Alta Terra di Lavoro

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CARD. FABRIZIO RUFFO UN FORTUNATO AVVENTURIERO O UN UOMO STRAORDINARIO?

Posted by on Ott 31, 2019

CARD. FABRIZIO RUFFO UN FORTUNATO AVVENTURIERO O UN UOMO STRAORDINARIO?

La figura del cardinale Fabrizio Ruffo (d’ora innanzi, semplicemente “il cardinale”) rischia di rimanere un enigma, anche dopo due secoli dalla sua impresa, notissima perché strabiliante: la “riconquista” del Napoletano, in poco più di quattro mesi, al comando di poche migliaia di “briganti calabresi” contro i Francesi armati ed organizzati di tutto punto. Benvenuto allora lo studio di Ruffo-De Maio (IL CARDINALE FABRIZIO RUFFO TRA PSICOLOGIA E STORIA)[1] che, scritto a quattro mani, cerca di rispondere al  dilemma: “docile strumento di quei due esseri inferiori” (Francesco IV e  Carolina di Napoli) ovvero “ personaggio  che con calma e risolutezza  giunge al fine che si era prefisso, affrontando e superando continue difficoltà e pericoli”? (pp. 27 e 50). Una sciarada di non facile soluzione.

E, per cominciare, il motivo della “sorpresa” di fronte al risultato  imprevedibile (anzi disperato) sta, anzitutto, nella mancanza di un diario autobiografico del protagonista. Motivo parallelo sono le reticenze del segretario, l’abate Domenico Sacchinelli, che dovrà limitarsi al racconto delle vicende relative alla marcia vittoriosa, tralasciando il resto della vita del “cardinale”, per il timore troppo giustificato  dei veti della corte, che temeva venisse  alla luce la parte poco onorevole che  essa aveva avuto in quelle circostanze. Si pensi, per farsi un’idea dei procedimenti di re Ferdinando, che ad impedire al “cardinale” di far resistenza agli ordini di impiccare i napoletani passati ai francesi (fra cui l’ammiraglio F. Caracciolo e il giurista F. M. Pagano), il re non esitò a prendersi come ostaggio il fratello di lui,  Francesco, ordinando nel frattempo che lo stesso autore della liberazione fosse imprigionato (Nelson voleva addirittura impiccarlo!). La colpa? Aver garantito una resa onorevole agli insorti, ormai assediati a Napoli in Castel Nuovo e Castel dell’ Ovo. Con una simile censura, non c’erano davvero incentivi a cercare le “cause” del miracolo all’interno dell’animo del cardinale-condottiero.

  Ma è proprio questa la nostra curiosità: che “diavolo” era mai quel cardinale di santa romana Chiesa, che si improvvisava comandante di truppe e le elettrizzava coi suoi discorsi e proclami, in maniera non meno efficace di quanto sapesse fare Napoleone? E’ l’inchiesta affidata al professor Domenico De Maio, neuropsichiatra, che ha steso il primo dei tre capitoli dell’opera. La quale, sia detto en passant, è poi resa preziosa anche da foto di documenti riguardanti  provvedimenti di Napoleone  a favore del “cardinale” o dipinti di personaggi e luoghi legati alla sua attività, una cui panoramica essenziale, ma tutt’altro che  ripetitiva, è offerta dalla parte del volume stesa dal dottor Giovanni Ruffo, un discendente della famiglia del cardinale Fabrizio, esperto degli archivi di famiglia. Questi ha, dunque, potuto conoscerne al meglio le vicende esteriori, dalla fanciullezza alla morte, vicende che sintetizza qui, dopo averne discusso più ampiamente in “Calabria sconosciuta” (XVIII, n. 65: “Il cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara nella storia”) e soprattutto nel saggio “Il cardinale rosso”, Calabria letteraria editrice, 1998. Inquadriamo storicamente il fatto principale.

 Quali siano state le peripezie della “repubblica partenopea” fondata e persa dai francesi proprio due secoli fa, è a tutti noto. Napoleone, occupata la fortezza di Mantova nel febbraio del 1797, minaccia l’Austria da vicino e la costringe alla pace di Campoformio (17 ottobre). Gli stati pontifici erano già stati sistemati il 19 febbraio, a Tolentino: Bologna, Romagna, le Marche occupate, con una taglia, in più, di trentun milioni di lire e di numerose opere d’arte. Ma il Direttorio di Parigi aveva chiesto al suo generale di occupare tutto lo stato del papa: Napoleone aveva umiliato il suo governo. E questo cerca l’occasione per disfarsene. Bonaparte vuole andare in Egitto a tagliare la via delle Indie agli Inglesi? Bene: ecco la flotta, ecco i soldati, ecco il danaro. Dopo la sua partenza, il Direttorio riesce nelle sue mire su Roma: aizzando i rivoluzionari locali con emissari propri, suscita disordini, in uno dei quali perisce il generale francese Duphot (28 dicembre 1798). Era il “casus belli” che il Direttorio cercava. Il generale Championnet occupa Roma e urge su Pio VI perché abdichi. Non essendovisi egli piegato, lo si fa prigioniero e lo si avvia in esilio (morirà a Valence, in Francia il 29 agosto 1799). Ma quando Horatio Nelson distrugge la flotta napoleonica ad Abukir (1 agosto 1798), si forma la terza coalizione contro la Francia, con Austria e Russia pronti ad invadere l’Italia.  Come in precedenza, i Borboni di Napoli sono della partita. Si sentono impegnati a rivendicare i torti subiti dal pontefice e a non lasciar tracimare la rivoluzione in casa propria. E, poi, l’Austria ha fornito, quale comandante per il loro esercito, nientemeno che il generale Karl Mack. Già nel novembre 1798 “Del Tirreno dai liti| con soldati infiniti venne a Roma bravando| il re D. Ferdinando.| E in pochissimi dì,| venne, vide e fuggì” (p. 18).  Il generale Mack ha compiuto il suo primo capolavoro. Un altro lo consumerà ad Ulma nel 1805: dopo di che, ad evitarne ulteriori, verrà giustiziato dal suo governo. I responsabili delle fortezze del Regno si arrendono uno dopo l’altro: dal generale Luigi de Gambs in Teramo,  al comandante Tschudy per Gaeta, al duca di Roccaromana di Capua. Solo viltà, per paura; od anche tradimento, per il fascino delle idee giacobine? Su 130 vescovi del Regno, si fa il conto che ben 19 si professarono repubblicani filofrancesi (a cominciare dall’arcivescovo di Napoli, il cardinale Capece Zurlo) e solo 10 contro di loro, mentre la più parte si trincerò in un silenzio prudenziale. La corte borbonica? Il 21 dicembre 1798 si imbarca sul Vanguard dell’ammiraglio Nelson e si rifugia a Palermo, sotto la custodia della flotta inglese. A Palermo giunge anche, dal Casertano dove è responsabile della colonia di San Leucio, il nostro cardinale. Il re lo nomina “vicario generale del Regno”, cioè suo luogotenente con tutti i poteri (25. 01. 1799) ed egli passa lo stretto di Messina, sbarcando a  Capo Pezzo (Villa San Giovanni) l’8 di febbraio “con sette persone… una misera somma…nemmeno un militare di carriera” (p. 19). Ebbene: il 19 giugno egli ha praticamente terminato la sua missione, ottenendo la firma di resa dai repubblicani rinserrati in Castel Nuovo e Castel dell’Ovo e coi francesi rinchiusi in quello di Sant’Elmo. Che, poi, il Nelson dichiarasse infami le clausole della resa onorevole concessa dal cardinale Ruffo ed impiccasse, d’accordo con la corte tutti i “giacobini” ribellatisi al re e caduti nelle mani degli inglesi, è cosa purtroppo nota. Il 28 giugno, il re privava il “cardinale” d’ogni potere militare, sicché egli scriveva alla regina, licenziando. E, in attesa di essere sostituito, aiutava 500 patrioti a mettersi al sicuro. E si sarebbero potuti salvare anche i “giacobini” dei due castelli, se avessero seguito il suo suggerimento di fuggire per via di terra: li perse quella stessa mancanza di senso della realtà, che V. Cuoco rimprovera loro nel suo “Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli”.

La regina Carolina, come fu la più sanguinaria nel volere la morte dei ribelli e l’annullamento dei patti sottoscritti dal “vicario generale del regno”, così era stata la più scettica all’inizio dell’impresa del “cardinale”: lo riteneva matto. Eppure egli riuscì. Il perché va ricercato nella personalità di Fabrizio Ruffo, che De Maio ci presenta al vivo, seguendo con occhio clinico tutta la vita precedente la “reconquista”. Vorremmo prendere le mosse dalle conclusioni, salvo a documentarle nelle motivazioni: “Ruffo era nato per mettere ordine, per temperamento e per educazione; era un leader carismatico che ha sempre seguito un percorso logico e razionale, in ogni occasione dominando le emozioni e controllando le situazioni, vigile e diffidente come si conveniva ad una persona che per tutta la vita, dovette navigare tra “Scilla e Cariddi” di agguati, maldicenze, invidie e accuse” (p.27). E già prima: “aveva in sé il senso della predestinazione…era in pectore quello che sarebbe diventato” (p. 15). Noi siamo tentati di definirlo un temperamento passionato, cioè attivo (capace di trascinare all’azione gli altri) ed emotivo (capace di scuotere ed impegnare la sfera emozionale altrui), in maniera stabile, cioè non occasionale ma continuata. L’intelligenza privilegiava quella condizionata dall’emisfero destro (concretezza, decisione, dinamismo), mentre sobria,  funzionale, essenziale doveva essere la parola, ignara di retorica e di sfumature poetiche. Che ci pare anche il giudizio di Alessandro Dumas padre (cfr. p. 11). 

Chiediamo ora al professor De Maio gli indizi intuiti nei dati biografici e negli scritti.

Già da ragazzo (o, addirittura, da fanciullo?) i fratelli lo battezzano “biscia ostinata” (“lifitu testarinu”: p. 11). I fratelli lo vedevano   solo per le brevi vacanze estive, ché il prozio, cardinal Tommaso Ruffo (morto a 90 anni nel 1753), fin dai quattro anni lo portò con sé a Roma, affidandolo ad un precettore eccezionale: Giovanni Angelo Braschi, suo segretario e futuro papa Pio VI. Tale distacco , fa notare De Maio, non portò alcuna nevrosi né altra deformazione psicologica nel ragazzo: sano, robusto e intelligente, trasformava in esperienza intellettiva ed in fortezza di volontà le privazioni affettive (pp. 14-15: “ancora in giovane età, Ruffo agì con un perfetto sincronismo emotivo, comportamentale, volitivo e programmatico: si rese subito cosciente delle aspettative che si ponevano su di lui. E lui le fece proprie”. Difficile pensare, a nostro parere, che a quell’età il tipo di formazione impartita da G. Angelo Braschi potesse incidere in modo determinante sulla tenacia e puntigliosità del carattere, da renderlo paragonabile al vitalismo irritante di una biscia: era il suo temperamento che si consolidava con la disciplina e la dedizione allo studio.

Vi è un secondo dato significativo: il prozio muore (il 16 febbraio 1753) quando Fabrizio (nato il 16 settembre 1744) non ha ancora nove anni: eppure egli prosegue negli studi e nella carriera ecclesiastica, come programmato.[2]

Gli indizi a conferma del “tipo” psicologico si moltiplicano. Si è parlato di “studi e disciplina”. Ma non ci si aspetti una dedizione troppo docile e passiva. Almeno con il prelato Braschi, ci informa De Maio: “Comportamentalmente era però un ribelle, che passava da una punizione all’altra, senza modificare punto le linee del suo carattere”. (p.11). Fra le altre marachelle, c’era quella “di giocare con i… lunghi ed inanellati capelli” del suo precettore, che una volta anzi si ricevette uno schiaffo da Fabrizio, “infastidito dall’ostacolo che questi opponeva ai suoi tentativi” (ivi). Se ne può dedurre che “La sua ubbidienza era totale solo quanto agli studi.” (ib.). E, anche a questo proposito, egli seppe ritagliarsi i suoi campi di specializzazione che furono la giurisprudenza (si laureò a 23 anni, alla “Sapienza” di Roma) e l’economia. Lettore dei moderni teorizzatori delle due branche del sapere, egli faceva particolare riferimento a Pietro Verri (p. 53).

Un altro atto rivelatore della sua chiarezza di propositi e di intenti: accettando il diaconato, non proseguì fino al sacerdozio. Nè mai sarà prete (come il cardinale Ercole Consalvi ed a differenza del prozio Tommaso, che divenne anzi arcivescovo di Ferrara): un segnale di impegno non “indissolubile” con la Chiesa, essendo l’obbligo del celibato, al di fuori del sacerdozio, dispensabile con la  fuoruscita dall’ascrizione al clero.

 Con l’elezione a papa Pio VI del suo ex-precettore, le sue chances di carriera si fanno concrete: nel 1785 diviene Tesoriere generale, vale a dire ministro dell’economia dello stato pontificio. Si trova d’accordo con i progetti papali di ammodernare la situazione, attraverso una serie di provvedimenti economicamente e socialmente avanzati: abbattimento delle barriere doganali interne, provvedimenti protettivi delle manifatture dei sudditi, favore alla coltivazione della canapa e del cotone, sviluppo di una marina mercantile. Altre direttive furono l’abolizione dei vincoli produttivistici (monopoli di privati), la concessione di terreni demaniali in enfiteusi a contadini nullatenenti e la diminuzione dei poteri dei “cardinali legati” (delegati, cioè, al governo delle varie regioni dello Stato pontificio). Se il primo gruppo di decisioni era certo destinato a dare, col tempo, vantaggi anche per le casse dello stato, il secondo gruppo erano sorgente immediata di proteste, ostilità, accuse (di aderire ad idee illuministiche e, quindi,  anche religiosamente sospette). Visto che le finanze del pontificato di Pio VI peggioravano sempre più (per le imprese sproporzionate alle disponibilità, come il prosciugamento delle paludi, le costruzioni grandiose, il nepotismo); e che i princìpi seguiti dal papa e dal suo economo erano sfociate in Francia nella rivoluzione, allora la posizione del Ruffo alla Tesoreria divenne insostenibile: fatto già cardinale “in pectore” nel 1791, con un “promoveatur ut amoveatur” Pio VI lo  “pubblicò” nel 1794 e lo licenziò dall’incarico.

Ed ecco che il “cardinale” si rende indipendente, si porta a Napoli, dove il re lo fa sovrintendente di Caserta, con il compito particolare di sorveglianza sul gioiello della corona: la colonia agricolo-industriale di San Leucio dove, a parte altri provvedimenti sociali d’avanguardia, l’istruzione gratuita era obbligatoria anche per le ragazze! Per garantirgli lo stipendio, gli conferì le rendite dell’abbazia di S. Sofia in Benevento, dichiarata arbitrariamente di “regio patronato”. Erano tempi in cui il giurisdizionalismo faceva soffrire la Chiesa un po’ ovunque (Pio VI si era recato a Vienna nel 1782, nel vano tentativo di stornare le leggi ostili di Giuseppe II, imperatore illuminista, massone e sacrestano) e il provvedimento di Ferdinando IV era solo un colpo di spillo in più tra le ferite che egli ed il ministro Bernardo Tanucci avevano già inferto al papa. Solo quando la rivoluzione francese toccherà da vicino Austria e Napoletano, ci si rivolgerà di nuovo alla Chiesa come a garanzia del senso morale, necessario per mantenere l’ordine e governare. Ma quello che a noi interessa è rilevare come anche il cardinale non tenne conto della disapprovazione del papa e continuò nella sua opera di governo e di socialità. Il “cardinale”, cioè, cavalcava i tempi: le sfide che questi gli presentavano, erano per lui non sorgenti di paure e fughe, ma occasioni di lotta e di superamento. Citiamo da De Maio: “Nelle vicende che lo videro coinvolto, sempre da protagonista, il cardinale dimostrò saggezza ed equilibrio, ossia da uomo normale in armonia con la definizione datane da Freud – l’individuo normale è una persona in grado di amare e lavorare -. Nel caso del cardinale, – l’amare -, ovviamente, è l’equivalente di – amore -, che egli metteva in tutti i suoi progetti” (p. 23).

