Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Un’analisi della catastrofe del 1860

Posted by on Ago 11, 2019

Un’analisi della catastrofe del 1860

Quasi sempre la geografia determina la storia.

La conferma vine dalla osservazione di una qualunque mappa geografica: si troverà che i confini degli Stati quasi sempre coincidono con elementi naturali che caratterizzano il territorio. A questa regola non è sfuggita la geografia politica della Francia: a sud i Pirenei e il Mediterraneo, ad est il Reno e le Alpi, ad ovest l’Oceano Atlantico, a nord una zona di pianura ancora indefinita confinante col Belgio, che forse con l’andar dei secoli troverà la sua definitiva soluzione geopolitica.

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Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia

Posted by on Ago 9, 2019

Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia

Nel 1878 moriva a Roma Vittorio Emanuele II, il primo re d’Italia, protagonista di tutte le guerre che portarono all’unità, ma assente e lontano una volta raggiunto lo scopo di asservire la nazione al Piemonte. In questi 18 anni non si poteva certo sperare di dare all’Italia un’impronta unitaria, né in campo culturale né in quello sociale. Troppe erano le differenze tra le varie regioni, evidenziate dallo stato  guerriglia che aveva devastato per anni le regioni meridionali, e dalla politica filo-settentrionale dello Stato sabaudo. Tali furono le premesse che portarono ad uno sviluppo disarmonico che ancora oggi subiamo. Fu questo il prezzo che l’intero Sud ha pagato all’unificazione. Un prezzo che divenne ancora più alto a fronte dei provvedimenti depressivi e repressivi che il governo piemontese adottò nei confronti dell’ex Regno di Sicilia.

Una della conseguenze più pesanti per la neonata Nazione fu la continuità dinastica: per la Sicilia fu – come ben descrive Tomasi di Lampedusa – un cambiare tutto per non cambiare nulla. Se avesse prevalso l’idea repubblicana di Mazzini, egli sarebbe divenuto il signor Tomasi, invece, con il subentrare della dinastia sabauda a quella borbonica, egli rimaneva il principe di Lampedusa. Non solo: da infido barone quale era visto dai Borbone, diveniva paladino della dinastia sabauda. Se la Sicilia da provincia napoletana diveniva provincia piemontese, poco cambiava per il baronaggio e ciò che cambiava, cambiava in meglio. Per la Sicilia invece, finiva una storia e ne cominciava un’altra.

Per comodità di lettura possiamo dividere questa nuova storia in due fasi, una che va dal 1860 al 1915, alla prima guerra mondiale, e un’altra che arriva fino ai giorni nostri.

La prima fase a sua volta possiamo dividerla in cinque periodi [1]

1.      quindicennio 1861-1876: governa la destra storica

2.      decennio 1876-1887: governa la sinistra storica

3.      decennio 1887-1898: periodo crispino

4.      triennio 1898-1900: periodo di transizione con pericolo di colpo di stato

5.      ventennio 1900-1920: età giolittiana

In questi anni la Sicilia partecipò alla guida politica ed istituzionale del paese con due presidenti del Consiglio (Francesco Crispi e Antonio Di Rudinì), 13 ministri e 184 deputati. Non era poco eppure la Sicilia non fu mai tra le regioni egemoni. [2]

Tutto ebbe inizio il 2 dicembre 1860 con il biennio luogotenenziale che avrebbe dovuto servire a traghettare il Sud dalla fase rivoluzionaria a quella di ordinaria amministrazione. Fu caratterizzato da una dura repressione politica e sociale del garibaldinismo [3], del brigantaggio e della renitenza alla leva. Repressione che, allora come oggi, si servì di una campagna “pubblicitaria” denigratoria nei confronti del popolo meridionale e siciliano presentando la diversa cultura come inferiorità. Cavour e Vittorio Emanuele per mantenere la conquista appena fatta non potevano fare concessioni. Se qualcuno intendeva opporsi al nuovo ordine costituito, e non si riusciva a persuaderlo a desistere, intervenivano i granatieri con la forza delle armi [4].

La repressione contro il garibaldinismo fu più profonda e lacerante in Sicilia, mentre la repressione contro il borbonismo e il brigantaggio interessò il meridione della penisola. Come scrive Renda “…le violenze poliziesche e militari nell’isola furono una sorta di appendice della guerra al brigantaggio nella penisola. Il brigantaggio meridionale ebbe le connotazioni di una vera e propria guerra civile. I Borbone dall’esilio romano promossero contro il potere unitario regio quella resistenza di massa che non avevano saputo opporre a Garibaldi.” [5]

In Sicilia il brigantaggio non era supportato dai Borbone, ma derivava dallo sbando sociale seguito alla rivoluzione, rinforzato dalla delinquenza che cominciava ad organizzarsi in quella nuova forma che prenderà, a partire dal 1865, il nome di mafia e dal rifiuto della leva militare obbligatoria, tributo incomprensibile per un popolo che non l’aveva mai subita. Nei confronti dei renitenti alla leva siciliani fu estesa alla Sicilia la famigerata legge Pica. In virtù a quella legge interi paesi furono cinti d’assedio, incendiati, privati dell’acqua potabile, intere famiglie arrestate e furono compiuti inauditi atti di violenza senza tenere in alcun conto i diritti dei cittadini. (cfr. Le Renitenti di Favarotta).

Sempre in questo primo periodo è da ricordare la rivolta scoppiata a Palermo nel settembre del 1866, conseguenza della perduta prospettiva politica. La sollevazione rimase però chiusa tra le mura cittadine e non ricevette alcun aiuto, nemmeno da Mazzini. Fu violentemente repressa dall’esercito regio e segnò la fine delle rivolte ottocentesche siciliane. (cfr. 1866 – La rivolta del “Sette e Mezzo”).

