Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Pietro Bailardo, come Cassino ebbe la sua maschera

Posted by on Gen 21, 2020

Pietro Bailardo, come Cassino ebbe la sua maschera

Era l’inizio del 1998. Fui chiamato dall’assessore alla Cultura del Comune di Cassino Achille Gallaccio, amico di vecchia data. Era impegnato nell’organizzazione del Carnevale cassinate.

«Tutti i paesi qui attorno – mi disse – hanno una maschera di carnevale, è possibile che Cassino non debba averla?». Confermai che effettivamente era così.

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I Borbone e le potenze europee

Posted by on Ott 28, 2019

I Borbone e le potenze europee

1799-1861

(Appunti per una storia della politica estera borbonica)

I Questa breve relazione riprende, con poche modifiche dovute alla sede ospitante, il testo presentato ad un convegno promosso dall’Istituto per la Ricerca Storica delle Due Sicilie . Intende cogliere le linee fondamentali della politica estera portata avanti dai sovrani della dinastia borbonica, prendendo come termini di riferimento due date assolutamente centrali: da una parte il 1799, anno della Rivoluzione Napoletana e vero snodo della storia meridionale, dall’altra il 1861, che vede il definitivo disfacimento del Regno, la più importante realtà politica d’Italia. Molto si è detto e discusso in proposito. La storiografia più libera, ospitata talvolta anche in sedi accademiche (penso ai preziosissimi lavori di Eugenio Di Rienzo, ad uno dei quali il mio titolo si ispira), ha già messo in evidenza molti aspetti che spiegano le ragioni del crollo. Per quel che mi riguarda, cercherò di mostrare in particolare l’intimo intreccio tra politica internazionale, politica interna, cambiamenti culturali e interessi economici in senso ampio del Regno e delle altre grandi potenze europee. Va da sé: per un’analisi dell’argomento prescelto che voglia assurgere ad un minimo di chiarezza e approfondire in misura corrispondente si richiederebbero spazi molto più lunghi di quelli che può accogliere un sito internet di divulgazione, sicché dovrò tenermi all’essenziale, pur senza rinunciare alla volontà di comprendere le grandi questioni, che si intrecciano in un gioco perverso ai danni del Regno. Non avranno un ruolo centrale, in quello che scriverò, considerazioni che rivestono invece ben altra importanza soprattutto in esempi della letteratura revisionista. Penso, ad esempio, alle influenze massoniche, che indubbiamente vi furono e furono notevoli, ma, in vista di un’indagine scientifica, avrebbero bisogno di trattazioni specifiche, soprattutto per evidenziarne le complesse articolazioni e specificità, in riferimento ai luoghi, ai tempi e alle persone. Ho parlato di impostazione scientifica. È quella che mi propongo di adottare, anche se ben consapevole dei rischi che da altocilentano corro, quando provo ad affrontare una simile tematica. Molti (lo stesso Di Rienzo) hanno ripreso quanto Croce diceva della cosiddetta “storia affettuosa”, quella che, tanto per dire, può riguardare la biografia di una persona di famiglia, in cui il coinvolgimento affettivo rischia di prevalere sul rigore dell’analisi. Lo stesso valga per ogni oggetto di studio che procuri un sussulto emotivo nel ricercatore. Così, in questo caso potrebbe agire l’affetto per un Regno che, con tutti i suoi limiti, era il “mio” Regno, quello che peraltro aveva segnato una decisa ripresa in ogni ambito della vita pubblica del Sud. Eppure, mi sforzerò di tenermi entro i ristretti limiti di un’argomentazione algida, quasi metallica, nel discutere le varie posizioni culturali o gli eventi accaduti. Cercherò di vedere le cose con tutto il rigore di cui sono personalmente capace, senza lasciarmi prendere dall’intima nostalgia per il Regno distrutto o dal rimpianto per quello che poteva essere e non è stato. Vedrò punti di forza e debolezze; cercherò di capire delle ragioni -ideali economiche geopolitiche psicologiche culturali- le quali hanno condotto ad una situazione che, se per pochi è stata provvidenziale, per molti ha assunto i toni della tragedia. Spero solo che alla fine l’ascoltatore non ne tragga l’impressione di una vicenda, quasi come in una visione organica à la Spengler, destinata al tramonto e alla morte. Tutto ciò porterebbe ad una sorta di deresponsabilizzazione, ed è invece una ricerca e un’assegnazione di responsabilità che, a mio sommesso parere, occorre portare avanti per