Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

INVASIONE E LIBERAZIONE 1799 (II)

Posted by on Apr 13, 2019

INVASIONE E LIBERAZIONE 1799 (II)

La Capitale era divisa in sei circoscrizioni, rette da Eletti/Magistrati, che costituivano la “Città”: cinque aristocratiche comprendevano gran parte della nobiltà; uno popolare comprendeva la borghesia napoletana ed aveva diritto di rappresentare tutti i Comuni del Reame.
La “Città”, quindi, costituiva un vero Parlamento.
Secondo un vecchio privilegio elargito da Federico II e confermato poi da vari sovrani, compresi quelli di Spagna, vacando il trono, spettava agli Eletti, alla “Città”, il governo dell’intero Reame.
Vantavano, quindi diritti molto temibili per il tentennante Vicario del Re, il Principe Francesco Pignatelli.

I Francesi erano ormai alle porte della Capitale e bisognava:

  • intavolare trattative per raggiungere una pace che avrebbe potuto comportare gravissimi oneri:
  • arginare l’anarchia popolare;
  • fare ogni sforzo per risparmiare alla città il danno economico d’una occupazione militare;
  • allontanare il pericolo dell’ultima sventura: una repubblica giacobina.

Il 24/12/1798 alla seduta degli Eletti furono ammessi altri 16 deputati borghesi.
Gli Eletti, facendosi patroni ed interpreti della volontà popolare, poichè i Lazzari chiedevano le armi e i castelli, proposero di costituire una milizia cittadina.
Si recarono dal vicario del Re, il Principe Francesco Pignatelli, per rammentargli i privilegi della “Città”, e chiedergli di rimettere nelle loro mani il compito della difesa e dell’ordine pubblico, e di concedere le armi necessarie alla costituzione di una milizia civica di 14.400 uomini.
In realtà lo scopo era quello di affrettare la conclusione della pace e di salvarsi (gli eletti) dal peggio e dall’anarchia.
La costituzione di una repubblica aristocratica era solo una minaccia priva di fondamento.

Il 12/1/1799 si ottenne l’armistizio che prevedeva:

  • l’evacuazione di Capua;
  • l’abbandono del territorio fino alla linea che corre tra l’Ofanto e il torrente dei Lagni;
  • il pagamento di due milioni e mezzo di ducati;
  • la chiusura dei porti ai navigli della coalizione.

Il generale Mack evacua, quindi, Capua per ritirarsi su Napoli.
Il popolo è certo del tradimento dei ministri e degli ufficiali dell’esercito.
Comincia, così, a diffondersi l’adagio “Chi tene pane e vino ha da essere giacubbino”.

Iniziano a farsi sentire gli effetti dell’armistizio. Molti molini, che traevano forza motrice dal torrente dei Lagni, le cui rive erano occupate dal nemico, avevano interrotto la macinazione, per cui si risentiva penuria di farina.
Sorge lo spettro della fame, mentre nobili e borghesi si abbandonano ad una certa spensieratezza. E questo esalta il furore dei Lazzari.

Il 15/1/1799, all’alba, i Lazzari si gettano contro le porte di Castel Nuovo. 

Dopo un breve combattimento si impadroniscono della porta principale.
Una volta entrati non fanno danni alle persone. Inalberano la bandiera Reale, cacciano il presidio, si armano fino ai denti, pongono sentinelle sui cammini di ronda e si preparano all’estrema difesa.
La stessa scena avviene nel medesimo tempo in Castel Sant’Elmo, nel forte del Carmine e in quello dell’Ovo.
Durò tutta la giornata la processione dei Lazzari che si recavano a provvedersi di un fucile, d’una baionetta e di munizioni.
Già si trascinavano in piazza i cannoni che i Lazzari non sapevano adoperare.
Furono spalancate le porte delle carceri, liberando circa 6.000 prigionieri, tra i quali gli imputati per reati politici erano una piccola minoranza.
Il convincimento popolare era che il re fosse stato tradito dagli stranieri e dai signori, dei quali una parte s’era venduta ai francesi, e l’altra anelava di stipulare una pace che salvasse le loro ricchezze e desse la plebe nelle mani del vincitore.

Quindi il popolo non poteva considerare colpevoli coloro che avevano derubato i ricchi, traditori del re e del popolo.
E se una torma di plebei invadeva la casa di qualche benestante, il saccheggio aveva sapore di rappresaglia.
Ciò non diminuisce la forza morale che solleva i Lazzari, visto che, a quel tempo, gli eserciti delle nazioni più civili punivano, appunto, col saccheggio la resistenza delle città nemiche.
Il popolo aveva ormai acquistato il diritto di considerare colpevoli della catastrofe tutte le classi abbienti.
I Lazzari non insorgevano dopo una carestia; il loro movimento, spontaneo, era la difesa disperata della loro terra, degli usi, dei costumi, delle credenze, della religione. Di tutto ciò che, in ogni paese, forma la concretezza dell’animo popolare ed è la patria stessa.

Molti si recarono a presidiare l’altura di Capodichino, dove, per tradizione, si sapeva che gli eserciti invasori calavano sulla città.
Da questo accampamento era partita una colonna verso Casoria, in cerca del generale Mack, considerato codardo e traditore, per togliergli il comando e farne giustizia.
Ma questi, avvertito, depose il comando e chiese asilo al nemico, ottenendo anche un passaporto.
Il Mack passò innanzi a Gaeta il giorno stesso che la fortezza cadeva nelle mani francesi.

16/1/1799
Il vicario, che fino a quel momento non aveva mai voluto fornire di armi (pur avendone la possibilità) la milizia, munitosi di una buona somma di ducati scappò.
Lo stato insurrezionale della città non consentiva il versamento della somma pattuita con i francesi.
Rotto così l’armistizio, il generale Championnet avanzava lentamente su Napoli.
Gli Eletti, per salvare loro stessi e calmare l’insurrezione popolare, spedirono al generale francese una deputazione, la quale promise il pronto rispetto dei patti dell’armistizio, a condizione che si sospendesse la marcia sulla capitale.
Championnet, dubitando degli Eletti, rifiutò di trattare. E poichè si cominciava a fare distinzione tra re e nazione, assicurando che questa non aveva mai inteso muovere guerra ai francesi, il generale francese li esortò a “democratizzarsi”, nel qual caso egli sarebbe entrato in città da amico e alleato.
Conosciute queste trattative, i tumulti si moltiplicarono. I Lazzari accusarono di tradimento i magistrati cittadini e i gentiluomini che avevano elevato al comando.
I francesi erano a poche ore di marcia e bisognava prepararsi a combattere alle barriere.
I cannoni, dai Castelli, furono trascinati a braccia sull’altura di Capodichino, sulla via di Poggioreale e al ponte della Maddalena.
Non ci si dette pensiero che la capitale era assolutamente priva di mura e fortificazioni.
Si confidava sulle proprie braccia e sull’aiuto di San Gennaro, in nome del quale si combatteva e che formava il simbolo della concreta patria che si difendeva.
I tumulti si aggravavano di più, tanto che, oltre ai pavidi proprietari e ai giacobini, anche i legittimisti e coloro che più avevano temuta l’occupazione francese, spedivano messi allo Championnet perchè affrettasse la marcia.
Non vi era alcuno che avesse il coraggio di mettersi lealmente a capo della plebe e tentar la sorte in un’ultima giornata. Nessuno volle intendere che l’anarchia sarebbe divenuta ordine composto ed eroico, solo che un uomo fosse riuscito a riscuotere la fiducia della plebe.
Nelle ultime ore, sulle alte classi sociali, presero il sopravvento i giacobini, gli unici che potessero moralmente giustificare il desiderio dell’occupazione francese.
Francesi e giacobini sapevano che il Castel Sant’Elmo era la chiave della situazione.
All’interno del castello vi erano, infatti, 40.000 armati che avrebbero opposto ai francesi un muro di ferro e fuoco veramente infrangibile.
Nella notte del 18/1/1799 i giacobini tentarono, senza riuscirvi, di impadronirsi del castello.
Il 20/1/1799 l’arcivescovo fece portare in processione la statua di San Gennaro. Questo per persuadere la plebe del favore del clero.
Anche l’aristocrazia e la borghesia partecipò alla processione, anche queste per portare il popolo dalla loro parte. Ma il loro scopo era quello di far cessare il popolo di dare la caccia ai ricchi traditori e dare quindi il tempo al nemico di prevenire la sua resistenza.
Il 21/1/1799 i giacobini, tra cui alcuni che avevano partecipato alla processione, riuscirono con uno stratagemma ad impadronirsi del Castel Sant’Elmo.
Il grosso dei giacobini vi si asserragliò e lo Championnet, sicuro ormai del fatto suo, muoveva i battaglioni sulla capitale.

La città fu investita dalla parte orientale.
I francesi si fecero largo dopo aver raso al suolo Pomigliano d’Arco.
A Capodimonte, a Capodichino, al Ponte della Maddalena, i battaglioni francesi urtarono contro un’ostinata resistenza.
I Lazzari, tra i quali era impossibile contare il numero dei caduti, opponevano alle baionette e ai cannoni delle vere muraglie umane.
Nella prima giornata i francesi concentrarono l’assalto sul punto di maggiore resistenza (la Porta Capuana), tentando di occupare fin da subito i quartieri più popolari.
Combattevano lì 2.000 Lazzari comandati da Michele il Pazzo, ma anche qualche centinaio di svizzeri delle guardie reali.
La brigata Monnier era riuscita con una furiosa carica a sloggiare i Lazzari da Poggioreale e li aveva inseguiti fino alla porta.
Respinta una prima volta, Monnier ritentò la carica. Travolti nel primo impeto i Lazzari, i francesi passarono la porta e giunsero nella piazza, ove, furono accerchiati da un furioso fuoco di fucileria proveniente dalle case circostanti.
Abbandonati i loro morti sul selciato, dovettero battere in ritirata, mentre Svizzeri e Lazzari, trascinati in piazza 12 cannoni, fulminavano d’infilata la via per la quale il nemico fuggiva.
Il maggiore Thièbault, riuscì, per fortuna del nemico, ad arrestare una colonna di 3.000 Lazzari, evitando una disastrosa rotta.
I francesi riorganizzarono una colonna d’assalto. Simulando la fuga si fecero inseguire dai Lazzari, che questa volta furono sorpresi di fianco dai granatieri di riserva, che ne fecero orrendo massacro.
Tuttavia la porta e la piazza non furono espugnate prima che l’incendio non avesse distrutte le case della plebe.
Lo spirito combattivo dei Lazzari non era, comunque, minimamente fiaccato.
I popolani si lasciavano massacrare combattendo con disperazione cieca.
I Lazzari, sebbene sloggiati dalle primitive posizioni, conservavano una forte linea difensiva.
Intanto i giacobini, rinchiusi nel Castel Sant’Elmo, vedendo volgere piuttosto incerte le sorti della giornata, indirizzarono una lettera agli Eletti nella quale minacciavano il bombardamento della città, se i magistrati non avessero disarmato il popolo insorto.
I magistrati erano, inoltre, chiamati responsabili delle conseguenze e delle rappresaglie.
Gli Eletti risposero che non erano in grado di fermare 40.000 armati sbandati i quali erano riusciti a far “rinculare” il nemico al quale avevano tolto buona parte dell’artiglieria, affrontandolo a “petto nudo e scoperto”.
Ma la loro preoccupazione era che in caso di vittoria dei Lazzari, questi avrebbero sfogato su di essi il loro sdegno. Quindi speravano che i Lazzari riuscissero a respingere il nemico e quindi poter trattare una pace vantaggiosa.
I giacobini, quindi, si accingevano a porre in atto la minaccia di bombardare la città.
La sera del 21/1/1799 spedirono alcuni messi ai francesi, esortandoli ad attaccare il giorno dopo i Lazzari ai Ponti Rossi, in modo che il forte avrebbe colpito i difensori alle spalle.

Il 22/1/1799 il generale Championnet inviò un parlamentare ai bivacchi dei Lazzari, per offrire la pace.
Ma la plebe, che fino a quel momento era stata tradita da tutti, non conoscendo il “diritto delle genti”, massacrò l’ufficiale francese.
La battaglia si riaccese a Capodimonte e al Ponte della Maddalena.
I Lazzari furono praticamente accerchiati ed assaliti da tutte le parti.
S’era appena iniziata la battaglia, che Sant’Elmo cominciò a bombardarli.
Ai francesi fu necessario l’intervento, in aiuto, di una brigata. Due battaglioni di questa passarono dietro le colline di Capodimonte e del Vomero, senza incontrare resistenza e penetrando in Sant’Elmo, ove si piantava l’albero della libertà.
I Lazzari, pur combattendo intrepidamente, cedevano terreno.
Ma i Lazzari di Foria e di Chiaia respinsero francesi e giacobini malgrado le loro critiche condizioni.
Un distaccamento francese, proveniente da Capodichino, sorprese i difensori di Via Foria di fianco e li ricacciò facendo terribile strage. Quaranta Lazzari fatti prigionieri furono fucilati in massa.
La plebe dovette difendersi e barricarsi nel Largo delle Pigne. Avevano solo quattro cannoni.
Nel centro della città correvano pattuglie di Lazzari in servizio d’ordine pubblico. Dai conventi, monaci e preti scagliavano sui difensori vasi da fiori e ogni oggetto possibile. Da qualche casa borghese non si esitava a sparare qualche fucilata e qualche pistolettata sulla plebe.
Giacobini, o creduti tali, erano assaliti nelle case, trucidati, gettati i loro cadaveri sui fuochi di bivacco.

Durante il 21 e 22/1/1799 i Lazzari ordinarono che tutti i portoni e tutti gli usci rimanessero spalancati. Ogni luogo di rifugio doveva essere pronto a ricoverare i passanti bersagliati dal bombardamento di Sant’Elmo.
Dopo sette ore di resistenza i Lazzari abbandonarono il Largo delle Pigne.
La resistenza si concentrava nel quartiere di Mercato. Tenevano ancora buona parte di Via Toledo, il Palazzo Reale, il Castello del Carmine, il Castel Nuovo e il Castello dell’Ovo.
All’alba del terzo giorno Championnet dette ordine che la lotta procedesse senza quartiere.
I francesi discesero per Via San Carlo alle Mortelle e per Via Santa Lucia a Monte, per piombare sul fianco dei Lazzari, in Via Toledo e in Piazza San Ferdinando.
Dopo un aspro combattimento si impadronirono del centro e sbucarono in Largo del Castello. Qui, dopo un prolungato tiro di artiglierie da Sant’Elmo, presero d’assalto Castel Nuovo.
Ora si poteva battere alle spalle i Lazzari che combattevano al forte del Carmine e che sostenevano altri francesi.
Questi ultimi, sebbene avessero ricevuto dei rinforzi, urtavano contro circa 8.000 Lazzari, che cedettero il terreno solo nelle ore pomeridiane, quando furono accerchiati. Tentarono di asserragliarsi nel forte del Carmine, ma il Castello fu preso d’assalto, prima che si potessero chiudere le porte. Molti difensori furono trucidati.
Championnet poteva ritenersi padrone della città.
Tuttavia, se i forti e i principali centri di resistenza organizzata avevano ceduto, il popolo era ancora in armi.
Ma una cannonata da Castel Sant’Elmo spazzò il Largo di Palazzo.
10.000 caduti.

da “Lazzari e Santa Fede”, di Alberto Consiglio, 1936

fonte http://lazzaronapoletano.it/category/0003/0003-0003/

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“Studi Storici” sulle insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica

Posted by on Feb 24, 2019

“Studi Storici” sulle insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica

1. Premessa

Il numero di aprile-giugno del 1998 di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, di Roma, è interamente dedicato a Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica (1).

Il fascicolo, che si apre con il saggio Introduzione. La questione delle insorgenze italiane (pp. 325-348) di Anna Maria Rao — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Napoli Federico II, membro del comitato di direzione della rivista e coordinatrice dell’iniziativa —, presenta un insieme di monografie di studiosi di varia estrazione — anche se di comune orientamento —, dedicate a episodi e a momenti particolarmente significativi delle insorgenze popolari, verificatesi in Italia nel periodo del dominio napoleonico, fra il 1796 e il 1815.

L’ordine di presentazione è quello geografico. S’inizia infatti con uno studio sulle insorgenze delle province lombarde già sotto dominio veneto, per proseguire con un saggio volto a individuare tratti comuni fra l’insorgenza veronese del 1797 — le cosiddette Pasque Veronesi — e fenomeni coevi simili, a sfondo sociale, verificatisi nel Regno di Sardegna. Seguono uno studio sui moti agrari del Piemonte Meridionale nel 1797 e due saggi rispettivamente dedicati all’insorgenza ligure del 1797 e a quella romagnola del 1796-1797. La rassegna include poi l’analisi di alcuni aspetti di quelle che possono essere considerate le manifestazioni più significative e complesse della resistenza italiana contro la Rivoluzione francese, ovvero il movimento del Viva Maria! in Toscana, l’insorgenza del Lazio — comprendente anche un esame della politica di Papa Pio VII (1799-1821) nei confronti degl’insorgenti dopo la fine della Repubblica Romana e il ritorno del Pontefice a Roma — e la grande rivolta sanfedista nel Regno di Napoli, tutte del 1799.