Altra importante vicenda di quegli anni fu lo scioglimento delle corporazioni religiose (legge del 10 agosto 1862). Garibaldi aveva già espulso la Compagnia di Gesù ma ora, dopo la restaurazione a seguito della rivolta del Sette e Mezzo, lo Stato italiano interveniva in forza. L’effetto fu devastante, perché allo scioglimento delle corporazioni religiose e al confino coatto dei religiosi che avevano appoggiato la rivolta, si accompagnò l’esproprio in massa di tutte le proprietà fondiarie ed edilizie comprese le biblioteche e le opere d’arte. Se da un canto l’uso degli edifici fu congruo in quanto adibiti a scuole, università, uffici o musei, altrettanto non può dirsi per il patrimonio librario: migliaia di volumi furono ammassati in sotterranei e depositi vari, causandone la dispersione e la distruzione. Ovviamente nessuno si scandalizzò per tale “delitto”.

L’esproprio della proprietà fondiaria della Chiesa (Legge 794/1862), la fine della manomorta e la cancellazione degli ultimi residui di feudalesimo avrebbe potuto essere indirizzata a risultati virtuosi, come la ripartizione delle terre tra i contadini. Invece la soluzione che se ne diede, peggiorò le condizioni degli agricoltori, togliendo loro ogni possibilità di riscatto. La priorità del novello Stato era infatti quella di vendere le terre per “far cassa”, e di fronteggiare i

movimenti di opposizione. Fu conferito al generale Medici il comando unico dei poteri militari, amministrativi e di polizia in modo da rassicurare i ceti borghesi e liberali. Lo Stato si interessò pertanto solo dei problemi di sicurezza e di ordine pubblico, dimenticando le gravi questioni sociale ed economica, che si inasprirono sempre più, specie dopo la reintroduzione della tassa sul macinato (giugno 1868) e l’aumento delle imposte su terreni, fabbricati e ricchezza mobile.

La situazione peggiorò ancora nel 1871 quando, finiti i lavori di lottizzazione dei terreni ex-ecclesiastici, diretti dal siciliano Simone Corleo sulla base della legge che prese il suo nome, le assegnazioni finirono per riconcentrare le terre nelle mani dei pochi notabili che si imposero nelle aste pubbliche. Contrariamente a quanto propugnato a parole fin dal decreto del prodittatore Mordini, cioè di dare la terra ai contadini, la legge Corleo non aveva alcun intento sociale o filo-contadino, ma era diretta a rafforzare la borghesia agraria, ed a consolidare il consenso al regime italiano. Ai contadini rimase solo il retaggio della legge Garibaldi [6] del 2 giugno e del citato decreto Mordini del 18 ottobre 1860, mentre alla borghesia terriera andarono i beni ecclesiastici. La riforma agraria di Corleo fu pertanto fallimentare dal punto di vista sociale, ma tuttavia diede una spinta alla modernizzazione e alla conversione delle colture. Non dimentichiamo che fu proprio in seguito a questa spinta che si crearono le zone a colture pregiate intorno a Bagheria e nella Conca d’Oro. Tutto sommato la soppressione del patrimonio ecclesiastico significò l’affermazione di un regime economico e giuridico moderno. La Chiesa fu emarginata dal potere politico e infine con la legge delle guarentigie del 15 maggio 1871 ebbe termine anche la secolare “Apostolica legazia” (cfr. Ruggero I e l’Apostolica Legazia) e la chiesa siciliana ritornò sotto la giurisdizione del pontefice romano.

Altri avvenimenti di una certa importanza si verificarono nell’ultimo periodo del quindicennio 1861-1876. Nella seduta del 18 marzo 1876 la Camera fu chiamata a discutere un’interpellanza del deputato

siciliano Giovan Battista Morana sulla tassa sul macinato, dove si mettevano in evidenza gli abusi che l’applicazione di una siffatta tassa consentiva in Sicilia. L’abolizione della tassa sul macinato, o “tassa sulla miseria” come era stata definita da Crispi, era nel programma della sinistra ma De Pretis e gli altri capi dell’opposizione, pur volendo rovesciare il governo facendo leva sul malcontento popolare, non erano tuttavia disposti a rivoluzionare di punto in bianco il sistema tributario nazionale. L’interpellanza del Morana faceva riferimento alla grave situazione siciliana, dove erano in corso agitazioni e proteste dei mugnai che, chiudendo i mulini, causavano penuria di pane e malcontento popolare crescente. Il Ministro Minghetti si dichiarò incapace di dare i chiarimenti necessari e per farla breve si arrivò ad una mozione di sfiducia con cui il governo fu messo in minoranza e dovette dimettersi. La destra storica cessò di governare e al suo posto si insediò la sinistra storica. A presiedere il primo governo, il 25 di aprile, fu Agostino De Pretis, piemontese, che era stato già prodittatore in Sicilia al tempo del governo garibaldino.[7]

La decadenza di Napoli dopo l’unificazione d’Italia del 1860 fu lenta ma continua. La Destra storica governativa attuò una politica liberista che in breve tempo si rivelò fatale per il sistema economico meridionale, basato fino ad allora sul modello di sviluppo protezionistico concepito da Ferdinando II. Inoltre, il sud fu caricato del Debito Pubblico proveniente dal Piemonte, e dell’oneroso sistema fiscale sabaudo.