penetrare nelle più intime fibre lo svolgimento di una storia, per aiutarsi nella spiegazione di tante attuali difficoltà che la nostra gente ancora oggi vive. La collocazione geografica Prima di ogni ulteriore considerazione, bisogna ricordare la particolare collocazione del Regno (dirò semplicemente così, intendendo per tale l’area, neppure precisata nei dettagli, su cui si estendeva il dominio della dinastia inaugurata da Carlo di Borbone). Un Regno prestigioso per la storia e la cultura, ma anche importante poiché al centro del Mediterraneo. Ora, se è vero che tra la seconda metà del XVI secolo e il XVII il Mare Nostrum aveva perso parte della sua centralità con l’incrementarsi degli scambi con le Americhe, è altresì vero che non aveva mai cessato di essere un luogo in cui si svolgevano politiche cardine di diversi Stati. Per di più, una sempre più accentuata relazione con l’Oriente, che per altro verso si verificava, ne faceva riaffermare quell’importanza che solo ad uno sguardo parziale poteva risultare irrimediabilmente perduta. Tra l’altro, proprio Napoli, nel 1724 (il riconoscimento pontificio arriva nel 1732) in età austriaca, vede la nascita, ad opera dell’ebolitano Matteo Ripa, del nucleo originario di un istituto di studi orientali (vari i nomi che ha assunto: all’inizio “Collegio de’ Cinesi”, ora “Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’ ”), che nel tempo vivrà momenti di autentica gloria. Si potrebbe parlare della diffusione di quelle che saranno dette “cineserie”, o dell’influsso del pensiero su autori europei (e.g. Leibniz) etc. per far capire come il Mare nostro aveva sempre (o di nuovo) un’importanza tale da procurare ricchezza e potere, ma anche tale da scatenare appetiti. Non è per caso che, alla fine del XVIII secolo (l’inizio è del 1798), Napoleone, allo scopo di danneggiare gli interessi inglesi e nel Mediterraneo e in Oriente, si deciderà ad attaccare l’Egitto, in un’impresa che gli sorriderà in alcune fasi, ma alla fine si rivelerà per lui disastrosa, mentre per la storia culturale avrà un’importanza incomparabile (si pensi al ritrovamento della Stele di Rosetta). Bene, se il Mediterraneo è un catalizzatore di interessi, chi vive in un regno che si trova nel cuore di quel mare potrà mai vivere in pace? Se da quella posizione derivava tanta parte del benessere che i Borbone sapranno parzialmente cogliere, da quella stessa posizione derivavano i primi pericoli di sopravvivenza. Il Sud era peraltro troppo grande per fare una politica, per così dire, di piccolo cabotaggio, come un qualsiasi Ducato, ma era troppo piccolo per poter svolgere un ruolo di competitore delle grandi potenze. È qui che si giocherà parte cospicua delle disavventure di un Regno che sostanzialmente non chiedeva certo alla storia la realizzazione di una vocazione coloniale né altro che potesse offendere altri popoli. Fernando Di Mieri Fernando Di Mieri È professore invitato di “Scienza e Religione” presso l’Istituto “Scienza e Fede” dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma. È stato altresì, oltre che docente nei Licei di Stato, visiting professor presso la University of Toronto e Faculty Researcher presso la sub-faculty of philosophy, Merton College, University of Oxford. Per lunghi anni ha insegnato filosofia della scienza e cosmologia filosofica presso lo Studio Filosofico dei Domenicani d’Italia, Napoli. Ha diretto progetti di ricerca internazionali (e.g., con il supporto del Metanexus Institute, emanazione della Templeton Foundation). Le sue pubblicazioni concernono autori come Gentile, Dante, Vico, nonché problematiche di tipo teoretico. Relativamente alla storia culturale del Meridione d’Italia ha, in occasione del bicentenario, curato l’organizzazione di un convegno, nonché gli Atti relativi, su Il 1799. Ideali ed eventi nel Salernitano (Gutenberg, 1999), al quale hanno offerto i loro contributi studiosi come Cestaro, Dente, De Mattei, Di Maio, Mazzetti, Planelli, Ruffo, Viglione; ha poi curato la pubblicazione, con relativi studi introduttivi, di opere di Sanseverino, Fergola, Colangelo, che rischiavano di patire l’oblio a causa delle loro nette posizioni culturali. Di Mieri è co-direttore della “Rivista di Studi Italiani”, nonché direttore della collana “La tavola di Vico” presso Ripostes. Tra i suoi lavori in corso v’è il coordinamento, insieme con De Jorio Frisari, di un gruppo accademico di studio sulla civiltà napoletana del 1799.

