Calvi si trovò direttamente coinvolta per la sua eccellente posizione strategica nei tragici eventi della guerra franco-napoletana del 1798 – 1799. Nonostante l’accordo di pace tra il Regno delle Due Sicilie e la Francia sancito il 5 giugno 1796 a Brescia e firmato il giorno dopo a Milano, il 23 ottobre del 1798 il Regno di Napoli entrò ancora una volta in guerra contro i francesi appoggiato dalla flotta inglese al comando del lord Horatio Nelson, l’ammiraglio britannico più famoso di tutti i tempi. L’esercito napoletano, affidato alla guida del generale austriaco Karl Mack, barone di Leiberich, e composto da 70.000 uomini reclutati in poche settimane, invase la Repubblica Romana con la dichiarata intenzione di ristabilire l’autorità papale.
Fu una breve stagione,
quella della “Primavera Napoletana”.
Il termine “Rivoluzione”,
giunse a Roma nel 1798, insieme alle truppe francesi.
S’insinuò nelle strade,
tra i nobili palazzi di Napoli; deflagrando il 17 gennaio 1799.
I giacobini presero
d’assalto il Castello di Sant’Elmo, che domina la città da un colle.
Il 21, con un Decreto del
Generale Championnet, fu istituito un Governo Provvisorio; era nata
ufficialmente, la Repubblica Napoletana.
Dal suddetto Castello, in
quattro giorni, caddero sotto le palle di cannone, circa ottomila napoletani e
“eroici Lazzari” come riconobbe lo stesso Championnet, ad opera di giacobini
locali, e francesi.
Senza l’ausilio dei
traditori locali, “il potente esercito francese, non avrebbe mai avuto la
meglio, sulla resistenza popolare”, ammise Thiebault nelle sue “Memorie”.
Nel 1734 i Borbone erano
diventati Re di Napoli, e avevano manifestato la ferma volontà di creare uno
Stato autonomo, indipendente, improntato sui valori tradizionali, cristiani e
popolari.
In breve, la Capitale del
Regno divenne uno dei più importanti centri produttivi internazionali, grazie
anche ai porti.
La città, e il suo entroterra, erano in piena
esplosione economica e demografica.
Pregevoli fabbriche di tessuti e ceramiche
(ancora oggi, esistenti!), di lavorazione delle corde e delle vele per la
navigazione, ne decretarono la supremazia commerciale, e culturale a livello
internazionale.
Sul destino del Regno di
Napoli e in generale sull’Europa, però, spirava già il vento “illuminato” della
Rivoluzione pronta a piantare “alberi della libertà” ovunque arrivasse.
La “Primavera Napoletana”
arrivò, e piantò i suoi “alberi della libertà” in ogni piazza della Capitale.
Furono mesi febbrili, il
“cittadino” sostituì il nobile, vennero promulgate leggi che garantivano le
libertà individuali, i diritti feudali abrogati.
Per spezzare la resistenza
del popolo napoletano che abbatteva in continuazione gli “alberi della libertà”
(odiato simbolo di invasione e violenza), i francesi emanarono oltre 1500
sentenze capitali.
Una “Primavera” a tinte
vermiglie.
Il Generale Thiebault si
vantò che la “Campagna Napoletana” era costata la vita a oltre sessantamila
napoletani, in cinque mesi di Repubblica.
La Rivoluzione del 1799
con tutta evidenza, dimostrò d’essere: anti cristiana, anti napoletana, anti
borbonica.
La Repubblica ebbe vita
breve; il 13 giugno il Cardinale Ruffo e la sua Armata Sanfedista, piombarono
su Castel Sant’Elmo annientando l’ultima resistenza repubblicana.
A posto degli “alberi
della libertà”, furono messe le forche, dalle quali penzolarono un centinaio di
repubblichini, subito dopo il ritorno dei Borbone sul Trono.
Poco più tardi, al pennone
della “Minerva” penzolava il corpo dell’ammiraglio Francesco Caracciolo,
affiliato alla Loggia Massonica “Perfetta Unione”.
L’ ammiraglio, aveva
tradito il suo Re, e la sua Nazione. Il codice militare penale, comminò la pena
di morte.