2. Esposizione

Nello studio introduttivo la Rao mette anzitutto in rilievo l’ampiezza delle “resistenze e insurrezioni contro la rivoluzione e la repubblicanizzazione della penisola” (p. 330), individuandone le cause in motivazioni di medio e di lungo periodo — la crisi economico-sociale della seconda metà del secolo XVIII, la limitazione delle proprietà ecclesiastiche e le conseguenti ripercussioni sulle tradizionali forme d’assistenza, la riduzione delle autonomie locali, l’attaccamento alle tradizioni religiose, minacciate dal riformismo illuministico e dalla Rivoluzione — e in motivi più immediati, legati alle circostanze dell’invasione e dell’occupazione francesi. Si sofferma quindi su due elementi — “la diffusione delle insorgenze sull’insieme del territorio nazionale” (p. 331) e l’assenza di una conflittualità di classe fra contadini “sanfedisti” e borghesia “giacobina” — che ribaltano alcuni luoghi comuni della storiografia, per concludere che […] dai saggi che si presentano l’insorgenza emerge in tutta la sua irriducibile complessità di fenomeno fortemente differenziato nello spazio e nel tempo” (p. 341).

Lo studioso vicentino Paolo Preto — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Padova — ricostruisce in Le valli bergamasche e bresciane fra democratizzazione e rivolta antigiacobina (pp. 349-365) gli avvenimenti del 1797 nelle province venete più occidentali, dalla dichiarazione di neutralità del governo veneziano e dalla sollevazione di nuclei giacobini prima a Bergamo e poi a Brescia — entrambe “democratizzate” con la forza — all’invasione francese del territorio della Repubblica di Venezia, ai soprusi dell’occupazione e alla forzata inerzia delle truppe di San Marco, alla montante collera dei contadini, che esplode nel marzo del 1797. In quel mese le valli bergamasche — Seriana, Cavallina, Gandino e altre — e quelle bresciane — Camonica, Trompia e Sabbia —, unitamente alle popolazioni della riviera gardesana occidentale — in particolare della zona di Salò, un tempo indipendente —, dopo solenni giuramenti formulati nel corso delle tradizionali assemblee comunitarie, si sollevano coralmente contro le città “rivoluzionate” fino a scontrarsi con le neonate milizie “italiche” e con i francesi, dopo aver coltivato inizialmente l’illusione di regolare i conti con i giacobini nella neutralità dell’esercito occupante. Fa parte del quadro anche la cruda repressione perpetrata dalle truppe franco-bresciane — rinforzate da volontari accorsi da altre città italiane, come per esempio Pavia, di recente “democratizzate” — contro i contadini insorti: oltre al cannoneggiamento di Salò dalla parte del lago, vi sono, come rappresaglia, il saccheggio e l’incendio di diversi borghi della montagna bresciana, quali Nozza, Vestone, Barghe e Lavenone. Nel saggio, corredato da una ricca bibliografia, rimangono in ombra i moventi religiosi dell’insurrezione, mentre, fra le cause, viene dato il massimo risalto al legittimismo e alla difesa degli statuti locali da parte delle comunità rurali, preoccupate di perdere autonomia di fronte al nuovo regime a prevalente base cittadina. Nella parte finale dello studio Preto, ampliando la visuale all’insieme dei territori veneti, ritiene di diluire ulteriormente la caratterizzazione ideologica dell’insorgenza esaminata, ponendo l’accento sulla cronicità dei tumulti a sfondo annonario, antifeudali e contro il governo, verificatisi nelle province venete durante il Settecento, ma non sottovaluta il carattere politico dei moti del 1797: le popolazioni — scrive — […] questa volta non tumultuano per la fame ma per difendere le loro autonomie” (p. 365), ovvero l’antico regime nel quale hanno vissuto per secoli.

L’accento sul tema economico-agrario è posto anche da Gian Paolo Romagnani — ricercatore all’università di Verona, docente di Storia della Storiografia — in un saggio che, nonostante il titolo — Dalle “Pasque veronesi” ai moti agrari del Piemonte (pp. 367-399) —, è dedicato esclusivamente ai moti veronesi del 1797 e solo nelle conclusioni ipotizza — riferendosi però ad altri studi — un’unica matrice per le insorgenze dell’Italia Settentrionale durante il Triennio. Dopo una sintesi delle linee storiche e politiche dell’invasione francese dell’Alta Italia, il saggio traccia un profilo — includente anche una rassegna della storiografia sulla vicenda dall’Ottocento a oggi (2) — dell’insurrezione veronese, ricondotta alla crisi agricola che caratterizza il Veneto alla fine del Settecento e alle tensioni sociali che ne derivano, acuite entrambe dalla rapace presenza delle armate francesi. La tesi di fondo è l’esistenza di cause di un disagio economico-sociale generale, che si esprime in moti antifrancesi dove sono presenti le armi straniere e si scaglia invece contro le autorità tradizionali, la monarchia e i feudatari, dove i francesi sono assenti — o solo parzialmente presenti, a presidio di città sedi di fortezze —, come nel caso del Piemonte dopo l’armistizio di Cherasco dell’aprile del 1796. Romagnani ammette peraltro che una lettura politica dei moti piemontesi sarebbe fuorviante, essendo prodotto di una pluralità di fattori, e che in Italia[…] i moti agrari sono una conseguenza diretta della guerra” (p. 398), ovvero dei contraccolpi arrecati dalla stessa a una situazione economico-sociale già critica. Con ciò ricollega quindi le insorgenze piemontesi del 1797 ai drammatici mutamenti indotti non da riforme di struttura, ancora da realizzare, ma dalla guerra rivoluzionaria condotta dall’armata francese, con le sue sfrenate requisizioni militari e con il suo inaudito drenaggio di risorse finanziarie, oltre che artistiche e religiose. Il ventaglio delle cause viene ampliato, considerando pure che “caratteristica del caso italiano è […] l’insofferenza di molti centri minori nei confronti dei centri maggiori” (ibidem) e che “non va infine trascurato il fattore psicologico […] nel determinare il comportamento delle masse” (p. 399). Lo studio contiene anche un parallelo fra la Vandea francese e l’Insorgenza italiana, attribuito soprattutto agli ambienti che hanno celebrato il bicentenario della seconda; ma parallelo alquanto avventato, perché riconosce alla Vandea connotati di rivolta sociale e all’Insorgenza italiana una minore rilevanza rispetto alla prima.

Al Piemonte è dedicato anche l’ampio saggio di Blythe Alice Raviola — dottoranda in Storia della Società Europea all’università di Torino —, Le rivolte del luglio 1797 nel Piemonte meridionale (pp. 401-447), che, partendo dagli studi di Giuseppe Ricuperati (3) e grazie a un’accurata ricerca d’archivio, ricostruisce capillarmente i tumulti e i veri e propri moti che, a causa del rincaro dei prezzi dei generi alimentari di base, oppone le comunità di villaggio del Piemonte Meridionale — il Cuneese e l’Astigiano, con propaggini nell’Alessandrino e nel Monferrato — alle autorità sabaude e ai feudatari locali. Lo studio rivela episodi e aspetti poco noti della vicenda e si situa su una linea interpretativa decisamente socio-economica, che però tiene equilibratamente conto dell’autentica portata dei moti, nonché della difficoltà dell’”innesto” delle avanguardie giacobine piemontesi sulle popolazioni insorgenti, la cui ricezione delle parole d’ordine rivoluzionarie è limitata e che conservano una sostanziale fedeltà alla monarchia e al regime signorile.

Sulle rivolte di Genova e delle valli liguri orientali — Bisagno, Sturla, Aveto, Fontanabuona, Vara e Magra, con propaggini in Val Trebbia e nei feudi imperiali verso la Val Scrivia e l’Alessandrino —, che si manifestano a due riprese, rispettivamente nel maggio-giugno e nell’agosto-settembre del 1797, verte il saggio di Giovanni Assereto — professore associato di Storia Moderna nell’università di Genova — I “Viva Maria” nella Repubblica ligure (pp. 449-471). Più che a descrivere i fatti il saggio sembra inteso a evidenziare e ad affrontare le questioni suscitate dalla reazione della popolazione ligure, mettendo in luce la diversità fra la prima fase dei moti e quella, più intensa e significativa, che segue alla promulgazione della costituzione democratica. L’ipotesi della sobillazione nobiliare e clericale non viene esclusa, ma viene ridimensionata rispetto alla forza con cui tale ipotesi fu avanzata dai francesi e poi da numerosi storici “progressisti”, dimostrando come i processi susseguenti alla repressione non individuino né puniscano alcun nobile o prelato, benché i giacobini tornati al potere instaurino un “clima da caccia alle streghe” (p. 465) e ne abbiano i mezzi e l’intenzione. Viene anche discusso il legame, ipotizzato da alcuni studiosi, con la rivolta antiaustriaca del 1746 — quella di Giovanni Battista Perasso (1729-1781), detto “Balilla” —, nonché il carattere collettivo e corale — le autorità locali si pongono alla testa delle colonne di insorgenti — messo in evidenza dalle rivolte delle valli. Altri nodi affrontati sono il differente atteggiamento fra Levante e Ponente — quest’ultimo tanto fedele alla Repubblica ligure da proporre d’inviare proprie milizie per reprimere l’Insorgenza nel Levante —; la sostanziale refrattarietà popolare all’ideologia rivoluzionaria francese e la violenta avversione al giansenismo — particolarmente accentuata nella zona di Sarzana —, dopo la breve esperienza delle riforme religiose ispirate a mons. Scipione de Ricci (1741-1809), vescovo di Pistoia e di Prato; infine, la breve durata del moto e lo stato di endemica agitazione nelle campagne, che si protrae fino agli anni del Regno napoleonico. Esemplare è il caso di Val Fontanabuona, nell’entroterra di Chiavari, che verrà definita dai francesi la Vandea ligure. Il saggio di Assereto è d’intonazione senz’altro diversa rispetto ai primi della raccolta, perché vi sembrano meno operanti pregiudiziali teoriche. La sua condivisibile conclusione è che l’insorgenza ligure sarebbe stata una reazione difensiva, scatenata dall’intera gamma di realtà raccolte comunemente sotto il nome di Antico Regime — che nella Repubblica di Genova era rimasto sostanzialmente immune da riforme “illuminate” —, di fronte a un tentativo di modernizzazione troppo rapido e dalle modalità disorientanti, come nel caso della missione dei preti “patriottici” giansenisti nelle valli.

Il quadro che Valentino Sani — dottorando in Storia della Società Europea nell’università statale di Milano — in Le rivolte antifrancesi nel Ferrarese (pp. 473-494) traccia degli accadimenti nel Ferrarese e nella Bassa Romagna ha il pregio di spingersi fino agli anni del Regno napoleonico e ai fatti del 1809. Mentre emerge chiaramente che, dal momento dell’invasione fino alla caduta della dominazione francese, la zona non conosce soste nell’agitazione popolare, di essa si possono individuare quattro fasi ad “alta temperatura”: le insorgenze dell’estate del 1796, la più nota e sanguinosa delle quali è quella di Lugo, che coinvolge anche Argenta e Cento; la sollevazione generale del 1799, al momento della temporanea espulsione dei francesi dall’Italia a opera delle truppe imperiali e russe, che vede la partecipazione di milizie d’insorgenti all’assedio di Ferrara e la conquista di Pontelagoscuro, importante emporio padano; le rivolte contro la coscrizione obbligatoria del 1802-1803 e del 1805, quest’ultima culminata nella sommossa del borgo padano di Crespino, che Napoleone Bonaparte (1769-1821) reprime in modo particolarmente pesante; e, infine, i moti nelle campagne conseguenti alla grande insorgenza tirolese del 1809, che interessano ampie aree della Valle Padana. La repressione in quest’ultima è assai sanguinosa, con 63 condanne a morte per “brigantaggio”. L’ampio apparato critico comprende anche riferimenti a non pochi documenti d’archivio. Per Sani, il Leitmotiv delle insorgenze ferraresi — peraltro “fenomeno [non] valutabile in maniera univoca e omogenea” (p. 476) — sarebbero le croniche rivalità fra i municipi e la rivendicazione di privilegi e di autonomie locali, aggravate da disagi e da conflitti sociali originati da problemi economici.

All’insorgenza toscana del Viva Maria!, del 1799-1800, è dedicata la ricerca condotta da Claudio Tosi Il marchese Albergotti colonnello delle bande aretine del 1799 (pp. 495-531). Dopo una breve ma utile rassegna della storiografia in argomento — senz’altro fra le meno esigue, confrontabile solo con quella relativa alla Santa Fede nel Regno di Napoli —, Tosi sostiene che non ci si debba concentrare oltre misura sugli aspetti economici e sociali dell’Insorgenza toscana, ma piuttosto, come le più recenti tendenze storiografiche sembrerebbero confermare, dare — o ridare — spazio all’analisi di tematiche meno “tangibili”, come la sfera della psicologia e delle credenze religiose, il sentimento d’identità collettiva, la mentalità e la sensibilità delle diverse e riccamente differenziate componenti della società d’Antico Regime, come pure vanno approfondite le cause politiche, nel duplice aspetto strategico-internazionale e tattico-locale. In particolare andrebbe intensificata l’indagine sul ceto dirigente di un’insorgenza che presenta caratteri — per la durata e l’estensione, nonché per la presenza di un’élite dirigente non improvvisata — nettamente diversi da quelli di altri movimenti. In questa prospettiva si situa la ricerca condotta da Tosi sulla figura del marchese Giovan Battista Albergotti (1761-1816), leader del moto aretino. Attraverso la ricostruzione della biografia del marchese e di alcuni membri della sua antichissima famiglia — quasi completamente schierata in quegli anni contro la Rivoluzione: solo un membro sceglie infatti la militanza giacobina —, come il fratello Agostino (1755-1825), divenuto poi vescovo della sua città, lo storico si propone d’inquadrare il comportamento della classe dirigente del Viva Maria!, nonché gli eventi di cui essa fu protagonista e le ragioni delle diverse scelte politiche e militari che dovette fare, rilevandone aspetti sicuramente sconosciuti, che arricchiscono e illuminano l’intera vicenda dell’Insorgenza. Emergono così, fra l’altro, l’accortezza politica e l’abilità militare del nobile toscano, nonché le doti umane e cristiane che conducono il governo provvisorio aretino, e poi toscano, da lui presieduto a instaurare rapporti da tempo sconosciuti fra potere e popolo, fra autorità sociali e ceti umili. Lo studio è munito di un nutrito apparato di note, che fanno riferimento a una varietà di fonti, fra cui l’archivio della famiglia Albergotti.

Le premesse, le origini e le vicende delle insorgenze a Roma e nello Stato Pontificio negli anni 1798-1799 costituiscono l’oggetto del saggio di Massimo Cattaneo — dottore di ricerca presso l’università di Napoli Federico II — L’opposizione popolare al “giacobinismo” a Roma e nello Stato pontificio (pp. 533-568). In un rapido schizzo viene descritta in esordio la “battaglia delle idee” combattuta dagli ambienti pontifici ed ecclesiastici romani contro la Rivoluzione francese, anche se di questa propaganda si esagera alquanto la finalità, definita “terroristica”, e sopravvalutata forse la portata, soprattutto se si pensa alla massiccia e pluridecennale operazione di propaganda messa in campo dall’avversario. L’efficacia della “profilassi” poliziesca, attuata dal governo di Papa Pio VI (1775-1799), contro le infiltrazioni giacobine fomentate dagli agenti diplomatici francesi in vista di un rivolgimento autoctono e in preparazione a una possibile invasione francese, si vede però nel fatto che i nuclei giacobini a Roma ammettono[…] nel 1797 di poter contare in città su non più di settecento simpatizzanti, di cui solo sessantotto pronti a rischiare personalmente in un eventuale tentativo rivoluzionario” (p. 538). Particolarmente interessante è la descrizione — anche attraverso la poesia popolare, utilizzata per veicolare princìpi contro-rivoluzionari — della mentalità e dei costumi religiosi della popolazione del rione Trastevere, che sarà l’epicentro del moto del 25 febbraio 1798. Lo svolgimento di questo viene ripercorso tanto nella dinamica dei fatti quanto nelle cause immediate, quanto, infine, nelle modalità di soffocamento e di punizione adottate dai francesi e sfociate in decine di fucilazioni, non tutte comminate da tribunali e per di più eseguite con modalità nuove, cioè senza cornice religiosa, che contribuiscono a sconcertare e a irritare ulteriormente il popolo romano. Il saggio contiene una rassegna della storiografia sull’Insorgenza nei territori pontifici, che ha inizio nel Montefeltro e nelle Marche addirittura al principio del 1797, al momento del primo impatto bellico fra la Repubblica Francese e lo Stato della Chiesa, e massimo sviluppo nel 1799, anno in cui l’Insorgenza nel Basso Lazio si collega, anche se non organicamente, al Viva Maria!, a quella nell’Umbria e al sanfedismo napoletano.