Fernando Di Mieri

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Un passato che non passa…..di Zenone di Elea

Posted by on Lug 29, 2019

Un passato che non passa…..di Zenone di Elea

Un passato che non passa, in tutti i sensi. Perché ne subiamo le conseguenze ancora oggi, basta guardare le migliaia di persone che ogni anno abbandonano il Sud-Italia e perché non passa nelle teste delle persone, dei meridionali in primo luogo.

Leggendo la lettera del ragazzo di Gioiosa con le sue domande e la risposta che gli dà Zitara sentiamo che sono due mondi incomunicabili, che non riescono a dialogare. Sinceramente ci viene lo sconforto, pensando che forse non vi riusciranno mai.

Eppure sta tutto qui, in questo dialogo tra sordi il nostro dramma: l’incapacità assoluta di creare un soggetto politico autonomo che faccia effettivamente, per la prima volta nella storia dell’Italia unita, gli interessi del “Mezzogiorno”.

Le parole del ragazzo sono anche le nostre, di tanti anni fa, agli inizi degli anni settanta, quando frequentavamo l’ultimo anno delle scuole superiori in un pesino del Cilento e, nonostante del famoso ’68 sapessimo ben poco, volevamo cambiare il mondo, addirittura farlo diventare “socialista” perché solo così si sarebbero risolti tutti i mali passati e presenti del nostro Sud. Mali che costituivano l’atavico retaggio di una monarchia retriva e corrotta, quella borbonica, se non degli spagnoli o dei latifondisti romani e chi più ne ha più ne metta.

Almeno così ci indottrinavano a scuola.

Col tempo ci siamo resi conto, a fatica diciamolo francamente, che di balle ce ne avevano raccontate tante. Che non venivano da un paese senza storia, che quel paese una storia ce l’aveva, non era poi così male e che una guerra civile, in cui eravamo gli sconfitti, l’aveva cancellata.

Ora che non beviamo più alla fonte delle frottole, vorremmo che anche altri lo facessero. Non solo noi lo vorremmo, tanti amici sparsi per i vari continenti e altri residenti al Sud, come l’amico Zitara che ha speso tutta la sua vita per chiudere quel rubinetto di fandonie, lo vorrebbero.

Con l’acqua di quel rubinetto siamo cresciuti, sono state forgiate le coordinate interpretative della nostra storia, liberarcene è impresa ardua.

Quando noi che abbiamo saltato il fosso delle menzogne sentiamo o scriviamo certi nomi patrii, tipo Cavour o Garibaldi o Savoia, pensiamo alle migliaia di contadini morti oppure alle officine di Pietrarsa chiuse dopo l’unità, ma quando li sentono gli altri (ricordiamocelo, questi altri rappresentano il 99,9%) pensano ai padri della patria e nel migliore dei casi a roba vecchia, ottocentesca.

Che c’azzecca Garibaldi con la mafia e la criminalità organizzata, per esempio?
Che c’azzeccano i Savoia col malcostume meridionale?
Che c’azzecca Cavour con la mancanza di iniziativa imprenditoriale?

Se passiamo al termine “borbone” a noi viene in mente che Ferdinando II tramutò tutte le condanne capitali, che si inimicò gli Inglesi con la questione degli zolfi, agli altri viene in mente la bufala delle bufale ovvero quel falso storico della “negazione di Dio” del Gladstone, ‘gentiluomo’ inglese che non aveva mai visto una galera borbonica e lo ammise egli stesso, ma questa precisazione sui libri si storia non è mai passata.

Potremmo continuare all’infinito con i soliti luoghi comuni. Vallo a spiegare al ragazzo di Gioiosa che in Sicilia la mafia fece il primo salto di qualità appoggiando l’avanzata dell’eroe dei due mondi e che l’ordine pubblico nella Napoli garibaldina fu appaltato ai camorristi.

