Posted by altaterradilavoro on Giu 28, 2019
Figlio di Paolo Ventura, barone di Raulica
(1734-1816), avvocato e consigliere della Suprema Corte di Giustizia del Regno
di Sicilia e di Caterina Platinelli, “[…] coniugi di antica
probità e di antichi costumi” (1), Gioacchino nasce a Palermo il 7
dicembre 1792 (2).
La famiglia lo avvia agli studi nella città natale,
presso il Collegio Massimo, retto dai gesuiti, riaperto nel 1805 dopo la
promulgazione del breve apostolico Per alias del 30 luglio 1804 di papa
Pio VII (1800-1823), in base al quale la Compagnia di Gesù veniva richiamata
nell’isola da Ferdinando III re di Sicilia III e IV di Napoli (1751-1825), il
medesimo monarca che, ancora adolescente, nel 1767, per decisione del Consiglio
di reggenza e del primo ministro Bernardo Tanucci (1698-1783), ne aveva decretata
l’espulsione, seppur a malincuore (3).
1. La vocazione
religiosa
Dotato di “[…] una mente vasta, un
ingegno perspicace e una memoria portentosa” (4), Ventura, appena
quindicenne, si segnala per la capacità di cimentarsi in composizioni
letterarie latine, sia in prosa, sia in poesia. Il direttore del Collegio pensa
quindi di proporgli di entrare nella Compagnia di Gesù, incontrando, tuttavia,
in un primo tempo, un diniego, non volendo il giovane Gioacchino abbandonare la
famiglia. La convinzione di poter meglio coltivare gli studi che lo
appassionano e la gratitudine provata verso i maestri lo spingono al passo
decisivo. Egli chiede di entrare nella congregazione di sant’Ignazio di Loyola
(1491-1556), in cui viene accolto il 19 gennaio 1808, non senza aver dovuto
superare dei contrasti in famiglia, dove la sua “[…] risoluzione
[cagiona] dispiacere grandissimo” (5).
Ventura inizia il noviziato nella casa professa, poi,
quando a maggio 1809, su decisione della consulta provinciale, il noviziato
medesimo viene spostato a Caltanissetta, egli vi si trasferisce, frequentando
il biennio di Retorica sotto la guida di un eccellente docente di eloquenza;
queste lezioni, infatti, non si limitano all’apprendimento in aula, essendo
esse accompagnate da esercitazioni “sul campo”, attraverso le
prediche e gli esercizi spirituali diretti ai fedeli nisseni dal pulpito della
chiesa principale della città, che, quando egli parla, è sempre gremita (6).
Conclusa la sua formazione, nel 1814, egli torna a
Palermo, per frequentare il secondo anno di Filosofia, avendo quali professori
dei gesuiti spagnoli, che, espulsi dal loro Paese, avevano trovato ospitalità
in Sicilia. Qui Ventura studia la filosofia di Aristotele (384-383 ca.-322
a.C.) e di san Tommaso d’Aquino O.P. (1225/1226-1274), ai quali riconoscerà, in
età avanzata, di averlo educato alla vera libertà interiore e preservato dagli
errori dei numerosi maestri cartesiani, presenti anche tra i gesuiti (7). In
effetti, in quel periodo, nei collegi della Compagnia, non vige un indirizzo
speculativo univoco, né tanto meno uno pedissequamente scolastico; esiste
piuttosto “[…] una discreta libertà d’indirizzi, rivelantesi in
un ecletticismo inconciliabile con i principi della “philosophia
perennis”” (8). In ogni caso, tali sono i risultati che consegue
nello studio della matematica, della fisica e della filosofia e del greco, in
cui eccelle, che i suoi superiori lo sottopongono a esame pubblico, il cui
esito suscita grande ammirazione nei prelati e nei professori universitari
presenti.
Ventura, poco più che ventenne, riceve l’incarico di
insegnare “belle lettere” nei collegi gesuitici, prima al Collegio
Massimo, poi in quelli di Caltanissetta e di Alcamo (Trapani), nonché Retorica
al Real Convitto Ferdinando di Palermo — dove, nella chiesa annessa, impartisce
pure lezioni di catechismo aperte al pubblico esterno —, annoverando fra i suoi
studenti il fior fiore dell’aristocrazia locale. Risale a questa sua prima
attività di docente la pubblicazione di un Compendio di geografia antica e
moderna, dato alle stampe senza il nome dell’autore, ma adottato in tutti i
collegi della Compagnia di Gesù aperti nell’isola; dello stesso periodo sono
numerose operette — raccolte in quelli che lui definisce “libricini”
—, scritte ad uso didattico per gli allievi (9).
2. L’abbandono
della Compagnia di Gesù e l’entrata nell’Ordine dei Chierici Regolari
Nel 1814 il nuovo provinciale, padre Giuseppe Vulliet
(1779-1831), inizia un’opera di ristrutturazione e di riforma della Compagnia
con tale severità da suscitare perplessità e malcontento in molti. Per alcuni
padre Vulliet è uno sconsiderato vuol distruggere ciò che invece deve
conservare: “[…] la sua condotta [è] da principio attribuita
a una profonda e inesplicabile perversità; ma più tardi [viene] a
sapersi [che è] affetto semplicemente da follia” (10). In
realtà, il nuovo provinciale agisce “[…] con una energia forse
superiore alle esigenze del male” (11); così “[…] molti
dei sofferenti non [reggono] più. Fra questi il Ventura, il quale, il 31
agosto di quello stesso 1817, [chiede] liberamente per sé la patente di
dimissione” (12).
Ventura lascia la Compagnia di Gesù senza aver
ricevuto gli ordini sacri e aver fatto la professione religiosa. Ma la sua
vocazione è sincera: non se ne va perché non sopporta la vita religiosa; egli
vuole diventare sacerdote regolare, come ha promesso a Dio e a Maria Santissima
(13). Decide quindi di diventare teatino, cioè membro dell’Ordine dei Chierici
Regolari, la congregazione fondata da san Gaetano di Thiene (1480-1547) e dal
vescovo di Chieti mons. Gian Pietro Carafa (1476-1559), papa dal 1555 con il
nome di Paolo IV, “[…] le cui costituzioni erano più conformi a’
bisogni del suo spirito” (14). Il 31 maggio 1818, dopo sette mesi di
noviziato, nella casa di San Giuseppe, a Palermo, egli fa la professione
religiosa solenne. Compie poi in pochi mesi la restante parte degli studi
teologici e, nello stesso anno, è ordinato sacerdote “[…] incominciando
ben presto a sfoggiare le sue eccezionali doti oratorie dal pulpito del
magnifico tempio di S. Giuseppe” (15).
3. Segretario
generale dell’Ordine dei teatini e i rapporti con il principe di Canosa
Nei primi mesi del 1819, Ventura viene trasferito a
Napoli, dove gli è affidato l’incarico di istruire i novizi. Il padre generale
dei teatini, apprezzandone le doti, lo vuole accanto a sé nel ruolo di
segretario generale dell’Ordine, nel delicato momento di restaurazione della
congregazione nel Regno delle Due Sicilie (1816-1861), in applicazione del
Concordato del 1818, stipulato tra la Santa Sede e la Corte borbonica.
Scoppiata la rivoluzione nel 1820, Ventura si schiera
a difesa degli ordini religiosi minacciati dalla legislazione propugnata dalla
setta carbonara, dando alle stampe l’opuscolo Decisione del giornale
costituzionale sopra de’ Regolari riesaminata al tribunale del buon senso
(16), più conosciuto con il titolo della seconda edizione, Considerazioni
sopra gli ordini regolari dettate dalle attuali circostanze (17), un
capolavoro “[…] di logica, di eloquenza, di finezza e
d’erudizione” (18).
Sedata la rivolta con l’intervento dell’esercito
austriaco, stabilito dalla Santa Alleanza al congresso di Lubiana in Slovenia
del gennaio 1821, il teatino, che conosce un gran numero di rivoluzionari — di
cui possedeva documentazioni, attestati di benemerenza di varia natura, libri
recanti la firma del proprietario, dagli stessi a lui consegnati nel timore che
cadessero nelle mani dei gendarmi — si rifiuta di rivelarne i nomi al principe
di Canosa, ministro di Polizia borbonico, trincerandosi dietro il segreto del
confessionale (19). Avvicinato nuovamente dal principe di Canosa, che gli offre
il posto di storiografo di corte e la direzione del Giornale officiale delRegno delle Due Sicilie, il teatino declina le proposte, ritenendole poco
confacenti alla sua veste di religioso. Accetta invece, tra il 1821 e il 1822,
alcuni ruoli di prestigio, diventando regio revisore delle stampe nazionali ed
estere, ispettore generale delle scuole primarie del regno e membro della
Giunta di Pubblica Istruzione (20).