         Dopo questa “psicostoria” (p.10), l’impresa da Capo Pezzo a Napoli non può più apparire come un “raptus”, un caso fortuito, un colpo fortunato: il suo successo nella marcia politico-militare non è che l’esprimersi, poste le circostanze, di “valori” coerentemente costruiti in un’intera esistenza, a  partire dalle doti biologiche (cfr. pp.21-22). E, tra i valori, vi sono quelli della giustizia, dell’equità e della compassione. La prima è presente nei continui appelli ed interventi, perché ci si astenga da carneficine e da saccheggi; e perché, anche a tal fine, questi stessi uomini siano pagati regolarmente. La seconda genera la preoccupazione di creare una condizione di vita tollerabile nelle terre “liberate” (ridimensionamento del latifondo; abolizione dei dazi interni, provvedimenti per regolare la produzione e il commercio della seta: pp.33-34 e 57). La terza preordina il perdono ai “repubblicani” pentiti, fino a prevederne il rientro al servizio della monarchia (brani delle lettere al ministro Acton, riportate a pp. 32 e 52; sintesi di altre lettere allo stesso Acton, al re ed alla regina: pp. 50-2).

 E’ alla luce di questo “cristianesimo secondario”, ossia delle ricadute dei princìpi evangelici sui rapporti sociali, che egli poté trovare le parole giuste al momento giusto per infervorare, trascinare e condurre alla vittoria i contadini calabresi. De Maio sottolinea giustamente le geniali intuizioni presenti nel “proclama di Palmi”. Anzitutto, in due parole, la riabilitazione dei popolani dal marchio di briganti e peggio (“crocifissori di Cristo”, secondo la leggenda che calabresi fossero i soldati assegnati, il venerdì santo, alla tragedia del Calvario): egli si rivolge loro come ai “bravi e coraggiosi calabresi”. In secondo luogo, il richiamo di tutti gli ideali più sentiti dall’uomo preilluminista: religione e monarchia, Dio e re, Chiesa e famiglia. Infine si rivela la praticità dell’organizzatore: come segnale del proprio partito, egli stabilisce una ben visibile croce bianca, ritagliata in stoffa, cucita sul vestito. Egli creava l’esercito della “santa fede”, con un’icona inconfondibile, impegnativa, nobilitante: anche confortatrice in casi di ferite o di morte.

Ma gli eccidi di Crotone?  E il saccheggio di Altamura? A Crotone il “cardinale” non era presente il 22 marzo, quando la città venne inaspettatamente consegnata, in seguito al tradimento della guarnigione interna: vi accorse il 26, appena seppe del comportamento delle sue truppe; e fece cessare la carneficina. Altamura non volle arrendersi e fu sottoposta a regolare saccheggio: ma il “cardinale” riuscì a salvare la gente (stabilì una porta della città come sicura uscita per gli abitanti); anzi, del bottino, fece restituire i mobili e le masserizie più vistose. Tanto che, a Catanzaro, dove i cittadini si sollevarono contro i giacobini prima dell’occupazione della città, le truppe del “cardinale” furono invitate dentro dagli stessi repubblicani, per evitare vendette ed eccessi da parte degli esasperati e scatenati monarchici. D’altronde egli   era troppo cosciente che i “suoi” uomini erano quelli da cui dipendeva la riuscita dell’impresa: e doveva tollerare, quando non poteva frenare. Lo seppe troppo bene, non appena la Calabria fu liberata del tutto: molti dei capibriganti che l’avevano seguito se ne andarono, soddisfatti  del loro bottino. Per rifare la propria “Armata Cristiana e Reale”, egli dovette attendere a lungo: solo alla fine di aprile poté pervenire alla liberazione della Basilicata…

         E, sulla scorta di Domenico De Maio e di Giovanni Ruffo, si potrebbe continuare a mettere le fondamenta per una ricostruzione in positivo dell’opera del cardinal Fabrizio, fino a fondare la grandezza dell’uomo, più che sulla riuscita effimera della “riconquista”, nel suo sforzo per una maggiore giustizia sociale e, forse, nel suo sogno di una monarchia costituzionale (pp.52 e 69).

         A favore di una sua rivalutazione stanno non soltanto le sue lettere e le “Memorie economiche” (pp.50 e 66), ma anche una palinodia di Benedetto Croce, parallela a quella che gli toccò di scrivere a proposito dei “Promessi Sposi”. Convinto che ogni forma di letteratura finalizzata a scopi morali si escludesse automaticamente dalla perfezione artistica, egli pubblicò una stroncatura del romanzo manzoniano nel 1926 (ora in “Conversazioni critiche”, III, 247-256). Ma, a pochi mesi dalla morte, fece riparazione riconoscendo la sublimità estetica del capolavoro e attribuendo l’errore ad una insufficiente riflessione (“Lo spettatore italiano”, marzo 1952). Ebbene, anche a riguardo del nostro personaggio, nel 1897 (“La rivoluzione napoletana del 1799”, Bari, Laterza) egli ebbe a dare un giudizio sprezzante, definendolo “docile strumento nelle mani di quei due esseri inferiori”. Ma, pubblicando “La riconquista del Regno di Napoli nel 1799. Lettere del cardinal Ruffo, del Re, della Regina e del ministro Acton”(ivi, 1943), egli elogia il “cardinale” in questi termini: “Il personaggio che nella lettura di questo carteggio spicca ai nostri occhi è lui, Fabrizio Ruffo, che pensa e opera e, con calma risolutezza, affrontando e superando continue difficoltà e pericoli, giunge al segno che si era prefisso… A siffatti propositi (di vendetta, da parte del re e della regina) il Ruffo, pur nel mezzo delle sue cure e dei suoi affanni, opponeva chiaramente e fermamente, fin dal primo delinearsi del felice andamento della sua impresa, il diverso sentimento suo e il diverso suo pensiero e la diversa sua pratica: cioè, che invece di punizioni o restringendo a pochi casi le punizioni, fosse da adoperare larga clemenza e indulgenza…” E cita dalla lettera all’Acton questa riflessione sulla condizione tormentata del suo spirito: “E’ certo che il caso di far guerra e temere la rovina del nemico è la più crudele situazione, ed è la nostra”. C’è molto da ridire sulla religiosità del “cardinale” (e il prof. De Maio è piuttosto sulla negativa: cfr. p. 24 “egli non fu uomo di Chiesa, anche se certamente fu uomo della Chiesa”; anzi, “Il cardinale…forse non era nemmeno religioso” p. 23), ma una cosa ci sembra certa: il sentirsi angosciato per la salvezza del nemico, che pur si è costretti a combattere, non è sentimento che  si riesca a trovare espresso fuori del Vangelo e della fede  che vi si riferisce: è un “proprium” della civiltà cristiana.

         Ma, qualunque sia stato il peso dell’educazione nel far maturare il suo temperamento (innato) in carattere (liberamente forgiato), pare di dover proprio assentire con De Maio quando conclude (p. 38) che la sua eccezionale personalità e le sue opere eccezionali “giustificano in pieno il prestigio di cui il cardinale godette dopo”: sia presso il re Ferdinando, che presso Napoleone, che presso il papa. A Napoli fu fatto ambasciatore presso la S. Sede e Consigliere di Stato; a Roma Pio VII gli affidò la soprintendenza alla Deputazione dell’annona e della grascia e lo nominò in due diverse occasioni membro della congregazione economica ; Napoleone  lo volle presente al suo matrimonio con Maria Luisa, nel 1810 e gli conferì la Legion d’onore nel 1813.

Perché gli storiografi posteriori non sono unanimi nel giudizio di lode ad un personaggio così eccezionale? Cedano alfine i pregiudizi alla verità dei fatti.        

                                                                           don Marcello De Grandi.

[1] Giovanni Ruffo e Domenico De Maio- Il cardinale Fabrizio Ruffo tra psicologia e storia- Rubbettino- 88049- Soveria Mannelli, 1999, pp.118, Lire 18.000.

[2] Ma chi aveva preordinato il curricolo della sua vita? In che misura egli lo faceva proprio? Anche nelle dimensioni religiose? Forse la domanda non ha molto senso per lui: l’obbedienza ai genitori era allora non solo un comandamento di Dio, ma un mito sociale, almeno in certe classi nobiliari (i Ruffo, non si dimentichi, erano prìncipi): implicava anche la scelta dello stato, nonostante le precauzioni in contrario della Chiesa. E, poi, in un parentado che fra il 1706 ed il 1891 poté vedere eletti al cardinalato altri quattro membri, l’ambizione di Fabrizio alla carriera ecclesiastica poteva parere cosa appetibile e degna,  senza per questo escludere nè includere necessariamente la fede. D’altra parte, questa, era un’eredità ovvia nell’ambiente in cui era cresciuto, sia di famiglia che nel contatto con il precettore romano e nel collegio Clementino dove, ad un certo punto,  anch’egli si iscrisse come lo zio, per gli studi teologici: era la scuola dove si formavano i diplomatici e  i candidati alle alte cariche ecclesiastiche, anche attraverso gli studi di teologia dogmatica e morale. Ma l’aver rifiutato il sacerdozio per tutta la vita, fa del nostro “cardinale” un enigma su questo punto. Almeno fino ad un certo segno. Angelo Braschi si fece ordinare sacerdote solo a quarantuno anni, quando già da tre era canonico maggiore di San Pietro. E, cardinale dell’ordine dei preti, fu consacrato vescovo dopo la nomina a papa. Consalvi, il segretario di Stato di Pio VII, non fu mai sacerdote, ma seppe rispondere a Napoleone che non si illudesse di riuscire a distruggere lui la Chiesa, visto che non c’era riuscito il clero in diciotto secoli!  

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Il cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara nella storia

Posted by on Ott 12, 2019

Il cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara nella storia

             Il cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara nella storia

Premessa

Dieci anni or sono (1995) avevo scritto per la rivista “Calabria letteraria” l’articolo che riporto, al quale ora ho apportato alcuni aggiornamenti, alla luce di nuove acquisizioni.

Negli anni scorsi ero stato stimolato dal compianto Direttore Frangella a rivedere ed aggiornare l’articolo, che a lui era piaciuto.

Il Direttore Frangella non è più tra noi ed io penso di onorare la sua memoria

seguendo il consiglio che tanti anni fa mi aveva dato.

Propongo l’articolo aggiornato al nuovo Direttore Franco Del Buono, assieme all’augurio di sereno e buon lavoro. Egli è certamente degno del suo illustre predecessore.

Tra appena un lustro saranno duecento anni che Fabrizio Ruffo di Bagnara, Cardinale dell’ordine dei Diaconi di Santa Romana Chiesa, attende dalla storia un atto di giustizia: liberare definitivamente dalle menzogne e dalle partigiane montature – in ogni tempo suggerite ed alimentate dal clima politico del momento o influenzate dall’ambiente dal quale provenivano – che fecero di lui un capo di bande brigantesche che, ottenuta la capitolazione di Napoli, affogò nel sangue l’ultimo anelito di libertà dei patrioti repubblicani.    

Giusta o ingiusta che fosse la sua causa, Egli ha questo diritto.

In verità la storia lo ha da tempo riabilitato! Tuttavia c’è ancora, nel mondo della cultura, chi non ha accettato quella riabilitazione e, nel giudicarlo, quasi fossero Vangelo, continua ad ispirarsi agli scritti del Cuoco, del Botta, del Colletta. Questi Autori che, nello scrivere anche di storia non seppero superare le emozioni derivanti dalla loro condizione di contemporanei ed attori, appartenenti alla fazione dei soccombenti, dissero del Cardinale le cose più infamanti. Oggi, che la consultazione di archivi è possibile anche con scarso impegno, risulta facile, a chi non accetti la riabilitazione operata dagli storici nostrani e stranieri, effettuare specifiche ricerche e riaprire il processo, nel caso di nuove acquisizioni documentali storicamente attendibili.

Vincenzo Cuoco, studioso di letteratura, filosofia ed economia, per avere aderito alla Repubblica fu esiliato da Napoli. Durante la dominazione francese ritornò a Napoli nel 1806, dove ricoprì alte cariche, che conservò anche dopo il ritorno dei Borbone. Scrisse, tra l’altro (1800), “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”. Le falsità, le ingiurie, le atrocità che attribuì a Fabrizio Ruffo trovano parziale spiegazione, ma non giustificazione, nella impossibilità che ebbe di controllare le notizie che gli venivano riferite. D’altra parte la difficoltà di comunicazione era tale che la notizia dei progressi della spedizione Sanfedista giunse a Napoli soltanto quando quelle truppe furono arrivate a Nola, come dire alle porte della Città! Lo scrisse lo stesso Cuoco a pag. 263 della seconda edizione di quel suo libro (1806), nel quale, ammettendo di avere scritto basandosi soltanto sui propri ricordi, non poté fare a meno di rivedere  alcune  sue precedenti  asserzioni, limitatamente, però, a taluni avvenimenti.

Carlo Botta, piemontese, era un medico militare al seguito delle armate francesi. Fu uomo politico ed autore di tre opere storiche. In una di queste: “Storia d’Italia dal 1789 al 1814”, non seppe fare di meglio che unirsi ai faziosi nel coro di calunniose bugie, alle quali quei contemporanei del Cardinale ricorsero, scrivendo dell’impresa di questi. Questo libro, a parere degli storici, risente negativamente della mancanza di diretta informazione ed è privo di giudizio critico. In esso il Botta riportò alla parola quanto scritto dal Cuoco.

Pietro Colletta, fu Generale dell’esercito napoletano. Nel ’99 aderì alla repubblica, ma restaurata la Monarchia ritornò al servizio dei Borbone. Passò a servire i Francesi, nel decennio del loro dominio sul Regno di Napoli. Durante tale periodo fu, tra l’altro, giudice di famose cause politiche. Egli, nella sua “Storia del Reame di Napoli” -opera invero universalmente riconosciuta non solo di parte ma anche di scarso valore scientifico-, a conferma della sua animosità e prevenzione, presenta Fabrizio Ruffo con parole addirittura diffamatorie, ingiuriose e menzognere. Ne scrisse in questi termini:

“Fabrizio Ruffo, nato di nobile ma tristo seme, scaltro per natura, ignorante di scienze o lettere, scostumato in gioventù, lascivo in vecchiezza, povero di casa, dissipatore, prese ne’ suoi verdi anni il ricco e facile cammino delle prelature. Piacque al Pontefice Pio VI, dal quale ebbe impiego supremo nella Camera pontificia; ma, per troppi e subiti guadagni perduto ufficio e favore, tornò dovizioso in patria, lasciando in Roma potenti amici, acquistati, come in città corrotta, co’ i doni e i blandimenti della fortuna”.

Di parere diverso dal Colletta e dagli altri due autori sopra menzionati, furono altri napoletani, scrupolosi studiosi di storia di quei tempi, quali Benedetto Croce, Raffaele Palumbo, Benedetto Maresca, i quali lumeggiarono e collocarono al giusto posto eventi e personaggi del dramma che insanguinò Napoli alla fine del XVIII secolo.

Ma come nacque e chi fu veramente Fabrizio Cardinale Ruffo?

Egli appartenne ad un ramo dell’antichissima Casa dei Ruffo di Calabria: a quello dei duchi di Baranello e principi di S. Antimo, diventati proprio nel ‘99  duchi di Bagnara, per estinzione del ramo principale.

Fabrizio Ruffo nacque a San Lucido, baronia della sua famiglia, il 16 settembre 1744 dal duca Letterio e da Giustina Colonna, principessa di Spinoso, marchesa di Guardia Perticara e signora di Accetturo e Gorgoglione.