Marina Caffiero — professore associato di Storia Moderna nell’università di Roma La Sapienza — in Perdòno per i giacobini, severità per gli insorgenti: la prima Restaurazione pontificia (pp. 569-602) riporta alla luce aspetti poco noti del periodo rivoluzionario e napoleonico nei domini pontifici. Lo studio — documentato anche con reperti d’archivio — tratta infatti della politica attuata dal governo romano, dopo la restaurazione pontificia del 1800, nei confronti dei partecipanti alla vicenda della Repubblica Romana del 1798-1799 e dell’atteggiamento tenuto dal medesimo verso i conati d’insorgenza che caratterizzano gli Stati del Papa fra l’inizio del secolo e il momento della nuova conquista francese, fra il 1807 e il 1808. Nel primo caso, si palesa un atteggiamento di clemenza che, nonostante gli ammonimenti dei contro-rivoluzionari non occasionali, sfocia in una serie di misure che si spingono fino a reintegrare non solo nei diritti civili ma anche negli uffici o, addirittura, a promuovere a incarichi di responsabilità i protagonisti e i leader giacobini degli anni della repubblica e della guerra civile del 1798-1799. Misure tanto impegnative e indiscriminate che vengono lette come espressione di una condizione di debolezza, peraltro reale a causa della situazione internazionale, caratterizzata dalla forte pressione francese sullo Stato della Chiesa dopo il riaprirsi del conflitto con il confinante Regno borbonico. Nella prospettiva di ristabilire la pace sociale e di stornare da Roma una seconda invasione — poi comunque subita — il vertice romano preferisce mostrarsi acquiescente e collaborativo oltre misura con i francesi e allearsi con gli ex giacobini contro quanti mettevano a repentaglio la sopravvivenza dello status quo, ovvero, da un lato — in accordo con la politica di Parigi —, reprimendo gli elementi più enragés o anarchistes fra i rivoluzionari italiani, dall’altro lato combattendo gl’insorgenti dei vari dipartimenti e le formazioni del ribellismo endemico — il cosiddetto “brigantaggio” —, venutesi a costituire nello scenario di disordine e d’instabilità sociale degli anni napoleonici. Dopo un prodromo in provincia di Frosinone nel 1801, le insorgenze popolari riprendono e si moltiplicano nel 1806 in sintonia e in prossimità della seconda insorgenza generale del Regno di Napoli, riesplosa in grande stile dopo l’occupazione napoleonica. Il governo pontificio giunge a istituire una congregazione speciale con compiti di controllo e di repressione dei movimenti popolari: di essa fanno parte sia elementi antigiacobini sia, significativamente, i maggiori e più noti esponenti del giacobinismo laziale, che si trovano così a giudicare talvolta persone già schierate sul fronte loro opposto nei moti di otto anni prima. L’esame degli atti di questa commissione getta luce su aspetti poco noti della vicenda, sui moventi e sull’appartenenza sociale degl’insorgenti. Tutti questi dati rafforzerebbero la tesi della studiosa secondo cui l’insorgenza laziale, più che esser letta come conflitto a sfondo religioso o puramente economico, andrebbe collocata nel quadro di cronico scontro municipalistico e campanilistico, clientelare e parentale, che caratterizza l’Italia e gli Stati pontifici e che si riacutizza a causa dei problemi indotti dall’occupazione francese.

La panoramica dell’Insorgenza italiana termina con Rivolte popolari e controrivoluzione nel Mezzogiorno continentale (pp. 603-622), una sintesi della reazione popolare nel Regno borbonico tracciata da John A. Davis, del Dipartimento di Storia dell’università del Connecticut. Già noto per altri studi sul medesimo soggetto e buon conoscitore delle fonti storiografiche italiane, anch’egli propende per un’interpretazione dell’Insorgenza meridionale che vada oltre le pure ragioni di ordine economico, spostando il fuoco della ricerca sul mutamento indotto, sovente a forza, nella società di Antico Regime e tenendo conto della grave crisi della monarchia napoletana, che sarebbe all’origine anche dell’opzione di alcuni maggiorenti per la Rivoluzione, allo scopo di garantire comunque l’ordine civile. Attenzione particolare andrebbe riservata alle vicende micro-sociali, perché sarebbero i municipi — con le loro storie e con i retaggi infiniti di rivalità e di conflitti, che trovano nuovo alimento nella situazione di “rottura” di un equilibrio negli anni napoleonici — a sostanziare, più delle macro-strutture istituzionali, l’Insorgenza meridionale. Davis ritrova questa serie di problemi nelle scelte operate dal leader della Santa Fede, il cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), analizzandone accuratamente la condotta durante e dopo l’insorgenza.

3. Qualche considerazione

Il fascicolo di Studi Storici fornisce contributi sostanziosi e sufficientemente obiettivi, e sembra rappresentare un promettente inizio di riflessione sul fenomeno dell’Insorgenza italiana, ma evidenzia anche un atteggiamento di fondo che si presta a non pochi rilievi.

La principale osservazione è che un po’ tutti i contributi tendano a persuadere il lettore dell’esistenza di una ricerca — e di non trascurabile spessore — sull’Insorgenza stessa, che viene data addirittura per scontata; anzi, si lascia intendere che, al suo interno, vi sarebbero articolazioni, correnti e scuole diverse, su cui peraltro s’innesterebbe al presente un tanto vigoroso quanto esecrato “revisionismo” — i cui contributi sarebbero per lo più scadenti sotto il profilo scientifico —, promosso strumentalmente da ambienti ideologizzati in senso nostalgico-reazionario e mirante a inquinare il ricupero d’identità in corso nel mondo culturale e politico italiano.

Già nel 1995 Giuseppe Galasso, uno dei maggiori storici italiani contemporanei, ha sostenuto sulle colonne della rubrica culturale del più autorevole quotidiano nazionale (4) esser “sciocchezze” le pretese di quanti lamentano che le insorgenze siano state sottoposte all’“oblio e al disconoscimento [da parte di] una gretta storiografia nazionale, liberale, democratica” (5). Al contrario — sosteneva il professore napoletano — […] i movimenti controrivoluzionari sono stati in Italia largamente studiati in opere e saggi dovuti spesso ad autori anche illustri” (6); e poi, […] nessuno ha mai disconosciuto l’”eroismo” di quelle Vandee italiane” (7). Vien da dire: altro che “sferzante giudizio” sul “revisionismo”, quale lo reputa, citandolo, Cattaneo (p. 568, nota 94)! Si tratta invece di affermazioni che, nella più benevola delle ipotesi, suonano superficiali, quando non mistificanti. Le cose stanno in realtà assai diversamente e non riesco a persuadermi che lo ignori il curatore di una delle più prestigiose collane di storia d’Italia.

L’Insorgenza non è stata per nulla “largamente” studiata. Mancano di essa tuttora quattro dimensioni essenziali. In primo luogo la ricerca e l’analisi delle fonti primarie — anzitutto documenti degli archivi civili e religiosi —, capillarmente estesa al territorio italiano, come richiede lo studio di una realtà così disaggregata e legata a fattori locali. Poi è del tutto assente un’elaborazione a livello generale delle fonti e, dunque, una storiografia di respiro nazionale sul tema. Quindi non si può nemmeno parlare di una tradizione o di una scuola storiografica, neanche di esiguo spessore, sulla quale potersi innestare. Infine — per tacere dell’informazione culturale, ossia dei mezzi di comunicazione sociale — manca il necessario “travaso” delle acquisizioni storiografiche sul piano della formazione culturale del cittadino medio, ovvero nei programmi scolastici. Non è solo in questione la mancanza di “un aggiornato quadro d’insieme”, come rileva la Rao nel saggio d’apertura (p. 326) — che non è solo colpa “della frammentazione e dispersione delle fonti documentarie degli Stati preunitari” (p. 325) —: è in questione la conoscenza tout court del fenomeno, che dipende in buona sostanza dalla non volontà di dar rilievo, nei fatti e nelle interpretazioni, a questa pagina non secondaria della biografia della nazione italiana. Forse solo per il Mezzogiorno — e concordo qui in parte con la studiosa lucana — si può parlare di una storiografia di una qualche portata: ma l’Insorgenza nell’Italia Meridionale ha avuto tratti talmente macroscopici da rendere impossibile ignorarne o affievolirne la memoria. Anche in questo caso la ricerca scientifica si è mostrata finora carente e stereotipata, almeno nelle interpretazioni, benché forse si profilino segnali di cambiamento: la prospettiva accennata nel saggio di Davis — il legame fra Insorgenza e crisi generale della monarchia borbonica — costituisce per esempio una pista di ricerca innovativa e promettente.

E prova di tale condizione è proprio il fatto che gli studiosi della rassegna, invece di limitarsi a “glossare” criticamente studi già esistenti, hanno dovuto “scavare” in archivi assai poco “battuti” e in neglette storie locali, per lo più datate, per raccogliere le informazioni offerte al lettore. Si potrebbe chiedere: dove sono gli autori, l’equivalente dei Saitta, dei Vaccarino, degli Zaghi? dove sono i testi? dove sono gli schemi esplicativi da rimettere in discussione? dov’è la “scolastica” accademica in questo àmbito? Posso personalmente testimoniare che nel 1973, quando iniziai a elaborare la mia tesi di laurea sul tema delle insorgenze nella Lombardia del 1796, al primo accostamento alla materia non riuscii a mettere insieme più di due opere di sintesi, quella di Lumbroso — del 1932, che è parziale e copre il solo Triennio Giacobino (8) — e il volume di Jacques Godechot (1907-1994) La Contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), del 1962 — che si ferma al 1804 e che è stato tradotto in italiano solo nel 1988 (9).

Quanto non si vuole ammettere è che siamo in realtà di fronte a una oggettiva rimozione, di origine non recente e tenacemente reiterata — e rafforzata dalla gramsciana conquista dell’egemonia culturale —, di un evento che non è un banale accadimento sporadico, ma, come riconosce ancora — ma perché solo adesso? — la Rao, autrice di molteplici studi sul periodo rivoluzionario in Italia, un fenomeno che […] ebbe un ruolo centrale nella vita politica italiana alla svolta fra Sette e Ottocento, non solo, ma anche negli orientamenti dei repubblicani del triennio 1796-1799 e nella politica napoleonica, e ancor più nell’immaginario e nella riflessione storiografica dell’Ottocento. Basti ricordare il peso che avrebbe esercitato nel pensiero e nell’azione degli uomini del Risorgimento, da Mazzini a Pisacane, nel dibattito sulle vie da seguire per realizzare l’indipendenza e l’unificazione politica italiane” (p. 327) (10). Una realtà, fra l’altro, costata agli italiani, secondo una stima per difetto, in quanto limitata all’inizio del 1799 — che la studiosa del Mezzogiorno suppongo conosca, in quanto fornita da uno dei protagonisti delle vicende della Repubblica Napoletana, il generale francese Paul-Charles Thiébault — almeno sessantamila vittime (11), un dato ancora più impressionante se lo si confronta percentualmente con la popolazione dell’epoca (12) e se si pone mente che non è dovuto a qualche malaugurato evento naturale — un terremoto o un’inondazione —, ma è il prodotto di una volontà umana.

Di fronte a questa obiettiva carenza storica non mi sembra lecito, oltre tutto, squalificare i tentativi — magari anche ideologicamente orientati — di chi, con i mezzi di cui ha potuto avvalersi, non certo comparabili con quelli di cui dispone la storiografia istituzionale, ha cercato di ricostruire la fisionomia di un momento della storia italiana che, come confermano i lavori ospitati da Studi Storici, rivela sempre più nitidamente la sua portata nei fatti e nelle conseguenze.

Non si sa davvero che cosa pensare davanti a un simile “peccato” di omissione riguardo a un fenomeno sul quale non può, come minimo, non “inciampare” qualunque percorso di ricerca serio, né si vede dove possa condurre questo modo di fare storia. Che “magistero” può esercitare? Che futuro può aiutare a costruire? Quale contributo può fornire un atteggiamento scientifico non solo viziato dall’ideologia, ma tendenzialmente ostruzionistico, in un frangente nel quale l’Italia ha bisogno di ogni sforzo volto a farle ricuperare integralmente la propria memoria storica, civile e religiosa per poter così meglio ridefinire la propria identità e per formulare nuove regole con cui perseguire il “bene comune”?

Ma vi sono altri rilievi di merito, che riguardano i giudizi espressi sull’interpretazione generale dell’Insorgenza e sui contributi finora forniti dagli ambienti cosiddetti del “cattolicesimo reazionario e intransigente” (p. 326). La prospettiva delineata da Cattaneo — ovvero il “progetto di incidere nel processo di formazione di un nuovo paradigma repubblicano elaborando una nuova memoria storica nazionale, anche a partire dal recupero di ogni forma di “sanfedismo”, in quanto testimonianza di una rimpianta unità tra valori religiosi e valori pubblici, di una società organicamente “ordinata”, tradizionalista e impermeabile alle detestate ideologie liberali e di sinistra” (p. 568), che trova accoglienza da parte di testate di forze politiche conservatrici, nella fattispecie il Secolo d’Italia, e i cui prodotti confluiscono in “dizionari del pensiero forte” — sembra correttamente ricostruita e, anche se evocata in chiave tendenzialmente polemica, non si vede che cosa vi sia d’illegittimo nel “tentare di incidere” “da destra” nell’elaborazione culturale che prelude alla formulazione di un nuovo assetto repubblicano. Né che cosa vi sia d’ignobile nel rifarsi ai valori evocati, non espungendo dal curriculum del nostro Paese neppure il “sanfedismo” — forse emblema dell’omissione e della contraffazione perpetrate nei confronti dell’Insorgenza —, che certamente va valutato criticamente — e severamente, anche nei suoi aspetti meno “rosei” —, ma riguardo al quale va rifiutata la vera e propria “leggenda nera” — mostrante ogni giorno di più la corda — che è gli è stata costruita addosso nel tempo, sì che l’aggettivo “sanfedista” viene utilizzato ancor oggi più come “clava” ideologica che per designare una posizione ideale.

Riguardo invece al “revisionismo” che affliggerebbe la storiografia sviluppata nella prospettiva predetta — tendente a “sollecitare una totale riscrittura della storia italiana ed europea dal XVIII al XX secolo “dal punto di vista degli sconfitti”” (p. 367) e che viene evocata a più riprese nei vari saggi, ancora in veste di giudizio di merito e con intenti non del tutto benevoli —, occorre subito premettere che anche in questo caso una definizione comunemente accettata di questo termine non esiste. Proprio nel 1998 Ernst Nolte, il “padre” del revisionismo contemporaneo, ne ha fornito una definizione a mio avviso “aurea”, scrivendo: […] considero tratti distintivi di ogni revisionismo serio e perlomeno orientato in una direzione scientifica la critica documentata all’unilateralità e alle lacune della veduta “ufficiale” e la volontà di attenersi ad una maggiore obiettività” (13).

Se tale è il “revisionismo”, muoversi in tal senso sarebbe non solo lecito, ma doveroso. Anzi esso dovrebbe assumere quell’atteggiamento “militante”, che viene lamentato ancora da Cattaneo nei confronti dello storico cattolico maceratese Sandro Petrucci (14) — pur da lui apprezzato dal punto di vista “tecnico” —, perché renderebbe “opaco sul piano interpretativo” (p. 561, nota 82) il lavoro di ricerca. Ma non si può non domandarsi a che cosa si dovrebbe applicare nella fattispecie dell’Insorgenza la “revisione” denunciata, ovvero quali paradigmi scientifici unilateralmente invalsi si dovrebbero sottoporre a “revisione”, dato che essi non vi sono. Non che manchino “vedute ufficiali” — che affiorano per esempio quando si rompe il silenzio —, ma esse sono costituite per la gran parte da giudizi non approfonditi, derivati da orientamenti ideologici pregiudizialmente contrari, senza riscontri fattuali, resi superflui dalla maramaldesca consapevolezza che chi ne è oggetto è uno “sconfitto”, sia storico che nella “battaglia delle idee”.

Non sembra, ancora, accettabile ricondurre, come fa lo stesso studioso con un’intentio palesemente squalificante, il “revisionismo” sull’Insorgenza alle prospettive “cattolico-integralista, neo e postfascista, monarchico legittimista” (p. 567), senza fornire definizione di tali realtà. Il cosiddetto revisionismo nasce invece da un atteggiamento di domanda di verità e di obiettività e come spontanea e costruttiva reazione alla percezione di una monumentale ingiustizia inferta a uomini, nostri antenati, le cui scelte vanno giudicate e anche — se necessario — condannate, ma la cui memoria ci appartiene e che dobbiamo riscoprire e recepire con atteggiamento di profonda e amorosa pietas.

Venendo infine alla tesi secondo cui gli storici “revisionisti”, ergo “di destra”, “revisionano” tutto, ma salvano sempre e solo l’opera dello storico nazionalista e fascista Lumbroso (15), viene spontaneo domandarsi a che cosa si poteva riallacciare fattualmente chi volesse conoscere, anche solo ieri, qualcosa della reazione delle popolazioni contro la Rivoluzione francese in Italia, dato che null’altro di fatto esisteva a un primo accostamento, se non l’opera dello storico fiorentino. Ho già avuto modo di mettere in luce questo aspetto nell’introduzione alla riedizione del suo “vecchio e ben noto — ma a quanti? — studio” (p. 325) apparsa nel 1997. In tale sede mi sono altresì sforzato di non operare il minimo “ricupero” né delle prospettive storiografiche — che giudico oggettivamente insufficienti e forzate sotto il profilo ermeneutico, anche se vanno lette nel clima culturale italiano fra le due guerre mondiali — né tanto meno delle prospettive dottrinali di Lumbroso, ma di effettuare solo un’operazione di ricupero documentale. Vedo però purtroppo che il punto è stato frainteso, se Preto sostiene che la mia nota biografica e la mia prefazione al volume […] ribadiscono la prospettiva storico-politica nazionalista (risalente a Niccolò Rodolico [1873-1969])” (p. 350).