Quell’estate furono
eseguite altre sentenze di morte, a carico di: Gennaro Serra Duca di Cassano,
Michele Natale Vescovo di Vico Equense, Domenico Cirillo; tutti Massoni,
appartenenti alla Loggia “Officina Vittoria” di Napoli, ideatori della
Repubblica.
I Moti che seguirono, e la
stessa Unificazione, furono ideati, finanziati, e realizzati dalla Massoneria
internazionale con l’avallo della Massoneria locale.
La storiografia ufficiale
è scritta da coloro che sono usciti vincitori da quelle vicende.
I Massoni infatti,
rivendicano con orgoglio di essere stati i padri della “Patria”.
Dal Massone Caracciolo, al
Massone Garibaldi. I nemici restano gli stessi di allora.
1860: MASSONERIA E CHIESA
Accertato che, l’élite
repubblicana napoletana fu ispirata dagli ideali massonici; di contro, il
popolo per ripristinare lo status giuridico monarchico, costituì l’Esercito
della Santa Fede, con a capo il calabrese Cardinale Ruffo Fabrizio.
La Massoneria incise (e
incide) molto sul destino della Nazione; dalla Napoli e Milano settecentesca,
fino all’unità d’Italia.
Un “attore”
semisconosciuto (a torto, visto il ruolo decisivo) della Libera Muratoria
italiana tale, Friederich Munter teologo luterano Massone di origine tedesca, affiliato
all’Ordine degli Illuminati una società segreta fondata nel 1776 in Baviera,
agì da agente segreto con il ruolo di “sobillatore”.
Si trattava di
un’organizzazione massonica filo-rivoluzionaria segreta, propugnatrice di
ideali politico-sociali estremisti, che promuovevano su scala internazionale,
piani eversivi, finalizzati a rovesciare governi monarchici e le religioni, con
l’obiettivo di instaurare un nuovo ordine internazionale.
Fu (anche) un conflitto
tra Massoneria e Chiesa.
Nella seconda metà del
settecento, era molto attiva la Massoneria napoletana, la più cospicua e vivace
d’Italia; ebbe un ruolo di prim’ordine nel Regno di Ferdinando IV di Borbone
(ereditato dal padre nel 1759). Nel 1768 il giovane sovrano sposò Maria
Carolina d’Asburgo Lorena, proprio quando i Fratelli napoletani cominciavano a
tradire gli ideali della Massoneria locale, cristiana e legittimista.
Gli stessi ideali che
animavano Raimondo de’ Sangro, volti al miglioramento dell’individuo; progressi
che avrebbero influenzato anche il Governo.
La Massoneria napoletana, si
immischiò nella politica dando il via ad un laboratorio di idee per l’ammodernamento
dei comparti statali, a modello delle massonerie straniere di Francia,
Inghilterra, Olanda.
Gaetano Filangieri,
Francesco Mario Pagano, Francescantonio Grimaldi, si affiliarono alle varie
Logge; pure la Regina si attorniò di uomini legati alla Massoneria, per
arruolarli nella formazione di un partito di Corte filo-austriaco, al fine di
estromettere dal Governo il Primo Ministro Bernardo Tanucci.
Friederich Munter morì nel
1830 durante i Moti Carbonari italiani; aveva guidato e assistito le evoluzioni
della Massoneria napoletana e napoleonica, fino alla Restaurazione.
Recentemente, lo studioso
napoletano Ruggiero Ferrara di Castiglione, professore universitario appartenente
al Grande Oriente, ha donato alla biblioteca del GOI, tutto il carteggio di
Munter con i Massoni del Sud Italia, che va dal 1786 al 1820.
Corrispondenza che
testimonia la mutazione genetica ed ideologica, della Massoneria Napoletana,
dimentica delle sue origini cristiane e legittimiste.
Dimentica, degli obiettivi
di miglioramento spirituale e individuale, manifestati ed eternati dalla nobile
pietra della Cappella di Sansevero, nel cuore di Napoli.
Foriera delle sciagure e
del rovesciamento definitivo del Regno delle Due Sicilie 61 anni dopo (1799/1860).
Al netto, di tale
argomentazioni, non è ardito concludere che ci fu uno scontro tra la Massoneria
Repubblicana (internazionale) e la Massoneria Monarchica borbonica; con esiti
letali per la seconda.
Si ringrazia per le fonti: Napoli Capitale Morale di Angelo Forgione (Magenes, 2017), Associazione culturale Neoborbonica.