4. La
fondazione dell’Enciclopedia ecclesiastica, e morale e l’attività
pubblicistica a Napoli
Il religioso palermitano, a Napoli, fonda il periodico
Enciclopedia ecclesiastica, e morale finanziato dal principe di
Canosa, il cui primo numero esce il 10 giugno 1821, con la finalità esclusiva
di propagandare i principi morali e religiosi, contrapposti all’utopismo
rivoluzionario (21). Ventura è convinto che le opinioni religiose hanno una
grande influenza sulle trasformazioni sociali, sulla determinazione delle forme
di governo e sui costumi e la moralità dei popoli (22) e che solo la religione
può formare quegli uomini virtuosi di cui, nella tristezza dei tempi, gli Stati
avvertono la necessità; l’amore patrio, la sottomissione alle leggi, il
rispetto dell’autorità, la rinuncia del bene privato a vantaggio di quello
pubblico non sono che dei corollari di una vita religiosamente vissuta, unica
capace di inibire le passioni sovvertitrici dell’ordine sociale (23).
Infatti, proprio nel primo fascicolo dell’Enciclopedia
ecclesiastica, e morale, Ventura, come il
visconte Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald (1754-1840), delle cui opere è
attento studioso, ravvisa la genesi dei princìpi che hanno determinato la
Rivoluzione francese nella Riforma protestante e nella graduale diffusione
della cultura razionalistica e libertina, che hanno a mano a mano corrotto i
ceti sociali, fino a coinvolgere coloro che avrebbero dovuto governare con
moralità e giustizia (24). Sul foglio partenopeo, il pensatore siciliano
individua i ministri di Stato europei responsabili, con i loro atti di governo,
del degrado della vita sociale e religiosa: il ministro degli Affari Esteri
francese étienne-François, duca di Choiseul (1719-1785), il primo ministro
portoghese Sebastiaõ José de Carvalho e Melo marchese di Pombal (1699-1782), il
capo di governo spagnolo Pedro Pablo Arbaca de Bolea, conte di Aranda
(1719-1798); il marchese Guillaume Léon du Tillot di Felino (1711-1774),
ministro del ducato di Parma e Piacenza; e il cancelliere austriaco Wenzel
Anton von Kaunitz-Rietberg (1711-1794) (25). Costoro “[…] avvedutamente
renduti Ministri di iniquità” (26),hanno privato “[…]
il trono […] degli antichi appoggi” (27), in particolare di
quello fornito dalla religione (28).
La corruzione della ragione e l’indifferenza nei
confronti della religione e della morale hanno generato delle vere e proprie
malattie dello spirito (29); e fra queste il cosiddetto “mal tricolore“
(30) — la “patologia” di coloro che si sono messi al seguito dello
stendardo esibito dai primi rivoluzionari e dai bonapartisti —, che non si è
diffuso inizialmente in Francia, come alcuni credono, ma, appunto, in Germania
due secoli prima, sebbene “[…] “sotto un carattere, e con
sintomi diversi”” (31), generando uno “[…] stato
di anarchia […] sanguinose guerre […] una falsa idea di
“sovranità del popolo” e […] un’altrettanto infondata idea
della “sovranità della ragione”” (32).
Nondimeno in Ventura sono subito manifesti i pensieri
che lo collocano in una posizione differente da quella di una semplice reazione
all’assolutismo che ha limitato la libertas Ecclesiae. La Restaurazione
ha mantenuto molte leggi e istituzioni delle stagioni del dispotismo illuminato
e del periodo napoleonico; ma non è sufficiente conservare quanto di positivo
la storia e la stratificazione sociale hanno prodotto e tramandato, bisogna
trasformare l’esistente, con la critica della mentalità rivoluzionaria e dei
postulati giurisdizionalistici e regalistici.
Così il teatino, sull’Enciclopedia ecclesiastica, e
morale, pone una distinzione tra la “[…] febbre
tricolore”, espressione di un falso amore per la propria patria, e il
vero amore di patria, che è il rimedio al patriottismo ingannatore, che
maschera particolarismi, volontà di dominare e di arricchirsi e di detenere il
potere politico; mali sociali, questi, derivati da decadimento morale, frutto
di false filosofie, di pregiudiziali scelte di parte, di mancanza di convinzioni
profonde, che portano all’accettazione di ogni novità (33).
Ventura non si limita alla semplice denuncia delle
“novità”. Il sacerdote palermitano, nella convinzione che, contro il
nocivo “[…] alito tricolore” (34), l’unico rimedio è il
ritorno ai sani principi morali e alla pratica religiosa (35), con grande
realismo, sempre dalle pagine dell’Enciclopedia, sostiene ogni
iniziativa che garantisca alla Chiesa maggiori spazi di libertà e, alla
struttura sociale, un ampliamento del suffragio popolare, a difesa della
religione e a sostegno della monarchia (36). Sul foglio napoletano egli elogia,
per esempio, le iniziative dei parlamentari francesi, in particolare quelle di
Marie-Louis-Auguste Demartin du Tyrac conte di Marcellus (1776-1841), che
auspica delle sovvenzioni a tutela delle opere ecclesiastiche e dei sacerdoti,
un ampliamento delle sedi vescovili, una libertà di stampa non assoluta, ma
rispettosa della religione e di quel senso morale così diffuso nella società
francese, una rappresentanza parlamentare non più basata sul censo, bensì
autenticamente popolare, perché è il popolo a stabilire la legittimità di una
monarchia (37).
Le tesi del combattivo nobile francese sono condivise
sia dal teatino sia dal principe di Canosa, in polemica contro il neo-assolutismo
della Restaurazione napoletana (38). E tuttavia ambedue non mancano di
approvare il decreto di Ferdinando IV di Napoli sulle “congregazioni di
spirito” — le associazioni cattoliche che si occupano dell’educazione
morale e religiosa dei giovani —, indubbiamente derivato dalle dottrine
giurisdizionalistiche, che, presso la Corte partenopea, godono ancora di grande
credito. Infatti, il decreto, pubblicato sull’Enciclopedia ecclesiastica, e
morale, assegna alla Chiesa questa azione formativa nel contesto della
pubblica istruzione, ma, in base al Concordato del 1818, sotto il rigido
controllo dello Stato, che fissa una serie di norme da osservare, fra le quali
l’obbligo di istituire le “congregazioni di spirito” in ogni diocesi,
l’istruzione impartita nei giorni festivi con l’obbligo per i maestri di
portare alle funzioni religiose gli alunni. Tale subordinazione allo Stato è di
tutta evidenza, poiché i vescovi devono giurare fedeltà al Sovrano e allo
Stato, pur nell’assicurazione, ai sensi del Concordato, che i beni della Chiesa
non possono essere espropriati (39).
Ventura poi mette in evidenza come la rivoluzione del
1789 e quella napoletana del 1820 hanno alla base gli stessi princìpi
ispiratori, idee “[…] mutuate dalle nozioni roussoviane di
“volontà generale” intesa come ” volontà della nazione”,
come “volontà del popolo”” (40).
Ora, per il teatino, la “volontà del popolo”
può essere positivamente considerata solo se esaminata non astrattamente, ma
“[…] correttamente, nel riferimento, cioè, alla complessa realtà delle
articolazioni della “società civile”” (41). Egli precisa
come i termini di nazione e di popolo abbiano perso il loro autentico
significato. Infatti essi non stanno più ad indicare i cittadini nel loro
insieme e una “società politica”, intesa come un’unica famiglia, ma
solo un gruppo di individui, i cui pensieri politici sono delittuosi perché
contrari ai principi che dovrebbero assicurare la felicità delle persone. E le
rivoluzioni, continua il sacerdote siciliano, non scaturiscono mai da una
presunta “volontà generale”, ma dalle cospirazioni attuate da “[…]
“volontà particolari” di un branco uomini”
(42), che sanno affascinare parte del popolo, rendendolo strumento per
raggiungere fini particolari, contrari al bene comune, incapaci come sono, i
rivoluzionari, di garantire alla popolazione il pane, l’ordine sociale e la
pace religiosa (43).
Seguendo il conte savoiardo Joseph de Maistre
(1753-1821) e de Bonald, anche Ventura, nella polemica contro i liberali e gli
intellettuali più estremisti, pregiudizialmente contrari a ogni forma di
religiosità, fa presente come persino Maximilien-François-Marie-Isidore de
Robespierre (1758-1794) e Napoleone Bonaparte (1769-1821), pur essendo dei
despoti, abbiano ascoltato, anche se per convenienza politica, la nazione e il
popolo, non frustrandone del tutto il sentimento religioso e resistendo alle
richieste di scristianizzazione avanzata da altri rivoluzionari più radicali.
