Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

UNA SAGGIA POLITICA DI NEUTRALITÀ

Posted by on Lug 23, 2019

UNA SAGGIA POLITICA DI NEUTRALITÀ

La politica di neutralità del Regno, «ideale consono al sentimento di gran parte della popolazione»
(B. Croce, Storia del Regno di Napoli, IV, 7, Adelphi, pag.325)
non aveva bisogno dei consigli del principe Gortchakoff.
Ferdinando II, che «fin dai primi anni di regno si era, guardingo ed abile, liberato dalla tutela dell’Austria non senza energia e dignità» (Croce, ibidem) non se ne era scostato neppure all’epoca della guerra d’Oriente (Crimea), nonostante le continue sollecitazioni ad intervenirvi a fianco di Francia e Inghilterra contro la Russia, sollecitazioni che venivano da parte dell’ambasciatore a Londra Antonio La Grua principe di Carini, ma Ferdinando II gli aveva fatto rispondere dal Carafa in questi termini:

«Amici di tutti, nemici con nessuno, indipendenti. Perché tale deve essere ogni Stato soprattutto il nostro che per la sua posizione geografica ne ha diritto piú di ogni altro – Rinunziare a questo sistema di saggia politica, sarebbe tradire gli interessi del Paese e comprometterlo senza che vi sia nulla a sperare -; la Divina Misericordia in cui il Re ripone cieca ed illimitata fiducia, saprà venire in aiuto del Real Governo a far sí che queste disposizioni non vengano a qualunque costo cangiate»
(A.S.N., Inghilterra, fasc. 661, Carafa a Carini Napoli, 10 gennaio 1855).

Ma i banditi delle cancellerie europee agivano diversamente, né la Divina Misericordia gli venne in aiuto quando ce ne fu bisogno. Tuttavia, checché ne dica la canea vociante dei «critici» unitaristi, «la verità resta la verità – un solo uomo vide, paventò e fece di tutto, durante la sua vita, affinché il Meridione non fosse stritolato nelle spire di conflitti ad esso estranei: fu Ferdinando II – quella indipendenza della quale si mostrava superlativamente geloso»
(R. De Cesare, La fine di un Regno, ed Longanesi, pag. 115, ndr)
fu ritenuta il prodotto deteriore della concezione assolutistica del potere regio, peggio: genuino frutto d’incomprensione personale, arrogante esclusivismo dell’ignoranza sovrana. Lo stesso De Cesare scrisse: «infatuato della sua potenza, non temeva pericoli.

Fu in quell’occasione (“alleanza con l’Austria nei primi del 1859, quando la burrasca si veniva addensando”) che mise fuori il suo motto: essere il Regno protetto per tre quarti dall’acqua salata, e per un quarto dalla scomunica. Ma piú fatale apriorismo era quello di credere che dovesse vivere eternamente, e questa convinzione contribuiva a non dargli nessuna coscienza o visione dei pericoli».

Fin qui, a tutti i critici della politica estera meridionale, qualunque fossero i loro sentimenti dinastici o antidinastici, le loro aspirazioni liberali unitarie o regionalistiche o – ancora e persino – conservative municipali, nel tempo che scrissero mancò l’esperienza che la storia ha offerto poco meno di un secolo dopo: nel 1943-45.

A nessuno sorse il dubbio che i «tre quarti di acqua salata» potessero costituire non una protezione nel senso dell’inaccessibilità di un riparo, cosí come il motto venne comunemente interpretato; ma una «protezione» nel senso di zona nella quale i pericoli potevano essere limitati, se non del tutto evitati, solo astenendosi dal volere gareggiare nel dominio militare del mare che per tanta parte circondava il Regno, non essendo quella gara nelle possibilità di successo del Governo delle Due Sicilie, né suo interesse tentarla per – conto terzi o in ausilio a terzi, quali nel quadro del tempo erano Francia ed Inghilterra.

La superficialità degli interpreti giunse ad attribuire al motto il senso che il mare – nel pensiero di Ferdinando II – avrebbe avuto funzione di paratia stagna! Nessuno riflettette che come via d’accesso, d’attracco, direttrice alimentativa di rifornimenti ad armate occupatrici, la storia serviva – ancora calde, si può dire – le lezioni del periodo spagnuolo e di quello francese. Nessuno pose mente al fatto che la marina militare delle Due Sicilie era sorta – e con la Ferdinando I che fu la prima nave da guerra a vapore che gli Stati italiani videro uscire da un cantiere della Penisola, ma meridionale in quanto varata in quello di Castellammare di Stabia – proprio a ragione difensiva di quelle vie che, se il criterio del Re avesse invece considerate erroneamente inaccessibili – perché naturalmente protettive dell’intangibilità del territorio – non avrebbe consigliata e tanto meno promossa la costruzione di una flotta da guerra.