La grande industria napoletana, per lo più di capitale straniero, che con il Regno delle Due Sicilie aveva goduto della protezione statale, entrò rapidamente in crisi. Vennero a mancare gli ordinativi statali ed  inoltre, il “baricentro” degli affari si spostò di colpo da Napoli a Torino, con evidente vantaggio per le aziende del Nord-Ovest, che furono preferite anche dagli investitori stranieri. Le fabbriche statali dell’ex-reame

furono vendute a privati con procedure neppure tanto cristalline. Emblematica è al riguardo la sorte dell’opificio statale di Pietrarsa, il maggiore stabilimento metalmeccanico italiano dell’epoca, narrata in altra pagina del sito.

Alla decadenza, bisogna dirlo subito, contribuirono con buona lena i tanti uomini di stato e delle istituzioni meridionali.

Le grandi banche del Sud (Banco di Napoli e di Sicilia) effettuarono un vero e proprio rastrellamento del capitale, che venne in gran parte reinvestito nel nascente “triangolo industriale” del Nord-Ovest che, con la nuova Italia unita, godeva di un indubbio vantaggio geografico.

Gli strumenti di questo straordinario prelievo furono principalmente tre:

  1. l’introduzione nel 1861 della carta moneta [8], inesistente nel Sud preunitario;
  2. la legge del 1866 sul “corso forzoso” della Lira italiana;
  3. la legge del 1862 [9] per vendita di 200 mila ettari di terreni ecclesiastici e demaniali, di cui si è già scritto nella prima parte della presente lettura, e che fruttò all’Erario, tra il 1861 ed il 1877, circa 220 milioni di lire di allora [10] (più di due terzi dell’intero provento nazionale).
  4. Circa mezzo miliardo di allora, costituita dalle monete in metalli preziosi circolanti nelle due Sicilie, finirono all’Erario nazionale, che mise in circolazione, grazie alla legge sul “corso forzoso” un valore almeno tre volte superiore di banconote.
  5. La legge del 1° maggio 1866 sul corso forzoso [11] fu elaborata da un napoletano, il ministro delle Finanze Antonio Scialoja [12]. Le disposizioni previste da questa legge incisero profondamente sia sul processo di concentrazione delle emissioni, sia sulla circolazione della moneta e sulla creazione del credito, svantaggiando obiettivamente il Sud.

Tornado all’accaparramento dei terreni, occorre sottolineare come molti degli agrari del Sud, specie quelli delle zone interne (Basilicata, Cilento ecc) preferirono la quantità alla qualità: divennero latifondisti, spossessandosi così del risparmio e delle risorse necessarie agli investimenti per migliorare le colture. Ci furono casi di vero accaparramento. La condizione dei contadini peggiorò, non potendo usufruire più dell’uso gratuito dei terreni per coltivare e raccogliere legna (i c.d. “usi civici”, che avevano consentito la sopravvivenza, ma che allo stesso tempo avevano mantenuto a livello arcaico la società contadina del sud, priva di quella spinta al miglioramento che deriva dalla piccola proprietà). L’agricoltura meridionale, a parte le zone d’eccellenza del Napoletano, Terra di Lavoro e del Pugliese, rimase emarginata dall’economia nazionale, isolata, priva di vie di comunicazioni, e bisognerà attendere il consolidamento dell’Istituzione repubblicana, quindi circa un secolo, per riscontrare dei segnali di miglioramento.

I Corleo e gli Scialoja, cioè i politici meridionali che contribuirono attivamente alla decadenza del sud, non furono dei casi isolati. Il movimento liberale e la destra in generale, fin d’allora erano subordinati al potere capitalistico, che aveva centro e radicamento al nord. Invece di procedere ad una vera unificazione della politica, si agì con la forza, la prevaricazione e la brutale repressione. Per questioni ideologiche, anche i nazionalisti e monarchici meridionali si subordinarono di fatto al potere sabaudo, così come i cattolici per la loro feroce avversione al nascente socialismo. Anche in politica estera prevalsero gli umori ultra-nazionalistici con la partecipazione nel 1866 alla guerra contro l’Austria, in cui si sprecarono vite e risorse.

In definitiva, i politici meridionali di destra, anche se ebbero incarichi – spesso importanti e decisivi – a livello governativo, non seppero scrollarsi di dosso i condizionamenti negativi di cui si è detto. Se in quegli anni fu mancato l’obiettivo di una reale unificazione nazionale, e se furono le popolazioni del sud a farne principalmente le spese, non si può pertanto attribuirne tutte le colpe genericamente al “nord” (come si dilettano a fare alcuni sedicenti meridionalisti di oggi).

«La rigogliosa vita della democrazia napoletana, che ha avuto momenti di rilievo nazionale, intorno al 1878 si è affievolita, è diventata anemica per non aver saputo mettere radici fra i lavoratori…» [13].

fonte http://www.ilportaledelsud.org/1861-1876.htm

Note

[1] Renda, storia della Sicilia, vol. III, p. 977

[2] F. Renda, Storia della Sicilia, vol III, p. 977

[3] Garibaldi era divenuto nell’isola simbolo di liberazione politica e riscatto sociale. Ebbe tanto seguito in Sicilia da fargli credere di poter intraprendere, nel 1862, una spedizione per la conquista di Roma con circa 2000 volontari questa volta tutti siciliani. Questo ci fa capire quanto fossero mutate le condizioni rispetto al 1860 quando i suoi 1000 erano al 90% settentrionali. L’impresa fu immediatamente bocciata da Vittorio Emanuele . In Aspromonte Garibaldi e i suoi volontari furono fatti prigionieri e denunciati al tribunale militare. Vittorio Emanuele, su consiglio di Napoleone III, evitò di trasformare in martire Garibaldi e approfittando del matrimonio della figlia con il re del Portogallo, concesse l’amnistia. L’operazione non fu tuttavia esente da risvolti sgradevoli, come l’arresto di parlamentari siciliani e la fucilazione, a Fantina, con giudizio sommario di alcuni soldati che avevano abbandonato i reparti per seguire Garibaldi. Senza contare la caccia ai garibaldini che, nonostante l’amnistia, venivano arrestati e incarcerati per futili motivi.