Tentando un giudizio d’insieme sui contenuti del fascicolo monografico di Studi Storici, si può osservare che, dal punto di vista delle interpretazioni i diversi studiosi sembrano essere accomunati, oltre che dal rigetto delle forzature nazionalistiche dei primi decenni del secolo, dall’esigenza di guardare al fenomeno con una visuale sempre più ampia e spregiudicata, abbandonando interpretazioni più o meno rigidamente monocausali a sfondo “infrastrutturale” — di cui potrebbe essere modello, nel caso della storia contemporanea, il gramsciano Giorgio Candeloro (1909-1988) — e muovendosi verso una visione maggiormente interdisciplinare, esigita peraltro da una realtà così complessa e disomogenea qual è l’Insorgenza. Se questo cambiamento sia un semplice tentativo di “noyer le poisson” — “annegare il pesce”, ovvero di diluire al massimo una realtà, facendole perdere sostanza —, come sembra stia accadendo riguardo ad altre tematiche (16); sia cioè frutto del prevalere di una visione “debole”, tendenzialmente portata a frammentare e a relativizzare l’interpretazione generale dell’Insorgenza, oppure segno di un progresso salutare, al momento non è possibile affermarlo. Certo, l’assenza di una sintesi di qualche spessore fra i saggi della raccolta, come pure il fatto che l’orizzonte spaziale e temporale evidenziato dagli studiosi sia sempre piuttosto ristretto, sembrerebbero far propendere per la prima ipotesi. Su tale atteggiamento maggiormente “aperto” la convergenza di studiosi di altra origine e collocazione anche militante può già fin da ora essere più ampia, soprattutto da parte di quegli studiosi che, partendo da diverse ipotesi di lavoro e rifacendosi a certa storiografia francese degli ultimi anni — per esempio a Jean Dumont, a Reynald Secher e a Jean Meyer (17) —, ritengono che l’Insorgenza vada letta all’interno della logica del processo di genesi e d’affermazione della modernità in Occidente. Uno schema esplicativo tendenzialmente portato a leggere l’Insorgenza come categoria, piuttosto che come puro fenomeno, e fondamentalmente “forte” — di qui il suo legame con il “pensiero forte” —, apparentemente monocausale, ma in realtà ampiamente sfaccettata. Una visione sufficientemente flessibile per accogliere contributi diversi e più idonea a cogliere la verità di un fenomeno storico multiforme, che, servata distantia, presenta analogie con una realtà di un’altra epoca, il comune medievale, il quale si origina spesso per ragioni le più diverse, non in maniera sincrona nello spazio, ma si afferma più o meno nella stessa epoca in tutto il continente europeo.

Nella massa dei dati proposti è possibile cogliere anche spunti e stimoli meritevoli di ulteriori approfondimenti. Per esempio, la ricerca di Tosi sul Viva Maria! fa scoprire che, anche fra i contro-rivoluzionari, non erano assenti prospettive di mutamento dello status quo e di ricongiunzione alle forme socio-politiche precedenti le riforme illuministiche dei prìncipi settecenteschi. Ancora, lo stesso studio, forse nell’ottica di superare la visione delle “masse” contadine come soggetto indistinto e monolitico, contiene un primo tentativo di biografia di un leader contro-rivoluzionario — quella del marchese Albergotti —, che può costituire un valido esempio per analoghe ricerche.

La rassegna edita dall’Istituto Gramsci presenta anche contenuti, espliciti o impliciti, meno felici.

In primo luogo si rileva in pressoché tutti gli studi una pregiudiziale aprioristicamente negativa verso la componente religiosa nella genesi e nello svolgimento dei vari episodi d’insorgenza, che si traduce nella sua pratica espunzione oppure nella sua “riduzione” o nel suo appiattimento sociologico. Se è vero che il fattore religioso non è stato sempre l’unico movente delle reazioni popolari, è altresì indubbio che esso è sempre e ovunque presente e trascurarlo, oppure posporlo a realtà apparentemente “più profonde”, significa non tener conto dell’assoluta primarietà delle credenze e dei riti nella cultura ancora omogeneamente cristiana delle popolazioni della Penisola alla fine del Settecento, elaborando così interpretazioni quanto meno inadeguate.

Dalla lettura dei diversi saggi, ma soprattutto di quello introduttivo, non emerge poi un aspetto importante dell’Insorgenza italiana, ovvero la sua appartenenza a un quadro europeo. Nel periodo napoleonico la resistenza popolare contro i francesi in difesa delle tradizioni religiose e civili si manifesta in tutte le nazioni cattoliche, all’improvviso esposte a un processo di modernizzazione e di secolarizzazione ad alta intensità, non “preparato”, come altrove, dalla Riforma. Dal Belgio alla Spagna, alla Svizzera, fino all’isola di Malta, ovunque la Rivoluzione francese avanza dietro le armi napoleoniche, le popolazioni, i ceti umili, si sollevano, rialzano i simboli religiosi e le insegne delle “piccole patrie”, dando vita a sollevazioni, come quella spagnola, di vasta portata. Non dare sufficiente rilievo a questa dimensione transnazionale, trascurando gli studi — unici a tracciarne il profilo, anche se in maniera incompleta — di Godechot, significa menomare la possibilità di comprendere adeguatamente l’Insorgenza italiana, rischiando di ridurla a una ripresa di “beghe” fra municipi in perenne e atavico conflitto. A questo riguardo, mentre va osservato che le lotte campanilistiche trovano nuovo vigore — come ha messo in rilievo Petrucci (18) — proprio in conseguenza dello sconvolgimento di equilibri plurisecolari a opera della “totale organizzazione” (19) della società del tempo attuata dalle repubbliche giacobine — nella fattispecie dalla Repubblica Romana —, non si può non ricordare come, almeno per l’Insorgenza nell’Italia Centrale del 1798-1799, non ci si trovi affatto di fronte a episodi — anche numerosi, ma del tutto particolaristici e scoordinati fra loro — di difesa della “piccola patria”, ma si manifesti invece una embrionale unità d’intenti e di lotta fra gl’insorgenti.

Tralascio ogni considerazione sulla liceità — che non viene mai posta in dubbio nella raccolta — da parte della Repubblica Francese di aggredire, di spogliare e di “democratizzare”, violando diritti costituiti plurisecolari, Stati neutrali e pacifici, come pure dell’esproprio di risorse finanziarie e di tesori artistici, cui i francesi sottopongono nel Triennio i popoli italiani. Osservo invece che, mentre nel panorama delineato affiora in più punti la denuncia della “bestiale ferocia” degl’insorgenti — che non è assolutamente né ordinaria, né generalizzata: se ad Arezzo nel 1799 vengono uccisi e bruciati tredici ebrei, nell’insurrezione di Pavia del 1796 i cinquemila contadini insorti non provocano una sola vittima, né fra i giacobini, né fra i francesi —, non emerge sufficientemente, o forse non emerge affatto, quanto brutale siano state la repressione e le rappresaglie perpetrate dai francesi — ma anche dalle milizie cisalpine e “italiche”, evocando immagini di diversi e più recenti collaborazionismi — contro una popolazione il più delle volte inerme. Le loro vittime sono forse da considerare ovvi e dovuti “contributi” al “riscatto” delle popolazioni italiane? Che cosa pensare dell’assordante silenzio sulle sofferenze dei tanti minores — perché privi della cultura riflessa e dei mezzi per far conoscere le proprie ragioni — e il rilievo tributato ad avvenimenti oggettivamente insignificanti, ma di diverso segno “politico”? Si tace delle migliaia di morti dell’Insorgenza a Milano, a Pavia, a Verona, a Lugo di Romagna, a Firenze, a Roma, a Napoli, in Abruzzo, nelle Calabrie e si assorda invece il cittadino con quelle, pur reali, ma incomparabilmente più lievi, per far un esempio, dei “quattro” “martiri dello Spielberg”. Eppure la fase finale dell’Insorgenza precede solo di pochi anni quest’ultima vicenda.

In conclusione, se il numero monografico di Studi Storici rappresenta, com’è lecito credere, una “galleria” delle ultime tendenze della ricerca — almeno di una certa “scuola”, ma non poco significativa — in merito alle insorgenze popolari nel periodo napoleonico, se ne trae l’impressione e l’auspicio che la storiografia sul tema esca finalmente dalla minorità e si avvii verso una maggiore consapevolezza. Soprattutto pare che l’Insorgenza abbia trovato spiragli d’interesse in una parte del mondo accademico. È questa, se non l’unica, almeno la via decisiva per giungere a una conoscenza adeguata del fenomeno. L’importante è che questo interesse non venga inquinato e fuorviato dalle sopravvivenze ideologiche — magari travestite da pensiero “debole” —, e che iniziative private o non istituzionali, invece di essere declassate o combattute, trovino incremento e sostegno da parte di chi è istituzionalmente preposto a “fare storia” e a promuovere la cultura. La prossimità della ricorrenza del secondo centenario della fase clou dell’Insorgenza italiana e della sua, anche se temporanea, vittoria, il 1799 — in vista della quale va senz’altro collocata l’iniziativa realizzata da Studi Storici —, può essere un’opportunità da non perdere.

Oscar Sanguinetti

***

(1) Cfr. Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, numero monografico di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 39, n. 2, aprile-giugno 1998, pp. 325-622, Dedalo, Bari 1998. Tutti i riferimenti senza rimando sono tratti da questo volume e la paginazione è indicata fra parentesi.

(2) La rassegna contiene alcune affermazioni inesatte sullo storico Giacomo Lumbroso (1897-1944), che viene detto attivo “agli inizi di questo secolo” (p. 376), il che pare difficile, essendo egli nato nel 1897, e definito […] un intelligente conservatore di matrice positivista che ci ha lasciato alcune ricerche assai ben documentate sulle insorgenze antinapoleoniche nella pianura padana” (ibidem). A riguardo, mentre è condivisibile il giudizio relativo all’“intelligente conservatore”, non è evidente da dove si possa dedurre una matrice positivista in Lumbroso; né sono note ricerche “assai ben documentate” dello stesso sulla pianura padana, avendo egli trattato tale argomento nel quadro della sua — peraltro unica — opera di sintesi I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800) (2a ed. rivista, a cura di Oscar Sanguinetti, Minchella, Milano 1997; 1a ed., Le Monnier, Firenze 1932; cfr. la recensione di Paolo Martinucci, in Cristianità, anno XXVI, n. 277, maggio 1998, pp. 24-26), dedicata alle insurrezioni dell’intera Penisola, nella quale dà invece più spazio, come doveroso, all’Insorgenza nell’Italia Centrale e nel Regno di Napoli.

(3) Cfr. Giuseppe Ricuperati, Il Settecento, in Pierpaolo Merlin, Claudio Rosso, Geoffrey Symcox e Giuseppe Ricuperati, Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, in Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, UTET, Torino 1994, vol. VIII*, pp. 441-834.

(4) Cfr. G. Galasso, Un’eroica Vandea non si nega a nessuno, in Corriere della Sera, 13-9-1995; cfr. anche ISIN. Istituto per la Storia delle Insorgenze, Perché l’attenzione all’Insorgenza, comunicato del 2-12-1996, in Cristianità, anno XXIV, n. 260, dicembre 1996, p. 6.

(5) G. Galasso, art. cit.

(6) Ibidem.

(7) Ibidem.

(8) Cfr. G. Lumbroso, op. cit.; tale tesi è all’origine del mio Le insorgenze contro-rivoluzionarie in Lombardia nel primo anno della dominazione napoleonica. 1796, con una prefazione di Marco Tangheroni, Cristianità, Piacenza 1996; cfr. recensione di Marco Invernizzi, in Cristianità, anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 26 e 30.

(9) Jacques Godechot, La contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), PUF, Parigi 1961, trad. it. sulla 2a ed. francese, La controrivoluzione. Dottrina e azione (1789-1804), Mursia, Milano 1988.

(10) Viene irresistibile chiedere: ma in quale liceo o aula accademica s’insegna, non solo che Giuseppe Mazzini (1805-1872) si sia posto il problema delle insorgenze del periodo napoleonico nel quadro della sua elaborazione teorica, ma che esse siano esistite tout court? La stessa Rao, in un precedente studio — Mezzogiorno e rivoluzione: trent’anni di storiografia, in Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 37, n. 4, ottobre-dicembre 1996, pp. 981-1041 —, ha avuto modo di farsi portavoce della tesi di Galasso nel contesto della valutazione — peraltro incidentale — di un breve profilo delle Insorgenze contro-rivoluzionarie da me tracciato e comparso nel volume collettaneo Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 1994, pp. 373-407). E la valutazione risulta del seguente tenore: mentre le mie poche righe vengono rubricate sotto la voce […] impudenti ricorrenti recriminazioni dei reazionari di turno prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione su un’insorgenza negletta e incompresa” (ibid., p. 1010), a carico di chi scrive viene detto che […] solo l’incoscienza può spingere a spaziare in poco più di trenta pagine dalla Vandea del 1793 al Messico del 1926, e solo l’ignoranza può sorreggere nell’affermazione che il fenomeno delle insorgenze popolari controrivoluzionarie sia stato fino a non molti anni fa […] poco esplorato in ambiente di ricerca” (ibid., nota 108). A riguardo mi limito solo a rilevare il tono alquanto scomposto della reazione della docente mentre, sotto il profilo sostanziale, mi permetto di osservare che esistono sintesi di poche pagine riguardo a periodi e a fenomeni storici ben più ampi. Come ben sa, il “taglio” del contributo dipende dal contesto in cui deve situarsi e non sempre l’autore può sceglierlo; anzi, ritengo che le sintesi, per di più del respiro di un articolo di rivista, siano fra le modalità espressive più difficili. O forse il mio contributo, così esiguo, ha acutizzato, traducendolo in un improvviso e violento accesso, l’idiosincrasia per le interpretazioni “unitarie” dell’Insorgenza da cui la professoressa Rao sembra essere affetta? Mi sfugge invece totalmente come la studiosa abbia potuto riscontrare che le tesi dei “reazionari” vengano prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione: a me pare, al contrario, che le poche volte in cui viene rotto il silenzio da parte dei mass media sui “reazionari” — e si veda proprio la sortita di Galasso sopra ricordata e peraltro reiterata in successiva occasione — è quando occorre parlarne per “batterne in breccia”, facendo sparare magari “cannoni” di grosso calibro, le argomentazioni e le azioni. Last but not least, non rilevo fra quelli addotti dalla studiosa alcun elemento che imponga di rivedere la mia asserzione, e devo quindi ribadirla, soprattutto alla luce dei primi risultati di ricerche che l’ISIN, l’Istituto per la Storia dele Insorgenze, ha promosso relativamente all’Italia Settentrionale. Anzi, il dotto e nutritissimo studio bibliografico della Rao sulla Rivoluzione nel Mezzogiorno d’Italia rafforza ulteriormente la mia convinzione, quando confronto l’esiguità dei riferimenti a opere dedicate alla maggiore delle insorgenze della Penisola, quella del Regno di Napoli — mentre si afferma contraddittoriamente che occorre […] comprendere […] come mai tanto ampie e diffuse furono le resistenze e le reazioni popolari contro i francesi e i loro sostenitori “giacobini”” (ibid., p. 997) —, con la dovizia dei titoli relativi alla Rivoluzione.

(11) Cfr. Generale Paul-Charles Thiébault, Mémoires du Général Baron Thiébault publiées sous les auspices de sa fille M.lle Claire Thiébault d’après le manuscript original par Fernand Calmettes, Parigi 1893-1895, vol. II, p. 325.

(12) Cfr. Athos Bellettini (1921-1983), La popolazione italiana. Un profilo storico, a cura di Franco Tassinari, con un’introduzione di Marino Berengo, Einaudi, Torino 1987, che valuta la popolazione a circa 15,5 milioni nel 1750 e a circa 18 milioni nel 1800 (cfr. tabella I, p. 14).

(13) Ernst Nolte, Verità e leggenda del revisionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, anno II, n. 5, settembre-ottobre 1998, Luni, Milano 1998, p. 11.

(14) Il riferimento è a Sandro Petrucci, Insorgenti marchigiani. Il Trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797, con una prefazione di M. Tangheroni, SICO, Macerata 1996; cfr. la recensione di Francesco Pappalardo, in Cristianità, anno XXIV, n. 259, novembre 1996, pp. 25-26.

(15) Cfr. alcune notizie sulla vita e l’opera di Lumbroso in O. Sanguinetti, saggio introduttivo a G. Lumbroso, op. cit.

(16) Cfr., a riguardo, Alberto Indelicato — cui per inciso debbo l’efficace espressione “noyer le poisson” —, Revisionismo e giustificazionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, cit., pp. 143-150.

(17) Cfr. Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese, con una prefazione di Giovanni Cantoni, trad. it., Effedieffe, Milano 1989; Reynald Secher, Il genocidio vandeano, con una prefazione di Jean Meyer e una presentazione di Pierre Chaunu, Effedieffe, Milano 1989; e Jean Meyer, La Cristiada, 4a ed. riveduta, 3 voll., Siglo Ventuno, Mexico-Madrid-Buenos Aires 1976.

(18) Cfr. S. Petrucci, L’insorgenza nell’Italia Centrale negli anni 1797-1798, in Nota informativa (dell’Istituto per la Storia delle Insorgenze di Milano), anno II, n. 8, gennaio-aprile 1998, pp. 7-24.