Il primo, “[…] il mostro [che] si arrese” (44),
considerata l’importanza sociale della religione e timoroso della vera
“volontà generale” della Francia, evocando la nozione di Divinità per
riempire il vuoto generato nei cuori dall’ateismo regolato dalla legge, anche
se, in seguito, la falsa “volontà generale” ha imposto il bizzarro
culto dell’Essere Supremo; il secondo, invece, ritenendo prudenzialmente
conveniente riconoscere nella religione la vera “volontà generale”
dell’intera nazione e assicurando la libertà di essere e di professarsi
cristiani (45).
Relativamente ai princìpi cardine della Rivoluzione
francese, Ventura, ancora sullo stesso numero del foglio napoletano, nella
rubrica Costume pubblico, analizza e commenta, con un articolo dal
titolo Vizj sociali. Gl’Intriganti, i concetti di uguaglianza e di
libertà, denunciando, in primis, la falsa uguaglianza propugnata dai
rivoluzionari, i quali, abolendo le distinzioni e i ruoli di ceto, non hanno
fatto altro che trasmettere a altro gruppo sociale i posti-chiave del potere,
senza nel contempo introdurre dei meccanismi per favorire un avanzamento
sociale per effettivo merito (46). E, facendo eco alla riflessione del politico
anglo-irlandese Edmund Burke (1729-1797), il sacerdote palermitano non manca di
sottolineare come i liberali, che pure si sono proclamati difensori dei principi
di eguaglianza, si comportino da monarchi assoluti, i quali, per meglio
controllare lo Stato, conferiscono a delle persone fidate, ma soprattutto
fedeli, gli incarichi di maggior prestigio, mortificando in tal modo le
migliori competenze e le capacità di svolgere determinate funzioni sociali
(47), determinando “[…] improvvisi cambiamenti di status
dei più accesi, dei più decisi e violenti” (48).
In realtà, per Ventura non è possibile assicurare una
vera uguaglianza in politica, poiché differenti sono gli individui fra di loro,
come lo sono gli stessi gruppi sociali, e diversi, inoltre, sono i periodi
storici in cui l’esercizio politico viene svolto. Non si deve, quindi, a suo
dire, confondere l’uguaglianza di natura e di diritto, con la possibilità,
spesso reclamata da gruppi politici in malafede, di giungere a svolgere alte
funzioni pubbliche, senza possedere i talenti necessari. Questa è un’uguaglianza
irreale, sostanzialmente un dogma, al quale i politici fingono di credere; e se
non può esser la politica a creare le condizioni reali di uguaglianza, essa
tuttavia deve regolarle (49). La vera uguaglianza non può che essere la
conseguenza di un “[…] eguagliamento, come educazione e
disciplina delle pulsioni esclusive” (50), di un mutamento “[…]
non naturalisticamente inteso, ma come risultato di un processo di
socializzazione e incivilimento” (51), senza prefiggersi il
raggiungimento di un’uguaglianza assoluta, di per sé ingiusta. È questa “[…]
l’unica via da seguire per costruire una “società civile””
(52), nella quale è possibile l’esercizio della vera libertà, che porta
all’armonizzazione delle condizioni sociali, e non all’incessante rifacimento della
società. La Rivoluzione francese e quella napoletana non sono state che il
mezzo attraverso il quale un gruppo sociale ha cercato di ottenere un potere
incondizionato quanto quello esercitato dalle monarchie assolute (53).
Notevole è il successo dei fascicoli bimestrali dell’Enciclopedia
ecclesiastica, e morale. L’iniziativa editoriale, tuttavia, termina quando
a essa viene a mancare l’appoggio del principe di Canosa, esautorato dal
governo di Luigi de’ Medici, principe di Ottaiano e duca di Sarno (1759-1830),
anche per le pressioni della diplomazia austriaca, che vuole imporre il nuovo
corso dell’”amalgama” fra legittimisti e murattiani, al quale il
principe è contrario, salvaguardando la razionalizzazione e l’accentramento
statale, iniziato, prima della Rivoluzione, dai governi illuminati e continuato
nel periodo napoleonico.
Nello stesso tempo, Ventura si fa promotore della
divulgazione nella Penisola delle opere dei contro-rivoluzionari francesi,
facendo tradurre e stampare, nel 1823, il Du Pape (54)di de
Maistre, corredandolo di proprie annotazioni, e i primi due volumi dell’Essai
sur l’indifférence en matière de religion (55)del sacerdote
francese Hugues-Félicité Robert de Lamennais (1782-1854), che incontra la prima
volta a Napoli, con il quale poi ha rapporti epistolari e stringe una
temporanea amicizia. Scrive poi un saggio sulle opere di de Bonald, inserito
nella traduzione italiana della La législation primitive considérée
dans les derniers temps par les seules lumières de la raison
(56) del visconte francese.
Nel periodo napoletano, pur impegnato nella polemica
ideologico-politica, il teatino non trascura l’esercizio dell’eloquenza, specie
negli elogi funebri dai pergami delle chiese partenopee, tanto da meritarsi il
titolo di “[…] Bossuet italiano” (57). Celebri sono le
commemorazioni di papa Pio VII; di Niccolò Fergola (1753-1824), insigne
matematico napoletano; di Domenico Cotugno (1736-1822), medico della Casa
reale; di Anna Maria Ruffo, principessa di Pettoranello (1775-1823); di Trojano
Marulli, duca di Ascoli Satriano (1759-1823) e di Francesco Maria Statella e
Napoli, principe di Cassaro (1758-1823).
Alcune orazioni — veri modelli di sacra eloquenza —
sono apprezzate anche fuori del Regno, tant’è che vengono stampate a Milano e a
Lucca e hanno traduzioni nelle principali lingue europee, non trattandosi di
una retorica fine a se stessa o di circostanza. Ventura, infatti, sa trarre
dalla vita degli illustri personaggi esempi per far risaltare “[…] la
verità, la santità, l’utilità, l’efficacia, le bellezze del Cristianesimo e
d’inculcare que’ grandi principi d’ordine, che costituiscono il vero bisogno
degli spiriti e il sostegno della società” (58).
5. Ventura e il
pensiero di de Bonald
Il pensiero di Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald influenza
pure la critica che Ventura sviluppa nei confronti della Restaurazione,
partendo dalla preliminare distinzione di alcuni ambiti, che comunque si
trovano in rapporto di interazione: la “società religiosa”, afferente
alla sfera spirituale, dell’etica e dei valori; la “società
politica”, appartenente a quella dell’implementazione storica di quel
sistema di valori religiosi e morali; la “società civile”, quale
conseguenza del rapporto fra le prime due (59).
Per il teatino, la “società civile” formatasi
nel Medioevo si caratterizzava per una configurazione istituzionale
gerarchizzata e molto complessa, per la molteplicità, l’organicità dei corpi
sociali e per le responsabilità differenziate, in un sistema rappresentativo
antesignano dello Stato parlamentare: “Ogni Stato, ogni popolo, ogni
nazione avea una costituzione a sé, avea diritti, privilegi, ed una
rappresentanza nazionale incaricata di garantirla da ogni oppressione e di
tutelarne gl’interessi e la libertà. Gli Stati di Alemagna e del nord aveano le
Diete, l’Inghilterra il Parlamento, la Francia gli Stati generali, la Spagna e
il Portogallo le Cortes, La Sardegna gli Stamienti, il regno di Napoli i
Sedili, la Sicilia il Parlamento, il più antico forse di tutti i Parlamenti di
Europa” (60). L’assolutismo ha distrutto questa “società
civile”. Per ripristinarla occorre una vera e propria rivoluzione,
differente da quella giacobina, la quale è stata una conseguenza dello stato di
malattia della società assolutistica, originato dall’inoculazione di tossine,
cioè di elementi strutturali estranei, nel tessuto sociale (61).
Anche per il teatino, che sostanzialmente riprende le
convinzioni di de Maistre e di de Bonald, la Rivoluzione ha fatto crollare le
mura dell’edificio assolutistico, ma ha lasciato comunque in evidenza le
fondamenta della città medievale, sulle quali si deve avviare la restaurazione
vera (62).
Ventura, poi, elabora un proprio singolare pensiero,
seppur mutuato dalla riflessione bonaldiana sull’”obbedienza attiva”
e sulla “resistenza passiva”, “[…] per mettere in luce
come la religione debba essere considerata come il vero limite sostanziale del
potere: essa infatti impegna il cristiano ad un continuo riscontro della
legittimità dei provvedimenti e dei comandi del governo” (63).