CELLOLE – L’evento organizzato dall’associazione ‘Ariella di musica, cultura e tradizioni’, presieduta da Biagio Palladino ed Elena Sorgente, introdotto da Maria Liguori e che ha visto la partecipazione dell’assessore Di Meo e del consigliere Lauretano, dedicata ai moti del 1799 che hanno interessato anche Terra di Lavoro ed il Ducato di Sessa Aurunca, di cui Cellole faceva parte, ha toccato il cuore di tutti. Lì dove c’è memoria, c’è volontà di preservare le proprie origini e le proprie tradizioni. L’associazione ‘Ariella’ nasce proprio con questo obiettivo: tenere vivo nell’animo dei cellolesi la storia di un popolo sulla quale gettare le basi del futuro. Il sodalizio ha attivato una serie di ricerche legate ai fatti del 1799 per comprendere più chiaramente cosa accadeva a Cellole in quel periodo. “Abbiamo ritenuto doveroso come associazione culturale impegnarci nella ricerca, non soltanto consultando i libri di storia, ma anche i documenti presenti negli archivi- ha precisato Biagio Palladino-. E ci siamo imbattuti nella storia di un prodigio tramandato di generazione in generazione dai nostri avi cellolesi secondo il quale i soldati francesi giunti alle porte di Cellole sarebbero stati bloccati nella loro corsa dall’apparizione della Madonna. I cavalli si sarebbero inginocchiati dinanzi a quella visione spirituale e a quel punto i soldati avrebbero deciso di tornare indietro e non occupare anche il nostro paese”. Tale prodigio viene raffigurato anche in una tela, svelata per l’occasione e custodita gelosamente dai familiari, di Francesco Girone, padre del professore Domenico Girone (membro dell’Ariella), realizzata nel 1946 a testimonianza del fatto che alcune storie, pur non potendo essere comprovate, sono radicate nella cultura cellolese e vanno alimentate. “Noi apparteniamo ad una grande storia: la storia di Cellole. Una storia che in alcune circostanze è stata voluta cancellare, come quella della nostra fede- ha dichiarato Elena Sorgente-. Posso immaginare il desiderio di Francesco Girone che nel 1946 ha sentito l’antico dovere di raffigurare in una tela il prodigio del 1799, perché tutti potessero guardare e capire, anche senza saper leggere. Ci siamo chiesti in questi mesi, infatti, se sia mai possibile che tutti i territori circostanti siano stati devastati dall’avanzata francese e Cellole no? Cellole dov’era? Cellole c’era- continua Sorgente-. Abbiamo trovato un buco nero nelle nostre ricerche sul 1799 a Cellole. Ma tanti, come Vito Cicale e padre Giacomo, hanno attivato prima di noi una ricerca per riempire questo buco nero. Ci sono persino dei libri antichi come quello di Nicola Borrelli dei primi dell’800 in cui si parla di questo prodigio. La Madonna di Costantinopoli, protettrice di Cellole, apparsa ai soldati francesi alle porte della città. La fede non può essere comprovata- ha continuato Elena Sorgente-. Ma speriamo che anche questa parte di storia possa avere il giusto riconoscimento”. Il convegno organizzato dall’Ariella, in collaborazione con Claudio Saltarelli dell’Associazione Identitaria Alta Terra di Lavoro, ha voluto soffermarsi sugli accadimenti del 1799 che interessando tutto il Regno di Napoli inevitabilmente si avvertirono anche nel Ducato di Sessa Aurunca. Gli esperti presenti come Fernando Di Mieri, Storico della Filosofia, e Fernando Riccardi, giornalista storico, hanno concentrato i loro interventi su una rivisitazione e reinterpretazione degli episodi in questione. “Non è nostra intenzione lanciare un messaggio diverso dei fatti riportati dai libri di storia- ha introdotto Biagio Palladino-, ma solo fornire due visioni differenti di quanto accaduto. Sta poi ad ognuno di noi interpretare i fatti come ritiene più opportuno”. Il professore Di Mieri ha voluto fornire una chiave di interpretazione degli eventi prettamente teologica. “Nel 1799 il mondo culturale si