(19 ) Ibid., p. 13: l’espressione è tratta da un documento “romano” dell’epoca.

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1. Premessa

Il numero di aprile-giugno del 1998 di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, di Roma, è interamente dedicato a Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica (1).

Il fascicolo, che si apre con il saggio Introduzione. La questione delle insorgenze italiane (pp. 325-348) di Anna Maria Rao — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Napoli Federico II, membro del comitato di direzione della rivista e coordinatrice dell’iniziativa —, presenta un insieme di monografie di studiosi di varia estrazione — anche se di comune orientamento —, dedicate a episodi e a momenti particolarmente significativi delle insorgenze popolari, verificatesi in Italia nel periodo del dominio napoleonico, fra il 1796 e il 1815.

L’ordine di presentazione è quello geografico. S’inizia infatti con uno studio sulle insorgenze delle province lombarde già sotto dominio veneto, per proseguire con un saggio volto a individuare tratti comuni fra l’insorgenza veronese del 1797 — le cosiddette Pasque Veronesi — e fenomeni coevi simili, a sfondo sociale, verificatisi nel Regno di Sardegna. Seguono uno studio sui moti agrari del Piemonte Meridionale nel 1797 e due saggi rispettivamente dedicati all’insorgenza ligure del 1797 e a quella romagnola del 1796-1797. La rassegna include poi l’analisi di alcuni aspetti di quelle che possono essere considerate le manifestazioni più significative e complesse della resistenza italiana contro la Rivoluzione francese, ovvero il movimento del Viva Maria! in Toscana, l’insorgenza del Lazio — comprendente anche un esame della politica di Papa Pio VII (1799-1821) nei confronti degl’insorgenti dopo la fine della Repubblica Romana e il ritorno del Pontefice a Roma — e la grande rivolta sanfedista nel Regno di Napoli, tutte del 1799.

2. Esposizione

Nello studio introduttivo la Rao mette anzitutto in rilievo l’ampiezza delle “resistenze e insurrezioni contro la rivoluzione e la repubblicanizzazione della penisola” (p. 330), individuandone le cause in motivazioni di medio e di lungo periodo — la crisi economico-sociale della seconda metà del secolo XVIII, la limitazione delle proprietà ecclesiastiche e le conseguenti ripercussioni sulle tradizionali forme d’assistenza, la riduzione delle autonomie locali, l’attaccamento alle tradizioni religiose, minacciate dal riformismo illuministico e dalla Rivoluzione — e in motivi più immediati, legati alle circostanze dell’invasione e dell’occupazione francesi. Si sofferma quindi su due elementi — “la diffusione delle insorgenze sull’insieme del territorio nazionale” (p. 331) e l’assenza di una conflittualità di classe fra contadini “sanfedisti” e borghesia “giacobina” — che ribaltano alcuni luoghi comuni della storiografia, per concludere che […] dai saggi che si presentano l’insorgenza emerge in tutta la sua irriducibile complessità di fenomeno fortemente differenziato nello spazio e nel tempo” (p. 341).

Lo studioso vicentino Paolo Preto — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Padova — ricostruisce in Le valli bergamasche e bresciane fra democratizzazione e rivolta antigiacobina (pp. 349-365) gli avvenimenti del 1797 nelle province venete più occidentali, dalla dichiarazione di neutralità del governo veneziano e dalla sollevazione di nuclei giacobini prima a Bergamo e poi a Brescia — entrambe “democratizzate” con la forza — all’invasione francese del territorio della Repubblica di Venezia, ai soprusi dell’occupazione e alla forzata inerzia delle truppe di San Marco, alla montante collera dei contadini, che esplode nel marzo del 1797. In quel mese le valli bergamasche — Seriana, Cavallina, Gandino e altre — e quelle bresciane — Camonica, Trompia e Sabbia —, unitamente alle popolazioni della riviera gardesana occidentale — in particolare della zona di Salò, un tempo indipendente —, dopo solenni giuramenti formulati nel corso delle tradizionali assemblee comunitarie, si sollevano coralmente contro le città “rivoluzionate” fino a scontrarsi con le neonate milizie “italiche” e con i francesi, dopo aver coltivato inizialmente l’illusione di regolare i conti con i giacobini nella neutralità dell’esercito occupante. Fa parte del quadro anche la cruda repressione perpetrata dalle truppe franco-bresciane — rinforzate da volontari accorsi da altre città italiane, come per esempio Pavia, di recente “democratizzate” — contro i contadini insorti: oltre al cannoneggiamento di Salò dalla parte del lago, vi sono, come rappresaglia, il saccheggio e l’incendio di diversi borghi della montagna bresciana, quali Nozza, Vestone, Barghe e Lavenone. Nel saggio, corredato da una ricca bibliografia, rimangono in ombra i moventi religiosi dell’insurrezione, mentre, fra le cause, viene dato il massimo risalto al legittimismo e alla difesa degli statuti locali da parte delle comunità rurali, preoccupate di perdere autonomia di fronte al nuovo regime a prevalente base cittadina. Nella parte finale dello studio Preto, ampliando la visuale all’insieme dei territori veneti, ritiene di diluire ulteriormente la caratterizzazione ideologica dell’insorgenza esaminata, ponendo l’accento sulla cronicità dei tumulti a sfondo annonario, antifeudali e contro il governo, verificatisi nelle province venete durante il Settecento, ma non sottovaluta il carattere politico dei moti del 1797: le popolazioni — scrive — […] questa volta non tumultuano per la fame ma per difendere le loro autonomie” (p. 365), ovvero l’antico regime nel quale hanno vissuto per secoli.

L’accento sul tema economico-agrario è posto anche da Gian Paolo Romagnani — ricercatore all’università di Verona, docente di Storia della Storiografia — in un saggio che, nonostante il titolo — Dalle “Pasque veronesi” ai moti agrari del Piemonte (pp. 367-399) —, è dedicato esclusivamente ai moti veronesi del 1797 e solo nelle conclusioni ipotizza — riferendosi però ad altri studi — un’unica matrice per le insorgenze dell’Italia Settentrionale durante il Triennio. Dopo una sintesi delle linee storiche e politiche dell’invasione francese dell’Alta Italia, il saggio traccia un profilo — includente anche una rassegna della storiografia sulla vicenda dall’Ottocento a oggi (2) — dell’insurrezione veronese, ricondotta alla crisi agricola che caratterizza il Veneto alla fine del Settecento e alle tensioni sociali che ne derivano, acuite entrambe dalla rapace presenza delle armate francesi. La tesi di fondo è l’esistenza di cause di un disagio economico-sociale generale, che si esprime in moti antifrancesi dove sono presenti le armi straniere e si scaglia invece contro le autorità tradizionali, la monarchia e i feudatari, dove i francesi sono assenti — o solo parzialmente presenti, a presidio di città sedi di fortezze —, come nel caso del Piemonte dopo l’armistizio di Cherasco dell’aprile del 1796. Romagnani ammette peraltro che una lettura politica dei moti piemontesi sarebbe fuorviante, essendo prodotto di una pluralità di fattori, e che in Italia[…] i moti agrari sono una conseguenza diretta della guerra” (p. 398), ovvero dei contraccolpi arrecati dalla stessa a una situazione economico-sociale già critica. Con ciò ricollega quindi le insorgenze piemontesi del 1797 ai drammatici mutamenti indotti non da riforme di struttura, ancora da realizzare, ma dalla guerra rivoluzionaria condotta dall’armata francese, con le sue sfrenate requisizioni militari e con il suo inaudito drenaggio di risorse finanziarie, oltre che artistiche e religiose. Il ventaglio delle cause viene ampliato, considerando pure che “caratteristica del caso italiano è […] l’insofferenza di molti centri minori nei confronti dei centri maggiori” (ibidem) e che “non va infine trascurato il fattore psicologico […] nel determinare il comportamento delle masse” (p. 399). Lo studio contiene anche un parallelo fra la Vandea francese e l’Insorgenza italiana, attribuito soprattutto agli ambienti che hanno celebrato il bicentenario della seconda; ma parallelo alquanto avventato, perché riconosce alla Vandea connotati di rivolta sociale e all’Insorgenza italiana una minore rilevanza rispetto alla prima.

Al Piemonte è dedicato anche l’ampio saggio di Blythe Alice Raviola — dottoranda in Storia della Società Europea all’università di Torino —, Le rivolte del luglio 1797 nel Piemonte meridionale (pp. 401-447), che, partendo dagli studi di Giuseppe Ricuperati (3) e grazie a un’accurata ricerca d’archivio, ricostruisce capillarmente i tumulti e i veri e propri moti che, a causa del rincaro dei prezzi dei generi alimentari di base, oppone le comunità di villaggio del Piemonte Meridionale — il Cuneese e l’Astigiano, con propaggini nell’Alessandrino e nel Monferrato — alle autorità sabaude e ai feudatari locali. Lo studio rivela episodi e aspetti poco noti della vicenda e si situa su una linea interpretativa decisamente socio-economica, che però tiene equilibratamente conto dell’autentica portata dei moti, nonché della difficoltà dell’”innesto” delle avanguardie giacobine piemontesi sulle popolazioni insorgenti, la cui ricezione delle parole d’ordine rivoluzionarie è limitata e che conservano una sostanziale fedeltà alla monarchia e al regime signorile.

Sulle rivolte di Genova e delle valli liguri orientali — Bisagno, Sturla, Aveto, Fontanabuona, Vara e Magra, con propaggini in Val Trebbia e nei feudi imperiali verso la Val Scrivia e l’Alessandrino —, che si manifestano a due riprese, rispettivamente nel maggio-giugno e nell’agosto-settembre del 1797, verte il saggio di Giovanni Assereto — professore associato di Storia Moderna nell’università di Genova — I “Viva Maria” nella Repubblica ligure (pp. 449-471). Più che a descrivere i fatti il saggio sembra inteso a evidenziare e ad affrontare le questioni suscitate dalla reazione della popolazione ligure, mettendo in luce la diversità fra la prima fase dei moti e quella, più intensa e significativa, che segue alla promulgazione della costituzione democratica. L’ipotesi della sobillazione nobiliare e clericale non viene esclusa, ma viene ridimensionata rispetto alla forza con cui tale ipotesi fu avanzata dai francesi e poi da numerosi storici “progressisti”, dimostrando come i processi susseguenti alla repressione non individuino né puniscano alcun nobile o prelato, benché i giacobini tornati al potere instaurino un “clima da caccia alle streghe” (p. 465) e ne abbiano i mezzi e l’intenzione. Viene anche discusso il legame, ipotizzato da alcuni studiosi, con la rivolta antiaustriaca del 1746 — quella di Giovanni Battista Perasso (1729-1781), detto “Balilla” —, nonché il carattere collettivo e corale — le autorità locali si pongono alla testa delle colonne di insorgenti — messo in evidenza dalle rivolte delle valli. Altri nodi affrontati sono il differente atteggiamento fra Levante e Ponente — quest’ultimo tanto fedele alla Repubblica ligure da proporre d’inviare proprie milizie per reprimere l’Insorgenza nel Levante —; la sostanziale refrattarietà popolare all’ideologia rivoluzionaria francese e la violenta avversione al giansenismo — particolarmente accentuata nella zona di Sarzana —, dopo la breve esperienza delle riforme religiose ispirate a mons. Scipione de Ricci (1741-1809), vescovo di Pistoia e di Prato; infine, la breve durata del moto e lo stato di endemica agitazione nelle campagne, che si protrae fino agli anni del Regno napoleonico. Esemplare è il caso di Val Fontanabuona, nell’entroterra di Chiavari, che verrà definita dai francesi la Vandea ligure. Il saggio di Assereto è d’intonazione senz’altro diversa rispetto ai primi della raccolta, perché vi sembrano meno operanti pregiudiziali teoriche. La sua condivisibile conclusione è che l’insorgenza ligure sarebbe stata una reazione difensiva, scatenata dall’intera gamma di realtà raccolte comunemente sotto il nome di Antico Regime — che nella Repubblica di Genova era rimasto sostanzialmente immune da riforme “illuminate” —, di fronte a un tentativo di modernizzazione troppo rapido e dalle modalità disorientanti, come nel caso della missione dei preti “patriottici” giansenisti nelle valli.

Il quadro che Valentino Sani — dottorando in Storia della Società Europea nell’università statale di Milano — in Le rivolte antifrancesi nel Ferrarese (pp. 473-494) traccia degli accadimenti nel Ferrarese e nella Bassa Romagna ha il pregio di spingersi fino agli anni del Regno napoleonico e ai fatti del 1809. Mentre emerge chiaramente che, dal momento dell’invasione fino alla caduta della dominazione francese, la zona non conosce soste nell’agitazione popolare, di essa si possono individuare quattro fasi ad “alta temperatura”: le insorgenze dell’estate del 1796, la più nota e sanguinosa delle quali è quella di Lugo, che coinvolge anche Argenta e Cento; la sollevazione generale del 1799, al momento della temporanea espulsione dei francesi dall’Italia a opera delle truppe imperiali e russe, che vede la partecipazione di milizie d’insorgenti all’assedio di Ferrara e la conquista di Pontelagoscuro, importante emporio padano; le rivolte contro la coscrizione obbligatoria del 1802-1803 e del 1805, quest’ultima culminata nella sommossa del borgo padano di Crespino, che Napoleone Bonaparte (1769-1821) reprime in modo particolarmente pesante; e, infine, i moti nelle campagne conseguenti alla grande insorgenza tirolese del 1809, che interessano ampie aree della Valle Padana. La repressione in quest’ultima è assai sanguinosa, con 63 condanne a morte per “brigantaggio”. L’ampio apparato critico comprende anche riferimenti a non pochi documenti d’archivio. Per Sani, il Leitmotiv delle insorgenze ferraresi — peraltro “fenomeno [non] valutabile in maniera univoca e omogenea” (p. 476) — sarebbero le croniche rivalità fra i municipi e la rivendicazione di privilegi e di autonomie locali, aggravate da disagi e da conflitti sociali originati da problemi economici.

All’insorgenza toscana del Viva Maria!, del 1799-1800, è dedicata la ricerca condotta da Claudio Tosi Il marchese Albergotti colonnello delle bande aretine del 1799 (pp. 495-531). Dopo una breve ma utile rassegna della storiografia in argomento — senz’altro fra le meno esigue, confrontabile solo con quella relativa alla Santa Fede nel Regno di Napoli —, Tosi sostiene che non ci si debba concentrare oltre misura sugli aspetti economici e sociali dell’Insorgenza toscana, ma piuttosto, come le più recenti tendenze storiografiche sembrerebbero confermare, dare — o ridare — spazio all’analisi di tematiche meno “tangibili”, come la sfera della psicologia e delle credenze religiose, il sentimento d’identità collettiva, la mentalità e la sensibilità delle diverse e riccamente differenziate componenti della società d’Antico Regime, come pure vanno approfondite le cause politiche, nel duplice aspetto strategico-internazionale e tattico-locale. In particolare andrebbe intensificata l’indagine sul ceto dirigente di un’insorgenza che presenta caratteri — per la durata e l’estensione, nonché per la presenza di un’élite dirigente non improvvisata — nettamente diversi da quelli di altri movimenti. In questa prospettiva si situa la ricerca condotta da Tosi sulla figura del marchese Giovan Battista Albergotti (1761-1816), leader del moto aretino. Attraverso la ricostruzione della biografia del marchese e di alcuni membri della sua antichissima famiglia — quasi completamente schierata in quegli anni contro la Rivoluzione: solo un membro sceglie infatti la militanza giacobina —, come il fratello Agostino (1755-1825), divenuto poi vescovo della sua città, lo storico si propone d’inquadrare il comportamento della classe dirigente del Viva Maria!, nonché gli eventi di cui essa fu protagonista e le ragioni delle diverse scelte politiche e militari che dovette fare, rilevandone aspetti sicuramente sconosciuti, che arricchiscono e illuminano l’intera vicenda dell’Insorgenza. Emergono così, fra l’altro, l’accortezza politica e l’abilità militare del nobile toscano, nonché le doti umane e cristiane che conducono il governo provvisorio aretino, e poi toscano, da lui presieduto a instaurare rapporti da tempo sconosciuti fra potere e popolo, fra autorità sociali e ceti umili. Lo studio è munito di un nutrito apparato di note, che fanno riferimento a una varietà di fonti, fra cui l’archivio della famiglia Albergotti.