Partendo da quest’ultima, egli perviene a distinguere l’”obbedienza
attiva” dall’”obbedienza passiva”: “[…] la prima
è propria di ogni essere intellettualmente libero e si esprime nella
disposizione ad eseguire con animo pronto i comandi che si riferiscono ai fini
legittimi; l’obbedienza passiva caratterizza chi si comporta meccanicamente,
chi opera come mero strumento senza alcuna valutazione di ciò che gli si chiede
di fare, se sia disonesto o immorale, se sia legittimo o no. L’obbedienza
attiva, che implica invece un atteggiamento vigile nei confronti del potere,
trova il suo naturale complemento nella resistenza passiva, cioè nel rifiuto di
obbedire ai provvedimenti che ledono il diritto divino, naturale e positivo,
senza peraltro assumere alcuna iniziativa che sia direttamente rivolta contro
il potere” (64). Dalle prime riflessioni sull’opera del visconte
francese e dagli studi tomistici che ha intrapreso, Ventura fa derivare
quell’idea di democrazia che lo accompagnerà nel corso della sua vita e che in
un primo tempo gli sembra semplicemente “[…] una forma politica
d’origine pagana e di legittimazione protestante” (65).
Il sacerdote siciliano, fra il 1824 e il 1825, giunge
gradualmente alla convinzione del fallimento completo della Restaurazione,
segnata dalla numerose rivolte sociali e dell’inefficacia, se non
dell’inutilità, del controllo poliziesco. Occorre, a suo parere, intraprendere
un’opera di propaganda, di ricostruzione delle coscienze, attraverso una
educazione ai valori, anche diffondendo la buona stampa, perché la sola opera
repressiva, applicata dai regimi restaurati, ha reso le persone insensibili ai
valori morali e politici, diffondendo sfiducia e indifferenza, lasciando campo
libero al nuovo dispotismo di oligarchie che “[…] non hanno
trovato alcuna difficoltà a riempire il vuoto politico lasciato dalla
sparizione di una “società civile”, sostituendovi finalità
materialistiche, egoistiche, tipiche di ogni regresso da una società evoluta a
una “società naturale”, in realtà alla dimensione privatistica, del
puro e semplice interesse personale.[…] un ritorno alla legge di
natura del più forte, ora del più spregiudicato e del più arrivista, a
qualsiasi prezzo e con qualsiasi mezzo” (66).
Nonostante ciò, Ventura vede nella Rivoluzione, anche
sulle orme del pensiero di de Maistre e di de Bonald, “[…] una
crisi salutare, uno stato febbrile necessario al corpo sociale per recuperare
la sua salute” (67). Scartata, perché di per sé insufficiente, la
semplice contrapposizione ideologica alle forze rivoluzionarie e alla
Restaurazione neoregalistica, considerata improponibile una sollevazione
armata, come invece è avvenuto al tempo della grande insorgenza del 1799,
Ventura, a partire dal settembre 1825, privilegia un’opera di propaganda
finalizzata all’attuazione di una “rivoluzione morale” e alla
riaffermazione dei valori autentici del cristianesimo, unici a poter liberare
l’uomo dalla tirannia liberale e dal dispotismo: queste le linee fondamentali
per poter rifondare la “società civile”medioevale, da attuare
in forme e modalità nuove (68).
La riscossa propagandistica, constata il religioso
palermitano, è già in atto in altri luoghi d’Italia: “[…] in tre
delle più cospicue città cominciarono quasi allo stesso tempo a comparire tre
giornali, dettati dal medesimo zelo, e tendenti allo scopo medesimo, di
propagare le verità sante, divenute oggi il vero bisogno de’ popoli e della
società: cioè l’”Enciclopedia ecclesiastica” in Napoli, l’”Amico
d’Italia” in Torino, le “Memorie di religione, di morale e di
letteratura” in Modena” (69).
6.
Collaboratore del Giornale ecclesiastico di Roma e preposito generale dell’Ordine dei Chierici Regolari
Nel giugno1824, Ventura è nominato procuratore
generale dei teatini, e, prima di trasferirsi a Roma, si reca a Palermo per una
visita ai famigliari (70). Qui, si ammala e si ferma per un lungo periodo,
durante il quale porta a termine una feconda opera di apostolato, convincendo
numerosi giovani ad abbracciare la vita religiosa del suo ordine (71). Giunto
nell’Urbe nel gennaio 1825, il teatino viene subito chiamato a collaborare al Giornale
ecclesiastico di Roma — il foglio che, uscito con il primo numero il 2
luglio 1785 (72) e poi soppresso nel 1798, ha da poco ripreso le pubblicazioni
per volontà di papa Leone XII (1823-1829) (73) —, sul quale, in breve tempo,
eserciterà, in collaborazione l’empolese monsignor Giovanni Marchetti
(1753-1828), una forma di controllo sugli argomenti trattati e sull’indirizzo
politico (74).
Inizia per Ventura una nuova stagione d’intensa
attività pubblicistica di contenuto apologetico e politico, ma anche di
consigliere spirituale, di consulente teologico, di membro della commissione
per la censura dei libri (75); una serie di gravosi impegni finalizzati alla
ricostruzione morale della società, di cui il giornale romano si fa promotore,
illustrando i princìpi ai quali essa deve essere ricondotta.
In un suo contributo, dal titolo Saggio sul potere
pubblico (76), partendo dalle considerazioni di de Bonald e di Karl Ludwig
von Haller (1768-1854), l’autore de La restaurazione della scienza politica
(77), Ventura, dopo aver precisato in via preliminare che il potere risiede in
Dio e che da Dio stesso deriva ogni potere (78), definisce legittimo il sistema
di governo che rispetta e assicura la continuità, cioè la conservazione delle
finalità, dei principi fondativi della società politica, che, pur nella loro
declinazione in una molteplicità di organi istituzionali, sono posti alla base
del patto sociale. La variazione di una forma di governo, poi, è di per sé
legittima ogni qual volta la natura del patto costitutivo ne richieda una
modificazione a beneficio dei fondatori (79).
A sostegno delle proprie convinzioni, Ventura presenta
l’esperienza della Roma repubblicana delle origini, riproponendo il ruolo del
Senato nell’indicare il detentore del potere, in una società basata sul
riconoscimento di chi governa da parte del popolo, con un sistema elettivo
quale soluzione migliore per determinare colui che deve esercitare il potere
stesso (80). In questa prospettiva il nuovo potere, scaturito dalla conquista
dello Stato da parte di una potenza straniera o per usurpazione a opera di un
singolo soggetto, può diventare legittimo se vi è “[…] la
volontà tacita del legittimo possessor del Potere” (81), che riconosce
il rispetto del principio etico fondativo del patto, cioè l’esercizio del
potere a vantaggio del popolo. Concetti, questi, che egli illustra anche nel
suo Commentaria de jure publico ecclesiastico (82), frutto delle sue
lezioni all’Università La Sapienza — il Papa, nel 1825, lo ha nominato
professore di Diritto Pubblico Ecclesiastico —, in cui è appunto trattato il
tema dei fondamenti della società e delle leggi che la devono sorreggere. Le
sue tesi trovano molti oppositori, sia fra i sostenitori dei sovrani della
Restaurazione, sia presso i liberali del costituzionalismo monarchico, che non
possono assecondare l’idea di una distribuzione di parti del potere ai
rappresentanti dei corpi sociali, a svantaggio quindi dei gestori di
un’amministrazione statale burocratica, che è diritto esclusivo del nuovo
gruppo sociale ormai insediato ai vertici dello Stato.
Il teatino, fra molte esitazioni, dubbi,
indeterminatezze espressive, avanza la proposta di estendere anche allo Stato
Pontificio l’applicazione delle idee del Saggi sul potere pubblico,
suscitando reazioni nella Curia, che vede in ciò una qualche limitazione del
potere papale a opera del collegio cardinalizio (83). Ma non è questo il
pensiero di Ventura, perché forte è in lui, come in de Maistre, la certezza che
lo Stato della Chiesa non è una monarchia elettiva: “[…] il Papa
rappresenta lui stesso l’erede del “Fondatore della Chiesa”, del
quale va […] considerato come l’unico esecutore testamentario, e come
tale non necessitante di alcuna altra legittimazione politica che questo
originario legato” (84). Tuttavia, preso atto di tali contrasti, il
religioso palermitano si dimette dagli incarichi di insegnamento e dagli “[…]
onorevoli incarichi di teologo collegiale e di maestro di spirito”
(85).
Continua invece la collaborazione al Giornale
ecclesiastico di Roma, sul quale Ventura, nei suoi numerosi contributi,
esalta l’opera di civilizzazione fatta dalla Francia (86) — “[…] strumento
di mediazione tra l’autorità dei pontefici, potere supremo nella cristianità, e
popoli civilizzati dalla Chiesa” (87)— e riflette sull’origine
della decadenza del senso religioso, ravvisandone la causa prima nella
rivoluzione protestante e nella cultura illuministica e proponendo, quale
rimedio, il ritorno ai saldi postulati etici e politici del cattolicesimo (88).