Nessuno si soffermò a considerare che quel residuo «quarto protetto dalla scomunica» poteva essere ritenuto tale in quanto trattavasi del confine con lo Stato pontificio il cui potere temporale era connesso alla universalità dello spirito cristiano. Onde era legittimo reputare che detta universalità valesse a proteggere politicamente il suo Centro rendendolo inviolabile. Cosí come, dal Sud, tutto ne sconsigliava la violazione, e soprattutto perché adire quello Stato, sorpassando la propria quarta frontiera, significava «uscire dalla linea della politica mediterranea» la cui unica garanzia consisteva nel non intrufolarsi in sfere di influenze ove la mediterraneità, divenendo elemento secondario se non addirittura subordinato, sarebbe rimasta sacrificata come elemento determinante dell’indirizzo politico generale del Regno delle Due Sicilie. Infatti, quali alleanze a comune difesa il Re rifiutò «quando la burrasca (del 1860) si veniva addensando»?

Proprio quelle del piú rigoroso legittimismo: del Granducato di Toscana, del quale il Granduca era suo parente; del Ducato di Parma, ove sovrano era un altro ramo dei Borboni; di Modena, del Papa ed infine dell’Austria, ovvero quelle che per ragioni di legami dinastici o per unicità di princípi di governo eran le sole che potevano riscuotere la sua fiducia. È appena opportuno ricordare che la fiducia si connette, in politica specialmente, sempre ad un interesse materiale.

Nel caso particolare la fiducia del Re Ferdinando II si sarebbe connessa con l’interesse positivo della sua dinastia, non di quella del Regno e delle popolazioni meridionali, essendo ovvio che un’alleanza, fosse col Papa il cui territorio si estendeva fino alle Legazioni di Bologna e Ferrara, fosse con l’Austria il cui fulcro d’interessi era nel centro dell’Europa, avrebbe avuto per conseguenza diretta d’inserire la politica estera dello Stato meridionale in una sfera d’interessi a lui geograficamente estranei perché non mediterranei, o quanto meno non immediatamente mediterranei.

Gli avvenimenti intercorsi tra il 1851 – 59 ed il 1947 – cioè in appena circa novant’anni – ci consentono di vedere la situazione d’allora con maggiore chiarezza. Allearsi con Stati aventi interessi estranei, o quanto meno non immediatamente mediterranei, avrebbe significato abdicare ad una parte dell’indipendenza di quella politica unicamente mediterranea la quale, per la ripetuta ragione geografica – quindi ragione essenziale ed immodificabile – era indispensabile alla salute civile morale ed economica del popolo meridionale. «Non riteneva utile alcuna alleanza, reputandola come una limitazione di quella indipendenza della quale si dimostrava superlativamente geloso», scrisse il De Cesare come abbiamo visto. Oggi noi, in funzione di posteri, dobbiamo – dopo la tregenda vissuta – riconoscere che non era «l’indipendenza» sua, quella personale del Re, «della quale si dimostrava superlativamente geloso»; bensí Ferdinando II si dimostrava supremamente geloso di quell’indipendenza politica corrispondente alla imprescindibile necessità della situazione geografica dello Stato affidato alle sue cure … «perciò -conclude l’autore di queste riflessioni- bisogna oggi inchinarsi a quell’onestà politica per la quale egli subordinò gli interessi della dinastia a quelli dello Stato meridionale, facendo prevalere questi ed in essi vedendo esclusivamente quelli della sua corona»
(Renato Di Giacomo, Il Mezzogiorno dinanzi al terzo conflitto mondiale, ed. Cappelli, 1948, pagg. 72/76).

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ILLUMINISTI, GIACOBINI E TRADITORI

Posted by on Lug 19, 2019

ILLUMINISTI, GIACOBINI E TRADITORI

Breve richiamo di tesi per inquadrare un periodo storico che vide contrapposti in tutta la Penisola l’utopia rivoluzionaria e l’eroismo delle Insorgenze popolari. 