Le premesse, le origini e le vicende delle insorgenze a Roma e nello Stato Pontificio negli anni 1798-1799 costituiscono l’oggetto del saggio di Massimo Cattaneo — dottore di ricerca presso l’università di Napoli Federico II — L’opposizione popolare al “giacobinismo” a Roma e nello Stato pontificio (pp. 533-568). In un rapido schizzo viene descritta in esordio la “battaglia delle idee” combattuta dagli ambienti pontifici ed ecclesiastici romani contro la Rivoluzione francese, anche se di questa propaganda si esagera alquanto la finalità, definita “terroristica”, e sopravvalutata forse la portata, soprattutto se si pensa alla massiccia e pluridecennale operazione di propaganda messa in campo dall’avversario. L’efficacia della “profilassi” poliziesca, attuata dal governo di Papa Pio VI (1775-1799), contro le infiltrazioni giacobine fomentate dagli agenti diplomatici francesi in vista di un rivolgimento autoctono e in preparazione a una possibile invasione francese, si vede però nel fatto che i nuclei giacobini a Roma ammettono[…] nel 1797 di poter contare in città su non più di settecento simpatizzanti, di cui solo sessantotto pronti a rischiare personalmente in un eventuale tentativo rivoluzionario” (p. 538). Particolarmente interessante è la descrizione — anche attraverso la poesia popolare, utilizzata per veicolare princìpi contro-rivoluzionari — della mentalità e dei costumi religiosi della popolazione del rione Trastevere, che sarà l’epicentro del moto del 25 febbraio 1798. Lo svolgimento di questo viene ripercorso tanto nella dinamica dei fatti quanto nelle cause immediate, quanto, infine, nelle modalità di soffocamento e di punizione adottate dai francesi e sfociate in decine di fucilazioni, non tutte comminate da tribunali e per di più eseguite con modalità nuove, cioè senza cornice religiosa, che contribuiscono a sconcertare e a irritare ulteriormente il popolo romano. Il saggio contiene una rassegna della storiografia sull’Insorgenza nei territori pontifici, che ha inizio nel Montefeltro e nelle Marche addirittura al principio del 1797, al momento del primo impatto bellico fra la Repubblica Francese e lo Stato della Chiesa, e massimo sviluppo nel 1799, anno in cui l’Insorgenza nel Basso Lazio si collega, anche se non organicamente, al Viva Maria!, a quella nell’Umbria e al sanfedismo napoletano.

Marina Caffiero — professore associato di Storia Moderna nell’università di Roma La Sapienza — in Perdòno per i giacobini, severità per gli insorgenti: la prima Restaurazione pontificia (pp. 569-602) riporta alla luce aspetti poco noti del periodo rivoluzionario e napoleonico nei domini pontifici. Lo studio — documentato anche con reperti d’archivio — tratta infatti della politica attuata dal governo romano, dopo la restaurazione pontificia del 1800, nei confronti dei partecipanti alla vicenda della Repubblica Romana del 1798-1799 e dell’atteggiamento tenuto dal medesimo verso i conati d’insorgenza che caratterizzano gli Stati del Papa fra l’inizio del secolo e il momento della nuova conquista francese, fra il 1807 e il 1808. Nel primo caso, si palesa un atteggiamento di clemenza che, nonostante gli ammonimenti dei contro-rivoluzionari non occasionali, sfocia in una serie di misure che si spingono fino a reintegrare non solo nei diritti civili ma anche negli uffici o, addirittura, a promuovere a incarichi di responsabilità i protagonisti e i leader giacobini degli anni della repubblica e della guerra civile del 1798-1799. Misure tanto impegnative e indiscriminate che vengono lette come espressione di una condizione di debolezza, peraltro reale a causa della situazione internazionale, caratterizzata dalla forte pressione francese sullo Stato della Chiesa dopo il riaprirsi del conflitto con il confinante Regno borbonico. Nella prospettiva di ristabilire la pace sociale e di stornare da Roma una seconda invasione — poi comunque subita — il vertice romano preferisce mostrarsi acquiescente e collaborativo oltre misura con i francesi e allearsi con gli ex giacobini contro quanti mettevano a repentaglio la sopravvivenza dello status quo, ovvero, da un lato — in accordo con la politica di Parigi —, reprimendo gli elementi più enragés o anarchistes fra i rivoluzionari italiani, dall’altro lato combattendo gl’insorgenti dei vari dipartimenti e le formazioni del ribellismo endemico — il cosiddetto “brigantaggio” —, venutesi a costituire nello scenario di disordine e d’instabilità sociale degli anni napoleonici. Dopo un prodromo in provincia di Frosinone nel 1801, le insorgenze popolari riprendono e si moltiplicano nel 1806 in sintonia e in prossimità della seconda insorgenza generale del Regno di Napoli, riesplosa in grande stile dopo l’occupazione napoleonica. Il governo pontificio giunge a istituire una congregazione speciale con compiti di controllo e di repressione dei movimenti popolari: di essa fanno parte sia elementi antigiacobini sia, significativamente, i maggiori e più noti esponenti del giacobinismo laziale, che si trovano così a giudicare talvolta persone già schierate sul fronte loro opposto nei moti di otto anni prima. L’esame degli atti di questa commissione getta luce su aspetti poco noti della vicenda, sui moventi e sull’appartenenza sociale degl’insorgenti. Tutti questi dati rafforzerebbero la tesi della studiosa secondo cui l’insorgenza laziale, più che esser letta come conflitto a sfondo religioso o puramente economico, andrebbe collocata nel quadro di cronico scontro municipalistico e campanilistico, clientelare e parentale, che caratterizza l’Italia e gli Stati pontifici e che si riacutizza a causa dei problemi indotti dall’occupazione francese.

La panoramica dell’Insorgenza italiana termina con Rivolte popolari e controrivoluzione nel Mezzogiorno continentale (pp. 603-622), una sintesi della reazione popolare nel Regno borbonico tracciata da John A. Davis, del Dipartimento di Storia dell’università del Connecticut. Già noto per altri studi sul medesimo soggetto e buon conoscitore delle fonti storiografiche italiane, anch’egli propende per un’interpretazione dell’Insorgenza meridionale che vada oltre le pure ragioni di ordine economico, spostando il fuoco della ricerca sul mutamento indotto, sovente a forza, nella società di Antico Regime e tenendo conto della grave crisi della monarchia napoletana, che sarebbe all’origine anche dell’opzione di alcuni maggiorenti per la Rivoluzione, allo scopo di garantire comunque l’ordine civile. Attenzione particolare andrebbe riservata alle vicende micro-sociali, perché sarebbero i municipi — con le loro storie e con i retaggi infiniti di rivalità e di conflitti, che trovano nuovo alimento nella situazione di “rottura” di un equilibrio negli anni napoleonici — a sostanziare, più delle macro-strutture istituzionali, l’Insorgenza meridionale. Davis ritrova questa serie di problemi nelle scelte operate dal leader della Santa Fede, il cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), analizzandone accuratamente la condotta durante e dopo l’insorgenza.

3. Qualche considerazione

Il fascicolo di Studi Storici fornisce contributi sostanziosi e sufficientemente obiettivi, e sembra rappresentare un promettente inizio di riflessione sul fenomeno dell’Insorgenza italiana, ma evidenzia anche un atteggiamento di fondo che si presta a non pochi rilievi.

La principale osservazione è che un po’ tutti i contributi tendano a persuadere il lettore dell’esistenza di una ricerca — e di non trascurabile spessore — sull’Insorgenza stessa, che viene data addirittura per scontata; anzi, si lascia intendere che, al suo interno, vi sarebbero articolazioni, correnti e scuole diverse, su cui peraltro s’innesterebbe al presente un tanto vigoroso quanto esecrato “revisionismo” — i cui contributi sarebbero per lo più scadenti sotto il profilo scientifico —, promosso strumentalmente da ambienti ideologizzati in senso nostalgico-reazionario e mirante a inquinare il ricupero d’identità in corso nel mondo culturale e politico italiano.

Già nel 1995 Giuseppe Galasso, uno dei maggiori storici italiani contemporanei, ha sostenuto sulle colonne della rubrica culturale del più autorevole quotidiano nazionale (4) esser “sciocchezze” le pretese di quanti lamentano che le insorgenze siano state sottoposte all’“oblio e al disconoscimento [da parte di] una gretta storiografia nazionale, liberale, democratica” (5). Al contrario — sosteneva il professore napoletano — […] i movimenti controrivoluzionari sono stati in Italia largamente studiati in opere e saggi dovuti spesso ad autori anche illustri” (6); e poi, […] nessuno ha mai disconosciuto l’”eroismo” di quelle Vandee italiane” (7). Vien da dire: altro che “sferzante giudizio” sul “revisionismo”, quale lo reputa, citandolo, Cattaneo (p. 568, nota 94)! Si tratta invece di affermazioni che, nella più benevola delle ipotesi, suonano superficiali, quando non mistificanti. Le cose stanno in realtà assai diversamente e non riesco a persuadermi che lo ignori il curatore di una delle più prestigiose collane di storia d’Italia.

L’Insorgenza non è stata per nulla “largamente” studiata. Mancano di essa tuttora quattro dimensioni essenziali. In primo luogo la ricerca e l’analisi delle fonti primarie — anzitutto documenti degli archivi civili e religiosi —, capillarmente estesa al territorio italiano, come richiede lo studio di una realtà così disaggregata e legata a fattori locali. Poi è del tutto assente un’elaborazione a livello generale delle fonti e, dunque, una storiografia di respiro nazionale sul tema. Quindi non si può nemmeno parlare di una tradizione o di una scuola storiografica, neanche di esiguo spessore, sulla quale potersi innestare. Infine — per tacere dell’informazione culturale, ossia dei mezzi di comunicazione sociale — manca il necessario “travaso” delle acquisizioni storiografiche sul piano della formazione culturale del cittadino medio, ovvero nei programmi scolastici. Non è solo in questione la mancanza di “un aggiornato quadro d’insieme”, come rileva la Rao nel saggio d’apertura (p. 326) — che non è solo colpa “della frammentazione e dispersione delle fonti documentarie degli Stati preunitari” (p. 325) —: è in questione la conoscenza tout court del fenomeno, che dipende in buona sostanza dalla non volontà di dar rilievo, nei fatti e nelle interpretazioni, a questa pagina non secondaria della biografia della nazione italiana. Forse solo per il Mezzogiorno — e concordo qui in parte con la studiosa lucana — si può parlare di una storiografia di una qualche portata: ma l’Insorgenza nell’Italia Meridionale ha avuto tratti talmente macroscopici da rendere impossibile ignorarne o affievolirne la memoria. Anche in questo caso la ricerca scientifica si è mostrata finora carente e stereotipata, almeno nelle interpretazioni, benché forse si profilino segnali di cambiamento: la prospettiva accennata nel saggio di Davis — il legame fra Insorgenza e crisi generale della monarchia borbonica — costituisce per esempio una pista di ricerca innovativa e promettente.

E prova di tale condizione è proprio il fatto che gli studiosi della rassegna, invece di limitarsi a “glossare” criticamente studi già esistenti, hanno dovuto “scavare” in archivi assai poco “battuti” e in neglette storie locali, per lo più datate, per raccogliere le informazioni offerte al lettore. Si potrebbe chiedere: dove sono gli autori, l’equivalente dei Saitta, dei Vaccarino, degli Zaghi? dove sono i testi? dove sono gli schemi esplicativi da rimettere in discussione? dov’è la “scolastica” accademica in questo àmbito? Posso personalmente testimoniare che nel 1973, quando iniziai a elaborare la mia tesi di laurea sul tema delle insorgenze nella Lombardia del 1796, al primo accostamento alla materia non riuscii a mettere insieme più di due opere di sintesi, quella di Lumbroso — del 1932, che è parziale e copre il solo Triennio Giacobino (8) — e il volume di Jacques Godechot (1907-1994) La Contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), del 1962 — che si ferma al 1804 e che è stato tradotto in italiano solo nel 1988 (9).

Quanto non si vuole ammettere è che siamo in realtà di fronte a una oggettiva rimozione, di origine non recente e tenacemente reiterata — e rafforzata dalla gramsciana conquista dell’egemonia culturale —, di un evento che non è un banale accadimento sporadico, ma, come riconosce ancora — ma perché solo adesso? — la Rao, autrice di molteplici studi sul periodo rivoluzionario in Italia, un fenomeno che […] ebbe un ruolo centrale nella vita politica italiana alla svolta fra Sette e Ottocento, non solo, ma anche negli orientamenti dei repubblicani del triennio 1796-1799 e nella politica napoleonica, e ancor più nell’immaginario e nella riflessione storiografica dell’Ottocento. Basti ricordare il peso che avrebbe esercitato nel pensiero e nell’azione degli uomini del Risorgimento, da Mazzini a Pisacane, nel dibattito sulle vie da seguire per realizzare l’indipendenza e l’unificazione politica italiane” (p. 327) (10). Una realtà, fra l’altro, costata agli italiani, secondo una stima per difetto, in quanto limitata all’inizio del 1799 — che la studiosa del Mezzogiorno suppongo conosca, in quanto fornita da uno dei protagonisti delle vicende della Repubblica Napoletana, il generale francese Paul-Charles Thiébault — almeno sessantamila vittime (11), un dato ancora più impressionante se lo si confronta percentualmente con la popolazione dell’epoca (12) e se si pone mente che non è dovuto a qualche malaugurato evento naturale — un terremoto o un’inondazione —, ma è il prodotto di una volontà umana.

Di fronte a questa obiettiva carenza storica non mi sembra lecito, oltre tutto, squalificare i tentativi — magari anche ideologicamente orientati — di chi, con i mezzi di cui ha potuto avvalersi, non certo comparabili con quelli di cui dispone la storiografia istituzionale, ha cercato di ricostruire la fisionomia di un momento della storia italiana che, come confermano i lavori ospitati da Studi Storici, rivela sempre più nitidamente la sua portata nei fatti e nelle conseguenze.

Non si sa davvero che cosa pensare davanti a un simile “peccato” di omissione riguardo a un fenomeno sul quale non può, come minimo, non “inciampare” qualunque percorso di ricerca serio, né si vede dove possa condurre questo modo di fare storia. Che “magistero” può esercitare? Che futuro può aiutare a costruire? Quale contributo può fornire un atteggiamento scientifico non solo viziato dall’ideologia, ma tendenzialmente ostruzionistico, in un frangente nel quale l’Italia ha bisogno di ogni sforzo volto a farle ricuperare integralmente la propria memoria storica, civile e religiosa per poter così meglio ridefinire la propria identità e per formulare nuove regole con cui perseguire il “bene comune”?

Ma vi sono altri rilievi di merito, che riguardano i giudizi espressi sull’interpretazione generale dell’Insorgenza e sui contributi finora forniti dagli ambienti cosiddetti del “cattolicesimo reazionario e intransigente” (p. 326). La prospettiva delineata da Cattaneo — ovvero il “progetto di incidere nel processo di formazione di un nuovo paradigma repubblicano elaborando una nuova memoria storica nazionale, anche a partire dal recupero di ogni forma di “sanfedismo”, in quanto testimonianza di una rimpianta unità tra valori religiosi e valori pubblici, di una società organicamente “ordinata”, tradizionalista e impermeabile alle detestate ideologie liberali e di sinistra” (p. 568), che trova accoglienza da parte di testate di forze politiche conservatrici, nella fattispecie il Secolo d’Italia, e i cui prodotti confluiscono in “dizionari del pensiero forte” — sembra correttamente ricostruita e, anche se evocata in chiave tendenzialmente polemica, non si vede che cosa vi sia d’illegittimo nel “tentare di incidere” “da destra” nell’elaborazione culturale che prelude alla formulazione di un nuovo assetto repubblicano. Né che cosa vi sia d’ignobile nel rifarsi ai valori evocati, non espungendo dal curriculum del nostro Paese neppure il “sanfedismo” — forse emblema dell’omissione e della contraffazione perpetrate nei confronti dell’Insorgenza —, che certamente va valutato criticamente — e severamente, anche nei suoi aspetti meno “rosei” —, ma riguardo al quale va rifiutata la vera e propria “leggenda nera” — mostrante ogni giorno di più la corda — che è gli è stata costruita addosso nel tempo, sì che l’aggettivo “sanfedista” viene utilizzato ancor oggi più come “clava” ideologica che per designare una posizione ideale.

Riguardo invece al “revisionismo” che affliggerebbe la storiografia sviluppata nella prospettiva predetta — tendente a “sollecitare una totale riscrittura della storia italiana ed europea dal XVIII al XX secolo “dal punto di vista degli sconfitti”” (p. 367) e che viene evocata a più riprese nei vari saggi, ancora in veste di giudizio di merito e con intenti non del tutto benevoli —, occorre subito premettere che anche in questo caso una definizione comunemente accettata di questo termine non esiste. Proprio nel 1998 Ernst Nolte, il “padre” del revisionismo contemporaneo, ne ha fornito una definizione a mio avviso “aurea”, scrivendo: […] considero tratti distintivi di ogni revisionismo serio e perlomeno orientato in una direzione scientifica la critica documentata all’unilateralità e alle lacune della veduta “ufficiale” e la volontà di attenersi ad una maggiore obiettività” (13).

Se tale è il “revisionismo”, muoversi in tal senso sarebbe non solo lecito, ma doveroso. Anzi esso dovrebbe assumere quell’atteggiamento “militante”, che viene lamentato ancora da Cattaneo nei confronti dello storico cattolico maceratese Sandro Petrucci (14) — pur da lui apprezzato dal punto di vista “tecnico” —, perché renderebbe “opaco sul piano interpretativo” (p. 561, nota 82) il lavoro di ricerca. Ma non si può non domandarsi a che cosa si dovrebbe applicare nella fattispecie dell’Insorgenza la “revisione” denunciata, ovvero quali paradigmi scientifici unilateralmente invalsi si dovrebbero sottoporre a “revisione”, dato che essi non vi sono. Non che manchino “vedute ufficiali” — che affiorano per esempio quando si rompe il silenzio —, ma esse sono costituite per la gran parte da giudizi non approfonditi, derivati da orientamenti ideologici pregiudizialmente contrari, senza riscontri fattuali, resi superflui dalla maramaldesca consapevolezza che chi ne è oggetto è uno “sconfitto”, sia storico che nella “battaglia delle idee”.