divide, non è vero che gli intellettuali stanno da una parte e il popolo dall’altra. Chi vuole fornire un’interpretazione di quei fatti come la divisione, il contrasto tra borghesia e ceti rurali sbaglia, interpreta in termini parziali. La visione è molto più ampia e si può pensare maggiormente ad uno scontro tra culture, i sanfedisti da una parte e i giacobini dall’altra”, afferma Di Mieri. “Il 1799 deve essere visto come l’anno in cui i francesi, reduci della loro rivoluzione, hanno tentato di scristianizzare la tradizione religiosa del nostro popolo. Non a caso il cardinale Ruffo utilizza come simbolo della lotta dell’invasione straniera il simbolo della croce”. E Riccardi si sofferma proprio sulla figura del cardinale Fabrizio Ruffo e su quella dell’abate di Cellole, Mattia de Paoli. “Ruffo viene spesso presentato come una leggenda nera dai libri di storia. Ma lui era lungimirante, innovativo”, afferma Riccardi. “Come l’abate Mattia de Paoli, uomo di grande cultura, personalità carismatica che prese in mano le redini del suo popolo invitando i suoi cittadini cellolesi a combattere e proteggere la loro terra dall’invasore. Memorabile è il proclama violentissimo in cui li invita a prendere le armi sotto la guida di un famoso insorgente, Leone Di Tora di Lauro. Insomma, gli uomini di chiesa divennero in quel periodo dei veri e propri soldati”. “Il 1799 è un periodo di svolta- afferma invece Claudio Saltarelli-, dove si consuma un vero e proprio scontro di civiltà tra la tradizione e il modernismo, l’applicazione del pensiero unico che ci ha portato alla creazione del positivismo, alla prima guerra mondiale e alla seconda guerra mondiale dove alcuni valori sono stati sovvertiti. Il 1799 era l’anno in cui una componente aristocratica e popolare cercava di contrastare questo cambiamento. E’ uno scontro di civiltà attualismo. Ed è un nervo scoperto ancora oggi”. Nel corso del convegno l’associazione Ariella ha intonato alcuni canti popolari e si è potuto assistere anche a due monologhi in lingua laborina dedicati a Fuoco e a fra’ Diavolo ed interpretati da Raimondo Rotondi.
Matilde Crolla
IL VIDEO ESCLUSIVO DEGLI INTERVENTI E DEI CANTI DELL’ARIELLA
Ricostruire quelle giornate è impresa ardua, mancano molti documenti, andati persi durante l’assalto al Palazzo Comunale del 19 Aprile 1885. Sono disponibili documenti relativi al periodo 1793/1800, presso l’Archivio Parrocchiale; l’Onciario del 1751 e del 1796, presso la Biblioteca Comunale; altra fonte è costituita dagli atti notarili presso gli Archivi di Stato.
Antonella Orefice ha
pubblicato un libro in cui si rivelerebbero in due paesini molisani “gli eccidi
ordinati dai Borbone” (titolo a tutta pagina su Il Mattino del 14/6 con nota
storiografica articolata che abbiamo inviato allo stesso giornale e allegata a
queste premesse, in attesa di “eventuale” pubblicazione). Orefice è stata
assistente di Maria Antonietta Macciocchi, comunista di posizioni maoiste che
scrisse anche un libro dedicato alla de Fonseca e sintetizzato (Corriere della
Sera, 8 gennaio 1999) nel libretto dell’opera allestita al San Carlo
(contestata dai neoborbonici) per il bicentenario del 1799: “sono sicura
-scriveva la Macciocchi- che è stata Eleonora a salvarmi dalle SS nel 1943…
lasciai Napoli per Parigi ma credo che anche in questa scelta vi fosse
l’influsso astrale di Eleonora…”. Una forma di cultura “neogiacobina” anche più
estremizzata di qualsiasi forma di “neoborbonismo”… Lasciando da parte alcune
perplessità sulla attendibilità di queste affermazioni e sulla scientificità
della storia scritta dalla Macciocchi, riportiamo un post pubblicato poche ore
fa dalla sua ex assistente che ha firmato il libro recensito a tutta pagina da
Il Mattino: “Ecco chi sono i Borboni che tanto rimpiangi! ESULTA POPOLO
LAZZARO…. ! (Ma noi SIAMO ANCORA QUA……….. La Nostra Repubblica è
VIVA!)”.