Che il 1700 sia stato il secolo dei lumi è cosa nota a chiunque sia passato tra i banchi di scuola e che i lumi in questione fossero quelli accesi dagli Illuministi è altrettanto pacifico nella memoria di tutti noi. Per il resto, il diciottesimo secolo è quello della Rivoluzione Francese, uno degli episodi più indelebilmente fissati tra le nostre reminiscenze scolastiche. Ovviamente, ciò che ricordiamo è la stereotipata iconografia che ci è stata trasmessa, con la regina Maria Antonietta che parla di brioches, i derelitti rinchiusi alla Bastiglia, la giustizia di Madame la Guillotine.

Ciò che non si ricorda, o meglio non si conosce, è la reale portata e le conseguenze che scaturirono dal pensiero illuministico. Banalmente e falsamente indicato come l’atteso riscatto della Ragione dalla schiavitù dell’ignoranza e della superstizione, l’Illuminismo è ricordato come l’insieme di teorie che scaturirono dal desiderio di uomini emancipati di costruire una società giusta che, attraverso le scienze, aprisse finalmente la porta del Progresso a coloro che languivano negli stretti vincoli sociali, rendendoli liberi, uguali, fratelli.

In realtà, i filosofi del settecento, che si formarono e prosperarono all’ombra delle logge massoniche, non fecero altro che sostituire con idee tanto altisonanti quanto vuote, e tutte scritte categoricamente con la maiuscola, quella fitta ed estesa rete di libertà concrete, di istituzioni naturali, di legami economici, sociali e spirituali che avevano costituito fino ad allora le fondamenta della vita dei popoli in tutte le nazioni europee.

Il vero risultato delle teorie illuministiche, e probabilmente l’unico scopo per il quale erano state elaborate, fu di rendere l’uomo un essere isolato e debole, libero sì ma dalla protezione, dal sostegno e dai diritti e privilegi di cui godeva come membro di una famiglia, di una parrocchia, di un municipio, di una corporazione, di una patria.

Soli e prigionieri della propria libertà, con il rapido decadimento della civiltà stratificata in millenni di cultura e cultura, senza più il baluardo dell’etica cristiana, con il buon selvaggio come modello ideale, gli uomini si sarebbero presto mostrati incapaci di vivere pacificamente associati se gli Illuministi – bontà loro – non avessero inventato la Volontà generale.

Sorta di voce della coscienza sociale che avrebbe dovuto parlare spontaneamente ad ogni individuo, la Volontà generale aveva bisogno di interpreti che dovevano indicarla, spiegarla, divulgarla e, all’occorrenza, imporla ai sordi refrattari che non erano capaci di intenderla da soli. Chi se non gli Illuministi poteva meglio assolvere al gravoso compito? Ecco fatti, dunque, l’uomo nuovo e la società nuova, imperniata sul liberismo economico e morale, sull’uguaglianza fasulla del voto individuale, sulla fratellanza espressa dalle baionette e dalla ghigliottina.

Nel 1789, in Francia, i princípi illuministici trovarono la più radicale applicazione con la Rivoluzione, che decapitò l’autorità civile, mutilò quella religiosa, costrinse i contrari con stragi e deportazioni, devastò la nazione per oltre un decennio, seminò il Terrore ovunque e finì per distruggere i propri figli ed essere sostituita da una copia artefatta e dittatoriale del potere che aveva scalzato.

Per nulla appagata da tanto sangue, la Rivoluzione pretese di essere esportata a tutti i popoli vicini. Iniziò così per l’Europa, tra il 1796 e il 1799, la stagione delle invasioni militari da parte dell’esercito francese, alle quali risposero le eroiche rivolte popolari in difesa dei propri paesi, note come Insorgenze.

Infatti, mentre le idee illuministiche avevano fatto breccia nelle classi più colte e nelle corti attraverso le Logge e le Università, i popoli non ne avevano subito il contagio ed erano rimasti saldamente legati alle tradizioni e alla fede che nei secoli erano stati punto di riferimento costante.

Nella penisola italiana le Insorgenze popolari contro l’esercito francese furono numerose e sparse ovunque: in Piemonte, in Lombardia, nel Veneto, in Toscana, nelle Marche. La maggiore delle insorgenze antigiacobine, e l’unica vittoriosa, ebbe luogo nel Regno delle Due Sicilie, nel 1799, e culminò con la spedizione guidata dal Cardinale Fabrizio Ruffo.