Magari ti obietta che bisogna guardare avanti, non al passato. Come possiamo fargli capire che è proprio in quel passato che non passa il nostro dramma maggiore, che se non ne prendiamo coscienza saremo sempre dei lacchè, dei senza patria, senza passato e senza futuro?

Noi che da anni, nel nostro piccolo, con estenuanti e infeconde discussioni con decine di amici e conoscenti, abbiamo provato a farlo, ci siamo resi conto che non è una questione culturale. Non si tratta più di riscrivere libri, di partecipare a convegni, di rendere omaggio ai nostri morti dimenticati.

Si tratta di semplice politica.

Solo un soggetto politico nuovo, unitario, può provocare un diffuso risveglio delle coscienze. Sta in noi che quel salto lo abbiamo fatto, la responsabilità di abbandonare tutte le diatribe, i personalismi, le piccole invidie e il nostro orticello e cercare di volare alto.

Qualche segnale in questi giorni lo abbiamo colto, speriamo che non si riveli effimero. Tanti “ragazzi di Locri” di varie età, sparsi per l’intera penisola e in altre parti del mondo, attendono quel segnale.

Solo così potremo riprenderci quello che – in un editoriale da leggere della rivista “L’Alfiere” – Edoardo Vitale definisce con una felice metafora “le chiavi di casa”.

Questo/a opera è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

Bibiografia essenziale
L’UNITÀ TRUFFALDINA, Nicola Zitara – e-book (edizione elettronica)
IL SUD E L’UNITÀ D’ITALIA, Giuseppe RESSA – e-book (edizione elettronica)
LA STORIA PROIBITA – AAVV (Introduzione di Nicola Zitara)
L’UNITÀ D’ITALIA: NASCITA DI UNA COLONIA, Nicola Zitara
PER LA CRITICA DEL SOTTOSVILUPPO MERIDIONALE di E. M. Capecelatro e A. Carlo
STORIA DEL BRIGANTAGGIO DOPO L’UNITÀ di Franco Molfese
ITALIANI, BRAVA GENTE? di Angelo Del Boca – Editore Neri Pozza, 2005
L’UNITÀ D’ITALIA: GUERRA CONTADINA E NASCITA… di M. R. Cutrufelli
I SAVOIA E IL MASSACRO DEL SUD, Antonio Ciano, Grandmelò
L’IMBROGLIO NAZIONALE, Aldo Servidio, Guida Editore
LA CONQUISTA DEL SUD, Carlo Alianello, Rusconi Editore
L’eredità della priora, Carlo Alianello, Feltrinelli, 1963
I LAGER DEI SAVOIA, Fulvio Izzo, Controcorrente, Napoli
DUE SICILIE, 1830 – 1880, Antonio Pagano, Capone, Lecce
I NAPOLITANI AL COSPETTO DELLE NAZIONI CIVILI di Giacinto de Sivo
STUDI SUL MEZZOGIORNO REPUBBLICANO di Luca Bussotti
LA RAZZA MALEDETTA di Vito Teti
II RISORGIMENTO VISTO DALL’ALTRA SPONDA di Cesare Bertoletti
IL BRIGANTAGGIO IN IMMAGINI di Carlo Palestina
Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno 1860-1870 (Catalogo Macchiaroli, 1985)
Cattivi esempi – Storie dimenticate dell’Italia “perbene” (Mario Pacelli)

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La mostra a Capodimonte/Napoli e Caravaggio: due anime eretiche che rifiutano di relegare la visione del mondo in uno spazio-scatola

Posted by on Apr 29, 2019

La mostra a Capodimonte/Napoli e Caravaggio: due anime eretiche che rifiutano di relegare la visione del mondo in uno spazio-scatola

Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, dipinge opere meravigliose e inquietanti. Anche nella sua biografia c’è inquietudine, oscurità e mistero. Nato a Milano nel 1571, vissuto poi a Caravaggio, paese d’origine della sua famiglia, compare a Roma, nel 1595, quale esperto pittore, già molto stimato da notabili e alti prelati della Roma papalina, che gli commissionano opere importanti.
Eppure, ed è molto strano, non si conosce nessuna sua opera dipinta prima del suo soggiorno romano. I critici hanno studiato a fondo le sue pitture romane e vi hanno evidenziato influenze, per quanto ipotetiche, di vari pittori lombardi esaltando, così, l’importanza della pittura lombarda. Viceversa, sono stati molto poco studiati i rapporti tra le sue pitture realizzate a Napoli e l’ambiente sociale e artistico di questa città. Anzi, ci è affrettati ad affermare soltanto l’influsso di Caravaggio sui pittori napoletani, che quindi sono stati definiti tout court caravaggeschi.
Ma ecco, a Capodimonte, fino al 14 luglio, la mostra Caravaggio Napoli, che già nel titolo “paritario” si presenta come stimolo ad approfondire questo argomento, iniziando un nuovo discorso. E che, seduttiva e spettacolare nell’allestimento, curato dallo stesso direttore della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte Sylvain Bellenger e dalla professoressa Cristina Terzaghi, può diventare una pietra miliare nella conoscenza di Michelangelo Merisi, della pittura seicentesca napoletana e, in fondo, pure di tutta la storia dell’arte.
Caravaggio arriva a Napoli nel 1606. E’ in fuga da Roma, dove è stato condannato a morte perché, in una rissa, ha ucciso un uomo. Napoli è il suo rifugio. Vi resterà per quasi un anno. Vi ritornerà nel 1609 e se ne allontanerà l’anno dopo per sfuggire a un misterioso killer; ma nella fuga, invece, troverà la morte.
Napoli, all’epoca, è una splendida capitale spagnola e la città di gran lunga la più popolosa d’Italia. In quegli anni è in piena attività anche edilizia e sta sostituendo il palazzo reale aragonese con un altro più grande e più bello, che dovrebbe accogliere Filippo III d’Asburgo, il Re, che però non vi giungerà mai. (lo stesso palazzo, ristrutturato e modificato, ora si trova nella piazza del Plebiscito, chiamata, un tempo, Largo di Palazzo)
A Napoli, all’epoca, c’è un’ampia e vivace cerchia di letterati e di artisti, tra i quali Caravaggio è accolto. E possiamo immaginarlo dialogare con loro in un proficuo scambio di idee. Si ritrovano nella Taverna del Cerriglio. Tra gli avventori, c’è gente di nobile famiglia, come il grande Giovan Battista Basile, che la dice “casa de li spasse, dove trionfa Bacco, dove si scarfa Venere e s’allonga la vita ‘e chiù ‘e cient’anne”.
Ma la taverna è frequentata anche da povera gente: è un ambiente napoletano, in cui ricchi e poveri si mischiano, perché il denaro e il ceto sociale non sono, per i napoletani di un tempo, il discrimine che li divide. Ricchi e poveri appaiono insieme, mischiati tra loro, anche nella prima opera che il pittore lombardo dipinge a Napoli: Le sette opere di misericordia.