Inevitabili alcune lettere
di protesta che pare siano pervenute alla Orefice che se ne lamenta sempre sul
suo profilo (e che non condividiamo solo se sono in qualche modo offensive e
minacciose). Più di un dubbio, però, ci assale sulla imparzialità di questo
nuovo libro, probabile frutto del comprensibile entusiasmo di chi non è
esattamente e sistematicamente di casa negli archivi. E più di un dubbio ci
assale anche sul distacco (quasi un odio, diremmo) che i giacobini del 1799
avvertivano contro quel “popolo lazzaro” (massacrato dai franco-giacobini con
non meno di 60.000 caduti!) che si ribellò eroicamente a quella invasione:
tenuto conto che la cultura ufficiale ha formato sulla base delle idee
giacobine/liberali schiere di classi dirigenti locali e nazionali, ci assale
ancora un altro dubbio che si lega al distacco che viviamo da queste parti tra
governanti e governati. Distanti e contro il popolo (di Napoli e del Sud) nel
1799. Distanti e contro il popolo (di Napoli e del Sud) oggi. A dimostrazione
della “pacatezza” e della sobrietà di intellettuali e giornalisti
locali, l’autore dell’articolo, in un post appena pubblicato mette sullo stesso
piano “neoborbonici e neofascisti” (“tra neofascisti e neoborbonici..
stiamo proprio messi male!”)…
E se la scommessa del
futuro fosse, invece, proprio una classe dirigente finalmente e veramente
radicata, rispettosa di tradizioni e identità, fiera e autenticamente
napoletana e meridionale? E’ questo, da circa 20 anni, l’obiettivo neoborbonico:
una scommessa paradossalmente davvero nuova se consideriamo i fallimenti delle
classi dirigenti monopolisticamente formate dalla cultura ufficiale giacobina,
liberale, antiborbonica e antinapoletana. Il successo e la diffusione (con la
conseguente e facile rabbia degli “avversari”) delle nostre iniziative delle
nostre idee ci fanno ben sperare…
Il solito 1799 e le stragi
giacobine (davvero) dimenticate
Anche per Mazzini i
giacobini erano traditori…
Caro direttore, Napoli è davvero uno strano paese: da
oltre 200 anni prevale in maniera monopolistica una lettura parziale e
unilaterale di certe storie (in testa quella del 1799 fino a quelle
“risorgimentali”) eppure la stessa cultura ufficiale che detiene quel monopolio
continua a lamentarsi perché qualcuno ha “osato”, in questi anni, raccontare
altre storie. In questo caso, Mario Avagliano, recensendo il nuovo libro di
Antonella Orefice su alcune stragi (“dimenticate”) del Molise durante la
rivoluzione napoletana, cita i soliti esuli che tante colpe hanno avuto nella
creazione di un mito negativo e ancora attuale di Napoli o che -nel caso di
Settembrini- furono costretti a rivedere molte delle loro tesi dopo l’Unità. Sempre
i Borbone, poi, per l’articolista, avrebbero affidato a Ruffo “il compito della
repressione” e così Ruffo avrebbe “occupato Napoli nel giugno del 1799
macchiandosi di efferati delitti, con mercenari albanesi, contadini del luogo e
avanzi di galera”… Peccato, però, che quei mercenari fossero 50 (sui complessivi
80.000 volontari della sua armata) e che il Cardinale non aveva avuto il
compito di “reprimere” ma di “liberare” il Regno da un’invasione straniera favorita
da pochi giacobini locali (“una minoranza impercettibile” li definì Luigi
Blanch) così come Napoli non fu di certo “occupata” da Ruffo (o dai Borbone),
visto che era già “dei” Borbone che legittimamente vi regnavano. E di certo,
del resto, in nessuna guerra (tanto più in una guerra contro l’esercito più
potente del mondo) nessuno ha mai chiesto il curriculum di chi combatte. La
Orefice ha scritto questo libro lasciando parlare “i documenti: quelli veri,
quelli scomodi” contro chi in questi anni avrebbe “santificato i briganti e
definito traditori i patrioti del 1799”. Solo che da oltre due secoli si tirano
fuori sempre gli stessi documenti e non quelli che raccontano le stragi (quelle
sì e quelle davvero dimenticate) compiute dai franco-giacobini ai danni della
parte napoletana-cristiana-borbonica: oltre ottomila (in tre giorni) nella