Dovendo dare notizie sull’educazione ricevuta dal bambino Fabrizio, ritengo utile riportare quanto scrisse, dieci anni dopo la morte del Cardinale, l’Abate Domenico Sacchinelli in “Memorie storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo”, poiché egli riportò un episodio che potrà poi spiegare l’interesse che, il Papa Pio VI, ebbe per Fabrizio Cardinale: “Non ancora aveva compiti quattro anni quando fu portato in Roma per essere ivi educato sotto gli auspici del di lui zio (in verità era suo prozio, essendo fratello del suo avo Paolo) Cardinal Tommaso Ruffo, Decano allora del Sacro Collegio. Trovavasi nella Corte di quel Porporato, in qualità di uditore, il Prelato Giovanni Angelo Braschi di Cesena, il quale per far carezze al piccolo Fabrizio il prese a farlo sedere sulle sue ginocchia. Volea Fabrizio giocare con la bella chioma di Braschi: tentò più fiate di svolgerne gli inanellati capelli, ma venne sempre con diligenza impedito; infastidito finalmente di quell’ostacolo superiore alle sue forze, colla sua mano bambina gli tirò una guanciata, della quale occorrerà parlare.

Le amorevoli cure del Cardinal Tommaso per l’educazione e studi di Fabrizio, non furono senza grande effetto. Superò Egli di molto l’aspettativa che si avea de’ suoi sublimi talenti; e nell’età ancor giovanile, avea già acquistato fama di molto sapere nelle scienze filosofiche, e specialmente nelle fisiche ed in quelle di economia pubblica; e perciò gran nome lasciò di sé nell’illustre Collegio Clementino, in cui passò più anni in qualità di alunno, ugualmente che ve li aveva passati il di lui zio Cardinal Tommaso, soggetto degnissimo del Triregno, come lo chiama ne’ i suoi annali il Muratori.

Salito Gio’ Angelo Braschi alla Cattedra di S. Pietro col nome di Pio VI, non si era dimenticato della guanciata ricevuta, e spesso, in aria di benevolenza, ne faceva menzione a Fabrizio. Quella sovrana benevolenza non rimase inoperosa; poiché tanto per merito personale di Fabrizio, quanto per la gratitudine alla memoria del Cardinal Tommaso, il Santo Padre non tardò nominarlo prima a Chierico di Camera, ed indi a Tesoriere generale di Roma, che era allora (sia detto per chi l’ignorasse) la carica più cospicua, e la più importante della Stato Pontificio; perché in Roma il Tesoriere avea quelle stesse attribuzioni, che negli altri regni sono divise a’ ministri delle finanze, dell’interno, della guerra, e della marina”.

A proposito della nomina a tesoriere, l’austriaco barone von Helfert, il quale con grande meticolosità studiò e ricercò quanto era stato scritto sulla rivoluzione e controrivoluzione del 1799, nel suo libro “Fabrizio Ruffo…” scrisse: “nella quale carica il Ruffo non solamente attivò una quantità di provvedimenti utili all’universale, ma rimise in ordine e assetto tutto il sistema di finanze papali”. Ed ancora “Non mancò senza dubbio d’attirargli disfavore la fermezza con la quale quei provvedimenti recò ad effetto; una gran parte delle classi privilegiate era sdegnata contro di lui per avere diminuiti gli antichi diritti feudali; i contrabbandieri l’odiavano e maledivano perché i nuovi ordinamenti doganali sciupavano loro il mestiere […] Però la vastità delle sue cognizioni era ammirabile; si hanno suoi scritti sulle fonti e condutture d’acqua, sui costumi delle diverse specie di piccioni, sui movimenti delle milizie, sull’equipaggiamento della cavalleria. I romani in complesso avevano più ragione di essergli grati che di sbeffarlo; il suo nome è collegato a istituzioni di cui dura ancor oggi la benefica efficacia. Nessuno poteva attaccarlo nella interezza del suo carattere pubblico. Anche gli avversari dovevano rendergli giustizia, e confessare, che tutto quello a cui metteva le mani sapeva con rara energia e con incontestata abilità condurlo a fine”.

L’avvedutezza e le capacità del Tesoriere Ruffo furono tali che Papa Pio VI gli propose di trovar modo di potenziare e di rendere economicamente attiva l’agricoltura nello Stato di Castro e nel Ducato di Ronciglione. La riforma agraria attuata dal Ruffo portò le rendite di quelle terre da 50200 scudi, che erano, a 67200. Ma furono avvantaggiati soprattutto i contadini, ai quali erano state concesse le terre in “Enfiteusi perpetua a linea mascolina, progressiva nei maschi dell’ultima femmina di ciascun enfiteuta”. Il Papa ne fu così contento che volle estendere quella riforma a tutto lo stato pontificio. Tali riforme, che abolivano di fatto gli abusi feudali, venivano tanto più apprezzate in quanto erano state concepite e messe in pratica da un Cardinale appartenente ad una famiglia, tra le più illustri della nobiltà napoletana, ricca di feudi. La riforma agraria e le possibilità di benessere che concesse ai contadini gli inimicarono, per contro, la nobiltà feudale ed i grandi proprietari terrieri. In ogni occasione comunque il senso che ebbe dello Stato e la consapevolezza che un Ministro debba sempre operare al fine di tutelare il superiore interesse della Nazione, gli diedero la forza di superare ogni considerazione opportunistica ed il coraggio di opporsi a quanto riteneva ingiusto e di ostacolo al bene comune. A questo proposito l’anonimo autore della “Istoria della casa dei Ruffo” scriveva nel 1873: “… fu sì popolare la sua fama che tuttavia lo si celebra per modello di tesoriere, per grande economista, per uomo di magnanimi disegni e di opere grandiose e benefiche”.                                              Come uomo la sua indole fu umana e generosa. Il Sacchinelli ed il von Helfert riferiscono un episodio che conferma la sensibilità del suo animo. Visitando un giorno i lavori idraulici per il prosciugamento delle Paludi Pontine ed inoltrandosi da solo a caccia nella foresta, il Cardinale vide un lavoratore colpito dalla malaria. Egli allora se lo caricò sulle spalle e lo portò per un lungo tratto di sentiero sino alla sua carrozza. Lo condusse a Roma all’Ospedale di Santo Spirito, dove lo fece curare a sue spese.

Scrisse il Colletta che il Cardinale uscì ricco dall’incarico di Tesoriere! Il Sacchinelli non fu dello stesso parere, poiché a sua volta scrisse: “Il disinteresse di Ruffo, e la sua illibatezza nello esercizio della ricca carica di Tesoriere, ricordavano a Roma gli antichi eroi della Storia. In quella carica stessa nella quale altri da poveri divenivano in poco tempo ricchi, Egli in molti anni di esercizio non si avea formato un peculio da poter supplire alle indispensabili spese del corredo Cardinalizio. Gli convenne perciò prendere il denaro ad usura, ipotecando, precedente Pontificio Chirografo, i beni della Prelatura Ruffo”. Von Helfert non riferì a questo proposito cose diverse:         “Conferitogli nel Concistoro del 29 settembre 1791 il cappello cardinalizio, il Ruffo lasciò il suo posto di tesoriere, che aveva dato modo ai suoi predecessori di accumular grandi ricchezze, e lo lasciò con le mani vuote, tanto che gli fu mestieri di contrarre un imprestito per coprire le prime spese alla sua novella dignità”.

Debbo però rilevare un errore, in questa affermazione di von Helfert. È vero che la nomina del Ruffo al cardinalato risale alla data che questo autore cita (29 settembre 1791: era una di quelle nomine che si definivano “in pectore”), ma è anche vero che essa fu pubblicata soltanto il 21 febbraio 1794 e che il Ruffo esercitò la carica di Tesoriere generale e le altre di cui era investito, anche negli anni ’92 e ’93 ed in parte del ’94. Ciò serve a chiara dimostrazione che il Pontefice non lo fece Cardinale, come asserì il Colletta, per allontanarlo da Roma e dalla carica di Tesoriere: quando lasciò gli incarichi di governo e Roma Fabrizio Ruffo era Cardinale già da tre anni! 

Resta da chiarire la nascita di Fabrizio Ruffo da “nobile ma tristo seme” e l’essere stato egli “ignorante di scienze e lettere “, come ha scritto Pietro Colletta.

Alla prima affermazione del Colletta, rispose Alessandro Dumas: “La sua nascita adunque, come si scorge, era non solo nobile ma illustre. Infatti vi è un proverbio italiano che dice per accennare i principi della nobiltà nei vari paesi: Gli Apostoli in Venezia, i Borboni in Francia, i Colonna a Roma, i Sanseverino a Napoli e i Ruffo in Calabria. Ora si è visto che il cardinale era Ruffo pel padre e Colonna per la madre”.

Tristo seme! Viene a me ora in mente cosa scrissero gli storici su Fulcone Ruffo di Calabria, poeta e glorioso soldato, carissimo a quel grande Imperatore che fu Federico II, o su Fabrizio Ruffo Priore di Bagnara e Gran Priore di Capua, Capitan Generale dell’armata Gerosolimitana, vincitore assieme a Morosini della battaglia di Candia, il quale con perizia e grande valore salvò a Zoclaria, presso la Canea, il grosso delle forze navali veneziane e francesi già sopraffatto dai turchi, o su Gaetano Ruffo, anche egli poeta e luminosa figura di patriota che, anelando l’unità d’Italia, bagnò del suo giovane sangue il suolo di Calabria, o, per arrivare sino ai nostri tempi, cosa si scrisse su Fulco Ruffo di Calabria, il “Cavaliere del cielo”, eroe e medaglia d’oro della guerra ’15-’18! Ma il Generale Pietro Colletta non conosceva evidentemente la storia e non visse tanto da conoscere il martirio di Gaetano e l’eroismo dell’ultimo Fulco!

Alla terza affermazione “ignorante di scienze e lettere” risponde ai giorni nostri Mario Casaburi nella sua opera biografica: Il “Cardinale Fabrizio Ruffo” (Rubbettino Editore).

Scrivendo degli studi del giovane Fabrizio presso l’esclusivo Collegio Clementino, Casaburi ci dà queste notizie:

 “[…] Sollecitavano i padri nei discenti anche un sano spirito di emulazione. Era ritenuto molto utile nelle varie classi  per ogni mese  “qualche saggio scolastico privato o pubblico a ciò che tutti siano esercitati nel recitare et ogni scuola habbi il suo honore per il profitto de’ scuolari”. Lingua d’uso per discenti e maestri non poteva essere che il latino.

Era senza dubbio quello del Clementino un ambiente congeniale al carattere di Fabrizio, che per  ben dodici anni assorbì con straordinaria efficacia tutto quanto gli veniva insegnato.

Il giovane superò in poco tempo il comprensibile trauma iniziale, era già abituato a stare fuori casa, lontano da genitori, fratelli e sorelle, e in poco tempo divenne un elemento di spicco, un laeder, del Clementino, capace di imporsi su tutti e in grado di distinguersi tra i suoi compagni per intelligenza, concretezza operativa e, soprattutto, per il grande amore che nutriva per i classici latini e greci […]”.

Il Re Ferdinando IV, quando seppe il Ruffo libero da incarichi presso la Corte Pontificia, lo invitò a trasferirsi a Napoli, offrendogli l’Intendenza di Caserta e la ricca badia di Santa Sofia di Benevento, dichiarata di regio patronato e per tale motivo contestata dal governo pontificio. Ottenuta l’autorizzazione dal Papa, il Cardinale si trasferì a Caserta e si dedicò alle fabbriche e manifatture di seta della colonia di San Leucio, portandole in pochi anni ad un livello produttivo mai raggiunto prima. Immerso nei suoi studi visse a Caserta sino al 1799, sognando -o addirittura presagendo- futuri “tempi ed occasioni di azione”.

L’ultimo decennio del XVIII secolo trovò il Regno di Napoli in una situazione economica disastrosa. Il commercio era fermo, quasi paralizzata l’industria, oppressa da assurde e complicate leggi l’agricoltura. I ceti più poveri erano super tassati, mentre erano fiscalmente privilegiati i ceti più ricchi.

Da quando la Regina, l’austriaca Maria Carolina, in virtù della nascita del Principe ereditario, era entrata a far parte del Governo (era previsto nel contratto di matrimonio), il potere era passato nelle sue mani ed in quelle del generale Acton, chiamato a Napoli dalla Regina nel 1778. Il Re, più propenso ai piaceri che alle cure del Regno, che aborriva, interveniva negli affari di Stato soltanto per avallare una spregiudicata politica estera, che portò il Paese ad affrancarsi dalla tutela spagnola, per cadere sotto l’influenza prima austriaca e poi degli inglesi, che lo spinsero ad entrare in conflitto con la Francia.         

Ormai il Regno era completamente nelle mani del cosiddetto “partito inglese”, essendo Acton Primo Ministro, Lord Hamilton, ambasciatore inglese -la cui consorte godeva i favori della Regina (e del Nelson)- e questo Ammiraglio, con la sua flotta, nel porto di Napoli.

Nel 1793 l’esercito napoletano contava 36 mila uomini -in verità per metà stranieri indisciplinati e poco addestrati- e la marina 102 navi da guerra, di diverse classi, armate di 618 cannoni e con un equipaggio di 8600 marinai. Il 12 luglio di quell’anno il Primo Ministro Acton e Lord Hamilton avevano fatto firmare al Re un trattato di alleanza con l’Inghilterra. Questo trattato poneva la Nazione napoletana tra quelle che avevano il dominio del Mediterraneo. Nonostante quell’armamento -il cui costo aveva non poco contribuito al grave impoverimento della Nazione- e quel trattato con gli Inglesi, il Governo napoletano non ardì reagire ed accettò le imposizioni francesi, quando nel porto di Napoli si presentò l’Ammiraglio La Touche al comando di una squadra di 14 navi da guerra francesi per imporre, sotto la minaccia dei cannoni, il riconoscimento del Governo repubblicano di Francia, che tempo prima il Re non aveva voluto riconoscere.

Quelli che seguirono furono anni disgraziati per i napoletani. La polizia, nell’intento di frenare e controllare l’insofferenza più o meno apertamente dimostrata da taluni strati sociali, seminava il terrore effettuando arresti indiscriminati che i tribunali trasformavano in condanne severe e numerose furono le sentenze capitali. C’era stata la sfortunata guerra con la Francia e l’armistizio del maggio 1796, imposto da Napoleone, che combatteva, vittorioso, sul suolo italiano. Ma la pace durò poco ed una nuova disastrosa guerra contro la Francia terminò con una pace pagata a caro prezzo ed ottenuta a condizioni umilianti.

Il 1798 vide le truppe di Napoleone a Roma, la proclamazione della Repubblica romana e l’ottantenne Papa Pio VI esule. Egli, prigioniero a Valence, cessò di vivere il 29 agosto 1799.

Nei primi sei mesi del 1798, le coste siciliane patirono incursioni dal naviglio francese, ma dopo la strepitosa vittoria navale, ottenuta dall’Ammiraglio Nelson in agosto di quello stesso anno ad Aboukir, una nuova ventata di coraggio arrivò alla Corte di Napoli. Ma ormai il destino del Regno di Napoli era segnato. Con l’esercito francese alle porte e gli Inglesi in casa, la sua indipendenza era solo apparente ed esisteva addirittura il concreto pericolo che il più antico Regno della Penisola scomparisse per sempre. I contrapposti interessi francesi ed inglesi, in assenza di una saggia politica estera – d’esito forse felice negli anni precedenti – tendente a mantenere neutrale la Nazione, che in quella guerra occupava geograficamente un’importante posizione strategica, avevano trasformato il Regno in una terra da conquistare.