[4] Cavour a Vittorio Emanuele, il 18 dicembre 1860, cit. da Mack Smith, Garibaldi e Cavour, p. 513

[5]F. Renda, Storia della Sicilia, vol III, 983

[6] A sollevare il problema della terra fu proprio Garibaldi che su proposta di Crispi, il 2 giugno 1860 aveva emanato un decreto con cui prometteva una quota di terra del demanio comunale non ancora ripartita a chiunque avesse combattuto a suo fianco per la patria. I beni demaniali dovevano però essere divisi per sorteggio, l’assegnazione di diritto ai combattenti risultava perciò lesiva di questo diritto. Ne nacquero controversie e i parecchie zone dell’isola scoppiarono rivolte. Le più drammatiche furono quelle di Biancavilla e di Bronte. A Bronte soprattutto si assistette alla feroce e agghiacciante rappresaglia di Bixio, che come inviato di Garibaldi in difesa dei possedimenti dei Nelson, si comportò da giudice militare nei confronti di civili, fucilandoli a seguito di un processo sommario. Bixio non avrebbe potuto rendere peggior servizio a Garibaldi e di questo si servì abilmente Cavour per iniziare la demolizione del mito di Garibaldi che cominciava a diventare un pericoloso avversario.

[7] Una bella descrizione di quel 25 aprile si può trovare nel libro di Francesco Ingrao, un siciliano mazziniano, nel libro La bandiera degli elettori italiani, ristampato da Sellerio (2001)

[8] La lira italiana fu introdotta con la legge Pepoli “Legge fondamentale sull’unificazione del sistema monetario” del 24 agosto 1862, n. 788. Gli istituti di credito che potevano emettere biglietti erano di proprietà privata al Centro-Nord (La Banca Nazionale, che veniva dalla fusione fra la Banca di Genova e la Banca di Torino, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito per le Industrie e il Commercio d’Italia), statali al Sud (Banco di Napoli e Banco di Sicilia). Dopo l’annessione di Roma del 1870, la Banca degli Stati pontifici divenne Banca Romana.

[9] Legge 21 agosto 1862, n. 794

[10] Bevilacqua Piero, Breve storia dell’Italia meridionale: dall’Ottocento a oggi, Donzelli 2005, p. 75.

[11] Nel maggio 1866, in seguito alla crisi finanziaria, i titoli del debito pubblico italiano crollarono alla Borsa di Parigi. Il ministro delle Finanze Antonio Scialoja proclamò il corso forzoso, ossia l’inconvertibilità in oro ed argento della moneta circolante. La Banca Nazionale fu obbligata a fornire al Tesoro un mutuo di 250 milioni di lire. Si sarebbe decretato poi l’emissione di un prestito redimibile forzoso (l’antenato dei BOT). La legge dettava, in particolare, le seguenti disposizioni:

1) tutti i biglietti della Banca Nazionale (ex Banca Nazionale degli Stati Sardi), compresi quelli creati nelle operazioni commerciali con i privati, diventano inconvertibili a vista in metallo; i biglietti emessi dagli altri istituti (Banca Nazionale Toscana, Banca Toscana di Credito, Banca Romana, Banco di Napoli e Banco di Sicilia), sono invece obbligatoriamente convertibili su richiesta in banconote della Banca Nazionale nel Regno;

2) le banconote della Banca Nazionale hanno corso legale, ovvero valore liberatorio coatto, su tutto il territorio dello Stato, mentre quelle degli altri istituti nella sola regione di appartenenza;

3) la Banca Nazionale assumeva la funzione di tesoriere dello Stato in virtù del privilegio, ad essa attribuito, dell’emissione di biglietti per conto del Tesoro, i quali, non essendo ricompresi nella circolazione propria dell’istituto, sono tuttavia svincolati dall’obbligo di riserva che investe invece le banconote emesse dalla Banca stessa a fronte del proprio attivo. Il corso forzoso fece sì che la circolazione di moneta cartacea superasse quella metallica. L’abolizione del corso forzoso, decretata nel 1881 e attuata nel 1883, segnò l’inizio di una breve illusione: l’euforia provocò un surriscaldamento dell’economia al quale non si reagì con le politiche giuste. Intorno al 1887 il corso forzoso era restaurato di fatto. Il boom edilizio innescato da Roma capitale, sostenuto in parte da capitali esteri, coinvolse anche gli istituti di emissione. L’espansione eccessiva portò a una bolla speculativa, e poi alla crisi. La crisi bancaria dei primi anni Novanta, accoppiata a una crisi di cambio, assunse anche una dimensione politica e giudiziaria clamorosa nel dicembre del 1892, quando fu rivelata la grave situazione delle banche di emissione e soprattutto i gravi illeciti della Banca Romana, fino a quel momento coperti dal Governo. il Governo è costretto ad emanare un decreto con il quale viene dichiarata la sospensione della convertibilità in oro delle banconote e, dunque, l’inizio del corso forzoso. Questo avvia l’Italia all’introduzione della moneta cartacea, assicurando contemporaneamente allo Stato la possibilità di far fronte alle spese più urgenti con la semplice stampa di banconote, almeno entro determinati limiti. Inoltre, il provvedimento intende effettuare un primo tentativo di regolamentazione dell’attività delle banche di emissione, orientato alla concentrazione delle emissioni in un unico istituto, in coerenza con il programma di accentramento politico-amministrativo perseguito dalla Destra storica.