Non sembra, ancora, accettabile ricondurre, come fa lo stesso studioso con un’intentio palesemente squalificante, il “revisionismo” sull’Insorgenza alle prospettive “cattolico-integralista, neo e postfascista, monarchico legittimista” (p. 567), senza fornire definizione di tali realtà. Il cosiddetto revisionismo nasce invece da un atteggiamento di domanda di verità e di obiettività e come spontanea e costruttiva reazione alla percezione di una monumentale ingiustizia inferta a uomini, nostri antenati, le cui scelte vanno giudicate e anche — se necessario — condannate, ma la cui memoria ci appartiene e che dobbiamo riscoprire e recepire con atteggiamento di profonda e amorosa pietas.

Venendo infine alla tesi secondo cui gli storici “revisionisti”, ergo “di destra”, “revisionano” tutto, ma salvano sempre e solo l’opera dello storico nazionalista e fascista Lumbroso (15), viene spontaneo domandarsi a che cosa si poteva riallacciare fattualmente chi volesse conoscere, anche solo ieri, qualcosa della reazione delle popolazioni contro la Rivoluzione francese in Italia, dato che null’altro di fatto esisteva a un primo accostamento, se non l’opera dello storico fiorentino. Ho già avuto modo di mettere in luce questo aspetto nell’introduzione alla riedizione del suo “vecchio e ben noto — ma a quanti? — studio” (p. 325) apparsa nel 1997. In tale sede mi sono altresì sforzato di non operare il minimo “ricupero” né delle prospettive storiografiche — che giudico oggettivamente insufficienti e forzate sotto il profilo ermeneutico, anche se vanno lette nel clima culturale italiano fra le due guerre mondiali — né tanto meno delle prospettive dottrinali di Lumbroso, ma di effettuare solo un’operazione di ricupero documentale. Vedo però purtroppo che il punto è stato frainteso, se Preto sostiene che la mia nota biografica e la mia prefazione al volume […] ribadiscono la prospettiva storico-politica nazionalista (risalente a Niccolò Rodolico [1873-1969])” (p. 350).

Tentando un giudizio d’insieme sui contenuti del fascicolo monografico di Studi Storici, si può osservare che, dal punto di vista delle interpretazioni i diversi studiosi sembrano essere accomunati, oltre che dal rigetto delle forzature nazionalistiche dei primi decenni del secolo, dall’esigenza di guardare al fenomeno con una visuale sempre più ampia e spregiudicata, abbandonando interpretazioni più o meno rigidamente monocausali a sfondo “infrastrutturale” — di cui potrebbe essere modello, nel caso della storia contemporanea, il gramsciano Giorgio Candeloro (1909-1988) — e muovendosi verso una visione maggiormente interdisciplinare, esigita peraltro da una realtà così complessa e disomogenea qual è l’Insorgenza. Se questo cambiamento sia un semplice tentativo di “noyer le poisson” — “annegare il pesce”, ovvero di diluire al massimo una realtà, facendole perdere sostanza —, come sembra stia accadendo riguardo ad altre tematiche (16); sia cioè frutto del prevalere di una visione “debole”, tendenzialmente portata a frammentare e a relativizzare l’interpretazione generale dell’Insorgenza, oppure segno di un progresso salutare, al momento non è possibile affermarlo. Certo, l’assenza di una sintesi di qualche spessore fra i saggi della raccolta, come pure il fatto che l’orizzonte spaziale e temporale evidenziato dagli studiosi sia sempre piuttosto ristretto, sembrerebbero far propendere per la prima ipotesi. Su tale atteggiamento maggiormente “aperto” la convergenza di studiosi di altra origine e collocazione anche militante può già fin da ora essere più ampia, soprattutto da parte di quegli studiosi che, partendo da diverse ipotesi di lavoro e rifacendosi a certa storiografia francese degli ultimi anni — per esempio a Jean Dumont, a Reynald Secher e a Jean Meyer (17) —, ritengono che l’Insorgenza vada letta all’interno della logica del processo di genesi e d’affermazione della modernità in Occidente. Uno schema esplicativo tendenzialmente portato a leggere l’Insorgenza come categoria, piuttosto che come puro fenomeno, e fondamentalmente “forte” — di qui il suo legame con il “pensiero forte” —, apparentemente monocausale, ma in realtà ampiamente sfaccettata. Una visione sufficientemente flessibile per accogliere contributi diversi e più idonea a cogliere la verità di un fenomeno storico multiforme, che, servata distantia, presenta analogie con una realtà di un’altra epoca, il comune medievale, il quale si origina spesso per ragioni le più diverse, non in maniera sincrona nello spazio, ma si afferma più o meno nella stessa epoca in tutto il continente europeo.

Nella massa dei dati proposti è possibile cogliere anche spunti e stimoli meritevoli di ulteriori approfondimenti. Per esempio, la ricerca di Tosi sul Viva Maria! fa scoprire che, anche fra i contro-rivoluzionari, non erano assenti prospettive di mutamento dello status quo e di ricongiunzione alle forme socio-politiche precedenti le riforme illuministiche dei prìncipi settecenteschi. Ancora, lo stesso studio, forse nell’ottica di superare la visione delle “masse” contadine come soggetto indistinto e monolitico, contiene un primo tentativo di biografia di un leader contro-rivoluzionario — quella del marchese Albergotti —, che può costituire un valido esempio per analoghe ricerche.

La rassegna edita dall’Istituto Gramsci presenta anche contenuti, espliciti o impliciti, meno felici.

In primo luogo si rileva in pressoché tutti gli studi una pregiudiziale aprioristicamente negativa verso la componente religiosa nella genesi e nello svolgimento dei vari episodi d’insorgenza, che si traduce nella sua pratica espunzione oppure nella sua “riduzione” o nel suo appiattimento sociologico. Se è vero che il fattore religioso non è stato sempre l’unico movente delle reazioni popolari, è altresì indubbio che esso è sempre e ovunque presente e trascurarlo, oppure posporlo a realtà apparentemente “più profonde”, significa non tener conto dell’assoluta primarietà delle credenze e dei riti nella cultura ancora omogeneamente cristiana delle popolazioni della Penisola alla fine del Settecento, elaborando così interpretazioni quanto meno inadeguate.

Dalla lettura dei diversi saggi, ma soprattutto di quello introduttivo, non emerge poi un aspetto importante dell’Insorgenza italiana, ovvero la sua appartenenza a un quadro europeo. Nel periodo napoleonico la resistenza popolare contro i francesi in difesa delle tradizioni religiose e civili si manifesta in tutte le nazioni cattoliche, all’improvviso esposte a un processo di modernizzazione e di secolarizzazione ad alta intensità, non “preparato”, come altrove, dalla Riforma. Dal Belgio alla Spagna, alla Svizzera, fino all’isola di Malta, ovunque la Rivoluzione francese avanza dietro le armi napoleoniche, le popolazioni, i ceti umili, si sollevano, rialzano i simboli religiosi e le insegne delle “piccole patrie”, dando vita a sollevazioni, come quella spagnola, di vasta portata. Non dare sufficiente rilievo a questa dimensione transnazionale, trascurando gli studi — unici a tracciarne il profilo, anche se in maniera incompleta — di Godechot, significa menomare la possibilità di comprendere adeguatamente l’Insorgenza italiana, rischiando di ridurla a una ripresa di “beghe” fra municipi in perenne e atavico conflitto. A questo riguardo, mentre va osservato che le lotte campanilistiche trovano nuovo vigore — come ha messo in rilievo Petrucci (18) — proprio in conseguenza dello sconvolgimento di equilibri plurisecolari a opera della “totale organizzazione” (19) della società del tempo attuata dalle repubbliche giacobine — nella fattispecie dalla Repubblica Romana —, non si può non ricordare come, almeno per l’Insorgenza nell’Italia Centrale del 1798-1799, non ci si trovi affatto di fronte a episodi — anche numerosi, ma del tutto particolaristici e scoordinati fra loro — di difesa della “piccola patria”, ma si manifesti invece una embrionale unità d’intenti e di lotta fra gl’insorgenti.

Tralascio ogni considerazione sulla liceità — che non viene mai posta in dubbio nella raccolta — da parte della Repubblica Francese di aggredire, di spogliare e di “democratizzare”, violando diritti costituiti plurisecolari, Stati neutrali e pacifici, come pure dell’esproprio di risorse finanziarie e di tesori artistici, cui i francesi sottopongono nel Triennio i popoli italiani. Osservo invece che, mentre nel panorama delineato affiora in più punti la denuncia della “bestiale ferocia” degl’insorgenti — che non è assolutamente né ordinaria, né generalizzata: se ad Arezzo nel 1799 vengono uccisi e bruciati tredici ebrei, nell’insurrezione di Pavia del 1796 i cinquemila contadini insorti non provocano una sola vittima, né fra i giacobini, né fra i francesi —, non emerge sufficientemente, o forse non emerge affatto, quanto brutale siano state la repressione e le rappresaglie perpetrate dai francesi — ma anche dalle milizie cisalpine e “italiche”, evocando immagini di diversi e più recenti collaborazionismi — contro una popolazione il più delle volte inerme. Le loro vittime sono forse da considerare ovvi e dovuti “contributi” al “riscatto” delle popolazioni italiane? Che cosa pensare dell’assordante silenzio sulle sofferenze dei tanti minores — perché privi della cultura riflessa e dei mezzi per far conoscere le proprie ragioni — e il rilievo tributato ad avvenimenti oggettivamente insignificanti, ma di diverso segno “politico”? Si tace delle migliaia di morti dell’Insorgenza a Milano, a Pavia, a Verona, a Lugo di Romagna, a Firenze, a Roma, a Napoli, in Abruzzo, nelle Calabrie e si assorda invece il cittadino con quelle, pur reali, ma incomparabilmente più lievi, per far un esempio, dei “quattro” “martiri dello Spielberg”. Eppure la fase finale dell’Insorgenza precede solo di pochi anni quest’ultima vicenda.

In conclusione, se il numero monografico di Studi Storici rappresenta, com’è lecito credere, una “galleria” delle ultime tendenze della ricerca — almeno di una certa “scuola”, ma non poco significativa — in merito alle insorgenze popolari nel periodo napoleonico, se ne trae l’impressione e l’auspicio che la storiografia sul tema esca finalmente dalla minorità e si avvii verso una maggiore consapevolezza. Soprattutto pare che l’Insorgenza abbia trovato spiragli d’interesse in una parte del mondo accademico. È questa, se non l’unica, almeno la via decisiva per giungere a una conoscenza adeguata del fenomeno. L’importante è che questo interesse non venga inquinato e fuorviato dalle sopravvivenze ideologiche — magari travestite da pensiero “debole” —, e che iniziative private o non istituzionali, invece di essere declassate o combattute, trovino incremento e sostegno da parte di chi è istituzionalmente preposto a “fare storia” e a promuovere la cultura. La prossimità della ricorrenza del secondo centenario della fase clou dell’Insorgenza italiana e della sua, anche se temporanea, vittoria, il 1799 — in vista della quale va senz’altro collocata l’iniziativa realizzata da Studi Storici —, può essere un’opportunità da non perdere.

Oscar Sanguinetti

***

(1) Cfr. Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, numero monografico di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 39, n. 2, aprile-giugno 1998, pp. 325-622, Dedalo, Bari 1998. Tutti i riferimenti senza rimando sono tratti da questo volume e la paginazione è indicata fra parentesi.

(2) La rassegna contiene alcune affermazioni inesatte sullo storico Giacomo Lumbroso (1897-1944), che viene detto attivo “agli inizi di questo secolo” (p. 376), il che pare difficile, essendo egli nato nel 1897, e definito […] un intelligente conservatore di matrice positivista che ci ha lasciato alcune ricerche assai ben documentate sulle insorgenze antinapoleoniche nella pianura padana” (ibidem). A riguardo, mentre è condivisibile il giudizio relativo all’“intelligente conservatore”, non è evidente da dove si possa dedurre una matrice positivista in Lumbroso; né sono note ricerche “assai ben documentate” dello stesso sulla pianura padana, avendo egli trattato tale argomento nel quadro della sua — peraltro unica — opera di sintesi I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800) (2a ed. rivista, a cura di Oscar Sanguinetti, Minchella, Milano 1997; 1a ed., Le Monnier, Firenze 1932; cfr. la recensione di Paolo Martinucci, in Cristianità, anno XXVI, n. 277, maggio 1998, pp. 24-26), dedicata alle insurrezioni dell’intera Penisola, nella quale dà invece più spazio, come doveroso, all’Insorgenza nell’Italia Centrale e nel Regno di Napoli.

(3) Cfr. Giuseppe Ricuperati, Il Settecento, in Pierpaolo Merlin, Claudio Rosso, Geoffrey Symcox e Giuseppe Ricuperati, Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, in Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, UTET, Torino 1994, vol. VIII*, pp. 441-834.

(4) Cfr. G. Galasso, Un’eroica Vandea non si nega a nessuno, in Corriere della Sera, 13-9-1995; cfr. anche ISIN. Istituto per la Storia delle Insorgenze, Perché l’attenzione all’Insorgenza, comunicato del 2-12-1996, in Cristianità, anno XXIV, n. 260, dicembre 1996, p. 6.

(5) G. Galasso, art. cit.

(6) Ibidem.

(7) Ibidem.

(8) Cfr. G. Lumbroso, op. cit.; tale tesi è all’origine del mio Le insorgenze contro-rivoluzionarie in Lombardia nel primo anno della dominazione napoleonica. 1796, con una prefazione di Marco Tangheroni, Cristianità, Piacenza 1996; cfr. recensione di Marco Invernizzi, in Cristianità, anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 26 e 30.

(9) Jacques Godechot, La contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), PUF, Parigi 1961, trad. it. sulla 2a ed. francese, La controrivoluzione. Dottrina e azione (1789-1804), Mursia, Milano 1988.

(10) Viene irresistibile chiedere: ma in quale liceo o aula accademica s’insegna, non solo che Giuseppe Mazzini (1805-1872) si sia posto il problema delle insorgenze del periodo napoleonico nel quadro della sua elaborazione teorica, ma che esse siano esistite tout court? La stessa Rao, in un precedente studio — Mezzogiorno e rivoluzione: trent’anni di storiografia, in Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 37, n. 4, ottobre-dicembre 1996, pp. 981-1041 —, ha avuto modo di farsi portavoce della tesi di Galasso nel contesto della valutazione — peraltro incidentale — di un breve profilo delle Insorgenze contro-rivoluzionarie da me tracciato e comparso nel volume collettaneo Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 1994, pp. 373-407). E la valutazione risulta del seguente tenore: mentre le mie poche righe vengono rubricate sotto la voce […] impudenti ricorrenti recriminazioni dei reazionari di turno prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione su un’insorgenza negletta e incompresa” (ibid., p. 1010), a carico di chi scrive viene detto che […] solo l’incoscienza può spingere a spaziare in poco più di trenta pagine dalla Vandea del 1793 al Messico del 1926, e solo l’ignoranza può sorreggere nell’affermazione che il fenomeno delle insorgenze popolari controrivoluzionarie sia stato fino a non molti anni fa […] poco esplorato in ambiente di ricerca” (ibid., nota 108). A riguardo mi limito solo a rilevare il tono alquanto scomposto della reazione della docente mentre, sotto il profilo sostanziale, mi permetto di osservare che esistono sintesi di poche pagine riguardo a periodi e a fenomeni storici ben più ampi. Come ben sa, il “taglio” del contributo dipende dal contesto in cui deve situarsi e non sempre l’autore può sceglierlo; anzi, ritengo che le sintesi, per di più del respiro di un articolo di rivista, siano fra le modalità espressive più difficili. O forse il mio contributo, così esiguo, ha acutizzato, traducendolo in un improvviso e violento accesso, l’idiosincrasia per le interpretazioni “unitarie” dell’Insorgenza da cui la professoressa Rao sembra essere affetta? Mi sfugge invece totalmente come la studiosa abbia potuto riscontrare che le tesi dei “reazionari” vengano prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione: a me pare, al contrario, che le poche volte in cui viene rotto il silenzio da parte dei mass media sui “reazionari” — e si veda proprio la sortita di Galasso sopra ricordata e peraltro reiterata in successiva occasione — è quando occorre parlarne per “batterne in breccia”, facendo sparare magari “cannoni” di grosso calibro, le argomentazioni e le azioni. Last but not least, non rilevo fra quelli addotti dalla studiosa alcun elemento che imponga di rivedere la mia asserzione, e devo quindi ribadirla, soprattutto alla luce dei primi risultati di ricerche che l’ISIN, l’Istituto per la Storia dele Insorgenze, ha promosso relativamente all’Italia Settentrionale. Anzi, il dotto e nutritissimo studio bibliografico della Rao sulla Rivoluzione nel Mezzogiorno d’Italia rafforza ulteriormente la mia convinzione, quando confronto l’esiguità dei riferimenti a opere dedicate alla maggiore delle insorgenze della Penisola, quella del Regno di Napoli — mentre si afferma contraddittoriamente che occorre […] comprendere […] come mai tanto ampie e diffuse furono le resistenze e le reazioni popolari contro i francesi e i loro sostenitori “giacobini”” (ibid., p. 997) —, con la dovizia dei titoli relativi alla Rivoluzione.

(11) Cfr. Generale Paul-Charles Thiébault, Mémoires du Général Baron Thiébault publiées sous les auspices de sa fille M.lle Claire Thiébault d’après le manuscript original par Fernand Calmettes, Parigi 1893-1895, vol. II, p. 325.