La politica interna, non era stata più avveduta. Le finanze della Stato, come si è detto, erano fortemente impoverite. Il popolo era stanco e le classi sociali più elevate frastornate e divise. Intellettuali e Lazzari – tale era il nome che gli Spagnoli, durante il loro governo, avevano affibbiato ai più poveri e derelitti -, decimati i primi ed eccitati i secondi dal regime di persecuzione degli ultimi anni, sembravano ora affrontarsi. Aristocratici e borghesi erano incerti su chi appoggiarsi, per difendere il loro patrimonio. L’interesse e gli intrighi inglesi, così autorevolmente rappresentati in seno al governo, avevano portato il Paese sulla soglia della guerra civile, quando le vittoriose truppe francesi suggerirono alla Corte di abbandonare Napoli per Palermo.

Il trasferimento avvenne sulla nave inglese Vanguardia, mentre Nelson affondava nel porto le navi napoletane; si disse per non farle cadere in mano al nemico. La partenza dei reali avvenne alle ore 20:30 del 21 dicembre 1798, ed ebbe la consistenza di una vera e propria fuga!

Un mese dopo, il 23 gennaio 1799, il generale Championnet entrava in Napoli e la Repubblica napoletana era ufficialmente proclamata! Strano destino quello di questa neonata Repubblica, che infiammava in quei giorni i più nobili ed eletti intelletti napoletani, destinata, come certamente era, a cedere prima o poi alla prodigiosa ambizione di potenza del novello Cesare francese, alle rivendicazioni spagnole o agli interessi inglesi.

Gli Inglesi e gli Spagnoli, da sempre, non amavano le repubbliche e Napoleone, mentre le creava, già dava segni di preferire anch’egli le monarchie. Lo dimostrò con i fatti appena dieci mesi dopo, quando il 18 novembre 1799 divenne Primo Console, sulle ceneri del Direttorio e del Consiglio dei cinquecento. Da quel momento non solo non creò più repubbliche, ma da lì a pochi anni si sarebbe incoronato Imperatore ed avrebbe trasformato in monarchie quelle poche repubbliche create e scelto i Re in seno alla propria famiglia.

Benedetto Croce nel suo “La rivoluzione napoletana del 1799” in prefazione scrisse: “[…] se i repubblicani napoletani avessero avuto piena coscienza della situazione, e avessero seguito l’istinto della propria salvezza, una sola linea di condotta si presentava semplice e dritta: fare ai francesi ciò che, poco dopo, i francesi, quando il loro interesse lo richiese, non ebbero ritegno di fare ad essi: abbandonarli, e intendersela con i propri Sovrani.

Per fortuna, i Patrioti di Napoli erano grandi idealisti e cattivi politici. Nessuno pensò a tradire i francesi, e entrare in accordi coi Sovrani; moltissimi, amanti disinteressati della Repubblica, erano pronti a difenderla sino all’estremo, e qualunque cosa accadesse. Così tennero in piedi, anche dopo la partenza dell’esercito francese, la loro barcollante Repubblica, tra illusioni smisurate e piccoli effetti, propositi arditi e mezzi deficienti: una vita che oscillò tra la commedia e la tragedia, sinché quest’ultima, alla fine, prevalse. La Repubblica cadde. Ma se i patrioti di Napoli, per il loro idealismo, la loro ostinazione e la loro mancanza di senso politico, andarono incontro a certa rovina, furono questi stessi fatti e circostanze che salvarono il frutto dell’opera loro. Nella storia, è grandissima quella che potrebbe dirsi l’efficacia dell’esperimento non riuscito, specie quando vi si aggiunga la consacrazione di una eroica caduta”.                

Il 14 gennaio 1799 giunse a Palermo il Cardinale Fabrizio Ruffo. Non si conoscono i motivi che lo trattennero a Napoli ben tre settimane. La tradizione orale di Casa Bagnara affermava che Fabrizio -il quale aveva vivamente sconsigliato al re il trasferimento della corte a Palermo (a tale riguardo esistono effettivamente documenti), trasferimento che egli considerava fuga non necessaria, vergognosa e, comunque, prematura– rimase a Napoli per valutare la possibilità di riordinare almeno una parte dell’esercito, ormai senza guida, ed opporsi alle deboli truppe francesi d’invasione. Suo fratello Francesco raggiunse Palermo ancora più tardi, assieme al generale Pignatelli che, per mandato reale, avrebbe dovuto difendere Napoli. Furono entrambi arrestati al momento dello sbarco, ma liberati il giorno dopo, avendo il Pignatelli presentato al re giustificazioni che questi ritenne valide.  

Alla tradizione orale non si può riconoscere validità di documento storico; l’ho qui riferita soltanto perché tale tesi fu sostenuta anche da altri Autori.

Il Cardinale trovò che a Palermo nella corte regnava un’atmosfera di sconforto e di paura. Il Re sembrava sfuggire alla tragica realtà, apparendo rassegnato ed assente. La Regina, la cui speranza di salvezza era riposta esclusivamente nell’Ammiraglio Nelson, scriveva in quei giorni alla sua confidente Lady Hamilton “qui tutti siamo più morti che vivi”.

Piero Bargellini, nel suo romanzo FRA DIAVOLO, così descrive l’ambiente di corte in quelle prime settimane di esilio:

“Soltanto un personaggio, che ancora non abbiamo mai nominato, s’aggirava per la corte con un volto dove non era né viltà né indolenza. Aveva cinquantacinque anni: i capelli lunghi, precocemente imbiancati, gli s’arricciolavano sugli orecchi quasi per natura. Nel volto pallido s’infossavano due occhi ardenti di Calabrese. Il naso lungo e la bocca ermetica. Tutto nero ed accollatissimo il costume, con sul petto una croce e sulla spalla manca, un mantello rosso: principe della Chiesa. […] Era il Cardinale Fabrizio Ruffo, nato in Calabria, educato in Roma dal canonico di Cesena che col nome di Pio VI doveva morire prigioniero a Valenza. Tutt’altro che ignorante, come di lui è stato ingiustamente scritto, si era dedicato alla scienza del secolo: la economia politica, mantenendo anche nelle opere scritte un senso di realismo e di equilibrio che non ebbero gli < astratti speculatori >, com’egli stesso chiama gli infausti illuministi.

Per avere scontentato i feudatari con la riforma enfiteutica – che sarà poi solo merito di Leopoldo di Toscana -, per avere scontentato gli speculatori con la libertà di commercio – che sarà poi solo merito dei rivoluzionari -, per avere danneggiato contrabbandieri e loro protettori con le riforme doganali, egli fu licenziato da Roma […]. Malvisto dal ministro Acton, spregiato dall’ammiraglio Nelson, burlato dal Re che s’è visto non aveva molta simpatia per gli abiti talari, non curato dalla Regina che sognava o filosofi a reggere stati o generali a imprendere guerre, Fabrizio Ruffo era appena sopportato nella reggia a Napoli. Ma a Palermo, nella disgrazia, quel volto sereno e quegli occhi in fondo ai quali non si volea mai spegnere il fuoco della speranza, cominciò ad avere un fascino nuovo. E il fascino aumentò quando, dopo neppur venti giorni che il Regno era perso, si seppe che egli pensava alla riconquista”.

Munito di un diploma reale, che lo nominava VICARIO GENERALE DEL REGNO, Fabrizio Ruffo si trasferì a Messina e, da qui partito, sbarcò in Calabria la mattina di venerdì 8 febbraio 1799.

Sull’inizio dell’impresa del Cardinale, riporto quanto scritto, nel suo libro   “Giacobini e Sanfedisti in Calabria”, dal compianto On. prof. Gaetano Cingari, ordinario di storia moderna presso l’Università degli studi di Messina:     “[…] Di mezzi, in verità, il Ruffo ne trovò ben pochi: già le prime lettere del suo interessante epistolario di quei mesi mettono in luce tutte le difficoltà dell’audace spedizione. A Messina, anzi, erano palesi i sintomi di una non lontana rivolta giacobina, che, se fosse riuscita a collegare insieme Messina e Reggio, avrebbe infranto ogni suo proposito.

Nondimeno il Cardinale non si lasciò fermare dalle remore amministrative né dall’atmosfera di sospetto e di paura di cui fu circondato all’indomani del suo arrivo a Messina. Egli, difatti, era un uomo di molta capacità e, sebbene non avesse una notevole esperienza militare, possedeva le qualità peculiari dell’ottimo condottiero: era risoluto e ponderato e possedeva soprattutto un nativo senso del limite e dell’opportunità. D’altronde, nato in Calabria, conosceva i costumi e forse un po’ i problemi dei Calabresi; infine, uomo di chiesa, poteva contare sull’appoggio dei prelati e, ancor più, del basso clero, di cui seppe sollecitare la vanità e anche riconoscere i troppo conculcati diritti. […] Così, sebbene esistessero larghe promesse per la formazione di un primo forte nucleo di realisti, il Ruffo si trovò a Pezzo pressoché‚ solo.”

Allo sbarco a Capo Pezzo, in Calabria, il Cardinale era accompagnato dal marchese Malaspina, dall’abate Lorenzo Sparziani, dal cameriere personale Carlo Cuccaro, da tre domestici, da Annibale Caporossi e da Domenico Petromasi.

Superate le prime difficoltà, ebbe inizio la marcia di riconquista del Regno. Scrive il Cingari: “E non si deve dimenticare che l’arrivo del Ruffo in Calabria aveva suscitato larghe speranze tra i Calabresi e specie nel basso popolo; si sperava che la vittoria delle forze sanfedistiche avrebbe recato un sensibile sollievo alla vita economica e sociale, eliminando le cause più dirette del disordine amministrativo e delle ricorrenti ingiustizie di cui restava vittima l’indifeso ceto popolare”.

Dallo stesso Cingari si apprende – e la notizia, ampiamente documentata, è in netto contrasto con quanto sin’ora è stato scritto – che: “Scarso dunque, contro ogni previsione, fu l’apporto dei paesi posti nei feudi della famiglia Ruffo e pressoché‚ trascurabile la partecipazione degli abitanti di Scilla e di Bagnara.”  

Sin dall’inizio della sua impresa, il Cardinale dimostrò, con i fatti, che aveva  a cuore la buona riuscita della sua spedizione, ma non a scapito del superiore interesse futuro del Regno. Si era reso subito conto -o meglio forse faceva parte di un progetto lungamente da lui meditato negli ultimi anni- dell’inutilità di provvedimenti economici radicali che, sebbene vantaggiosi al momento, si sarebbero resi pericolosi, a pacificazione avvenuta, per la struttura economica ed amministrativa dello Stato. Scrive ancora il Cingari: “Egli risolse di eliminare i balzelli più gravosi e, in primo luogo – si badi – quelli che, per il fatto che contribuivano ad arricchire i galantuomini, suscitavano più frequentemente le aspre reazioni popolari”.

Nonostante le gravi preoccupazioni ed i massacranti impegni che lo assillavano in quei tempi, già da Montaleone (la odierna Vibo Valentia), il Cardinale iniziò ad assumere provvedimenti diretti ad alleviare la forte crisi del commercio della seta, che aveva inevitabilmente causato conseguenze fortemente limitative sulla produzione di questo prodotto, che da sempre rappresentava la migliore risorsa della intera regione. Rimosse non soltanto gli ottusi regolamenti dell’Amministrazione Generale, che avevano paralizzato negli anni precedenti questo commercio, ma modificò anche il sistema doganale in modo da favorire tutte le attività commerciali. Scrive il Cingari: “A differenza di quel che non avevano saputo o potuto fare i repubblicani, il Ruffo cercò di alleggerire il carico fiscale, eliminando, se non i più pesanti contributi, certo i più impopolari: l’abolizione degli annotatori e dei loro sostituti e dei soprabilancieri, figure odiatissime della vita calabrese, più che ogni altro provvedimento valse a vieppiù avvicinare il ceto popolare al Ruffo e ad alimentare il concorso dei realisti all’Armata cristiana. La quale, anche per effetto dell’editto di perdono nei confronti di tutti coloro che, pur compromessi nel moto repubblicano, ritornavano all’obbedienza, si apprestava a marciare verso paesi spontaneamente <realizzatesi>”.

Partì, il Cardinale, da Monteleone con circa 4000 uomini diretto, attraverso varie tappe, a Catanzaro.

Questa Città creò non poche preoccupazioni al Porporato, essendo il partito repubblicano più radicato che altrove.

Sino a quel momento gli uomini del Cardinale non avevano trovato oppositori, essendosi <realizzati> spontaneamente i paesi incontrati.

Ma anche Catanzaro si <realizzò> spontaneamente, mentre ancora il Cardinale era con la sua truppa a Borgia, dove lo raggiunse per trattare la resa la delegazione catanzarese. Da quella delegazione il Cardinale seppe anche che in Catanzaro regnava un clima di terrore ed una grande anarchia, che consentiva efferate vendette private ed atroci delitti. Scrisse allora a D. Francesco Giglio, comandante delle masse che sarebbero entrate in Catanzaro, dicendo:     “[..] che la guerra dovea farsi soltanto à giacobini ostinati, i quali stessero con le armi in mano, non già contro coloro, che sebbene per l’addietro fossero stati aderenti a’ ribelli, si fossero poi pentiti e rimessi alla clemenza del Re, e molto meno contro le robe dei cittadini pacifici. Gli ordinò pertanto, che sotto la sua responsabilità procurasse di far subito finire l’anarchia, i saccheggi, le vendette private e qualunque altra offesa per via di fatto”.

Sulla <realizzazione> di Catanzaro il Cingari scrive: “Il Ruffo -come s’è detto-  non andò a Catanzaro, ma preferì fermarsi alla marina prima di riprendere la sua marcia di riconquista. Comunque ciò non significa ch’egli non ebbe particolare cura per i problemi sorti dalla <realizzazione> della capitale della Calabria Ultra. Viceversa egli dedicò i pochi giorni di sosta per ricercare utili soluzioni ai problemi interni della città, riordinandone l’amministrazione e accarezzando l’idea di separare Reggio da Catanzaro, non solo per snellire l’attività amministrativa e giudiziaria, ma per meglio controllare l’attività politica delle due città, molto “guaste” e fonte di pericolosi rivolgimenti. Inoltre precisò ancor meglio il suo atteggiamento nei confronti delle richieste popolari con provvedimenti atti a moderare i diritti dei baroni senza distruggerli, a moderare i fiscali e i pesi a beneficio dei poveri e a facilitare il commercio quanto è possibile, senza correre il pericolo di soffrire penuria all’interno”.  

Realizzata Catanzaro, le masse Sanfediste mossero alla conquista di Cotrone, dove giunsero nella notte tra il 17 e il 18 marzo.

Il Colletta scrisse che Cotrone dopo le prime resistenze “dimandò patti di resa, rifiutati dal Cardinale, che, non avendo danari per saziare le ingorde torme, né bastando i guadagni poco grandi che facevano sul cammino, aveva promesso il sacco di quella città. […] Cotrone fu debellata con strage di cittadini armati o inermi, e tra spogli, libidini e crudeltà cieche, infinite”.

Il Prof. Cingari, nel già citato “Giacobini e Sanfedisti in Calabria” scrive che si conoscono i particolari della conquista di Cotrone, avvenuta nella notte tra il 18 e 19 marzo, quando i repubblicani di quella città tentarono una sortita. Tale sortita permise agli uomini di Panzanera di impedire la chiusura della porta, attraverso la quale poté passare il grosso della massa Sanfedistica. Da quel momento ebbe inizio il feroce saccheggio dei beni delle famiglie nobili e civili: “nulla fu risparmiato, anche se il basso popolo seppe imporre il rispetto delle donne.”

Il castello, ancora in mano ai giacobini, cedette il giorno 21 marzo, giovedì santo. Scrive ancora il Cingari: “A quel punto il Perez e il Rajmondi inviarono il capomassa D. Giovanbattista Griffo per recare al Ruffo l’importante notizia e -particolare curioso- il loro ambasciatore venne fermato e predato da quattro ladroni. Il Ruffo giunse a Cotrone il 25 marzo […].Senza dubbio, la conquista di Cotrone, piazzaforte ben munita, che lo aveva preoccupato non poco nel corso della sua spedizione, gli recò viva soddisfazione. Nondimeno, egli non poté godere il meritato riposo, giacché i sanfedisti, compiuto il saccheggio se ne erano tornati in gran numero ai paesi di origine; ed egli, pertanto, dovette ricominciare a formare l’Armata Cristiana”.