[12] Il napoletano Antonio Scialoja (1817 – 1877) era all’epoca ministro delle Finanze. Già ministro del Regno delle Due Sicilie nel 1848 (governo liberale di Carlo Troja), era stato condannato all’esilio dopo la restaurazione dell’assolutismo regio a seguito dei tumulti del maggio 1848. Fu quindi Ministro delle Finanze nel governo dittatoriale di Garibaldi (1860).

[13] Scirocco A., Democrazia e socialismo a Napoli dopo l’Unità, Napoli, 1973 p. 312. Bibliografia AAVV Storia della Sicilia, Società Editrice Storica di Napoli e Sicilia Di Matteo, F., Storia della Sicilia, Edizioni Arbor, 2006 Fortunato, G., Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Firenze, Vallecchi, 1973. Fortunato, G., Galantuomini e cafoni prima e dopo l’Unità, Reggio Calabria, Casa del Libro, 1982 Galasso, G., Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”, Piero Lacaita editore 2005 Gleijeses, V., La Storia di Napoli, Società Editrice Napoletana, 1977 Gramsci, A., La questione meridionale, Editori Riuniti 2005 Ingrao, F., La bandiera degli elettori italiani, ristampato da Sellerio, 2001 Mack Smith, D., Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, 1971 Mack Smith, D., Garibaldi e Cavour, Rizzoli 1999 Mack Smith, D., La storia manipolata, Laterza, 2002 Renda, F., Storia della Sicilia, Sellerio, 2003

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Un Debito Storico (tratto dalla rivista “FORA” di N.Zitara)

Posted by on Ago 5, 2019

Un Debito Storico (tratto dalla rivista “FORA” di N.Zitara)

Il periodico politico Indipendenza (00185 Roma, via Carlo Alberto, 39) mi ha posto la seguente domanda:

Parli, conti alla mano, di un debito storico di oltre sette milioni di miliardi che il resto d’Italia (Roma e Milano principalmente) ha contratto con il Sud [Brevemente spiega come sei giunto a indicare questa cifra] A questo aggiungi, tra i tanti flussi di ricchezza dal Sud al Nord, alcuni visibili altri no: protezionismo agricolo ed industriale comunitario; scambio diseguale tra aree a diversa quota di capitale per addetto; uso del risparmio meridionale per finanziare gli sbocchi dell’industria padana sul mercato meridionale; esportazione di capitali (attraverso Banche, Poste, Cassa Depositi e Prestiti); concentramento al Nord del sistema assicurativo privato e a Roma di quello assicurativo e previdenziale pubblico. Puoi spiegare connessione e dinamica di questi aspetti?

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LEGGETELO CON ATTENZIONE…..NE VALE LA PENA. CI SI PUO’ SOLO INDIGNARE PER CIO’ CHE CI PROPINA LA STORIOGRAFIA UFFICIALE…UNA VERGOGNA!!!

Posted by on Ago 4, 2019

LEGGETELO CON ATTENZIONE…..NE VALE LA PENA.  CI SI PUO’ SOLO INDIGNARE PER CIO’ CHE CI PROPINA LA STORIOGRAFIA UFFICIALE…UNA VERGOGNA!!!

“Quegli assassini dei fratelli d’Italia sono un nuvolo di cavallette voraci” “…Se si dovesse credere alle parole dei rivoluzionarii, ed ai loro giornali, tutti gli antichi governi d’Italia erano detestabili per le loro tirannie, deplorabili per la mala amministrazione, esecrabili in ogni modo, e contrarii fino alla civilizzazione ed al progresso dei lumi.

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LE INTERPRETAZIONI DEL BRIGANTAGGIO di Ettore (da L’Alfiere n. 56)

Posted by on Ago 2, 2019

LE INTERPRETAZIONI DEL BRIGANTAGGIO di Ettore (da L’Alfiere n. 56)

C’è chi dice che se ne è scritto troppo. Chi vorrebbe archiviare la pratica una volta per sempre. Perché il brigantaggio è un argomento che scotta. Oggi più che mai. Noi crediamo invece che si tratti di un tema fondamentale per comprendere il passato, il presente e le linee di azione per il futuro del Sud. Per farlo, però, bisogna liberarsi dalle interpretazioni superate, tutte in varia misura condizionate dal punto di vista dei vincitori. A grandi linee, se ne possono individuare tre.

1- Brigantaggio come fenomeno esclusivamente criminale, provocato e tollerato dal malgoverno napoletano.

2- Rivolta sociale dei ceti subalterni contro la classe dei galantuomini

3- Rivolta anarcoide, del tutto priva di connotazioni politiche.

1- La prima tesi, che ha avuto un’ignobile appendice pseudo-scientifica nelle teorie razziste del piemontese Lombroso, è stata appoggiata, propagandata e sostanzialmente imposta dal governo sabaudo. È ormai completamente screditata, anche perché è scorretto e del tutto antiscientifico applicare categorie criminologiche a fenomeni di massa, come le sollevazioni popolari.