capitale e “oltre sessantamila i napoletani passati a fil di spada” in appena
cinque mesi di repubblica: “Napoli non era altro che un immenso campo di carneficine,
incendi, spavento e morte “ (memorie del generale Thiebault). Fu Giuseppe
Mazzini, del resto, il primo a definire traditori quei patrioti che “avevano
aperto le porte della città agli stranieri invasori… il Popolo napoletano
era disposto a morire combattendo non per superstizione, come più volte si è
detto, ma per un sentimento nazionale, per un’idea di Patria che vi pulsava al
di sotto” (manoscritto, Museo Centrale-Risorgimento). Si ricordano, allora, le
fucilazioni molisane ma non i massacri e le devastazioni sempre molisane
di Isernia (oltre 1500 morti) o quelli di Mercogliano, Caserta, Ceglie,
Carbonara, Bacoli, Benevento, Briano, Cetara, Collettara, Fondi, Gensano,
Casamari, Itri, Massa, Nola, Pomigliano, Pagani (e l’elenco sarebbe
troppo lungo). Fu una guerra di invasione in alcune occasioni divenuta una
sanguinosa e (a partire dai Borbone) non voluta guerra civile. Solo che in qualsiasi
altro posto del mondo si ricorderebbero i difensori della propria patria
o almeno “anche” loro (si pensi alla celebrazione che il grande Goya ha fatto
dei popolani spagnoli antifrancesi) e dalle nostre parti si scrive ancora con
una rabbia e una parzialità oggettivamente eccessive di “massacri ordinati dai
Borbone” o di “orde sanfediste” lasciando spazio ad una cultura ufficiale
sempre poco attenta alle nostre tradizioni e alle nostre radici (anche borboniche
e cristiane, al contrario di quanto pensano alcuni intellettuali): la stessa
cultura ufficiale che, se solo guardiamo alla formazione delle nostre classi
dirigenti, non ha prodotto risultati così positivi…
L’esercito francese che massacra il popolo napoletano al Carmine.
Premessa: e se Il Mattino
organizzasse un dibattito? Leggo solo ora alcune considerazioni scritte dalla
sig.ra Antonella Orefice autrice di un libro sugli “eccidi ordinati dai
Borbone” in alcuni paesini molisani, recensito da Il Mattino qualche giorno fa
e al centro di alcune polemiche e di un mio precedente intervento. La sig.ra
Orefice minaccia di querelarmi ma è difficile capire le motivazioni di queste
minacce poiché avevo espresso semplicemente alcuni giudizi (dovrebbe chiamarsi
“dibattito”, mi pare) in merito a quanto scritto nella recensione firmata da
Mario Avagliano. Giudizi storiografici (altro che “giudizi spregevoli sulla sua
persona”) e che non posso che confermare perché si nota in quelle righe effettivamente
un “entusiasmo comprensibile” per chi trova un documento, ma credo che sia
necessario evidenziare le lacune di ricerche archivistiche di fonti
“dell’altra parte” (e citavo un lungo elenco di paesi oggetto di massacri, saccheggi
e devastazioni): è forse “spregevole” a Napoli chiedersi se si tratta o no di
un libro parziale o imparziale? Sempre la sig. ra Orefice, poi, mi
sopravvaluta e sottovaluta (forse solo per un naturale istinto di difesa delle
proprie posizioni) la portata di un nuovo fenomeno culturale: io non ho
“seguaci” (non ho mai creato una setta): circa 20 anni fa ho semplicemente
creato un movimento culturale (il Movimento Neoborbonico) che ha fatto opera di
ricerca e divulgazione con tesi di segno contrario rispetto a quelle della
cultura ufficiale. Il consenso e il successo riscontrati sono andati ben al di
là dei mezzi in campo e delle più rosee previsioni anche perché, evidentemente,
c’è un forte bisogno di radici (tutte le radici), di storie ricche di orgoglio
e rispettose di tradizioni napoletane, cristiane e anche borboniche… La sig.ra
Orefice, allora, non può accusare il sottoscritto per tutte le lettere a lei
pervenute e dalle quali (ripetiamo un concetto già abbondantemente espresso) ci
dissociamo qualora fossero risultate offensive o minacciose (non è stato mai il
mio e il nostro stile e non possiamo certo disporre della volontà di quanti
hanno manifestato il loro dissenso). Lei stessa, del resto, in un post