In quel periodo il Cardinale scriveva al Generale Acton che i Calabresi stentavano a seguirlo, preferendo restare armati in difesa dei propri beni e delle proprie famiglie, insidiati dai molti ribelli fuggiti.

Quando il Cardinale era partito da Montaleone diretto a Catanzaro, una banda di sanfedisti si era staccata dal grosso dell’esercito per avviarsi verso Paola, al comando di Giuseppe Mazza, appartenente a famiglia patrizia di Taverna.

Il Sacchinelli scrisse: “Qui fa d’uopo avvertire, che tutte quelle sanguinose battaglie date dall’armata del Cardinale, raccontate dagli scrittori Coco, Botta e Colletta, con incendi e saccheggi delle città di Cosenza, di Rossano, di Paola ecc. furono tutte favole sognate dà detti scrittori. Accaddero in alcuni luoghi vari sconcerti nel momento della contro-rivoluzione, commessi dagli stessi cittadini per vendette private e per spirito di sangue e di rapina, mali inevitabili nelle guerre civili; ma il Porporato Ruffo, colla sua armata, non passò mai per quei luoghi ed eseguì la sua marcia per la via del Jonio, come appresso si dirà”.

A proposito di Paola l’Abate Sacchinelli non risulta però bene informato. Paola fu effettivamente saccheggiata – ci furono anche quattro morti- dalle truppe sanfediste (il distaccamento comandato da Mazza) alle quali si era unita “molta gente di San Lucido per lo più senza armi”. Al saccheggio presero addirittura parte cittadini paolani. Questa certezza la dà un documento pubblicato dal professor Cingari, in appendice al suo già citato libro. E’, comunque, assolutamente vero che il Cardinale, alla testa del grosso delle truppe, seguì la via dello Jonio e, quindi, non passò da Paola.

Ancora a Cotrone, dove attendeva alla ricostruzione del suo esercito, il Cardinale poteva scrivere all’Acton: “Le Calabrie sono ormai interamente ridotte all’obbedienza del Re N.S.” 

Con la spontanea sottomissione delle ultime città calabresi era stata infatti pacificata l’intera regione, anche se disordine ed anarchia erano presenti in diversi paesi.

Il Sacchinelli riferisce che, essendo rientrata la colonna al comando di Giuseppe Mazza, lasciato il territorio calabrese, il Cardinale volle fermarsi qualche giorno nella zona di Sibari per fare una verifica delle truppe a sua disposizione.

L’esercito, secondo il Sacchinelli, era così composto:

Truppa regolare di fanteria: dieci battaglioni di 500 uomini l’uno. Tutti soldati del vecchio esercito sbandato.

La cavalleria disponeva di 1200 cavalli, ma i cavalleggeri portavano le armi più diverse e vestivano in maniera “fantasiosa”. A tale cavalleria era affiancato un corpo di cavalieri “baronali” ben vestito e bene armato, ma del quale non è conosciuta la consistenza: era usato dal Cardinale per impedire o limitare la diserzione, le rapine e delitti in genere.

L’artiglieria era costituita da undici cannoni di diverso calibro e da due obici, con diverse casse di munizioni. Vi erano molti artiglieri del vecchio esercito, ma nessuno ufficiale.

Le truppe irregolari erano composte da cento compagnie ciascuna di 100 uomini di Calabria, ed ogni compagnia era al comando di tre capi. Questi irregolari non sarebbero aumentati di numero, con il progredire della marcia, poiché l’impegno futuro del Cardinale era rivolto ad accrescere soltanto il numero delle truppe regolari. Erano armati “secondo il costume dei calabresi di schioppi, pistole, baionette e stili”. Erano mal vestiti, ma traboccanti di coraggio e di entusiasmo.

Al momento di lasciare la Calabria, volendo il Cardinale liberarsi -e liberare la Calabria- dai galeotti perfidamente mandatigli a suo tempo dagli inglesi, formò con essi un corpo di 1000 uomini, lo mise al comando del capo banda Panedigrano, lo spedì al Commodoro Trowbridge e “l’avvertì che il corpo di mille uomini, comandato da Panedigrano, era stato formato da quei servi di pena, che   gli inglesi avevano disbarcato nelle coste delle Calabrie […].”

La marcia in terra di Basilicata non trovò particolare resistenza. Così come era avvenuto in gran parte della Calabria, anche le popolazioni di questa regione ritornavano spontaneamente ad accettare l’autorità regia. Soltanto Altamura mostrava volontà di chiudersi in difesa.

In Puglia l’atteggiamento della popolazione non fu diverso che in Basilicata. In questa regione si verificò però un avvenimento che dovette arrecare grande dispiacere al Cardinale, ma che servì a rendergli vieppiù evidente l’atteggiamento ostile, nei suoi confronti, del  partito inglese che, come si è detto, imponeva a Corte la propria politica.

Da una fregata russa sbarcò, sul territorio pugliese, il Cav. Antonio Micheroux, ministro plenipotenziario del Re di Napoli presso l’armata russa, il quale diffuse una lettera del Re, datata Palermo 31 marzo 1799, con la quale si invitava la popolazione a rientrare sotto la regia autorità. Micheroux non si limitò solo a questo, ma passò a destituire le autorità di recente nominate dal Cardinale, sostituendole con personaggi di sua scelta. L’intenzione del Ministro poteva essere, a prima vista, quella di mettere in dubbio l’autorità del Cardinale come Vicario Generale del Re e la legittimità della spedizione, ma ad un più approfondito esame molto più verosimilmente costituiva un primo

“assaggio della capacità e volontà di reagire” del Cardinale, se addirittura, cosa ben più grave, non rappresentava il tentativo di liquidarlo, facendogli perdere autorità agli occhi del suo indisciplinato e composito esercito. E la reazione di questi fu immediata, ferma e tanto determinata da suggerire al Ministro di reimbarcarsi in tutta fretta. Nel ripristinare nelle loro cariche i suoi prescelti, Fabrizio Ruffo diede agli stessi ordine di perseguitare, come nemico del Re, chiunque si opponesse o modificasse i suoi ordini. Nello stesso tempo scrisse al Micheroux diffidandolo di ingerirsi in avvenire negli affari di competenza del Vicario Generale. Al Cardinale fu ben chiaro che il suo disegno di non infierire sugli insorti, di ogni grado e responsabilità, per rendere possibile, riconquistato il regno, la pacificazione e ritrovare l’unità nazionale, iniziava a produrre effetti concreti in opposizione ai suoi disegni.

Forse questa amara constatazione valse a non farlo trovare impreparato, quando la corte palermitana tentò di ritardare il suo ingresso vittorioso a Napoli, per dare tempo alla flotta di Nelson di ancorarsi in quel porto.

Tali miserabili tentativi, che incredibilmente portavano in calce la firma del Sovrano, non potevano costituire un incoraggiamento per il Cardinale, che si apprestava ad affrontare la ribellione di Altamura, città ben munita ed in grado di opporre valida resistenza.

Già da Policoro, Ruffo aveva partecipato al Presidente Acton alcune perplessità sue sull’orientamento della corte, che raccomandava di assumere provvedimenti di rigore nei confronti dei giacobini napoletani. Ed essendo, di conseguenza, a lui evidente che i successi in Calabria della sua spedizione suscitavano sin da allora l’invidia dei suoi avversari e preoccupazione al governo ed ai regnanti, con altra lettera invitava apertamente il Re ad unirsi a lui, adducendo motivi che avrebbero dovuto indurre il Sovrano a seria riflessione.

Queste furono le due lettere spedite dal Cardinale:                           

Policoro, 30 aprile 1799

“Ho sentito da una lettera particolare che fra le altre cose mandate verso Procida, siavi stato mandato un giudice processante, e si è anche saputo che questo era il suo ufficio. Io credo impolitico tale passo, e da questo fatto permettendolo le circostanze prendo l’ardire di umiliare a V.E. non richiesto, i miei sentimenti, i quali potrà ella valutare poi come le sembrerà più opportuno. La difficoltà di convertire Napoli, la più forte la veggo nel timore della pena meritata, nella disperazione di non potere giammai aver cariche, posti e considerazione, nella certezza di essere sempre in mezzo al rinnovato governo monarchico sospetti e maltrattati ad ogni occasione.[…]Ora se noi mostriamo di voler processare e punire, se non facciamo loro credere che siamo persuasissimi, che la necessità, l’errore, la forza dei nemici, non la reità fu cagione della ribellione, noi coadiuveremo le mire dei nemici; e ci precluderemo le strade alla riconciliazione. Sembra che si dovesse anche, avuto nelle mani qualsiasi reo anche grande, anche distintosi nella ribellione, perdonarlo. Questo tale esempio farà credere possibile la riconciliazione agli altri e disuniranno. Si legga la storia di Francia e le molte capitolazioni avute coi ribelli, e si vedranno perdonati spesso capi di partito, che militarono contro i Re […] E perché non si deve adoperare una somma clemenza e con pochissima eccezione? È forse un difetto la clemenza? No, si dirà, ma è pericolosa. Io non lo credo, e con qualche precauzione la credo preferibile alla punizione che non può eseguirsi con giustizia.[…] A che giova il punire, anzi come è possibile di punire tante persone senza una indelebile traccia di crudeltà, ma dirò meglio è questo piano della punizione ineseguibile, e si taglia da se medesimo la riuscita.

[…]A me è successo così, non ho mai preclusa la fuga, perché coloro che assolutamente diffidano possono andarsene senza disperarsi e lusingarsi di ritornare a sostenere il partito e riavere i propri beni. Facile sono stato a ricevere i ribelli ed anche impiegarli, facendo loro credere che i falli da loro commessi s’ignoravano, o pure ho fatto credere che avevano anche fatto bene o sia innocentemente ad entrare nella ribellione, da tutto questo ne è venuto che hanno per me agito i buoni ed i cattivi. Il timore di essere tradito da costoro potrebbe forse escludere il piano come pericoloso, ma io non so vedervi pericolo, se non quando vi sia una forza straniera ed imponente che dia tuono ai club di quattro falliti.[…] Meno rigore, replico, e si rinunci alla vendetta, o pure sia questa ristretta e sopratutto molto tarda.”

Policoro, 30 aprile 1799

“io, signore, ho sparata la mia poca polvere, venga S.M. e vedrà quanta ancora ve ne sia da sparare. Anche altra considerazione dovrebbe indurre la M.S.. Venendo questi Russi, Turchi sarà ben difficile che io li governi, li tenga a freno, e distruggeranno mezzo mondo, ma con la Sua autorità non faranno che quello che si deve. Io ancora spero questo giorno felice.”

La mattina del nove maggio Altamura venne circondata dalle truppe sanfediste. Due giorni prima soldati di quella città avevano fatto prigionieri due ingegneri sanfedisti, che si erano avvicinati per studiare le fortificazioni. Quello stesso giorno il Cardinale aveva inviato alla città un parlamentare, D. Raffaele Vecchioni (sembra, però, si fosse chiamato Giobatta), munito di credenziali che lo autorizzavano a trattare la resa e la liberazione dei due ingegneri. Fu introdotto in città, ma non fece più ritorno.

Lo stesso giorno nove arrivò ad Altamura il Cardinale, che volle personalmente ispezionare le fortificazioni avversarie.

Le mura erano ben robuste e dai bastioni proveniva un nutrito fuoco di fucili e colubrine. Notò il Cardinale che sul lato nord della cinta muraria esisteva una porta, nota come “porta Napoli”. Nell’intento di lasciare, ai difensori della città, la possibilità di fuga, ordinò che fosse lasciato libero da assedio quel lato delle mura. Aveva in mattinata notato che una moltitudine di armati di Altamura, che all’arrivo delle truppe Sanfediste si trovava fuori delle mura, non era rientrata in città, ma si era allontanata in direzione nord. Questo faceva sperare al Cardinale che, approfittando della notte, anche i difensori rimasti in città, avessero scelto la fuga. E questo in realtà durante la notte avvenne. Il dieci maggio, abbattuta una porta, le truppe Sanfediste entrarono in Altamura senza trovare resistenza. Trovarono invece, ammucchiati in una fossa comune 48 cadaveri di realisti, incatenati due a due, e tra questi i corpi dei due ingegneri e dell’ambasciatore Vecchioni. Il Vecchioni non era ancora morto. Curato, guarì dalle ferite e visse certamente sino al 1821, come documenta una sua lettera indirizzata al Cardinale Fabrizio -da me rinvenuta nell’archivio privato dei Ruffo principi della Scaletta-, che pubblico.

Con i Sanfedisti erano entrati in città più di un migliaio di male intenzionati, provenienti dai paesi intorno ad Altamura, in massima parte disarmati, ma tutti animati da desiderio di preda.

Nonostante vari tentativi che il Cardinale fece per evitare il sacco della città, Altamura fu per due giorni in balia di quanti vollero approfittare per mietere bottino.

Sulla conquista di Altamura il Colletta scrisse:

“Perciò gli Altamurani, difendendo le brecce col ferro e con travi e sassi, uccisero molti nemici; e, quando viddero presa la città, quanti poterono uomini e donne, per la uscita meno guernita, fuggendo e combattendo scamparono. Le sorti de’ rimasti furono tristissime, ché nessuna pietà sentirono i vincitori: donne, vecchi, fanciulli uccisi; un convento di vergini profanato; tutte le malvagità, tutte le sevizie saziate. […] Quello inferno durò tre giorni; e nel quarto il cardinale, assolvendo i peccati dell’esercito, lo benedisse, e procedé a Gravina, che pose a sacco”.

Sacchinelli sullo stesso argomento per contro scrisse:

“Fu grande la sorpresa nel sentirsi che dentro Altamura non vi erano abitanti. Non solo i patrioti, ma tutti gli altri della popolazione se n’erano fuggiti quella notte, all’infuori di alcuni vecchi, che poi trovaronsi nascosti e ad eccezione di qualche infermo abbandonato. Quantunque oltre della porta di Napoli avessero fatto, per facilitare l’uscita, altre due aperture, pure recava non poca meraviglia l’essere fuggita tanta gente in una sola notte del mese di maggio. Si seppe poi che moltissimi di quei cittadini, conoscendo l’ostinazione dei repubblicani si erano allontanati prima del blocco, trasportandosi il meglio che avevano.

Considerando il Cardinale le funeste conseguenze del saccheggio di Cotrone, che fece sparire quasi tutta l’armata, aveva persuaso i capi delle truppe regolari ed irregolari, che prendendosi la città di Altamura per assalto non si permetterebbe il saccheggio della città, ma invece si imponesse una grossa contribuzione di guerra […]. Alla vista di quell’immane e sanguinoso spettacolo (il Sacchinelli allude al ritrovamento dei corpi dei due ingegneri, del parlamentare Vecchioni e degli altri 45 fucilati) come poteva più evitarsi il saccheggio di Altamura. […] Tutte le misure che poté prendere il Cardinale si ridussero ad impedire la diserzione delle truppe dopo il saccheggio […]. In occasione del saccheggio fu trovato nascosto il Conte Filo, che venne trascinato innanzi al Porporato. Appena ivi giunto e nell’istante che il Conte mettevasi in attitudine supplichevole, una fucilata tirata per isfogo di barbara vendetta da G. L. che si disse congiunto dell’estinto Ingegniere Olivieri, lo fece cadere morto innanzi ai piedi del Porporato! Avendo quella barbarie riempiti tutti di orrore, si credé necessario di frenare tanta licenza.

[..] Nell’intervallo di giorni quattordici, che il Cardinale dovette trattenersi  in Altamura per lo disbrigo di urgenti affari, e specialmente per accrescere ed istruire la sua armata, comparve in dettaglio quella profuga popolazione, rientrando prima le donne e poi gli uomini; quel Vescovo Monsignor di Gemmis vi rientrò il giorno 15.”