Fu una vera epopea eroica, iniziata dai lazzari napoletani, il popolo minuto, che contrastarono strada per strada e a mani nude l’ingresso delle truppe francesi nella capitale, colpiti alle spalle dai bombardamenti dei vili repubblicani napoletani rinchiusi a Castel Sant’Elmo, pagando l’altissimo prezzo di ottomila vittime in tre giorni. «Uomini meravigliosi, eroi, comandati da capi intrepidi» furono le parole del generale francese Championnet, che li ebbe per avversari. Intanto, mentre il popolo combatteva, i giacobini napoletani – patrioti saranno chiamati in seguito – proclamarono la Repubblica, decisi a imporre la virtù delle nuove idee con l’aiuto delle armi francesi.

Ma l’insorgenza non terminò: dalla Sicilia Ferdinando IV nominò Vicario Generale il cardinale Fabrizio Ruffo, assegnandogli il compito di riconquistare il Regno. Da Punta del Pezzo, in Calabria, Ruffo partì con uno sparuto gruppo di compagni, armati soltanto di una bandiera bianca con lo stemma reale da una parte e la croce dall’altra.

Giusto il tempo di spargere la notizia e ben 1500 volontari, armati alla meglio, giunsero dalle campagne calabresi a costituire l’Armata Cristiana e Reale; ad essi altri si affiancarono strada facendo, oltre le truppe dei Reggimenti regolari. In breve, si costituì un vero esercito popolare, che per divisa aveva una croce bianca cucita sul berretto, e che in soli quattro mesi risalì il Regno liberando paesi e città, provvedendo alle ricostruzione e combattendo eroicamente.

Intanto, le truppe francesi saccheggiavano chiese e palazzi facendo scempio delle ricchezze ed esigendo gravose tasse. I giacobini napoletani, invece, si azzuffavano tra loro per le cariche e per le casse dello Stato e sfornavano vaneggianti leggi che però dovevano essere sempre controfirmate da Championnet per entrare in vigore.

Il 13 giugno, sotto la protezione di Sant’Antonio, il Cardinale Ruffo e della sua Armata della Santa Fede giunsero a Napoli, sconfissero le truppe nemiche al Ponte della Maddalena, e chiusero il tristissimo tentativo di instaurare l’utopia illuminista nel Regno delle Due Sicilie.

Quel che è seguito – la condanna a morte dei traditori della Patria, l’ingerenza degli inglesi negli affari nazionali – ha dato adito a infinite mistificazioni, non spente sul nascere anche a causa della decisione di Ferdinando IV Borbone, divenuto I delle Due Sicilie, di impedire la pubblicazione di opere che ricordassero gli eventi per far calare il silenzio su quella che era stata anche una guerra civile tra napoletani, realisti e giacobini.

La stampa rivoluzionaria europea, al contrario, non mancò di divulgare la propria interpretazione degli avvenimenti, indicando come martiri i traditori e come traditori i patrioti, imponendo la vulgata per la quale nel 1799 sarebbe stata “decapitata la classe dirigente meridionale” creando un vuoto mai più colmato fino ai giorni nostri.

Interpretazione ovviamente ideologica e falsa, inficiata dagli stessi numeri: su circa 8.000 prigionieri, soltanto 124 furono giustiziati, 6 graziati, 222 condannati all’ergastolo, 322 a pene minori, 288 alla deportazione e 67 all’esilio.

Per la maggior parte di essi le pene ebbero durata assai breve – furono tutti liberati entro il 1801 – e, con una clemenza tipicamente borbonica, molti dei condannati furono presto reintegrati nei ruoli dell’Esercito, della Marina e dell’Amministrazione statale. Purtroppo, la clemenza del Re fu ricambiata con nuovi tradimenti, al ritorno dei francesi napoleonici nel 1806.

Dopo oltre due secoli dalla controrivoluzione sanfedista, l’interpretazione storica delle cause e dei fatti continua a dare una rappresentazione stereotipata e faziosa dei fatti e dei protagonisti.

Sarebbe ora, come ha affermato lo storico Renzo U. Montini, di «restituire al sanfedismo originale ed autentico l’innegabile merito di aver rappresentato la spontanea resistenza di popolazioni autenticamente cattoliche e devote alle autorità legittime contro gli abusi, le violenze e l’opera scristianizzatrice di un governo instaurato e sostenuto dallo straniero, in dispregio di tutte le tradizioni politiche e religiose locali».

fonte http://www.editorialeilgiglio.it/storia-1799-illuministi-giacobini-e-traditori/

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