pubblicato prima delle polemiche si rivolgeva al “popolo lazzaro” invitandolo
sarcasticamente ad esultare per le verità raccontate sui “suoi Borboni”. Chi
scrive, oltre alla specializzazione in Archivistica presso l’Archivio di Stato
di Napoli, ha all’attivo semplicemente migliaia di ore di studio con
pubblicazioni (quasi tutte esaurite) che raccontano storie diverse rispetto a
quelle raccontate dalla Orefice. Tutto qui. Altro che “storielle” o “verità
manipolate” o tentativi di “vendere chiacchiere” insieme alle (nostre)
incapacità di “comprendere i suoi lavori”, affermazioni che pure si
presterebbero a eventuali querele ma che supereremo amando i dibattiti e non
amando i tribunali italiani. In quanto alla mia critica rivolta alle classi dirigenti,
la sig.ra Orefice risponde affermando che “non ha velleità politiche” né è alla
ricerca di “candidature” ma, come la sig.ra certamente sa, si è “classe
dirigente” anche (e di più) da giornalista o da intellettuale e resta in piedi
la mia tesi sulle responsabilità di chi, in oltre 200 anni, e nonostante un
vero e proprio monopolio di segno giacobino e liberale (e che, a quanto pare, ancora
non basta), ha formato culturalmente chi ci ha rappresentato in questi anni e
(come lo stesso Mattino spesso denuncia) non in maniera del tutto adeguata. Le
inviamo, poi, i nostri complimenti per la pubblicazione, di altre recensioni
positive del suo lavoro ma la cosa conferma quanto già scritto a proposito del
monopolio della cultura ufficiale che, naturalmente, può prevedere anche
recensioni positive su Repubblica o magari (è una citazione della sig.ra
Orefice) sulla rivista ufficiale della Gran Loggia d’Italia (e cioè di quella
massoneria più volte al centro dei nostri studi e delle nostre critiche per le
sue responsabilità in merito a certi processi legati all’unificazione). Per
tornare, poi, a quella parola a Napoli (e dalle parti del Mattino) piuttosto rara
(“dibattito”), come nel mio primo intervento, vorrei evitare le facili, semplicistiche
e confortanti etichette (”neoborbonici”, “giacobini” ecc.) ed entrare nel
merito di alcune domande alle quali la sig.ra Orefice non ha dato risposta alcuna:
non è forse vero che fu Mazzini il primo a definire traditori quei giacobini?
Non è forse vero quanto affermato dalle fonti francesi e cioè che a Napoli in 3
giorni furono massacrati oltre ottomila “lazzaroni” e in tutto il Regno (in
meno di 5 mesi) oltre sessantamila persone di parte napoletana-cristiana-borbonica?
Non è forse vero che partivano ogni giorno per Parigi convogli con le nostre
opere d’arte o che diverse centinaia di popolani furono condannati a morte solo
per non aver gridato “viva la repubblica”? Non è forse vero che nella socialmente
e culturalmente variegata armata di Ruffo quei “mercenari albanesi” non superavano
le poche decine ed erano, invece, soldati delle comunità albanesi fedeli alla
dinastia? Non è forse vero che furono devastati tutti quei paesi (abitanti
compresi) sia nel 1799 che nel successivo periodo murattiano (su tutti “l’onda
dei morti” di Lauria)? Non è forse vero che in tutto il mondo chi difende
la propria patria dagli stranieri è celebrato dopo secoli (un esempio su tutti
i popolani spagnoli antifrancesi dipinti da Goya) e solo da noi viene ignorato
e disprezzato? Queste sono le domande che abbiamo rivolto alla Orefice e al
Mattino e su questo dovrebbe riflettere davvero una città che, a quanto pare,
non ha ancora fatto pace con la sua storia. Concordo, infine, con la
sig.ra Orefice sul fatto che per noi il 1799 è (brutta immagine ma cito il suo
testo) “un’ulcera perforata” ma solo perché, dopo oltre due secoli,
avremmo il dovere di ricordare con cristiano rispetto tutte le vittime della
rivoluzione franco-giacobina, “perforate” (loro sì, e a migliaia!), dalle
baionette francesi al Carmine o a via Foria, a Porta Capuana o al Mercato
stando dalla difficile part dei vinti, ieri come oggi. Non era il “popolo
lazzaro”. Era il Popolo Napoletano. Il nostro Popolo.