrigno di simboli e allegorie, una sorta di tempio misteriosofico, nel quale l’iniziato passeggiando fra le sue braccia e al di sotto della grande cupola, riesce ad apprendere una conoscenza arcaica.
E’ la persistenza della Napoli velata, quella densa di aspetti ignoti che ridesta la memoria antica dell’uomo assopita dalla realtà; è come scriveva Giuliano Kremmerz «vi è qualcosa nell’uomo vivente, la quale a prima vista non appare: una riserva di forze ignorate che in certi momenti non precisabili possono dare fenomeni inaspettati ed effettivi».

La costruzione della Galleria Umberto I fu eretta nel 1887 a seguito del ricco programma di rinnovamento urbano che interessò la città nella seconda metà dell’Ottocento; in quest’area brulicante di vicoli stretti vi erano condizioni di vita molto precarie estremamente disagiate, dove spesso insorgevano epidemie di colera.
Nel 1885 fu approvata la Legge per il Risanamento che incise in particolar modo sulla zona di Santa Brigida per riscattarla dal degrado e per favorirne la viabilità. Furono presentate proposte e progetti per risanarla e fra questi si aggiudicò il progetto l’ingegnere Emmanuele Rocco, con la sua opera innovativa: la Galleria in ferro e vetro in pieno gusto eclettico a cui lavorarono anche Antonio Curri ed Ernesto di Mauro successivamente. Inaugurata nel 1890 fu un successo senza precedenti, impiegata ieri come oggi, come galleria commerciale di prodotti esclusivi.

La Galleria Umberto fu concepita con due braccia che si intersecano a crociera con accessi sulle vie di Via San Carlo, Santa Brigida,Via Toledo, Via Verdi, sovrastate da una superba volta e dalla cupola centrale su progetto di Paolo Boubée. Al suo interno ospita il celebre teatro della Belle Époque, ovvero il Salone Margherita, il più importante salotto culturale di Napoli nonché sede principale attualmente dello svago notturno dei napoletani che inizio Novecento accolse personalità di spicco come: Matilde Serao, Salvatore Di Giacomo, Gabriele D’Annunzio, Roberto Bracco, Ferdinando Russo, Eduardo Scarfoglio e Francesco Crispi.
Fra le varie attività commerciali indichiamo il Museo del Corallo della storica famiglia Ascione, rinomata per la lavorazione del corallo di Torre del Greco fin dagli inizi del XIX secolo.

Interpretazione dei simboli e lettura massonica

La nostra lettura si concentra sia all’interno che all’esterno della galleria, focalizzando l’attenzione su alcuni simboli; l’indagine inizia dall’ingresso principale che affaccia sul maestoso Teatro San Carlo, di cui la via prende il nome. La facciata ad esedra (l’incavo semicircolare sovrastato da una cupola) presenta un porticato architravato retto da colonne simile ad un tempio, e qui incontriamo i primi elementi simbolici poiché nell’architettura romanica le colonne identificavano l’uomo, il quale si erge verso l’alto, ossia il cielo, il divino.
Secondo l’interpretazione massonica, le colonne stanno ad indicare il concetto di dualità, ovvero il limite tra sacro e profano, tra bene e male. Non è inusuale in Massoneria trovare colonne sormontate da alcuni elementi, come le melagrane per esempio che indicano l’Aria, l’elemento femminile che genera la vita, il soffio vitale.

In linea generale, la colonna è un simbolo predominante che indica solidità, fortezza ed equilibrio.
Per gli iniziati alla Massoneria, la colonna sta a simboleggiare le fondamenta dell’edificio interiore, su cui poggia il ciclo della propria esistenza terrena, un percorso di costruzione e di elevazione proprio come un’architettura da edificare nel corso degli anni.
Un riferimento molto esplicito e non oscuro, se si pensa che la Galleria Umberto I è sede storica della Loggia Massonica Grande Oriente d’Italia, sita precisamente al numero 27, fondata nel 1804 nel Regno di Napoli con il nome di “Grande Oriente della Divisione dell’Armata d’Italia esistente nel regno di Napoli” sotto la Gran Maestranza del generale napoleonico e patriota italiano Giuseppe Lechi. Giuseppe Bonaparte ne fu Gran maestro fino al 1841. [fonte Wikipedia]

Su l’ingresso principale di Via Verdi troviamo raffigurati sulle colonne i Quattro Continenti: la prima statua da sinistra è una donna che regge una lancia in mano e ai piedi una lapide riporta l’iscrizione Corpus Juris Civilis, e rappresenta l’Europa. La seconda figura che stringe a sé una coppa, rappresenta l’Asia. La terza statua abbigliata in stile etnico, ci mostra con una mano un casco di banane e con l’altra si sostiene sopra una sfinge, e questa rappresenta l’Africa. Infine l’ultimo soggetto regge nella mano destra un fascio littorio e ai piedi sono appoggiati un volume di tavole geografiche con un globo terrestre (il nuovo Continente) e rappresenta l’America. Altri elementi sono indirizzati alla cultura massonica: il Lavoro e il Genio della Scienza (legati alle quattro stagioni); nelle nicchie laterali sono illustrate la Fisica, la Chimica; sul frontone un gruppo scultoreo raffiguranti il Telegrafo, il Vapore, l’Abbondanza. Queste sculture sono un’invito incoraggiante di positività nella scienza e di fiducia nel progresso.