Segue una nota di questo tenore: “L’autore di queste memorie assicura che per l’avvenimento di Altamura scrisse esattamente tutto ciò che vide co’ i propri occhi; e che siccome non tacque, ne aggiunse alcuna circostanza, così debbasi tenere, come menzogniere e calunniose, le maligne asserzioni avanzate contra del Cardinal Ruffo dagli scrittori Coco, Botta e Colletta nell’esporre il suddetto avvenimento”

Il 24 maggio l’armata sanfedista lasciò Altamura. Al Cardinale, che aveva ricevuto notizia che il governo repubblicano aveva deciso la mobilitazione di tutti gli uomini validi, premeva raggiungere Napoli prima che queste nuove leve  fossero armate ed evitare d’essere costretto ad occupare la città con la forza.

Ma leggendo l’epistolario del Cardinale, composto da lettere scambiate con il ministro Acton e con la Regina, viene da sospettare che la fretta di raggiungere Napoli fosse suggerita al Porporato da ben altre considerazioni e principalmente da una: aveva sempre saputo di essere considerato dagli Inglesi inaffidabile ed addirittura un nemico!

I successi della spedizione Sanfedista -che priva di truppe regolari si svuotava di uomini dopo ogni conquista, che mancava di armi e vettovaglie, che priva praticamente di artiglieria era pur sempre in marcia vittoriosa, che si concedeva il lusso di privarsi dell’apporto delle schiere di briganti rispedendole agli inglesi che le avevano, a suo tempo, regalate al  Cardinale    (ben 1000 uomini bene addestrati ed ottimi combattenti anche se per sete di bottino) mentre questa marciava all’assedio di Altamura- avevano allarmato il  “partito inglese” e quanti avevano sperato nel fallimento di quella spedizione.                        

L’interesse inglese, in guerra con la Francia, era sempre stato quello di operare loro la riconquista del Regno, magari con l’aiuto di turchi e russi, onde poter disporre con tutta sicurezza di quella importante posizione strategica. Gli eventi erano precipitati in gennaio, per la inattesa e non gradita iniziativa del Cardinale ed al punto in cui erano ora le cose non restava che impedirgli  di arrivare da solo sotto i forti napoletani. Lo facesse assieme alle truppe russe e turche e con la flotta di Nelson nel porto, onde impedire che fosse egli il solo arbitro della capitolazione. Queste truppe alleate tardavano ad arrivare e non era indispensabile la loro partecipazione   per conquistare Napoli, considerata la consistenza annunciata. Lo sapeva Fabrizio Ruffo e lo sapevano gli inglesi, ed appunto per questo i tentativi di ritardare la marcia si moltiplicavano. Nelle sue lettere ad Acton, alla Regina ed allo stesso Re il Cardinale aveva ripetutamente proposto larga clemenza per i repubblicani ed un comportamento che potesse addirittura creare la possibilità di recupero dei loro capi: “Oltre le preghiere che ripeto a V.E. di leggere il mio grifonaggio, ove si parla di clemenza e di perdono, aggiungo che con mio rammarico nelle lettere dei padroni si segue sempre a parlare di rigore ora più ora meno, ma sempre di punizione; ora io seguito a credere che la condotta sarebbe assolutamente diversa, e che sinceramente dovessersi perdonare i passati trascorsi”. Nella lettera del 30 aprile (che ho più sopra in parte trascritto) faceva riferimento al comportamento di perdono dei francesi nei confronti dei giacobini, citandolo ad esempio: “Si legga la storia di Francia e le molte capitolazioni avute coi ribelli, e si vedranno perdonati spesso capi di partito, che militarono contro i Re, né sono molto lontani da noi gli esempi di accordi e perdoni del diritto di chi era poi meno scusabile del fatto presente, in cui una forza sinora invincibile ha quasi obbligati i popoli alla rivoluzione, ma allora toglievansi i principi dalla ubbidienza dei loro Sovrani per migliorare di condizione, o per danaro che avevano percepito, cosa che non è seguita nella più grande parte dei rei”.

Il dubbio che il Cardinale vagheggiasse cambiamenti istituzionali (non già quello di portare sul Trono di Napoli suo fratello Francesco, come alcuni con superficialità o mala fede scrissero) e di sostituirsi, a conquista avvenuta, ad Acton nel riassetto di un Regno costituzionale, serpeggiava a Corte e poteva corrispondere a realtà se si medita sulla condotta del Cardinale, che mutava tono e sostanza man mano che le possibilità di riuscita divenivano sempre più concrete. Negli ultimissimi tempi aveva smesso di insistere nella richiesta che il Re si unisse alle truppe e faceva pressione perché fosse il Principe ereditario a raggiungerlo. Aveva persino favorito la diffusione della “notizia”, naturalmente falsa, opera di un certo de Cesare, che il Principe si trovasse in Puglia. Aveva questo un significato? Pensava forse che dopo la restaurazione dovesse Ferdinando abdicare a favore del figlio, per rendere più facile il ritorno alla pace e più reale la possibilità di dare al Regno una struttura più consona ai tempi? Desiderava per questo il recupero dei capi giacobini, che in definitiva costituivano il fior fiore della cultura napoletana? Il sospetto di tale suo disegno politico doveva certamente essere presente in taluni ambienti di corte, vicini alla regina, e Nelson ne doveva essere certo, se con tanta violenta determinazione si opponeva al Cardinale vittorioso. Più in generale, l’esigenza di un cambiamento, che esitasse nella definitiva scomparsa di quel che rimaneva del feudalismo laico ed ecclesiastico ed in un maggior benessere sociale, non solo era da più lustri sentita nel regno, ma in tal senso la via delle riforme era stata da tempo intrapresa. Purtroppo l’allarme creato dalla Rivoluzione francese aveva portato il Governo di Napoli ad assumere diverso atteggiamento, con la conseguente reazione dei più illuminati strati sociali. Ed il Cardinale non aveva espresso forse la concreta volontà di andare in quella direzione quando, ministro dello Stato Pontificio, promosse la riforma agraria e quelle altre riforme che fecero, contro di lui, insorgere Cardinali e feudatari? Che Fabrizio Ruffo la credesse necessaria e pensasse ad una riforma democratica dello Stato, non credo possano esserci dubbi! Ed allora perché combattere la neonata Repubblica?

A parte ogni altra considerazione egli sempre si mosse spinto da un triplice ideale: il suo DIO, il suo RE, la sua CASTA! Sui primi due non solo non ebbe mai tentennamenti, ma al secondo pagò, in più occasioni, tributi altissimi, in assoluto silenzio, vincendo ogni tentazione di ribellione -se mai ne ebbe- o di difesa della sua persona.

La sua casta! Sicuramente sentì l’orgoglio del nome che portava, ma in tutta la sua vita, per motivi di interesse o di convenienza, non si lasciò mai condizionare né dalla “casta” alla quale apparteneva per nascita né da quella religiosa. Infatti, quando fece politica, come si è visto, attuò riforme per le quali si inimicò Cardinali ed aristocrazia feudale. Non accettò però gli “estremismi” della rivoluzione francese (pur accettandone molti principi. Lo conferma un insospettabile, il teologo Nicola Spedalieri, nella dedica che nel 1794 gli fece del suo libro “Sui diritti dell’uomo) e si adoperò con tutte le sue forze perché tali eventi non si verificassero né durante la sua marcia di conquista né quando la stessa si concluse. Purtroppo non sempre vi riuscì.

Poteva un siffatto uomo concepire la Repubblica, per giunta sorta da un conflitto internazionale, subordinata agli umori, alla fortuna ed agli interessi dei vari contendenti? E poi, quello era tempo di monarchie, le quali a distanza di pochi decenni si sarebbero trasformate in monarchie costituzionali!

Ed allora, concepì veramente il Cardinale l’idea di una Monarchia Costituzionale e combatté per quel fine? Non conosco documenti che possano convalidare queste mie supposizioni e, pertanto, esse mantengono il valore che meritano, essendo state avanzate non da uno storico, ma soltanto da un appassionato di studi storici. A tali conclusioni si può arrivare soltanto attraverso la lettura di un documento? Ora che molte “verità” sono conosciute e sono radicalmente mutati tempi e tramontate ideologie, ci pensino gli storici a tirare le conclusioni. Le nuove acquisizioni lo consentono. È certo, comunque, che Fabrizio Ruffo durante gli anni trascorsi a Caserta ed a San Leucio -spettatore certamente tormentato del degrado del Regno- aveva lungamente meditato sulla struttura economica, politica ed amministrativa che avrebbe dovuto avere un Regno per poter essere aderente alla nuova realtà scaturita dalla rivoluzione di Francia. Se così non fosse stato, non potrebbe trovare spiegazione la lucidità con la quale andava dettando tutti quei provvedimenti legislativi, sempre opportuni, sempre giustamente calibrati, mano a mano che procedeva nella sua vittoriosa marcia e che avevano in comune la caratteristica di essere aderenti alla situazione contingente e quella, più importante, di non risultare di ostacolo domani, quando si sarebbero gettate le basi del nuovo assetto politico, amministrativo, giuridico dello Stato. Tutto questo non poteva essere certamente frutto di improvvisazione!

Di tappa in tappa, non senza difficoltà e contrattempi, le truppe del Cardinale arrivarono a Napoli. Lo stesso giorno, il 13 giugno, le compagnie calabresi al comando del reggino tenente colonnello Francesco Rapini, espugnarono il forte Viglienza. Due giorni dopo, per cause che con certezza non furono mai accertate, Rapini e 150 dei suoi calabresi saltavano in aria, per l’esplosione del forte.

La notte tra il 13 ed il 14 giugno, truppe calabresi, all’insaputa del Cardinale, attaccarono ed espugnarono il castello del Carmine. Nonostante l’indisciplina degli irregolari e le scarse possibilità che si avevano in quel momento di controllare le truppe che cingevano d’assedio Napoli -non c’era stato ancora il tempo materiale per organizzare quel composito esercito- le due autonome e non coordinate azioni di guerra, furono di grande aiuto alle truppe sanfediste. Infatti, la conquista del castello del Carmine aveva segnato la sconfitta dell’armata del generale Writz, che morì in battaglia, e l’occupazione del forte di Viglienza fornì la possibilità di accelerare la conquista della città. Una dopo l’altra le tre armate repubblicane cedettero all’impeto dei sanfedisti: quella al comando del generale Schipani, -la stessa che si era allontanata dal bivacco intorno ad Altamura, all’arrivo delle truppe sanfediste- in pratica, non tentò neppure di difendersi.

Ma già dal giorno 14 i lazzari napoletani, rinforzati da schiere di facinorosi provenienti dai paesi vicini, erano usciti sulle strade della città apportando morte e distruzioni. Si massacrava, si spogliava, si saccheggiava, si incendiava solo per risentimento o per turpi motivi di rapina o di vendetta. A questo proposito il Sacchinelli scrive: “Il Cardinale Ruffo occupato nel suo campo                          al ponte della Maddalena a prendere misure, e tenere le sue truppe riunite […] disturbato per gli eccessi orribili, che si commettevano dentro l’abitato della città, era dolentissimo di non potere adoprare alcun rimedio onde far finire quell’orrenda anarchia. Colle fortezze in potere dei nemici, quali, e quante truppe sarebbero state necessarie per frenare l’irritata ed immensa plebe, accresciuta da tante migliaia di uomini armati de’ convicini paesi, entrati in città dalle porte Nolana e Capuana”. E più oltre “[…] non sapeva quali espedienti prendere per frenare l’orrenda anarchia che regnava dentro la città, non permettendogli la prudenza di adoperare le sue truppe pel timore, che il rimedio non divenisse peggiore del male […]”.

Pietro Colletta dei massacri napoletani scrive invece in questi termini:        “Caduta la repubblica, finita la guerra dei campi, cominciò altra guerra più crudele ed oscena dentro la città. I vincitori correvano sopra i vinti: chi non era guerriero della Santa Fede o plebeo, incontrato, era ucciso; quindi le piazze e le strade bruttate di cadaveri e di sangue […] I lazzari, i servi,        

i nemici e i falsi amici denunziavano alla plebe le case che dicevano dei ribelli; ed ivi non altro che sforzare, involare, uccidere: tutto a genio di fortuna. […] Il cardinale Ruffo, gli altri capi della Santa Fede, ed i potenti sulla plebe, validi ad accendere gli sdegni, non bastavano a moderare la vittoria”.

Lo stesso Cardinale in quei giorni scriveva al ministro Acton:

“Dalla Real Casina al Ponte della Maddalena presso Napoli 21 giugno 1799.

Eccellenza, sono al Ponte della Maddalena; sono vicini, a quello che pare a rendersi ai Moscoviti, e al cav. Micheroux i Castelli dell’Uovo, e Nuovo, sono così affollato e distrutto, che non vedo come poter reggere in vita, se seguirà un tale stato per altri tre giorni. Il dover governare, o per meglio comprimere un Popolo immenso, avvezzo all’anarchia la più decisa; il dover governare una ventina di Capi ineducati, ed insubordinati di Truppe leggiere, tutte applicate a seguitare i saccheggi, le stragi e la violenza, è così terribile cosa e complicata, che trapassa le mie forze assolutamente. Mi hanno portati 1300 Giacobini, che non so dove tenere sicuri, e tengo ai Granari del Ponte, ne avranno strascinati, o fucilati almeno 50, in mia presenza senza poterlo impedire, e feriti almeno 200, che pure nudi hanno qui trascinati.

Vedendomi inorridito a tale spettacolo mi consolano, dicendomi, che i morti erano veramente Capi di Bricconi, i feriti erano decisi nemici del Genere umano, ché il Popolo insomma li ha ben conosciuti. Spero, che sia vero, e così mi quieto un poco. A forza di cure, di Editti, di Pattuglie, di prediche si è considerabilmente diminuita la violenza del Popolo, per la Dio grazia.[…] È certo, che il caso di far Guerra, e temere della rovina del Nemico è la più crudele situazione, ed è la nostra.

Se a questo si aggiunge la nostra Truppa ben numerosa ma irregolare anzi sfrenata, è cosa, che fa sudare nel colmo dell’Inverno. […] Intanto il Popolo, e tanti Fuoriusciti, che sono venuti a combattere pel Re, ed ottanta maledetti Turchi rubano e spogliano a man salva.”

La vittoria sui repubblicani si concluse con un trattato che fu firmato, su richiesta dei soccombenti, dal Vicario Generale Cardinal Ruffo a nome del Re di Napoli, dal capitano E. I. Foothe a nome di Sua Maestà Britannica, dal generale Baillie comandante le truppe di Sua Maestà l’Imperatore di tutte le Russie, dal generale Acmet comandante le truppe Ottomane, da Antonio Cavaliere Micheroux, Ministro plenipotenziario di S.M. il Re di Napoli presso le truppe russe e per i repubblicani dal generale Massa comandante del Castel Nuovo e dal generale Aurora comandante del Castel dell’Uovo.

Per i repubblicani controfirmava l’atto di resa il francese generale Mejean.

Le condizioni di resa, concesse dal Cardinale furono le seguenti:

1)  I castelli Nuovo e dell’Uovo saranno rimessi nelle mani del comandante delle truppe di S.M. il Re delle due Sicilie e di quelle dè suoi Alleati il Re d’Inghilterra, dell’Imperatore di tutte le Russie e della Porta Ottomana, con tutte le munizioni da guerra e da bocca, artiglierie ed effetti di ogni specie esistenti ne’agazzini, di cui si formerà l’inventario da’ comessari rispettivi, dopo la firma della presente capitolazione.

2)  Le truppe componenti le guarnigioni conserveranno i loro forti sino a che i bastimenti di cui si parlerà qui appresso, destinati a trasportare gli individui, che vorranno andare a Tolone, saranno pronti a far vela.

3)  Le guarnigioni usciranno cogli onori militari; armi, bagagli, tamburo battente, bandiere spiegate, micce accese, e ciascuna con due pezzi di artiglieria. Esse deporranno le armi sul lido.