(12) Cfr. Athos Bellettini (1921-1983), La popolazione italiana. Un profilo storico, a cura di Franco Tassinari, con un’introduzione di Marino Berengo, Einaudi, Torino 1987, che valuta la popolazione a circa 15,5 milioni nel 1750 e a circa 18 milioni nel 1800 (cfr. tabella I, p. 14).

(13) Ernst Nolte, Verità e leggenda del revisionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, anno II, n. 5, settembre-ottobre 1998, Luni, Milano 1998, p. 11.

(14) Il riferimento è a Sandro Petrucci, Insorgenti marchigiani. Il Trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797, con una prefazione di M. Tangheroni, SICO, Macerata 1996; cfr. la recensione di Francesco Pappalardo, in Cristianità, anno XXIV, n. 259, novembre 1996, pp. 25-26.

(15) Cfr. alcune notizie sulla vita e l’opera di Lumbroso in O. Sanguinetti, saggio introduttivo a G. Lumbroso, op. cit.

(16) Cfr., a riguardo, Alberto Indelicato — cui per inciso debbo l’efficace espressione “noyer le poisson” —, Revisionismo e giustificazionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, cit., pp. 143-150.

(17) Cfr. Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese, con una prefazione di Giovanni Cantoni, trad. it., Effedieffe, Milano 1989; Reynald Secher, Il genocidio vandeano, con una prefazione di Jean Meyer e una presentazione di Pierre Chaunu, Effedieffe, Milano 1989; e Jean Meyer, La Cristiada, 4a ed. riveduta, 3 voll., Siglo Ventuno, Mexico-Madrid-Buenos Aires 1976.

(18) Cfr. S. Petrucci, L’insorgenza nell’Italia Centrale negli anni 1797-1798, in Nota informativa (dell’Istituto per la Storia delle Insorgenze di Milano), anno II, n. 8, gennaio-aprile 1998, pp. 7-24.

(19 ) Ibid., p. 13: l’espressione è tratta da un documento “romano” dell’epoca.

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IL MATTINO e il 1799

Posted by on Gen 8, 2019

IL MATTINO e il 1799

Antonella Orefice ha pubblicato un libro in cui si rivelerebbero in due paesini molisani “gli eccidi ordinati dai Borbone” (titolo a tutta pagina su Il Mattino del 14/6 con nota storiografica articolata che abbiamo inviato allo stesso giornale e allegata a queste premesse, in attesa di “eventuale” pubblicazione). Orefice è stata assistente di Maria Antonietta Macciocchi, comunista di posizioni maoiste che scrisse anche un libro dedicato alla de Fonseca e sintetizzato (Corriere della Sera, 8 gennaio 1999) nel libretto dell’opera allestita al San Carlo (contestata dai neoborbonici) per il bicentenario del 1799: “sono sicura -scriveva la Macciocchi- che è stata Eleonora a salvarmi dalle SS nel 1943… lasciai Napoli per Parigi ma credo che anche in questa scelta vi fosse l’influsso astrale di Eleonora…”. Una forma di cultura “neogiacobina” anche più estremizzata di qualsiasi forma di “neoborbonismo”… Lasciando da parte alcune perplessità sulla attendibilità di queste affermazioni e sulla scientificità della storia scritta dalla Macciocchi, riportiamo un post pubblicato poche ore fa dalla sua ex assistente che ha firmato il libro recensito a tutta pagina da Il Mattino: “Ecco chi sono i Borboni che tanto rimpiangi! ESULTA POPOLO LAZZARO…. ! (Ma noi SIAMO ANCORA QUA……….. La Nostra Repubblica è VIVA!)”.

Inevitabili alcune lettere di protesta che pare siano pervenute alla Orefice che se ne lamenta sempre sul suo profilo (e che non condividiamo solo se sono in qualche modo offensive e minacciose). Più di un dubbio, però, ci assale sulla imparzialità di questo nuovo libro, probabile frutto del comprensibile entusiasmo di chi non è esattamente e sistematicamente di casa negli archivi. E più di un dubbio ci assale anche sul distacco (quasi un odio, diremmo) che i giacobini del 1799 avvertivano contro quel “popolo lazzaro” (massacrato dai franco-giacobini con non meno di 60.000 caduti!) che si ribellò eroicamente a quella invasione: tenuto conto che la cultura ufficiale ha formato sulla base delle idee giacobine/liberali schiere di classi dirigenti locali e nazionali, ci assale ancora un altro dubbio che si lega al distacco che viviamo da queste parti tra governanti e governati. Distanti e contro il popolo (di Napoli e del Sud) nel 1799. Distanti e contro il popolo (di Napoli e del Sud) oggi. A dimostrazione della “pacatezza” e della sobrietà di intellettuali e giornalisti locali, l’autore dell’articolo, in un post appena pubblicato mette sullo stesso piano “neoborbonici e neofascisti” (“tra neofascisti e neoborbonici.. stiamo proprio messi male!”)…

E se la scommessa del futuro fosse, invece, proprio una classe dirigente finalmente e veramente radicata, rispettosa di tradizioni e identità, fiera e autenticamente napoletana e meridionale? E’ questo, da circa 20 anni, l’obiettivo neoborbonico: una scommessa paradossalmente davvero nuova se consideriamo i fallimenti delle classi dirigenti monopolisticamente formate dalla cultura ufficiale giacobina, liberale, antiborbonica e antinapoletana. Il successo e la diffusione (con la conseguente e facile rabbia degli “avversari”) delle nostre iniziative delle nostre idee ci fanno ben sperare…

Il solito 1799 e le stragi giacobine (davvero) dimenticate

Anche per Mazzini i giacobini erano traditori…  

Caro direttore, Napoli è davvero uno strano paese: da oltre 200 anni prevale in maniera monopolistica una lettura parziale e unilaterale di certe storie (in testa quella del 1799 fino a quelle “risorgimentali”) eppure la stessa cultura ufficiale che detiene quel monopolio continua a lamentarsi perché qualcuno ha “osato”, in questi anni, raccontare altre storie. In questo caso, Mario Avagliano, recensendo il nuovo libro di Antonella Orefice su alcune stragi (“dimenticate”) del Molise durante la rivoluzione napoletana, cita i soliti esuli che tante colpe hanno avuto nella creazione di un mito negativo e ancora attuale di Napoli o che -nel caso di Settembrini- furono costretti a rivedere molte delle loro tesi dopo l’Unità. Sempre i Borbone, poi, per l’articolista, avrebbero affidato a Ruffo “il compito della repressione” e così Ruffo avrebbe “occupato Napoli nel giugno del 1799 macchiandosi di efferati delitti, con mercenari albanesi, contadini del luogo e avanzi di galera”… Peccato, però, che quei mercenari fossero 50 (sui complessivi 80.000 volontari della sua armata) e che il Cardinale non aveva avuto il compito di “reprimere” ma di “liberare” il Regno da un’invasione straniera favorita da pochi giacobini locali (“una minoranza impercettibile” li definì Luigi Blanch) così come Napoli non fu di certo “occupata” da Ruffo (o dai Borbone), visto che era già “dei” Borbone che legittimamente vi regnavano. E di certo, del resto, in nessuna guerra (tanto più in una guerra contro l’esercito più potente del mondo) nessuno ha mai chiesto il curriculum di chi combatte. La Orefice ha scritto questo libro lasciando parlare “i documenti: quelli veri, quelli scomodi” contro chi in questi anni avrebbe “santificato i briganti e definito traditori i patrioti del 1799”. Solo che da oltre due secoli si tirano fuori sempre gli stessi documenti e non quelli che raccontano le stragi (quelle sì e quelle davvero dimenticate) compiute dai franco-giacobini ai danni della parte napoletana-cristiana-borbonica: oltre ottomila (in tre giorni) nella capitale e “oltre sessantamila i napoletani passati a fil di spada” in appena cinque mesi di repubblica: “Napoli non era altro che un immenso campo di carneficine, incendi, spavento e morte “ (memorie del generale Thiebault). Fu Giuseppe Mazzini, del resto, il primo a definire traditori quei patrioti che “avevano aperto le porte della città agli stranieri invasori… il Popolo napoletano  era disposto a morire combattendo non per superstizione, come più volte si è detto, ma per un sentimento nazionale, per un’idea di Patria che vi pulsava al di sotto” (manoscritto, Museo Centrale-Risorgimento). Si ricordano, allora, le fucilazioni molisane ma non i massacri e le devastazioni  sempre molisane di Isernia (oltre 1500 morti) o quelli di Mercogliano, Caserta, Ceglie, Carbonara, Bacoli, Benevento, Briano, Cetara, Collettara, Fondi, Gensano, Casamari, Itri, Massa, Nola, Pomigliano, Pagani  (e l’elenco sarebbe troppo lungo). Fu una guerra di invasione in alcune occasioni divenuta una sanguinosa e (a partire dai Borbone) non voluta guerra civile. Solo che in qualsiasi altro posto del mondo si  ricorderebbero i difensori della propria patria o almeno “anche” loro (si pensi alla celebrazione che il grande Goya ha fatto dei popolani spagnoli antifrancesi) e dalle nostre parti si scrive ancora con una rabbia e una parzialità oggettivamente eccessive di “massacri ordinati dai Borbone” o di “orde sanfediste” lasciando spazio ad una cultura ufficiale sempre poco attenta alle nostre tradizioni e alle nostre radici (anche borboniche e cristiane, al contrario di quanto pensano alcuni intellettuali): la stessa cultura ufficiale che, se solo guardiamo alla formazione delle nostre classi dirigenti, non ha prodotto risultati così positivi…

L’esercito francese che massacra il popolo napoletano al Carmine.

Premessa: e se Il Mattino organizzasse un dibattito? Leggo solo ora alcune considerazioni scritte dalla sig.ra Antonella Orefice autrice di un libro sugli “eccidi ordinati dai Borbone” in alcuni paesini molisani, recensito da Il Mattino qualche giorno fa e al centro di alcune polemiche e di un mio precedente intervento. La sig.ra Orefice minaccia di querelarmi ma è difficile capire le motivazioni di queste minacce poiché avevo espresso semplicemente alcuni giudizi (dovrebbe chiamarsi “dibattito”, mi pare) in merito a quanto scritto nella recensione firmata da Mario Avagliano. Giudizi storiografici (altro che “giudizi spregevoli sulla sua persona”) e che non posso che confermare perché si nota in quelle righe effettivamente un “entusiasmo comprensibile” per chi trova un documento, ma credo che sia necessario  evidenziare le lacune di ricerche archivistiche di fonti “dell’altra parte” (e citavo un lungo elenco di paesi oggetto di massacri, saccheggi e devastazioni): è forse “spregevole” a Napoli chiedersi se si tratta o no di un libro parziale o imparziale? Sempre la sig. ra Orefice, poi,  mi sopravvaluta e sottovaluta (forse solo per un naturale istinto di difesa delle proprie posizioni) la portata di un nuovo fenomeno culturale: io non ho “seguaci” (non ho mai creato una setta): circa 20 anni fa ho semplicemente creato un movimento culturale (il Movimento Neoborbonico) che ha fatto opera di ricerca e divulgazione con tesi di segno contrario rispetto a quelle della cultura ufficiale. Il consenso e il successo riscontrati sono andati ben al di là dei mezzi in campo e delle più rosee previsioni anche perché, evidentemente, c’è un forte bisogno di radici (tutte le radici), di storie ricche di orgoglio e rispettose di tradizioni napoletane, cristiane e anche borboniche… La sig.ra Orefice, allora, non può accusare il sottoscritto per tutte le lettere a lei pervenute e dalle quali (ripetiamo un concetto già abbondantemente espresso) ci dissociamo qualora fossero risultate offensive o minacciose (non è stato mai il mio e il nostro stile e non possiamo certo disporre della volontà di quanti hanno manifestato il loro dissenso). Lei stessa, del resto, in un post pubblicato prima delle polemiche si rivolgeva al “popolo lazzaro” invitandolo sarcasticamente ad esultare per le verità raccontate sui “suoi Borboni”. Chi scrive, oltre alla specializzazione in Archivistica presso l’Archivio di Stato di Napoli, ha all’attivo semplicemente migliaia di ore di studio con pubblicazioni (quasi tutte esaurite) che raccontano storie diverse rispetto a quelle raccontate dalla Orefice. Tutto qui. Altro che “storielle” o “verità manipolate” o tentativi di “vendere chiacchiere” insieme alle (nostre) incapacità di “comprendere i suoi lavori”, affermazioni che pure si presterebbero a eventuali querele ma che supereremo amando i dibattiti e non amando i tribunali italiani. In quanto alla mia critica rivolta alle classi dirigenti, la sig.ra Orefice risponde affermando che “non ha velleità politiche” né è alla ricerca di “candidature” ma, come la sig.ra certamente sa, si è “classe dirigente” anche (e di più) da giornalista o da intellettuale e resta in piedi la mia tesi sulle responsabilità di chi, in oltre 200 anni, e nonostante un vero e proprio monopolio di segno giacobino e liberale (e che, a quanto pare, ancora non basta), ha formato culturalmente chi ci ha rappresentato in questi anni e (come lo stesso Mattino spesso denuncia) non in maniera del tutto adeguata. Le inviamo, poi, i nostri complimenti per la pubblicazione, di altre recensioni positive del suo lavoro ma la cosa conferma quanto già scritto a proposito del monopolio della cultura ufficiale che, naturalmente, può prevedere anche recensioni positive su Repubblica o magari (è una citazione della sig.ra Orefice) sulla rivista ufficiale della Gran Loggia d’Italia (e cioè di quella massoneria più volte al centro dei nostri studi e delle nostre critiche per le sue responsabilità in merito a certi processi legati all’unificazione). Per tornare, poi, a quella parola a Napoli (e dalle parti del Mattino) piuttosto rara (“dibattito”), come nel mio primo intervento, vorrei evitare le facili, semplicistiche e confortanti etichette (”neoborbonici”, “giacobini” ecc.) ed entrare nel merito di alcune domande alle quali la sig.ra Orefice non ha dato risposta alcuna: non è forse vero che fu Mazzini il primo a definire traditori quei giacobini? Non è forse vero quanto affermato dalle fonti francesi e cioè che a Napoli in 3 giorni furono massacrati oltre ottomila “lazzaroni” e in tutto il Regno (in meno di 5 mesi) oltre sessantamila persone di parte napoletana-cristiana-borbonica? Non è forse vero che partivano ogni giorno per Parigi convogli con le nostre opere d’arte o che diverse centinaia di popolani furono condannati a morte solo per non aver gridato “viva la repubblica”? Non è forse vero che nella socialmente e culturalmente variegata armata di Ruffo quei “mercenari albanesi” non superavano le poche decine ed erano, invece, soldati delle comunità albanesi fedeli alla dinastia? Non è forse vero che furono devastati tutti quei paesi (abitanti compresi) sia nel 1799 che nel successivo periodo murattiano (su tutti “l’onda dei morti” di Lauria)?  Non è forse vero che in tutto il mondo chi difende la propria patria dagli stranieri è celebrato dopo secoli (un esempio su tutti i popolani spagnoli antifrancesi dipinti da Goya) e solo da noi viene ignorato e disprezzato? Queste sono le domande che abbiamo rivolto alla Orefice e al Mattino e su questo dovrebbe riflettere davvero una città che, a quanto pare, non ha ancora fatto pace con la sua storia.  Concordo, infine, con la sig.ra Orefice sul fatto che per noi il 1799 è (brutta immagine ma cito il suo testo) “un’ulcera perforata” ma solo perché, dopo oltre due secoli, avremmo il dovere di ricordare con cristiano rispetto tutte le vittime della rivoluzione franco-giacobina, “perforate” (loro sì, e a migliaia!), dalle baionette francesi al Carmine o a via Foria, a Porta Capuana o al Mercato stando dalla difficile part dei vinti, ieri come oggi. Non era il “popolo lazzaro”. Era il Popolo Napoletano. Il nostro Popolo.

Prof. Gennaro De Crescenzo

pubblicato il 19 giugno 2013

da http://pocobello.blogspot.com/2013/06/ancora-verita-sul-1799.html

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L’Insorgenza italiana, il suo significato, la sua «modernità»

Posted by on Set 30, 2018

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L’Insorgenza rappresenta la risposta — almeno nella sua forma primitiva e immediata — degli italiani alla crisi prodotta dal cambiamento portato dalla prima e forse più rude esperienza di modernità politica fatta dai popoli della Penisola fra il 1796 e il 1815, e funge in un certo senso da «cartina al tornasole» della pre-esistenza, con caratteri del tutto originali, di una nazione italiana al processo della sua unificazione politica.

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I LAZZARI E LA DIFESA DELLA NAPOLETANITA’

Posted by on Giu 12, 2018

I LAZZARI E LA DIFESA DELLA NAPOLETANITA’

Agli inizi del mese di gennaio del 1799, l’armata francese agli ordini di Championnet, straordinario personaggio che alle brillanti doti di generale unisce quelle di abile politico, si ritrova, senza colpo ferire, libera la strada per piombare su Napoli, grazie all’improvvida ritirata, dal munitissimo campo trincerato di Capua, delle truppe avversarie guidate dal generale Mack, il quale, peraltro, nell’operazione di sganciamento, perde oltre la metà dei suoi uomini. Praticamente una disfatta senza combattere.

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