2- La tesi della rivolta sociale, che gli studiosi di matrice marxista preferiscono definire tout court lotta di classe, ha il merito di porre l’accento sulle profonde e radicate tensioni sociali che esistevano nel Regno del Sud e di riconoscere che nel decennio di sangue 1860-70 si verificò una vera e propria guerra civile. Questa impostazione nega che fra le vere motivazioni del brigantaggio vi fosse l’intento di restaurare la monarchia e sottolinea le ambiguità dei galantuomini, il cui unico obiettivo sarebbe stato quello di mantenere, attraverso il cambio di regime, l’ordine minacciato dai ceti “subalterni”. È una tesi traballante e lacunosa. Certamente, a differenza dei legittimisti in senso stretto, come Borges e gli altri stranieri, che intervengono nel Sud essenzialmente per la difesa di un principio e per contrastare una congiura internazionale liberal-massonica, i briganti prendono le armi innanzitutto per difendere la propria vita e il proprio mondo. Tuttavia non si può trascurare il dato, grande come una montagna, che le tensioni sociali del Sud alimentano una vera e propria insurrezione generale soltanto dopo l’ingresso nel Regno di eserciti stranieri che intendono abbattere la monarchia borbonica. La fedeltà del popolo delle Due Sicilie alla dinastia regnante dal 1734, del resto, è ammessa perfino dai più avveduti fra i risorgimentalisti, a cominciare da Benedetto Croce. Inoltre l’affermazione che la borghesia speculatrice appoggiò il sovvertimento politico allo scopo di conservare l’assetto sociale esistente trascura la macroscopica evidenza della lotta secolare condotta dai galantuomini per strappare la terra ai contadini e sabotare i progetti di riforma agraria varati dai sovrani borbonici; gli sforzi incessanti compiuti dai Borbone, con alterna fortuna, per sottrarre i contadini all’avidità dei possidenti, degli usurpatori di terreni, degli usurai, degli accaparratori di sementi e generi di prima necessità; la repentina distruzione o il rapido svuotamento, ad opera di garibaldini e sabaudi istigati dai collaborazionisti borghesi, delle istituzioni create dalla monarchia borbonica a tutela dei ceti meno abbienti (monti frumentari e pecuniari, sussidi per gli studenti bisognosi, ecc.). Ogni dinamica sociale si presenta, ovviamente, a macchia di leopardo, con eccezioni ed enclaves in ogni settore degli schieramenti in campo, che è importante conoscere, tuttavia è miope enfatizzare le eccezioni perdendo di vista la grande, costante contrapposizione fra Re e popolo, da una parte, e ceti parassitari dall’altra. Chi nega o minimizza questa evidenza ignora o finge di ignorare che la concezione tradizionale della società, a differenza di quella assolutista, non conosce l’idolatria per il Sovrano, né l’obbedienza incondizionata: il Re, al pari delle altre componenti della società, è tenuto al rispetto del patto di fedeltà che lo lega al popolo e alle istituzioni. Il popolo – termine che designa chi custodisce la tradizione e non vive sfruttando le sofferenze degli altri – lo riconosce come tale e lo difende nella misura in cui egli si mostra degno interprete della sua alta funzione. Nel 1860-70, appunto, il popolo ritenne che la dinastia borbonica fosse schierata dalla parte della comunità e del diritto delle genti contro l’invasore straniero appoggiato dalla borghesia affaristica; e insorse ancora una volta a sua difesa. Nonostante le tensioni determinatesi fra il legittimismo ufficiale, con la sua pretesa di trasformare il conflitto in guerra tradizionale senza disporre dei mezzi necessari, e le formazioni popolari, ben coscienti del fatto che l’unica tattica realisticamente praticabile era la guerriglia, il brigantaggio rimase un movimento lealista, che rivendicava, al pari dei soldati di Gaeta, di Civitella del Tronto o di Messina, la propria legittimazione nella fedeltà al sovrano. Lo confermano con evidenza i proclami e gli appelli rivolti alla popolazione dai capi della guerriglia. E non avrebbe potuto essere altrimenti, perché per il popolo la corona rappresentava, unitamente alla religione dei padri, che con acuta sensibilità comprendeva essere anch’essa nel mirino dei novatori, il simbolo forte e visibile, al cospetto del mondo intero, della giustezza della causa per la quale era pronto a morire. Né si può trascurare che le insorgenze nazionali nelle Due Sicilie avevano un’altra, grande motivazione ideale: la difesa della religione dei padri. Solo chi è incapace di comprendere l’importanza della dimensione religiosa nella vita delle popolazioni rurali non solo delle Due Sicilie, ma dell’intera Europa può sottovalutare il moto d’indignazione sollevato dalle manifestazioni di ateismo e blasfemia che diedero le truppe garibaldine, prima, e sabaude poi. Un generale piemontese, Pinelli, osa definire il Pontefice, in un pubblico proclama, “sacerdotal vampiro”, mostrando così, oltretutto, il più totale disprezzo per i sentimenti religiosi della popolazione; Garibaldi, in modo meno letterario e più scurrile, lo appellerà “metro cubo di letame”. Chiunque può comprendere che questi atteggiamenti, oltre a quelli tenuti quotidianamente dalle truppe di occupazione, contribuirono a convincere molti indecisi della necessità anche morale di reagire con le armi all’invasione. I nostri briganti, in definitiva, difesero la loro dignità di uomini e donne delle Due Sicilie, il loro diritto di vivere secondo la tradizione, sostanzialmente rifiutando proprio quella demonìa dell’homo oeconomicus con cui si vorrebbe forzatamente spiegare persino la loro orgogliosa sollevazione.