4)  Le persone, e le proprietà mobili ed immobili di tutti gli individui componenti le due guarnigioni saranno rispettate e garantite.

5)  Tutti i suddetti individui potranno scegliere di imbarcarsi sopra bastimenti parlamentari, che saranno loro preparati per condurli a Tolone, senza essere inquietati essi, né le loro famiglie.

6)  Le condizioni convenute colla presente capitolazione, saranno comuni a tutte le persone de’ due sessi racchiuse ne’ forti.

7)  Le stesse condizioni avranno luogo riguardo a tutt’i prigionieri fatti sulle truppe repubblicane dalle truppe di S.M. il Re delle due Sicilie, e da quelle de’ suoi alleati ne’ diversi combattimenti, che hanno avuto luogo prima del blocco de’ forti.

8)  I Signori Arcivescovo di Salerno, Micheroux, Dillon, ed il Vescovo di Avellino detenuti, saranno rimessi al comandante del forte Santelmo, ove vi resteranno in ostaggio, finché sia assicurato l’arrivo a Tolone degl’individui che vi si manderanno.

9)  Tutti gli ostaggi e prigionieri di Stato rinchiusi ne’ forti, saranno rimessi in libertà subito dopo le firme della presente capitolazione.

10) Tutti gli articoli della presente Capitolazione non potranno eseguirsi, se non dopo che saranno intieramente approvati dal comandante del forte Santelmo.

Erano, queste, condizioni di resa inique, imposte dal feroce vincitore e sanguinario capo di bande di briganti, che per odio,  malvagità e desiderio di bassa vendetta agognava soltanto di “soffocare nel sangue l’ultimo anelito di libertà dei patrioti napoletani” ? Esse rendono nota, piuttosto, la volontà del vincitore, chiara ed inequivocabile, di non distruggere, ma di “salvare” il  nemico soccombente, con la segreta speranza che l’evolvere degli eventi         -siccome il suo acume politico gli faceva prevedere- maturasse tempi e clima politico tali da consentire il ravvedimento e magari la partecipazione.

Può tale pretesa evidenza trovare conferma nei fatti?

La conferma è contenuta nello epistolario del Cardinale ed ulteriore conferma, ove ce ne fosse bisogno, si legge nell’ultima lettera che il Cardinale scrisse ad Acton il 21 giugno, dal Ponte della Maddalena: “È certo, che il caso di far guerra, e temere la rovina del Nemico è la più crudele situazione, ed è la nostra”. E più avanti: “Non so quali saranno le condizioni, ma molto clementi sicuramente per mille motivi, che non serve dire ad uno ad uno, e che dalle antecedenti può immaginare”.

Ciò che avvenne nei giorni che seguirono è a tutti noto e persino i più accaniti denigratori del Cardinale Ruffo, almeno di quella colpa, non gli fecero carico. Il Cardinale fu destituito dalla carica di Vicario Generale, nominato Capitan Generale ed affiancato da una Giunta di stato, scelta (su suggerimento della corte palermitana) dal Nelson, che aveva il compito di strettamente controllarlo. Nelson ignorò addirittura il trattato di resa, che pure era stato firmato da chi sotto i castelli napoletani, che si arrendevano, rappresentava il suo Signore e Re e, stimando che l’interesse dell’Inghilterra fosse quello, soffocò nel sangue non solo la repubblica, ma certamente anche ogni nobile aspirazione ad un futuro ricco di speranze e nuove prospettive, segnando fatalmente il fatale declino del Regno di Napoli.                                                    

Il Cardinale, posto nella assoluta impossibilità di difendere il trattato di pace e di liberamente operare, tentò con ogni mezzo di limitare almeno l’entità della strage, che si andava prospettando. Scrisse il Dumas: “In mezzo a tutti questi preparativi di morte un uomo, quegli che aveva fatto più di tutti, il Cardinale Ruffo, accusato non solamente di simpatia pei giacobini, ma di intrigare con loro, passivo, e avendo le mani legate dal suo nuovo titolo di Luogotenente del Re, vedeva prepararsi la terribile reazione che si avanzava”.

Riuscì il Cardinale a salvare la vita – come affermò Helfert – a 500, dei 1300  patrioti in mano a Nelson, i quali il 12 agosto finalmente partirono per la Francia. E l’odio di Nelson contro il Cardinale, che strappava dalle mani del carnefice ben cinquecento patrioti, lo si legge nella lettera che l’Ammiraglio scrisse il 20 agosto a Lord Minto: “Mi sono adoperato sotto i vostri ordini pel bene pubblico e per amore del mondo civile. Fate che possiamo lavorare insieme e che la più grande azione della nostra vita sia di fare impiccare Thugut, il Cardinale Ruffo e Manfredini […] i loro consigli sono dannosi tanto al Re quanto all’Europa. Traduceteli innanzi al tribunale e vedrete che sono amici dei francesi e che tradiscono l’Europa. Perdonate questo modo di parlare ad un uomo di mare che dice la verità. Mio caro Lord, questo Thugut cospira contro il nostro Re inglese di Napoli […] ma lasciate impiccare questi tre birbanti e tutto andrà benissimo”. Forse pochi sanno -o si è voluto dimenticare- che Fabrizio Ruffo aveva fatto sospendere le sentenze di condanna alla forca per Mario Pagano, Domenico Cirillo, Ignazio Ciaia e Giorgio Pignacelli, perché erano compresi tra gli ottanta di Castelnuovo, cui si sarebbe dovuto applicare la capitolazione, “rimettendo consulta al Re” in data 11 ottobre. Lo stesso giorno, avendo avuto sentore che il suo decreto non sarebbe stato confermato, chiedeva di essere esonerato dalla sua carica e qualche giorno dopo partiva per il Conclave di Venezia.

Il Cardinale, non volle mai difendersi dalle terribili accuse che gli mossero i suoi avversari, confidando che la verità avrebbe trionfato in tempi lontani da quelle passioni. Ne parlò, che si sappia, una sola volta, ma fu uno sfogo fatto privatamente, scrivendo al suo amico Nicola Maria Nicolai:

 “[…] Brigante, come se non fosse questo nome facile ad accordarsi ad ogni soldato quando il di lui partito va a soccombere, od avesse rubato qualche cosa ad alcuno! -Chi difende il suo Paese, che ha l’autorità e la legittima missione, non è stato mai avuto dalle Nazioni civilizzate come un miserabile, né ha avuto niente da vergognarsi né l’avrà presso gli uomini sensati. – Che più? Come ho io usato della mia vittoria? Chi nol sa? – E pure quattro falliti democratici di nome, poiché non ne hanno la virtù ed il disinteresse, mi perseguitano perché li ho difesi e risparmiati [..]”.

Alcuni Autori scrissero che Fabrizio Ruffo continuò a fare politica attiva, negli anni che seguirono. Mi corre l’obbligo di precisare che, dopo la restaurazione del 1815, il Cardinale non volle più interessarsi di politica. Chi scrisse il contrario lo confuse con un altro Ruffo del suo stesso nome: il principe di Castel Cicala o con il principe Alvaro Ruffo della Scaletta, personaggi della sua stessa famiglia.

Iniziando queste note ho scritto che la storia ha riabilitato Fabrizio Ruffo. Aggiungerei che sebbene assolto non è stato mai compreso non dico dai contemporanei, ma neppure dai posteri. Si accontentarono di accertare che non fu un capo di briganti, che non fu il responsabile delle stragi di Napoli ed il boia dei Patrioti, che non fu lui a venir meno ai patti di resa. Non andarono oltre! Eppure quegli eventi videro protagonisti allo stesso livello -e fu il motivo per il quale negli anni assunsero stimolante importanza- un Re, una Regina, il più grande Ammiraglio inglese, Napoleone Bonaparte ed un Cardinale che, senza eserciti, conquistava regni.

Debbo rilevare con amarezza e sorpresa (e non è l’occasione del comune cognome che mi anima) che -ricorrendo il secondo centenario di quegli eventi- nessuno storico fu stimolato a ricercare le ragioni che indussero il Cardinale Fabrizio Ruffo a schierarsi contro il volere del suo re, con determinazione inequivocabile, pur sapendo di correre il rischio di rimetterci la testa; fu ad un passo dall’arresto, già ordinato dal re, il quale scriveva nel suo diario in data mercoledì 26 giugno (ASN, Borbone, f. 238, cc. 356-386):

“[…] Ricevuto una nuova spedizione da mia Moglie di Procida con notizie sempre più disgustose, il Cardinale avendo accordata una Capitolazione infame ai ribelli […]”

Nella stessa pagina nella nota 2 si legge:

“In data 27-6-1799, con lettere dell’Acton, il duca della Salandra, il Generale De Gambs ed il Colonnello Tschudy vennero incaricati di arrestare il Cardinale Ruffo e di consegnarlo a Nelson […]. Il Governo militare e civile sarebbe stato assunto collegialmente da Simonetti, Zurlo, Legerot e dal duca della Salandra […]”

Se i disegni del re mutarono –provocando in Nelson rabbia e dispetto- ed il Cardinale ebbe salva la testa, fu per la paura che le truppe calabresi, fedelissime al Cardinale, incutevano al Borbone ed agli stessi Inglesi.

Chiudo queste note, che non hanno certo il merito della completezza, ma soltanto quello di un assunto documentale, riportando quanto Alessandro Dumas scrisse nella sua “Storia dei Borboni di Napoli”:

“Eppure noi intraprenderemo uno strano assunto, quello cioè di provare che fin qui il Cardinale Ruffo è stato calunniato dalla Storia, o meglio dagli storici: noi speriamo riuscirvi; e ciò come si comprende, per puro amore del vero. Diciamo cosa fosse in quell’epoca il Cardinale Ruffo, il quale tra non molto diverrà uno degli eroi più coraggiosi di quei disgraziati tempi, in cui tutti coloro che parteggiavano per la corte eran ritenuti come completamente privi di senso morale, d’onor nazionale e di diritto delle genti. Non si creda che noi ci lasciamo trascinare dall’amore del paradosso. Chi leggerà vedrà e sopra tutto giudicherà”. Ed ancora aggiungeva:

“La nostra parzialità consiste a non volere che l’uomo di genio, di semplice audacia se volete, che ha concepito il piano della restaurazione di Ferdinando I, che ha varcato lo stretto con tre mila ducati, un luogotenente del Re, un segretario, un cappellano, un cameriere, un domestico, che ha messo il piede in Catona, in mezzo a trecento insorti, che ha traversata tutta la Calabria, combattendo per una causa ingiusta, ma, infine combattendo tuttavia, che è arrivato a Napoli con 60 mila uomini, che fino all’ultimo momento ha difeso la capitolazione firmata da lui, e che è caduto in disgrazia del Re, che doveagli il proprio regno, per aver propugnato contro Nelson, Acton, e Carolina, i diritti dell’umanità, venisse trattato come un banale bandito

Giovanni Ruffo

fonte http://www.sbti.it/bibliotelematica/Arch.Ruffo-Cardinale_fabrizio_ruffo%20di%20bagnara.htm

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Significato nazionale e controrivoluzionario del «Dos de Mayo»

Posted by on Ago 23, 2019

Significato nazionale e controrivoluzionario del «Dos de Mayo»

1.Una considerazione sul «senso nazionale» che ebbe il 2 maggio 1808 (1), ossia su quanto questa data ha aggiunto all’identità spagnola, può partire dalla seguente affermazione: il risultato di questo episodio storico non si limita a quanto è accaduto in tale data. Il 2 maggio si sarebbe ridotto a una gloriosa benché sterile ribellione contro il dispotismo di Napoleone, se non avesse avuto la capacità di avviare un duplice processo: una trasformazione politica, iniziata mediante la costituzione di «giunte», prassi normale nella Spagna di antico regime in momenti di crisi politica e, pertanto, di natura per niente rivoluzionaria; e una guerra d’indipendenza, la cui importanza al fine di provocare il collasso del progetto napoleonico non è necessario sottolineare in questa sede.

2. Anche se nel 2 maggio e nella guerra che scoppiò allora esistette un elemento causale che potremmo chiamare d’«indipendenza nazionalista», nel senso di volontà di auto-affermazione di fronte allo straniero, a mio giudizio non si trattò del fattore decisivo. È certo che i madrileni furono presi allora da un rabbioso impulso di rivolta quando si accorsero drammaticamente che erano i francesi a determinare la vita politica spagnola. «Per loro, come giustamente ha segnalato Lovett (2), la Spagna era il miglior Paese del mondo, le spagnole le più belle fra le donne, la loro religione l’unica autentica e il loro monarca il migliore dei re. Un popolo così profondamente orgoglioso e contento di sé stesso difficilmente poteva essere dominato da una nazione straniera»

(3). Senza dubbio, non è meno certo che la Francia da anni andava determinando la politica spagnola, ma ciò non destava la minima preoccupazione in persone come Manuel Godoy Álvarez de Faria Ríos Sánchez Zarzosa (1767-1851) – già primo ministro dal 1792 al 1808 –, che vedeva rafforzata così la sua politica. «La Spagna – scriveva –, fra tutte le nazioni vicine alla Francia, è stata l’unica che lungo quindici anni consecutivi di scossoni violenti, mentre si vedevano gli imperi e i regni frastornati, scossi fin dalle fondamenta, mutilati delle loro province, rimase in piedi, conservando i suoi Principi legittimi, la religione, le leggi, le abitudini, il diritto e il completo possesso dei suoi vasti domini in entrambi gli emisferi» (4). E i francesi erano anche i «centomila figli di San Luigi» ricevuti con entusiasmo nel 1823 per far fronte ai rivoluzionari che erano insorti in caccia del potere durante il cosiddetto «Triennio liberale».

3. Non siamo, quindi, solo di fronte a una guerra «antifrancese», ma anche davanti a una guerra contro la «fase imperiale» della Rivoluzione francese, così come quella combattuta nel 1793-1795 contro la Repubblica rivoluzionaria era stata una guerra contro la fase «giacobina» di tale Rivoluzione. Il «bonapartismo» – nome che deriva da quello del Côrso – indica storicamente qualunque processo rivoluzionario quando entra nella sua fase di «istituzionalizzazione» e le guerre napoleoniche non sono una semplice espansione nazionalista, ma la diffusione a livello europeo dei principi «giacobini».

Si spiega così che, per la stragrande maggioranza degli spagnoli, la Guerra d’Indipendenza del 1808-1813 fu una «guerra di religione» contro le idee eterodosse del XVIII secolo diffuse dalle legioni napoleoniche. Da qui derivano altresì l’attivismo della gerarchia ecclesiastica e la sua partecipazione operosa all’insurrezione e alla guerra contro i francesi. Basta ricordare la deliberazione dell’ottantenne vescovo di Coria, nell’Estremadura, Juan Alvarez de Castro (1724-1809) d’incoraggiare e di sostenere lo sforzo dei suoi diocesani nella guerra. La sua azione venne stroncata nell’arco di appena un anno, poiché la vendetta francese pose fine a quello che non era altro che un brillante punto di arrivo di un percorso coerentemente iniziato in precedenza. Infatti, quando era scoppiata la guerra degli spagnoli contro i rivoluzionari come conseguenza dell’esecuzione di Luigi XVI, il vescovo aveva scritto una pastorale ai suoi diocesani affinché aiutassero l’esercito spagnolo. Dopo l’inizio della rivolta del maggio 1808 contro i francesi mons. Alvarez de Castro invitò il suo capitolo a contribuire al sostentamento delle truppe e, dopo aver ottemperato agli obblighi dell’episcopato, destinò le residue entrate alle spese della campagna militare e ordinò preghiere pubbliche per il trionfo dell’esercito spagnolo (14 giugno 1808); il 23 giugno esortò a rispondere al bando di reclutamento che la Giunta Suprema di Governo della sua provincia aveva proclamato. Secondo il presule tutti i fedeli dovevano prestare un giuramento nelle loro parrocchie davanti al Santissimo Sacramento esposto: in primo luogo dovevano giurare gli ecclesiastici, che avrebbero poi dovuto spiegare al popolo, riunito in un giorno prestabilito di comune accordo fra i sacerdoti e le rispettive Giunte, i doveri contenuti nella formula impiegata: «Giuriamo e promettiamo al Divino Signore Sacramentato di mantenere la più perfetta unione, rispetto e venerazione alla Giustizia, di dimenticare per sempre con tutto il cuore i sentimenti personali, di difendere la nostra Santa Religione, il nostro amato Sovrano e Signore don Ferdinando VII e le proprietà, fino allo spargimento delle ultime gocce del nostro sangue» (5).