E’ un’opera cruciale, che testimonia un cambiamento profondo nella concezione del mondo del sensibile artista lombardo. Nel dipinto c’è la rappresentazione della realtà e dell’anima di un vicolo napoletano. Le persone rappresentate, anche la Madonna, hanno la fisionomia della gente di questo popolo.
E qui Caravaggio è libero dall’impedimento della costruzione prospettica del canonico spazio-scatola di derivazione toscana. Alla quale, pur obbedendole, si era già dimostrato insofferente quando, ad esempio, nella “Sepoltura di Cristo” (Pinacoteca Vaticana), dipingeva uno spazio in diagonale, mettendo uno spigolo del sepolcro in primo piano. Qui, invece, gli spigoli delle costruzioni fanno da incerto sfondo, mentre spingono in avanti la folla portata in primo piano. E’ lei che crea la realtà dello spazio, che qui è formato dai movimenti e dai gesti di ciascuno. Non c’è bisogno di contestare lo spazio canonico criticandolo. Basta crearne un altro. Napoli e Caravaggio: due anime eretiche che, libere dal modo di pensare canonico, sono restie a immettere la loro visione del mondo nei ristretti limiti di uno spazio-scatola.
Già Antonello da Messina (1430/1479), allievo del napoletano Colantuono (1420/1460),  aveva oscurato lo spazio nei ritratti e nella “Annunciata” di Palazzo Abatellis  e realizzato, poi, nel “San Girolamo nello studio”, una sorta di spazio in movimento, come chiaramente testimonia, tra l’altro, il disegno delle mattonelle del pavimento. E, nei polittici di Cicino da Caiazzo e del Maestro di Sanseverino (a Capodimointe), la Madonna e i Santi hanno forme cinquecentesche ma vivono in un anomalo spazio d’oro, senza linee prospettiche (per la qualcosa i dotti li considerano arretrati).
Poi  Francesco Curia (1538/1616), maestro anche di Teodoro d’Errico (1544/1610), dipinge autonomamente e racconta, nell’Annunciazione” (a Capodimonte),  una sorta di sconvolgimento spaziale creato dall’annunzio dell’angelo. Le “Sette opere di misericordia” purtroppo non sono nell’attuale mostra, la quale, tuttavia, è ugualmente affascinante, come testimonia la straordinaria affluenza del pubblico, rapito dalla sua  scenografia favolosa, che lo introduce in quella pittura seicentesca che scandaglia con una sensibilità “viscerale”, tutta napoletana, la sofferente anima umana.
Ma questa mostra è anche molto importante per gli studiosi. Perché, subito dopo l’arrivo a Napoli, Caravaggio, come riferisce Francesca Santucci, incomincia a “rinvigorire gli scuri”. Il che non avviene per una superficiale ragione estetica. In questo modo, infatti, lui elimina del tutto lo spazio tradizionale. E dipinge il buio. Quel buio della sua anima tormentata dal peccato e dal rimorso, quel buio da cui con forza fa risaltare i corpi illuminandoli. E sono i corpi dei Cristi ma anche quelli dei carnefici, perché la luce è vita e la vita è fatta così, di luce e ombra.
Caravaggio ora cerca soprattutto la verità e considera nei personaggi rappresentati il loro essere fatto di carne e di sangue, di energia luminosa e di buio. Sicché tende a liberare gli uomini dagli abiti, che li rinchiuderebbero in un ruolo, e ama i loro nudi robusti che a Napoli sono quelli reali dei marinai e degli scaricatori di porto.
Nella mostra vi sono anche i dipinti dei napoletani. Tra questi, almeno  Battistello Caracciolo (1578/1635) e Carlo Sellitto (1581/1614) sono troppo veri e grandi artisti per essere considerati soltanto dei semplici seguaci di Caravaggio. Tra l’altro, come rivela la professoressa Terzaghi, esiste un documento di pagamento, girato da Caravaggio a Battistello, che testimonia che “il rapporto tra i due sommi pittori non può essere solamente immaginato in termini di fascinazione stilistica ma ha anche un’origine biografica e strettamente professionale”.
Possiamo anche notare che, mentre in Caravaggio c’è la tendenza a fare risaltare i corpi dal buio, in Battistello c’è una tendenza diversa, che si realizzerà più compiutamente in Bernardo Cavallino (nato nel 1616 morirà per la peste del 1656, che falcidiò anche tanti artisti  napoletani). Cavallino immagina i corpi affondati nel buio, e,  accarezzandoli delicatamente, con una luce amorevole, li scopre e gli dà vita.
A questo punto  possiamo anche citare Picasso: “I buoni pittori copiano, i grandi rubano” e aggiungere: i sommi pittori s’influenzano l’un l’altro. Perché, se è chiara la consentaneità dei napoletani con il pittore lombardo, si  dovrebbe maggiormente approfondire se e come e in quale misura dall’ambiente antropologico e artistico napoletano questi sia stato influenzato, superando la preconcetta tesi della sua pretesa immunità da influenze siffatte. Forse questo potrebbe essere per gli studiosi l’impegno che questa mostra suggerisce.
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In foto, alcuni momenti della mostra ripresi da Francesco Squeglia: all’inaugurazione, con il direttore Bellenger, anche il presidente della Regione De Luca

LA MOSTRACaravaggio Napoli al Museo di Capodimontefino al 14 luglio 2019, sala Causa (piano terra), aperta tutti i giorni dalle 8.30 alle 19.30 (compreso il mercoledì, tradizionale giorno di chiusura del Museo). La biglietteria chiude alle 18.30. Il biglietto della mostra dà diritto a un ingresso ridotto al Pio Monte della Misericordia e viceversa. Disponibili navette gratuite tra Capodimonte e Pio Monte della Misericordia messe a disposizione dal Comune di Napoli e dal Museo.

Prenotazioni e acquisti online
www.coopculture.it
Per saperne di più
http://www.museocapodimonte.beniculturali.it/

Adriana Dragoni

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