3- La tesi della rivolta di classe, sia per l’innegabile importanza dei suoi rilievi sulle aspre contrapposizioni sociali e sulle odiose ingiustizie perpetrate dai liberali di tutte le tendenze nei confronti dei ceti contadini, sia per l’evidente mancanza di conseguenzialità – se non di coraggio – nel riconoscere la motivata coesione fra popolo e monarchia borbonica, apre la strada a una più onesta interpretazione del brigantaggio. Quando la svolta chiarificatrice è ormai nell’aria, e alla storiografia più avveduta resta solo da compiere il passo ulteriore del riconoscimento del carattere nazionale e lealista, oltre che politico-sociale, dell’insurrezione, viene ripetutamente prospettata una teoria che costituisce oggettivamente un passo indietro rispetto alla stessa visione “classista” e una versione ammorbidita della visione “criminologica”: la teoria del brigantaggio come rivolta anarcoide, diretta contro il potere e chiunque lo eserciti. Questa impostazione incappa nelle stesse, gravi obiezioni che si possono opporre a quella precedente, ma fa di peggio: ignora bellamente le tensioni sociali che costantemente agitavano le campagne meridionali e che vedevano il Re, attraverso la legislazione e l’opera di controllo svolta dagli Intendenti, schierato dalla parte dei contadini contro i soprusi dei latifondisti e degli speculatori. Si tratta, in sostanza, di una versione emendata della teoria criminologica, sintetizzabile così: i briganti erano delinquenti, ma, per aver vissuto nell’abbrutimento determinato dalla miseria, dalle angherie subite e dalla superstizione (perché il popolo non può avere fede, ma solo superstizione), avevano qualche attenuante, se non l’esimente dell’ “incapacità di intendere e di volere”. Si giunge a narrare il brigantaggio per episodi, riproponendo in prosa le ballate dei cantastorie di fine ’800, col risultato di confinare i combattenti del Sud nella regione del picaresco, del selvatico, in sostanza del sub-umano. Dall’altro versante, i portabandiera di questa impostazione prendono la teoria della lotta di classe, la immergono nell’acido della maldicenza, del pulp, del pettegolezzo, a volte del voyeurismo pruriginoso, e la lasciano macerare fino a ridurla alla rappresentazione, fintamente bonaria, di un mondo antiquato e in decomposizione, la cui eliminazione è stata una “dolorosa necessità”. Questa è la conclusione invitabile del discorso e anche, in fin dei conti, la ragion d’essere di questa teoria, che si inserisce a pieno titolo, consapevolmente o no, in quella “strategia della confusione” che è l’ultima ancora di salvezza per una storiografia funzionale agli interessi del potere costituito, sorpassata e ormai “alle corde”. È opportuno a questo punto menzionare anche un’altra corrente di pensiero, tornata in auge nell’imminenza del centocinquantenario, che non rientra specificamente fra le interpretazioni del brigantaggio, ma che, di fronte all’innegabilità dei crimini perpetrati ai danni delle Due Sicilie e all’imponenza della reazione popolare all’invasione e all’occupazione piemontese, nel tentativo di spiegare il “lato sporco del Risorgimento”, mira a differenziare la posizione dei mazziniani e di Garibaldi da quella dei monarchici sabaudi, volendo far intendere che se avesse prevalso la corrente repubblicana l’unificazione sarebbe stata realizzata in modo più conforme ai principi della democrazia, della giustizia sociale e della solidarietà. Questa teoria strumentale e infondata sviluppa le sue fantasiose ramificazioni servendosi della negazione o dell’occultamento di dati di fatto colossali: basti pensare al massacro di Bronte, eseguito da Bixio su ordine di Garibaldi per compiacere i suoi sponsors britannici; alla fulminea abolizione dell’Amministrazione borbonica delle Bonifiche, disposta dal Nizzardo per rassicurare i latifondisti che temevano di dover lasciare ai contadini una parte delle terre risanate, con uno sciagurato decreto che fu il punto d’avvio dell’affossamento dell’agricoltura meridionale; all’accoglimento da parte del Dittatore del suggerimento, che proveniva dalle province, di tutelare gli usurpatori delle terre demaniali, “per non disgustare la classe de’ proprietari, che sono pur la forza delle Nazioni, e che sono stati i sostegni veri e precipui del movimento che ha portato l’attuale ordine di cose”. È agevole obiettare che la congiura liberal-massonica all’origine dell’aggressione garibaldino-sabauda non avrebbe potuto avere esiti sostanzialmente diversi, perché in ogni caso l’assetto istituzionale avrebbe dovuto garantire gli interessi delle potenze straniere finanziatrici e ispiratrici e quelli della borghesia parassitaria collaborazionista. Di fronte a questo blocco potentissimo di interessi, Garibaldi, che non a caso agiva all’ombra di un tricolore con lo stemma sabaudo, non avrebbe potuto, gli piacesse o no, che rispondere, rimangiandosi le demagogiche promesse dell’esordio, “obbedisco”. La piemontesizzazione dell’Italia si consolidò grazie a un tacito accordo: i liberali locali non disturbano il manovratore, i piemontesi lasciano ai locali la libertà di arricchirsi alle spalle del popolo, in barba alle leggi e in attesa di abolirle. Ne era ben consapevole Mazzini, che ipocritamente rinviava al consolidamento del cambio di regime la soluzione della “questione sociale” Il dibattito sul brigantaggio è, dunque, esposto a una serie di insidie, perché condizionato da un conflitto di interessi che non accenna ad affievolirsi. Per alcuni la parola d’ordine è ancora quella di negare ai guerriglieri meridionali lo status e la dignità di combattenti. Già nel 1862, di fronte ai risultati della Commissione parlamentare presieduta da Antonio Mosca, che descrivevano gli episodi di inaudita