Le considerazioni del religioso siciliano, scritte con
linguaggio chiaro, ma alieno da ogni galateo diplomatico e non disgiunto, a
volte, da tesi apocalittiche, non sono “[…] le più adatte a
favorire l’adesione aperta delle supreme autorità ecclesiastiche ad una
battaglia sui cui obiettivi molti pur concordavano, non escluso lo stesso Leone
XII” (89). Austria e Francia invece intervengono direttamente per far
cessare la pubblicazione di altri saggi di Ventura. A Parigi è vietata la
diffusione del Giornale ecclesiastico di Roma, mentre da Vienna Klemens
Lothar Wenzel, principe di Metternich (1773-1859), protesta per la volontà
manifestata dal Papa di emanare un documento contro quei vescovi di tendenze
gallicane e giansenistiche favorevoli ad una maggiore autonomia da Roma e
fedeli ai regimi politici in vigore nei propri Paesi (90). Leone XII cede
malvolentieri alle pressioni diplomatiche e la segreteria di Stato proibisce la
continuazione della pubblicazione del Giornale ecclesiastico di Roma
(91).
Libero degli impegni d’insegnamento e cessata
l’attività di controllo sul foglio romano, il religioso siciliano non si
sottrae ad altri servizi in favore della Santa Sede, facendosi, per esempio,
promotore della firma del Concordato fra Santa Sede e Ducato di Modena (92), le
cui trattative erano da tempo arenate. Coglie inoltre l’occasione di questa
diminuzione degli impegni per intensificare l’attività di studio e di
pubblicista: nel 1829 dà alle stampe il De methodo philosophandi (93),
dedicato al visconte François-René de Chateaubriand (1768-1848), Le
osservazioni sulle dottrine dei signori de Bonald, de Maistre, de La Mennais e
Laurentie (94), gli Schiarimenti sulla quistione del fondamento della
certezza tratti da’ princìpi della scuola tomistica (95), opere finalizzate
alla “[…] rivitalizzazione della tradizione filosofica cristiana
e [alla] confutazione degli errori del pensiero moderno, che egli
individua soprattutto nel suo tentativo di secolarizzazione” (96). In
esse è esposto il suo convincimento che la sola ragione non possa giungere alla
comprensione della realtà creata; tutte le conoscenze — anche le più alte,
quali la nozione di Dio e la legge morale — sono il frutto di una rivelazione
primitiva, fatta dal Creatore ai primi uomini e compiutamente espressa da Gesù
Cristo. Questo sapere è trasmesso alle generazioni attraverso la tradizione e
il linguaggio, che, essendo inscindibile dal pensiero, non è di origine umana
ma, pur esso, dono di Dio (97). Il teatino viene quindi a schierarsi con la
scuola del tradizionalismo francese, interpretato come “[…] se
fosse in assoluta coerenza e continuità con le tesi di Tommaso d’Aquino,
Agostino e dei Padri della Chiesa” (98). In seguito, durante il suo
esilio francese, egli avrebbe ripreso e approfondito questi temi, polemizzando
con i tomisti, cultori della filosofia del senso comune, accusandoli di essere
“[…] semi-razionalisti, pelagiani, di utilizzare Platone
[428-427-348-347 a. C.] e Aristotele per intendere il Logos“
(99).In effetti, Ventura intende il tomismo non come lo si sarebbe
compreso dopo il rilancio dello stesso a opera di Leone XIII — con l’enciclica Aeterni
Patris del 4 agosto 1879 —, ma come lo si concepiva nella prima metà
dell’Ottocento, quando, dopo quasi due secoli di cartesianesimo, “[…]
vi era grande diffidenza verso il pensiero di Tommaso, anche nelle scuole
cattoliche” (100).
Nello stesso periodo, il Duca di Modena Francesco IV
(1779-1846), inoltra a Pio VIII (1829-1830) la richiesta di nominare il
polemista palermitano vescovo di quella città. Il Pontefice vuole invece
trattenerlo in Roma, dove, nel febbraio 1830, il Capitolo dell’Ordine dei
Chierici Regolari lo elegge preposito generale (101).
7. I rapporti
con Lamennais
Con la fondazione del giornale L’Avenir,l’appoggio
nel 1830 alla Monarchia di Luglio di Luigi Filippo d’Orléans (1773-1850) e la
pubblicazione del saggio Des progrès de la Révolution et de la guerre contre
l’Église (102), Lamennais dà corso alla propria svolta in senso liberale.
Ventura non segue il bretone nella sua deriva ideologica, pur adoperandosi con
successo per far riconoscere dalla Santa Sede e dal Regno delle Due Sicilie la
Monarchia di Luglio, considerata un dato di fatto cui doversi adeguare per
evitare mali peggiori.
Nel febbraio 1831, La Gazette de France
pubblica una lettera aperta del teatino ai redattori de L’Avenir, in cui
l’invitava a difendere la vera causa cattolica e a non avallare ogni
rivoluzione presentandola come alleata della religione; essi, così facendo,
cadono nell’eccesso contrario a quello che rimproverano ai gallicani, che, come
Lamennais va ripetendo, fanno della religione un alleato del dispotismo.
Ventura, poi, è della convinzione che far coincidere la sovranità sic et
simpliciter con il popolo significa distruggere la sovranità stessa; la
massa, a suo dire, non può essere sovrana nello Stato (103), quanto non lo sono
“[…] i figli […] nella famiglia, i fedeli nella
Chiesa” (104). La democrazia di Lamennais, per il sacerdote siciliano,
non è che una spiacevole conseguenza delle guerre di religione: essa
sostanzialmente introduce i germi del protestantesimo nello Stato, così come la
Riforma luterana ha cercato di inserire la democrazia nella Chiesa. I conflitti
per motivi religiosi hanno relativizzato sia la politica, sia la religione,
portando a ritenere giusti sia il potere di una sola persona che quello gestito
da molti (105), essendo tali potestà totalmente svincolate da ogni principio
spirituale superiore “[…] cioè la fede , questa legge che è
l’unico legame il quale unisce e mette in armonia fra loro le
intelligenze” (106).
Un altro motivo di contrasto con L’Avenir è la
disapprovazione, esplicitata da Ventura nella lettera aperta, della rivolta
scoppiata in Belgio fra il 1830 e il 1831, che invece godeva dell’appoggio
della quasi totalità cattolici (107), poiché essa mirava al distacco
dall’Olanda protestante. Il pensatore siciliano fa presente che il nuovo
congresso belga, egemonizzato dai liberali, sta adottando leggi che ostacolano
la libertà della Chiesa; pertanto, Ventura si chiede se valga la pena liberarsi
dal “[…] dispotismo calvinista solo per cadere nel dispotismo ateo”
(108).
Lamennais, fortemente risentito per i rilievi fatti,
risponde al padre teatino con una nota, “[…] la più acrimoniosa
e insolente contra il P. Ventura” (109), pubblicata su L’Avenir del
12 febbraio 1831. Il bretone, infatti, dopo aver puntigliosamente evidenziato
che l’idea venturiana di sovranità, attinta dagli scritti dei Padri, di san
Tommaso e di Francisco Suarez S.J. (1548-1617), è da lui condivisa, gli
rinfaccia d’essersi servito di un foglio d’orientamento gallicano per sferrare
contro L’Avenir un violento attacco, infarcito di insinuazioni
ingiuriose, di interpretazioni malevole, false e violente fino all’oltraggio,
di lugubri parole e di desolanti congetture (110). Il superiore teatino
comunque colpisce nel segno, perché la sua lettera aperta anticipa, nella
sostanza, il contenuto dell’enciclica Mirari vos, con la quale Gregorio
XVI (1831-1846), il 15 agosto 1832, avrebbe condannato il liberalismo,
determinando una prima rottura con il sacerdote francese (111).
L’anno successivo, comunque, i due si sono già
chiariti e riappacificati. Infatti, nei primi mesi del 1832, Lamennais è ospite
della casa teatina di sant’Andrea della Valle a Roma e, con Jean-Baptiste Henri
Lacordaire O.P. (1802-1861) e Charles de Montalembert (1810-1870) e Ventura stesso,
è ricevuto Gregorio XVI, al quale pensa di poter illustrare le proprie teorie
“liberali”. In realtà si tratta di un incontro “[…] prettamente
formale: nessun accenno all’affare per cui erano a Roma” (112).