L’interno è un trionfo di stucchi e decori Liberty, contraddistinti dall’eleganza dello stile Neorinascimentale; un tema ricorrente è il ciclo delle Quattro Stagioni con le sue simbologie: l’Inverno, la Primavera, l’Estate, l’Autunno. Nella tradizione iconologica, queste suggeriscono i diversi mutamenti della vita dell’uomo e sono connesse alla tradizione astrologica, scandita da influssi celesti sotto l’opera della divinità e di simboli correlati.
Ogni Stagione governa tre segni zodiacali: la Primavera governa il segno dell’Ariete, del Toro, dei Gemelli; all’Estate è legata al segno del Cancro, del Leone e della Vergine; l’Autunno si manifesta nella Bilancia, nello Scorpione e nel Sagittario; per concludere il cerchio con l’Inverno che è connesso al Capricorno, all’Acquario e ai Pesci. Questi segni zodiacali li ritroviamo nel pavimento in mosaico realizzati dalla ditta Padoan di Venezia nel 1952 a seguito dei bombardamenti della seconda guerra che danneggiarono buona parte della struttura; oggi possiamo rimirarli nuovamente sotto la cupola in piena luce.

L’interno della Galleria Umberto I è un susseguirsi di richiami massonici; lo stesso incrocio ortogonale che da corpo a due strade delimitate da alcuni palazzi, disegnano un ottagono centrale. L’ottagono, e in generale il numero otto indica una figura geometrica di tradizione esoterica, che rimanda al concetto di equilibrio costruttivo delle forme e delle energie cosmiche (l’infinito). L’ottagono in massoneria rappresenta è il simbolo della resurrezione e della vita eterna, è per questo ricorre persistente all’interno della galleria: sono otto i pennacchi della cupola sulla quale sono rappresentate otto figure femminili in rame, che reggono otto lampadari. La luce è un’altro elemento prezioso che rischiara le ombre, sinonimo di Verità.

Ma degno di nota, simbolo caro alla tradizione esoterica e che cattura l’attenzione di noi profani è sicuramente la Stella di David, posta sul tamburo della cupola a ripetizione. Questo simbolo molto antico l’Esagramma, è formato dall’incontro di due triangoli equilateri (Maschile e Femminile) suggerisce l’equilibrio tra le forze cosmiche del Fuoco e dell’Acqua. E’ il famoso Sigillo di Salomone “Come in cielo così in terra” l’incontro tra la spiritualità e l’istinto, dal basso verso l’alto. La Stella di David, rappresenta la civiltà e la religiosità ebraica, e identifica lo stato di Israele.
La presenza della Stella di Davide presente nella Galleria Umberto, in rapporto alla Massoneria napoletana, non è un caso: la chiave è da individuare nei documenti storici, infatti si deve a una famiglia ebraica ovvero i Rothschild che fecero riprodurre la Stella di Davide, per omaggiare le loro radici.

I Rothschild furono (e lo sono ancora) una delle più potenti famiglie di banchieri tedeschi di origine ebraiche, presente durante il Regno delle Due Sicilie, che poco dopo la morte di re Ferdinando ll, lasciarono Napoli. In Europa furono presenti cinque linee di ramo austriaco e una linea di ramo inglese e francese.
A Napoli furono molto attivi stringendo grandi rapporti con il Vaticano fino al XX secolo.
Si narra che il loro nome sia al centro di teorie complottistiche, riguardanti il controllo e il declino dell’intera finanza mondiale a cui oggi assistiamo.
I Rothschild erano membri ed esponenti della Massoneria napoletana (ecco il legame con la galleria e le sue simbologie) e gli storici suppongono che essi finanziarono i Savoia per l’Unità d’Italia.

fonte https://grandenapoli.it/%E2%80%8Fla-galleria-umberto-i-di-napoli-un-tempio-di-simboli-massonici-celati-nellarte/

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La leggenda di Partenope

Posted by on Dic 19, 2018

La leggenda di Partenope

Diverse sono le leggende relative alla fondazione di Partenope, la colonia greca in cui affonda le proprie radici la città di Napoli.

Diverse, in particolare, sono poi le leggende tese a giustificare l’origine del nome di questa dolcissima città.
Fulvio Caporale ci racconta tre di queste bellissime storie.