ferocia di cui si erano resi responsabili i comandi militari impegnati nella repressione del Brigantaggio e gli arbitrii dei galantuomini contro i diritti e le legittime aspettative di vita dei contadini e dei braccianti, il governo corse ai ripari proibendo la pubblicazione della relazione conclusiva e disponendo la redazione di un nuovo rapporto, affidato alla commissione presieduta da Giuseppe Massari: questa volta si doveva affermare che le sofferenze dei ceti popolari non erano dovute all’egoismo e alle prepotenze dei galantuomini, ma al malgoverno borbonico e all’ignoranza, al fanatismo e alla superstizione religiosa che predominano nelle campagne meridionali (Tommaso Pedio). Oggi che tanti passi sono stati fatti verso una ricostruzione storica più veritiera, nonostante l’ostruzionismo di quelli che parafrasando Pansa si possono definire i gendarmi della verità negata, bisogna constatare che per qualcuno le veline di Ricasoli sono sempre in vigore. Magari sono proprio quelli che accusano la storiografia revisionista di eccessiva emotività e di partigianeria. Accuse che si ritorcono contro chi le formula. Noi crediamo che nella fase dell’analisi bisogna essere spietatamente rigorosi e obbiettivi. Anche se si tratta di eventi che hanno lasciato cicatrici profonde e ancora sanguinanti la passione non deve mai accecare od offuscare la visione dei fatti. Tuttavia questo scopo non è realizzabile se non si rifiuta decisamente la prospettiva forzata nella quale i vincitori hanno voluto costringere l’interpretazione storiografica; se non si abbandonano le false premesse di chi osa raffigurare come custodi della legalità coloro che hanno appena perpetrato una gravissima violazione del diritto internazionale, invadendo proditoriamente, con l’inganno, la corruzione e lo sterminio, uno stato pacifico e indipendente da sette secoli. Riconoscere l’ipocrisia dei risorgimentalisti più o meno “mascherati” è molto semplice: essi, trascurando il dato macroscopico che il popolo insorgeva in nome di una legalità – non formalistica, ma sostanziale – che avvertiva violata sotto il duplice profilo della violenta compressione dei diritti popolari (in primis quello di accesso alle risorse della terra, sentita come patrimonio della comunità) e del proditorio spodestamento del legittimo sovrano, di cui la gente riconosceva l’autorità e nei cui confronti (in virtù di quell’ammirevole antisnobismo che per i galantuomini di ieri e di oggi rappresenta la più imperdonabile delle colpe) percepiva in qualche modo una comunanza di sentimenti, vedono nei guerriglieri antipiemontesi dei fastidiosi ostacoli al consolidamento dell’ordine sabaudo e liberale. Si spiega così il ricorso spesso acritico alla documentazione che gli stessi invasori hanno predisposto perché funzionale ad avallare la loro versione: a cominciare dalle verbalizzazioni delle versioni di comodo rese, sotto costrizione, da esseri umani tenuti in crudele cattività; oltre tutto, ad opera di carcerieri che nutrivano per il loro mondo, di cui poco o punto sapevano, null’altro che un rabbioso disprezzo. Si spiega così, inoltre, l’incredibile e antiscientifico ricorso da parte di alcuni, a una terminologia criminologica che dà per scontato – senza dirlo esplicitamente – che la legalità stava dalla parte degli invasori e che gli insorgenti rappresentavano un’intollerabile perturbamento dell’ordine, da stroncare con ogni mezzo. Costoro non parlano di solidarietà delle popolazioni con i combattenti, ma di complicità. Chi aiuta gli insorgenti non è un collaboratore, ma un fiancheggiatore o, ancora meglio, un manutengolo (termine che adorano). Chi si dà alla macchia per liberare il territorio dagli invasori lo infesta o vi imperversa; le formazioni guerrigliere sono masnade e i suoi componenti banditi. Tutti termini che ogni osservatore obiettivo – e ve ne furono fin dall’epoca dei fatti – riconosce essere molto più appropriati se riferiti agli invasori del Sud e ai rapinatori delle sue ricchezze. Quanto al popolo, lo si designa quasi sempre in modo dispregiativo: si parla di plebe, di contadiname, addirittura di popolaccio. Terminologica poco scientifica, ma certo rivelatrice dei sentimenti di chi scrive. La donna combattente, poi, non è mai considerata capace di un’autonoma determinazione, ma è sempre vista come la femmina del brigante, anzi la druda, termine desueto, che alcuni incredibilmente, ma non troppo, si compiacciono ancora oggi di usare, con l’oggettivo risultato di suggerire che le guerrigliere meridionali fossero animalesche donnacce di nessuna moralità. Quando non si tratta di strumentali bassezze, sono quanto meno ironie di basso conio, che con la storia non hanno nulla a che vedere e che oltrettutto sono del tutto fuori luogo a fronte della catastrofe che colpisce tuttora il nostro popolo. Esse formano la malriuscita caricatura di un’obbiettività che non c’è. È vero che l’analisi dai fatti non dev’essere influenzata dalle passioni, tuttavia una volta acquisita la conoscenza di un evento, non è possibile, per chi ha sangue nelle vene, non prendere posizione, schierandosi dalla parte della giustizia contro la prepotenza. Noi lo facciamo e ne siamo fieri. Noi crediamo che i protagonisti dell’epico e disperato conflitto per l’indipendenza delle Due Sicilie meritino riconoscenza, per chi ne è capace, e comunque, da tutti, rispetto. Per noi che amiamo la nostra patria, i briganti, “santi” o “demoni” che fossero, incarnano l’orgoglio e la dignità di un popolo che non piega la testa di fronte alla prepotenza degli aggressori. Per questo non li dimentichiamo e vorremmo sempre ritrovare nei meridionali di oggi la loro fierezza e la loro determinazione.

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