Ventura si sente in dovere di svolgere quest’opera di
mediazione, in quanto egli, con il barnabita card. Luigi Lambruschini
(1776-1854), il gesuita padre Jean Louis de Rozaven (1772-1851), il sacerdote
modenese don Giuseppe Baraldi (1778-1832), monsignor Luigi Frezza (1783-1837),
vescovo di Terracina, Sezze e Piperno, nel Lazio, e il padre conventuale
romagnolo Antonio Francesco Orioli (1778-1852), fa parte di quel ristretto
numero di studiosi che su disposizione di papa Cappellari deve esprimere un
parere sul pensiero del polemista francese (113). Il teatino si dedica
all’incarico avuto dal Pontefice con grande impegno e, nella sua relazione
conclusiva, riconosce preliminarmente gli errori di Lamennais, ma pure
sottolinea che ne L’Avenir può essere rintracciato “[…] un
nucleo di verità fra tante posizioni effimere o false” (114). Pertanto
il Papa, secondo il sacerdote siciliano, dovrebbe apprezzarlo, perché puntuale
e chiara è la sua denuncia del gallicanesimo, che opprime la Chiesa, rendendola
vassalla del potere politico (115). È noto infatti come il bretone combatta per
favorire la “[…] comunicazione del clero con la S. Sede; [abrogare]
i “placet”, gli “exequatur”, i veti dei governi sovrani sui
documenti pontifici, come sulle scelte del Conclave;[l’]abolizione di
ogni intervento dello Stato sulla elezione dei vescovi” (116). Inoltre
Ventura fa presente l’opportunità di adottare verso Lamennais un comportamento
molto prudente e non di rottura definitiva, consigliando di adottare questi
accorgimenti “[…] a) accoglienza benevola; b) chiarezza nel rilevare
gli errori ma lealtà nel riconoscerne i meriti; c) non rilasciare per scritto
nessuna approvazione anche delle dottrine più ortodosse, perché non se ne possa
abusare estendendole ad altre dottrine; d) si nomini una commissione per
l’esame; c) riservare al S.to Padre la definitiva decisione da prendere”
(117).
Lamennais, che è ospite dei teatini nella casa
generalizia di Roma e a Frascati (Roma) (118), apprende proprio da Ventura — il
quale invano cerca di “[…] calmarlo e addolcirlo” (119)—,che le sue teorie liberali sono state respinte dalla commissione
pontificia istituita per esaminarle.
Pubblicata la Mirari vos, Ventura cade in
disgrazia, perché molti prelati pensano che egli condivida le idee del
sacerdote francese. Egli è costretto a lasciare l’incarico di preposito
generale dei Teatini su invito del cardinale Bartolomeo Pacca (1756-1844), ma
solo dopo aver fatto eleggere il suo successore, padre Giovanni Laviosa, il
quale, nel mese di agosto del 1833, gli ordina di lasciare Roma.
Ventura si ritira a Modena presso il conte Girolamo
Riccini (?-1865), la cui moglie, Ferdinanda Montanari, aveva curato la
traduzione l’Essai sur l’indifférence en matière de religion e la Défense
de l’Essai sur l’indifférence (120)di Lamennais (121).
Da questa sede, nell’ottobre 1833, l’ex generale
dei teatini invia al Pontefice una nota in cui professa di non essere contrario
al contenuto dottrinale dell’enciclica e di non essersi mai pronunciato contro
il potere temporale, temendo invece le conseguenze di un pronunciamento così
grave e solenne, le cui avvisaglie già sono apparse sui giornali, con una
grande confusione delle idee, a danno soprattutto della gioventù (122).
Ricevuta da Lamennais la comunicazione del suo definitivo abbandono del
cattolicesimo — i due intrattenevano relazioni epistolari dal 1821 (123) —, il
teatino, ritenendo la querelle conchiusa, pensa di poter rientrare a
Roma e, al riguardo, inoltra al Papa la richiesta, che viene subito accolta ed
è seguita anche dalla concessione di una udienza privata (124). In ogni caso, da
quel momento egli interrompe ogni contatto epistolare con la Francia e si
ritira nel silenzio, quasi “[…] un esilio dal mondo
ufficiale” (125), avvertendo in sé un forte desiderio di ribellione
mitigato dalla grande fede (126), ma, comunque, avvicinandosi “[…] mente
e cuore, alla Cattedra di Pietro” (127).
Il distacco del teatino dal gruppo francese de L’Avenir
è poi definitivo, quando, con grande tempestività, Gregorio XVI, il 25 giugno
1834, promulga l’enciclica Singulari nos, che condanna l’opera di Lamennais
le Paroles d’un croyant (128), uscita in Francia il 30 aprile 1834.
Ventura, poiché circolano negli ambienti della Curia delle voci relative a sue
presunte critiche alle due encicliche di condanna del pensiero del sacerdote
bretone, sollecitato dal cardinale Pacca, invia una dichiarazione al Pontefice
in cui, a scanso di equivoci, chiarisce il suo pensiero sulla vicenda.
Dichiarato di non aver letto tutto il libro, ma che, comunque, quanto letto gli
basta per non approvarne la pubblicazione, egli esplicita tutto il suo
dispiacere per il dolore che il Lamennais sta arrecando a Sua Santità. Fa
notare di non condividere nemmeno l’ispirazione filosofica dell’ultimo volume
lamennaisiano, non essendo possibile inserirlo nel contesto di un pensiero di matrice
tomistica o comunque scolastica; critica inoltre la presa di posizione degli
spagnoli, raggruppati attorno al partito carlista, estremamente polemici nei
confronti del bretone. In ogni caso, egli, fin dal dicembre 1833, ha interrotto
ogni genere di rapporto con il pensatore francese. Professa, infine, la sua
sottomissione e l’obbedienza alla Sede Apostolica, nelle quali è sempre vissuto
e nelle quali desidera e spera di morire (129).
Amareggiato e deluso per le voci diffuse sulla
vicenda, Ventura si convince che le dottrine de L’Avenir siano da
approfondite dal punto di vista teologico (130)e decide di tornare a
occuparsi di tematiche prettamente religioso-apologetiche, educative e
formative (131). Oltre a continuare la predicazione nelle chiese romane, egli
pronuncia e pubblica panegirici, elogi funebri — celebre quello per la vedova
romana Virginia Bruni (1812-1840) —, dà alle stampe libretti apologetici,
educativi, discorsi di vario genere, quaresimali, ragionamenti
filosofico-religiosi (132).
8. Il pensiero
“segreto”
In un “[…] inedito e segreto
manoscritto” (133), il “Manoscritto di Agira” (134),il
cui vero titolo è Dello spirito della Rivoluzione e dei mezzi di farla
terminare (135), Ventura, nel 1833, delinea con coerenza il suo distacco
dal legittimismo, dalla Restaurazione, ma anche dall’estremismo di Lamennais
(136). Egli, come de Bonald, rompe le relazioni con i legittimisti, partendo da
un’analisi della Rivoluzione francese scevra dal pregiudizio “[…] esclusivamente
favorevole o […] radicalmente svalutativo” (137).
Nella sua analisi critica dell’antico regime, il
teatino sostiene che l’assolutismo non si è presentato in forme omogenee,
avendo avuto esso gradazioni di accentramento del potere diverse da uno Stato
all’altro. La Francia, già alla morte di Luigi XIV (1638-1715), che della
centralizzazione è stato l’iniziatore e il massimo esponente, ha conosciuto
forti richieste di riforme in senso antiassolutistico, che, pur mantenendo viva
la struttura rappresentativa di tutti ceti, cioè gli Stati Generali, sapessero
esercitare un controllo sugli atti legislativi emanati dal sovrano (138).
Queste domande tese al ripristino della società civile, continua il religioso
siciliano, sono state poi ostacolate dal 1788 al 1792 dal gruppo rivoluzionario,
in un primo tempo appoggiato anche da Luigi XVI (1754-1793), che ha voluto
ridurre ulteriormente il potere del clero e della nobiltà a favore del ceto
borghese, già detentore di enormi fortune nel mondo degli affari, della finanza
e degli appalti statali e desideroso di ampliarle. L’alleanza fra trono e
borghesia, teorizzata e realizzata da don Émmanuel-Joseph Sieyès (1748-1836), è
stata, quindi, la prima forma in cui la Rivoluzione si è presentata. Essa ha
poi assunto un’altra veste, quella dei giacobini che durante il Terrore
(1793-1794) hanno eliminato le persone più autorevoli della Rivoluzione stessa,
“[…] sostenuta dai duchi e dai marchesi” (139). La
Rivoluzione, quindi, conclude Ventura, ha interrotto un processo di riforma
politica e istituzionale che l’assolutismo, inizialmente ha cercato di
bloccare, poi di schiacciare, e che il giacobinismo ha definitivamente
affossato (140).