La leggenda di Partenope

(l’eterno canto di Partenope)

La ricchissima tradìzione della mitologia greca riserva alla leggenda della fondazione di Partenope almeno tre storie, in versioni molto dissimili nei contenuti e anche nei valori di volta in volta messi in evidenza.
La prima leggenda di Partenope coincide con il mito delle tre sirene che scelgono di morire, forse per la delusione di non essere riuscite a fermare il marinaio Ulisse, pur estasiato dal loro canto. Il corpo che il mare depone sul lido dì Megaride, la piccola penisola dove ora si trova Castel dell’Ovo, è appunto quello di una delle tre sirene, Partenope, e di qui il nome alla città che nasce. Questa leggenda del mito di Partenope ebbe maggiore considerazione e diffusione quando Napoli, sin dalle cronache di Petronio e Apuleio, poi nelle più diffuse pagine di Petrarca e Boccaccio, cominciò a configurarsi come la città dei suoni e dei canti, peculiarità che ben si accordava con la leggenda delle sirene e del loro canto melodioso e tentatore. In pratica sottolinea un motivo religioso, il trasferirsi e il diverso ambientarsi del culto delle sirene dalle rive dell’Egeo, dove già era praticato da tempo e molto diffuso a Rodi e a Creta, ai luoghi nuovi della Magna Grecia; qui le donne uccello assumono il corpo dì un pesce dalla cintola in giù e sono attestate sulle rocce e gli scogli posti davanti a Positano, che noi ora chiamiamo Li Galli, mentre dagli antichi erano chiamati Sìrenussai, gli scogli delle Sirene.

La seconda leggenda è forse quella più diffusa, ripresa anche da Matilde Serao nelle sue Leggende e parla di una bellissima principessa greca, ovviamente Partenope, innamorata del suo Cimone. amore contrastato dal re suo padre, che invece l’aveva promessa in sposa a un altro pretendente.
I due decìdono allora di fuggire su una nave verso l’ignoto, sbarcano poi per loro fortuna sui litorale campano e qui la leggenda vuole che vìvano finalmente la stagione del loro amore, in una terra dolce di fiori e di luci dove la primavera è eterna.
Aurelio Fierro afferma che “il canto d’amore di Partenope lo consideriamo nastro di partenza della storia della canzone napoletana“.
Si tratta, come vedete, di una leggenda dove sono già disponibili tutti, proprio tutti gli ingredienti che appartengono a una certa, più nota “napoletanità”, l’allegria, l’amore, la splendida natura e il canto e in più il finale “tarallucci e vino” che conclude una storia d’amore contrastata. Chiaramente questa leggenda viene riportata da chi vuole mettere in rilievo proprio queste peculiarità tra le diverse sfaccettature compatibili a ricomporre l’universo partenopeo.
Esiste una terza storia, una terza leggenda di Partenope, certamente poco conosciuta ma a mio avviso storicamente più credibile e meno leggendaria, soprattutto vicina, credo, alla sostanza spirituale che intende rappresentare.
Vi si narra di una regione greca da anni tormentata da una grave carestia e di un re che tenta dì sottrarre almeno un gruppo di giovani al destino incombente, lo colloca su alcune navi e lo invia, senza mezzi e senza provviste di cibo, verso  la terra promessa della Magna Grecia. Era un’usanza abbastanza diffusa in Grecia, mentre imperversavano grandi carestie, solo in apparenza feroce e spietata, perché comunque ai più giovani si concedeva una possibilità di iniziare altrove una nuova  vita, forse con meno privazioni e per chi rimaneva risultavano diminuite le bocche da sfamare. All’epoca non era facile attraversare quel tratto di mare, tra bufere, stretti perigliosi e improvvise e prolungate assenze di vento e questo viaggio, già disagevole per le condizioni di partenza, diventa per i nostri giovani ancora più drammatico. Muore infatti di stenti, forse di fame, la più giovane delle tre principesse reali che erano a bordo, la dolce Partenope, proprio nel momento in cui la nave è finalmente giunta al sicuro, all’interno dei golfo. Il primo atto, dunque, della futura città, appena dopo lo sbarco, è il funerale di Partenope (da partenu-opxis, volto di fanciulla), ancor più solenne nella teatrale e scenica liturgia funebre dei greci.
Tutti gli avvenimenti di questa terza leggenda sono assolutamente casuali e attendìbili, rispecchiano movimenti e condizioni storiche propri di un’epoca, senza ricorrere ai mostri mitologici, come la prima leggenda e non vi è alcun tentativo di confezionare una storia con artifici, adattandola a situazioni di fatto, come nella seconda. E a me sembra possano meglio segnare l’impronta iniziale che poi accompagnerà costantemente nel suo cammino lo sviluppo di una città dove, come scrive Gino Doria, persino sui volti dei giovani che impazzavano per le strade a Pìedigrotta si scorgeva “un lievito di tragicità, un senso accorante di lugubre malinconia”. E addirittura un non napoletano, il toscano Renato Fucini, ha percepito l’identica impressione, nel suo Napoli a occhio nudo, dove, parlando della stessa festa, accenna a sensazioni di tristezza, malinconia o addirittura di tragicità. Accentuazioni che non sono del tutto assenti, anche se in misura diversa, nemmeno sulle maschere più celebri e rappresentative di Totò e Eduardo.

(Fulvio Caporale dalla rivista l’Alfiere)

fonte http://www.quicampania.it/racconti/leggenda-partenope.html

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