La ripercussione di queste pastorali e circolari del vescovo dentro e fuori la diocesi fu grande. L’Estremadura insorse come un sol uomo e le sue catene montuose diventarono a lungo impenetrabili per gli eserciti napoleonici. Il prelato promise, in nome di Dio, la beatitudine eterna a coloro che fossero morti per la patria; diede alla causa tutto quello che possedeva; le sue chiese si impoverirono; consegnò i propri gioielli per essere fusi; e i suoi granai rimasero aperti… Quando un esercito francese, guidato dal maresciallo Nicolas Jean-de-Dieu Soult (1769-1851), s’impossesserà di Plasencia e il 13 agosto 1809 entrerà in Coria, si riseppe quanto il vescovo di Coria aveva contribuito allo sforzo bellico, così come che si era rifugiato a Hoyos. Il 29 agosto uno squadrone francese arrivò fin là, tirerà giù dal letto il venerabile prelato – che, oltre ai problemi dell’età, si trovava assai debilitato e in pericolo di morte – e dopo che fu caduto per terra, gli sparò due colpi di fucile, non senza aver prima saccheggiato la casa e provocato la morte di uno degli anziani che si erano lì rifugiati, ferendo uno dei familiari e altri cinque anziani.

Esempi simili si potrebbero moltiplicare. È assai noto il racconto di Marcelino Menéndez Pelayo (1856-1912): «La resistenza si organizzò, quindi, democraticamente e alla spagnola, con quel federalismo istintivo e tradizionale che nasce nei grandi pericoli e nei grandi capovolgimenti, e fu, come si poteva sperare, ravvivata e infervorata dallo spirito religioso, che viveva integro per lo meno negli umili e nei piccoli, e venne capeggiata e diretta in gran parte da frati. Di ciò danno testimonianza la dittatura di p. Rico a Valencia, di p. Gil a Siviglia, di fra’ Mariano di Siviglia a Cadice, di p. Puebla a Granata e del vescovo Menéndez di Luarca a Santander. La Vergine del Pilar animò lo sforzo degli abitanti di Saragozza e i gironesi si posero sotto la protezione di san Narciso; nella mente di tutti, a parte lo scarso numero dei cosiddetti liberali che per encomiabile incoerenza smisero di “infrancesarsi”, quella guerra, sia guerra spagnola sia guerra d’indipendenza, era in realtà una guerra di religione contro le idee del XVIII secolo diffuse dalle armate napoleoniche. Com’è certo che in quella guerra l’alloro più alto spettò a ciò che il suo coltissimo storico, il conte di Toreno (6), con il suo aristocratico disprezzo di insigne dottrinario, definisce straordinaria demagogia, pezzentemente e fratescamente superstiziosa e assai ripugnante! Peccato che senza questa demagogia così maleodorante, e che tanto dava sui nervi all’illustre conte, non sarebbero state possibili né Saragozza né Girona!» (7).

Né mancherà la giustificazione teologica dello sforzo. Come scrisse padre Rafael Vélez nel 1813: «La stessa religione ha dato forza alle nostre truppe per vendicare gli insulti che hanno patito dai francesi nella nostra terra. Essa ha rinfrancato la nostra debolezza quando si vide che stavamo per essere privati del culto: ci ha messo in mano le armi, per resistere all’aggressione francese, che al tempo stesso attaccava il trono e distruggeva l’altare. La religione ci ha condotto nei suoi templi, ha benedetto le nostre armi, ha dichiarato solennemente guerra, ha santificato i nostri soldati e ci ha fatto giurare ai piedi delle sante are, alla presenza di Gesù Cristo nel Sacramento e della sua Santissima Madre nelle sue chiese, di non abbandonare le armi fino alla distruzione totale dei piani della filosofia della Francia e di Napoleone contro il trono dei nostri re e contro la fede della nostra religione» (8). «Tutta la Spagna riuscì a convincersi che se avesse dominato la Francia avremmo perso la nostra fede. Fin dall’inizio questa guerra fu chiamata guerra di religione: gli stessi sacerdoti presero le spade e persino i vescovi si posero alla giuda delle truppe per incoraggiarli a battersi» (9).

Benché sia certo che nel 1808 si realizza lo smantellamento di una struttura politica che nelle sue forme esistenti era stata incapace di far fronte alla crisi che va dalla rivolta di Aranjuez (17 marzo 1808) alle abdicazioni di Bayona (5 maggio 1808) e all’invasione francese, non mi sembra che questo debba avere un significato politico, ma solo un senso eminentemente bellico. La crisi politica dell’antico regime in Spagna non è una conseguenza naturale del 2 maggio, bensì dello svolgimento di eventi di carattere militare in cui agiranno come meccanismo scatenante le Cortes di Cadice, un organismo in cui si rilevano in primo luogo il carattere nettamente innovatore delle decisioni, con pochissime concessioni alla corrente tradizionale. Federico Suárez ha definito «innovatori» i membri del gruppo che pretendeva di adottare il modello rivoluzionario francese, più o meno moderato e più o meno tradotto in spagnolo, ma dal quale necessariamente sarebbe risultato un regime ex novo, cioè i liberali (10). Quindi, la perfetta omogeneità del programma, imposto con assoluta consequenzialità dall’inizio alla fine. Sembra chiaro che gli innovatori, senza essere la maggioranza, seppero prendere in ogni momento l’iniziativa, presentarono piani più articolati e completi e dominarono la variegata folla di quelli che non la pensavano come loro.

4. Sul terreno religioso i liberali si mostrarono continuatori della corrente giansenista-regalista e, mentre il popolo combatteva per la fede e la Costituzione proclamava la confessionalità dello Stato e l’unità cattolica – articolo 12: «La religione della Nazione spagnola è e sarà perpetuamente quella cattolica, apostolica, romana, unica autentica. La Nazione la protegge con leggi sagge e giuste e proibisce la pratica di qualsiasi altra» –, i deputati favorivano la creazione di un ambiente pubblico in cui – al riparo della libertà di stampa e con un linguaggio spudorato e ironico – nei loro periodici i liberali disonoravano il clero e la religione. Nessuno, tuttavia, arrivò a superare in fama Bartolomé José Gallardo (1776-1852), il quale dall’aprile del 1812 suscitò un clamoroso scandalo con il suo Diccionario crítico burlesco, pieno di irriverenze volterriane al limite della bestemmia (11). Basta citare in quale considerazione sono tenuti i religiosi, contro i quali il liberalismo sparerà tute le sue bordate di artiglieria negli anni successivi: «[…] Sono sempre stati la peste della repubblica […] sia nel secolo scorso sia in quello presente; ciononostante, per evitare grattacapi, non sono mai stati, da cent’anni fino ad oggi, come certe categorie di persone che gridano e strillano a favore dell’ispanità quando si tratta di diritti, senza mai parlare dei doveri. Sono animali immondi che, non so se è perché generalmente si danno ai vizi, emanano una puzza o un tanfo che ha un nome particolare, che trae origine da loro stessi: si chiama “fratesco”. Questo odore, tuttavia, che è insopportabile per noi uomini, pare che allo stesso tempo sia molto gradito all’altro sesso, specialmente alle bigotte, perché fa meraviglie contro l’isteria.

Conosco un dottore, uomo di singolare talento, che aveva scritto in forma di romanzo un’opera di linea classica sull’istinto, l’ingegno, le inclinazioni e le abitudini di tutti gli animali buoni e cattivi del genere fratesco che si danno sul nostro suolo. Se questo libro pregevole, diverso dalla Monacologia latina (12), fosse stato pubblicato anni fa in Spagna, avrebbe potuto essere di somma utilità per la religione e per i buoni costumi; ma già quando vedesse la luce, se mai la vedrà, lo considererei inutile e impertinente, perché non sarà uscito a tempo; perché al loro passaggio tutte queste categorie di animali nocivi periranno, finché non rimarrà anima viva; per la ragione irrefutabile per cui stanno togliendo loro il cibo, e ogni animale, qualunque esso sia, vive di ciò che mangia. Ovvero: tolgono loro anche le tane, in modo che restino come insetti in un sottobosco bruciato. Poveri animali di Dio! Vederli camminare trascinandosi, squamarsi come i serpenti, storditi e senza sapere dove proteggersi è una cosa che fa spezzare il cuore. Oh tempora!».

Ci si sorprenderà, dunque, se nella Spagna liberale, con un’ideologia imperante cullata dalla cantilena di concetti così affascinanti come quelli affermati delle Cortes di Cadice, vi saranno massacri di frati? A suo tempo l’assemblea di Cadice si dedicò a promuovere iniziative quali l’espulsione del vescovo di Orense, Pedro de Quevedo y Quintano (1776-1818), la soppressione del cosiddetto «Voto di Santiago» – un contributo pagato dai contadini di alcune regioni al capitolo compostelano –, l’abolizione dell’Inquisizione, la riforma dei conventi, l’abolizione della manomorta, l’espulsione nel nunzio pontificio card. Pietro Gravina Moncada (1742-1830)…

Nella reazione dottrinale assumerà particolare rilievo la pastorale del 12 dicembre 1812, un’Istruzione collettiva volta a orientare dottrinalmente i fedeli, emessa da sei vescovi i quali, per sfuggire agli abusi degli eserciti napoleonici e alla pressione della legalità imposta da Giuseppe I Bonaparte (1768-1844) nei territori delle diocesi sottomessi alla loro giurisdizione, si erano rifugiati a Majorca. Il testo ha come data di stampa quella del 1813 e i suoi quattro capitoli trattano de La Chiesa oltraggiata nei suoi ministri, La Chiesa combattuta nella sua disciplina e nel suo governo, La Chiesa travolta nella sua immunità e La Chiesa attaccata nella sua dottrina. Nell’analisi di questo documento Román Piña conclude che: «senz’alcun dubbio è la prima dimostrazione di uno scontro aperto fra un parlamento considerato depositario della sovranità nazionale e un settore importante della gerarchia ecclesiastica del Paese, che vede in pericolo tanto i diritti e le prerogative della Chiesa quanto l’influenza o il peso sociale dei valori religiosi che difende» (13).

5. Sulla base di quanto è stato esposto si possono trarre alcune conclusioni. La prima verte sul radicamento nel passato del secolare conflitto che attraversa la storia contemporanea spagnola, che non è qualcosa di congiunturale o il risultato di problemi più o meno pratici – per esempio una semplice querelle dinastica. La seconda, evidenzia l’incapacità del liberalismo spagnolo di strutturare un processo di modernizzazione economica e di partecipazione politica che risale alle sue origini le quali coincidono con un modello basato sui propri interessi e non sulle rivendicazioni più autentiche della nazione. L’assenza delle tante volte ripetute libertà e uguaglianza nei pochi sistemi politici della Spagna del XIX secolo e degl’inizi del XX, rende appena necessario ricorrere alla critica filosofico-teorica per demolire polemicamente il liberalismo spagnolo. Ancora, si segnala la stretta relazione fra ortodossia politica e ortodossia religiosa e l’impossibilità pratica di perseverare nella seconda quando essa non è coerente con la prima. Per «eterodossia politica» intendo l’eterodossia di tutti coloro che di fatto negano la dimensione teologica nell’agire politico, di coloro che, adottando politicamente un criterio puramente meccanicistico, si rifiutano di riconoscere le esigenze etiche dell’agire politico, considerano la religione come un assunto valido per gli atti di valore personale e non valido per quelli a dimensione sociale. Infine, l’esistenza – benché ancora minoritaria – di un episcopato e di un clero «infrancesati» e collaborazionisti, e anche gl’indecorosi intenti di riconciliare il liberalismo con la Chiesa messi in pratica più tardi, mettono in evidenza la liceità e la necessità di una resistenza sul terreno culturale e politico fondata religiosamente, nonostante l’opposizione di qualche ecclesiastico, per quanto elevata sia la sua posizione.

Ángel David Martín Rubio

Note

(1) Il 2 maggio 1808 scoppiò a Madrid una grande rivolta popolare contro il governo della Spagna completamente dominato da Napoleone Bonaparte. Con questa rivolta si apre la vicenda storica, che durerà sei anni, della grande e sanguinosa guerra di liberazione, d’indipendenza e contro-rivoluzionaria che gli spagnoli combatteranno, con l’appoggio inglese, contro l’occupazione francese del loro suolo patrio, in difesa del loro re, delle loro antiche libertà e della Chiesa cattolica, realtà tutte radicalmente aggredite dall’espansionismo dei principi dell’Ottantanove imposti in tutta Europa dalle baionette dell’Armée. Si tratta forse del più ingente duraturo fenomeno di insorgenza popolare contro-rivoluzionario del periodo napoleonico: di esso nel 2008 è ricorso il secondo centenario (ndr).
(2) Cfr. Gabriel H. Lovett, Napoleón and the birth of modern Spain, 2 voll., University Press, New York 1965.
(3) Alfonso Bullón de Mendoza, in Francisco Javier Paredes Alonso (a cura di), España. Siglo XIX, Actas, Madrid 1991, p. 64.
(4) Manuel Godoy, Memorias del Príncipe de la Paz, 2 voll., BAE, Madrid 1956, vol. I, pp. 14-15.
(5) Cit. in Miguel Ortí Belmonte, Episcopologio Cauriense, Deputazione Provinciale di Cáceres-Servizi Culturali, Cáceres 1959, p. 157.
(6) Cfr. José Maria Toreno Queipo De Llano y Ruiz de Saravia (1786-1843), Storia della sollevazione, guerra e rivoluzione della Spagna, trad. it., Angelo Bonfanti, Milano 1838.
(7) Marcelino Menéndez Pelayo, Historia de los heterodoxos españoles, BAC. Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1978, libro VII, cap. 1 (consultato su <http://www.cervantesvirtual.com>, 21-6-2008).
(8) Fray Rafael de Vélez (1777-1850), Preservativo contra la irreligión o los planes de la filosofia contra la religión y el Estado, realizados por la Francia para subyugar a la Europa, seguidos por Napoleón en la conquista de España, 2ª ed. accresciuta, Ibarra, Madrid 1812, p. 100.
(9) Ivi, ibid., p. 110 (consultato su <http://www.books.google.es>, 21-6-2008).
(10) Cfr. Federico Suárez, La crisis política del Antiguo Régimen en España (1808-1840),Rialp, Madrid 1988, passim.
(11) Cfr. Bartolomé José Gallardo, Diccionario crítico-burlesco del que se titula «Diccionario razonado manual para inteligencia de ciertos escritores que por equivocacion han nacido en España», Pedro Beaume, Burdeos 1819; cfr. anche <www.cervantesvirtual.es>.
(12) Cfr. [Ignaz von Born (1742-1791),] La monacologia, ossia descrizione metodica de’ frati di Giovanni Fisiofilo, nell’italica favella recata da C. B. [scil. Carlo Botta (1766-1837)], trad. it., Dai tipi filantropici, Eridania [ma Torino] anno IX (1801 ca.).
(13) Román Piña Homs, Parlamentarismo y poder eclesiástico frente a frente: la Instrucción Pastoral conjunta de 12 de diciembre de 1812, in Estudios de Historia Moderna y Contemporánea. Homenaje a Federico Suárez Verdeguer, Rialp, Madrid 1991, pp. 404-405.

fonte http://www.identitanazionale.it/inso_1013.php





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