È quindi evidente come in Ventura la legittimità non
deve coincidere con la volontà del sovrano o di un gruppo oligarchico (141);
solo in un’assemblea rappresentativa dell’intera nazione in tutte le sue
articolazioni sociali, va individuato il principio di sovranità. Da qui può
nascere un ordine civile fondato “[…] sulla volontà della
nazione, sulla sua rappresentanza politica, sulla possibilità di eguaglianza e
sulla vera libertà” (142), il diritto alla quale scaturisce dalle
leggi naturali della società, dai princìpi cristiani e dal suo lungo esercizio
(143). L’assolutismo ha ridotto le libertà delle strutture sociali; pertanto
Luigi XIV, che per primo lo ha introdotto nelle società cristiane, deve essere
considerato “[…] come il fondatore della rivoluzione”
(144).
Come de Bonald, anche il teatino in questo scritto
distingue fra una rivoluzione nata per riportare nella società l’ordine antico,
la libertà della “società civile”, e la Rivoluzione, che distrugge
ogni realtà intermedia fra il sovrano e il popolo; tuttavia, a differenza del
visconte francese, Ventura è più radicale nell’attribuzione delle responsabilità,
che, a suo dire, sono tutte della monarchia assoluta, avvicinandosi su questo
punto a una tesi di Lamennais (145).
Relativamente poi alla forma dello Stato, egli pensa
che le diverse strutture istituzionali, che storicamente si sono presentate,
non sono altro che la manifestazione delle differenti volontà originarie
fondative dello Stato stesso (146). Eppure, ciò non sta ad indicare
un’immutabilità delle forme statuali; esse sono da considerarsi relative e
possono subire modificazioni, ma esclusivamente con l’approvazione di “[…]
un organo mediatore della continuità della sostanza etica della fondazione
dello Stato medesimo, da conservare nel variare delle forme storiche”
(147). E il religioso siciliano individua questo organismo in un senato o
comunque in un’assemblea rappresentativa (148) “[…] della
volontà dell’intera nazione, nella complessità dei suoi fini, dei suoi ceti,
delle sue funzioni” (149).
Ventura è ben consapevole che l’assetto politico
richiamato non è di facile realizzazione, dal momento che, anche per lui, come
per de Maistre, la Restaurazione può essere corretta dagli errori e dai difetti
suoi solo attraverso un’altra rivoluzione sanguinosa, ma purificatrice (150).
Infatti, ammonisce Ventura, Dio consegnerà le monarchie d’Europa alla collera
dei nuovi barbari, i liberali, per punirle delle persecuzioni che da tre secoli
stanno conducendo contro il cattolicesimo. E come i primi barbari, dopo aver
distrutto l’Impero Romano ed essere entrati nella Chiesa, hanno dato vita a
nuove monarchie e alla civiltà cristiana, anche i secondi saranno assorbiti
dalla Chiesa e da essi nasceranno nuove forme di governo per il genere umano
(151).
9. L’accordo
fra la religione e la libertà, “nuova arma”di Roma
Pur non avendo seguito Lamennais nella sua deriva
eterodossa, il polemista siciliano matura nel tempo la convinzione che solo la
riscoperta dell’origine e della funzione dell’autorità avrebbe fatto recuperare
alla Chiesa quel controllo valutativo del potere, che le monarchie restaurate e
quelle costituzionali non le riconoscevano più, e che essa possiede invece per
mandato divino. Questo postulato è inscindibile dall’ortodossia cattolica e
costituisce una garanzia per la rinascita di una “società civile” animata
dai princìpi cristiani e all’insegna del connubio fra religione e libertà, la
“nuova arma”di Roma (152).
A questo suo convincimento, Ventura fa seguire la
proposta di cambiare l’antico stemma di Roma con uno nuovo: uno scudo, con una
croce centrale recante, nell’intersezione dei due legni, il triregno, sorretta
da due donne, simboli della Religione e della Libertà, con ai margini le
scritte “In hoc signo vinces“e”Christus
nos liberavit qua libertate“; ai piedi delle due figure, il globo
terracqueo, nella cui parte inferiore sono i simboli della Roma pagana e quelli
della Roma cristiana (153). La crisi attuale, sostiene il teatino, è morale,
sociale e politica ed è talmente grave che è giunto il momento in cui i
sacerdoti devono essere maggiormente consapevoli dell’importanza del proprio
ruolo (154). In questa prospettiva, egli, nel 1847, scrive una lettera al
vescovo di Digne, in Provenza, Marie Dominique Auguste Sibour (1792-1857),
futuro arcivescovo di Parigi, in cui sostiene l’opportunità che i religiosi
scendano nell’agone politico in difesa dei diritti dei più deboli (155).
Con queste certezze nell’animo, Ventura si schiera
idealmente nel 1848 con le insurrezioni di Vienna e di Roma, nelle quali egli
riconosce una istanza di concreta libertà, connotata anche come indipendenza
nazionale, da rivendicare nei confronti di tutti i regimi restaurati, diversa
dalla “falsa libertà” promessa dai liberali e non in contrasto con il
cattolicesimo. Significativamente, proprio nel Discorso funebre pei morti di
Vienna (156), il teatino sottolinea che “la sovranità politica, il
cui primo principio, la cui prima ragione è in Dio e da Dio, risiede nel
popolo. Non già in quanto che, secondo la dottrina protestante di Jurieu
[Pierre (1637-1713)] e di Rousseau [Jean-Jacques (1712-1778)], ogni
cittadino è sovrano; ma in quanto che, secondo la dottrina di S. Crisostomo
[Giovanni (344/354-407)], di San Tommaso, di Bellarmino [cardinale
Roberto (1542-1621)] e Suarez, la comunità perfetta, lo stato costituito,
l’ha avuta immediatamente da Dio […]. Perciò la comunità o il popolo la
conferisce, colle condizioni che più gli piacciono; e la riprende quando
l’uomo-potere la converte in istrumento di oppressione del popolo da cui l’ha
ricevuta” (157).
Il dispotismo, per Ventura, soffoca il diritto
naturale alla libertà, corrode le istituzioni sociali che assicurano
l’esercizio concreto delle libertà, generando un “rimbarbarimento”
come quello che ha causato la fine dell’Impero romano (158). I nuovi barbari,
che hanno raso al suolo un edificio già in piena rovina, sono i liberali. In
questo mare di desolazione, sono tuttavia poste le condizioni per il ritorno
all’ordine attraverso la conversione dei barbari ai princìpi religiosi, come è
avvenuto con la formazione della “società civile” medioevale. La
Chiesa deve, quindi, assolutamente sconfessare l’alleanza fra trono ed altare,
perché da essa scaturisce l’identificazione fra la religione e il dispotismo, a
discapito della confessione cattolica (159).
Queste riflessioni gli procurano numerosissime
critiche da parte dei sovrani, dei legittimisti, ma anche della Curia romana,
perché, nell’introduzione al Discorso funebre pei morti di Vienna, egli
esprime pure delle valutazioni sulla “fuga” del Papa a Gaeta (Latina)
nel 1848 e sull’operato della Curia stessa (160).
In effetti, Ventura delinea un sistema politico a
grandi linee, i cui esiti non sono ben chiari. Certamente si tratta di un
regime diverso dalla monarchia costituzionale d’impronta liberale, la quale,
secondo il polemista palermitano, assicurando una parvenza di libertà, nasconde
in realtà i propositi della diffusione di un’empietà generalizzata e
dell’oppressione di un ceto.
10. Le
rivoluzioni italiane degli anni 1848 e 1849
Se questo fu il suo pensiero, presente in lui fin dal
1833, circa il futuro delle case regnanti, non può stupire la sua presa di
posizione, in parte contraddittoria e per taluni incomprensibile, sui rilevanti
fatti politici che interessano l’Italia negli anni dal 1846 al 1849: l’elezione
al soglio pontificio del papa beato Pio IX (1846-1878), la rivoluzione
siciliana e la proclamazione della Repubblica Romana (161).
Ventura è chiamato a collaborare con papa Pio IX, “[…]
di cui [è] il più autorevole consigliere” (162). Nel 1847,
il religioso palermitano pronuncia, per decisione di Pio IX, e poi dà alle
stampe l’Elogio funebre di Daniello O’Connell [1775-1847] (163) — il
cattolico irlandese, membro del Parlamento britannico, fulgido esempio di “resistenza
passiva” (164)—, con il quale auspica una era in cui la Chiesa non si
presti più a fare da scudo al dispotismo e ad essere uno strumento della
tirannia (165).
Il religioso teatino è anche l’ispiratore di alcune
riforme nello Stato Pontificio, fra le quali l’istituzione di un Consiglio dei
Ministri e l’introduzione di una limitata libertà di stampa. Consultato pure
per la stesura di un progetto di legge elettorale, fa presente l’opportunità di
una legge centrata sulla paternità, cioè con l’attribuzione del diritto di voto
ad ogni capo famiglia (166). Legge, quindi, non a suffragio universale, né
basata sul censo, per evitare i nefasti risultati registrati in Francia.
Ventura infatti, nel suo rapporto alla commissione incaricata della redazione
di uno Statuto, sostiene che il Pontefice dovrebbe promulgare la nuova legge
elettorale fondata “”[…] sulla paternità e darle per
base un principio morale, in opposizione al diritto pubblico della rivoluzione
che da sessant’anni ha preteso di fondare sul principio materiale della fortuna
le libertà pubbliche e l’ordine sociale”” (167).
Per sondare l’opinione pubblica circa una possibile
struttura costituzionale, nel febbraio 1848, il polemista palermitano pubblica
il saggio Sopra una Camera di Pari nello Stato Pontificio (168). Al
riguardo, presenta tre posizioni riscontrabili anche nello Stato Pontificio: la
prima è favorevole alla completa laicizzazione dello Stato, su imitazione delle
costituzioni di Francia, di Napoli e del Piemonte, con la nomina di una Camera
formata da persone non ecclesiastiche; la seconda è quella dei teorici
dell’”amalgama”, sostenitori della presenza in assemblea di un numero
proporzionato di cardinali, di prelati e di laici; la terza, quella che lui
condivide, vede nel Sacro Collegio una Camera dei Pari (169), il primo corpo politico
dello Stato, inteso come “[…] alta Camera di revisione
politica” (170), affiancata ad una Camera dei deputati (171).
Nel valutare positivamente anche la rivolta scoppiata
a Palermo il 12 gennaio 1848 e il decreto del Parlamento di Sicilia, datato 13
aprile dello stesso anno, che ha sancito la caduta di Ferdinando II (1810-1859)
e della sua dinastia, Ventura viene ad assumere un ruolo sempre più politico.
Infatti, egli si dichiara favorevole alla separazione della Sicilia da Napoli,
per la creazione di un governo indipendente, unito ad una federazione degli
Stati italiani. Le sue convinzioni in merito, delineate in tre opuscoli — La
questione sicula del 1848 sciolta nel vero interesse della Sicilia, di Napoli e
dell’Italia (172) del febbraio 1848; Memoria per il riconoscimento della
Sicilia come stato sovrano ed indipendente (173) del maggio successivo; Le
menzogne diplomatiche, ossia l’esame dei pretesi diritti che s’invocano dal
Gabinetto di Napoli sulla questione siciliana (174), della fine dello
stesso anno —, animano il dibattito politico e suscitano scalpore e reazioni.
Tale è il suo coinvolgimento, emotivo e propositivo, nelle vicende siciliane
che il governo insediatosi a Palermo, presieduto dall’ammiraglio Ruggero
Settimo (1778-1863), lo nomina ministro plenipotenziario e commissario
straordinario alla Corte di Roma, Archimandrita di Messina e Pari spirituale
del Regno (175).
In qualità di rappresentante del governo siciliano
presso la Santa Sede, Ventura, per la verità, dimostra una grande libertà nelle
valutazioni delle vicende politiche, interpretando la sua funzione “[…]
in modo assai creativo” (176), trovandosi alle volte a sostenere
perfino posizioni in contrasto con il mandato ricevuto, per esempio
caldeggiando, dopo aver sposato in prima istanza la causa monarchica — con
l’insediamento sul trono di Palermo del Duca di Genova, il secondogenito di
Carlo Alberto (1798-1849), Ferdinando di Savoia (1822-1855) —, la
trasformazione della Sicilia in Repubblica e in un immenso porto franco (177).
La scelta istituzionale repubblicana, tuttavia, non deve assolutamente portare
l’isola alla separazione dall’Italia, bensì al suo inserimento con “[…]
una Costituzione che rispetti le sue caratteristiche e il suo passato nella
più ampia formula della “nazione italiana”” (178).
Nella prima edizione de La questione sicula del
1848 risolta nel vero interesse della Sicilia, di Napoli e dell’Italia,
stampata a Roma, Ventura, in una prospettiva anche storica — con orgoglio
dichiara che “La Sicilia è stata il più antico paese
costituzionale” (179)—, delinea il profilo della nazione
siciliana e definisce legittimi gli atti del Parlamento di Palermo. La sua
proposta per risolvere la crisi siciliana prevede, in quel momento, il
mantenimento dei due Regni, di Sicilia e di Napoli, con due parlamenti, due
governi, un solo sovrano, sostituito sul territorio da un Viceré o da un
Luogotenente (180); una tale soluzione della crisi siciliana, se fosse stato
accolto questo primo progetto di Ventura, avrebbe, nella sostanza, sancito la situazione
uscita nel 1816 dal Congresso di Vienna, “[…] o, meglio ancora,
il ritorno al 1734″ (181). Avendo la soluzione prospettata generato un
vespaio di critiche, nella seconda edizione dell’opera, uscita a Palermo alla
distanza di un mese dalla prima, per iniziativa del barone Paolo Francesco
Ventura (1784-1854), fratello del teatino, vengono cassate le pagine dedicate
al progetto istituzionale (182).
La Memoria per il riconoscimento della Sicilia come
stato sovrano ed indipendente presenta un impianto più dottrinale e
speculativo. Ventura vi sostiene il principio dell’origine divina del “Potere”,
da esercitarsi attraverso il consenso del popolo, e mostra i casi in cui è
lecito al popolo stesso opporsi e deporre il sovrano. Il suo ragionamento, in
un quadro dottrinale tomistico, è centrato su argomentazioni sorrette anche dal
pensiero di grandi giuristi e di illustri teologi (183). Per il sacerdote
palermitano, Dio conferisce direttamente alla comunità politica la sovranità e
questa ne delega l’esercizio a colui che è chiamato a governare, il quale,
quindi, trae la propria legittimità dalla comunità medesima. Appartenendo la
sovranità alla comunità siciliana, essa ha il diritto revocare quel potere che
è stato delegato al re, e che il re medesimo ha esercitato in forma dispotica.
Pertanto, l’insurrezione siciliana è “[…] 1. Legittima, nel suo
principio, 2. Giusta ne’ suoi motivi, 3. Legale, nelle sue forme, 4. In certo
modo ancora Santa, nel suo compimento” (184).
Nelle Menzogne diplomatiche, ossia l’esame dei
pretesi diritti che s’invocano dal Gabinetto di Napoli sulla questione
siciliana, Ventura confuta le opinioni degli “[…] avversari
della Sicilia [che], abbandonato il terreno de’ princìpi e delle
sanzioni del diritto pubblico universale dei popoli […] si gittarono sul
terreno della diplomazia e de’ trattati” (185), dimenticando che i
trattati non possono mai pregiudicare il diritti delle nazioni che derivano dal
diritto divino e da quello naturale (186). Il teatino ripropone quindi la
classica dottrina cristiana sulla sovranità, elaborata, nel periodo in cui
esisteva ancora la “società civile”, dalla prima e dalla seconda
Scolastica, ma con una particolare enfasi posta sullo spirito di libertà.
Inoltre, in questo studio, il teatino, entrando nella concretezza della
questione, esprime con vigore l’inammissibilità “[…] della
riunione dei due paesi sotto la stessa corona” (187), ritrattando
quanto espresso nella prima edizione dell’opuscolo La questione sicula del
1848 sciolta nel vero interesse della Sicilia, di Napoli e dell’Italia.
Quando, il 24 novembre 1848, Pio IX abbandona Roma a
causa dei tumulti che portano all’uccisione di Pellegrino Rossi (1787-1848),
primo ministro dello Stato Pontificio, Ventura non segue il Papa a Gaeta, come
fanno molti prelati, ma decide di rimanere nell’Urbe, dove incontra Giuseppe
Mazzini (1805-1872) e Giuseppe Garibaldi (1807-1882), compromettendosi con i
rivoluzionari e suscitando un grande scalpore negli ambienti cattolici. Il
polemista siciliano, inoltre, non esita a prendere posizione a favore della
sommossa di Vienna dello stesso anno, riconosce la Repubblica Romana e, pur
rifiutandone la nomina a membro dell’Assemblea costituente (188), le fa
comunque pervenire una proposta di legge in difesa del Papato (189), mentre, in
qualità di rappresentante del governo palermitano, partecipa, unico fra i
diplomatici, alle celebrazioni pasquali del 1849 in San Pietro su iniziativa
del Triumvirato repubblicano (190). Ventura, fortemente criticato per queste
sue decisioni, si difende — lo fa con una lettera a Massimo d’Azeglio
(1798-1866) del 27 luglio 1849 —, rappresentando di aver sempre agito
nell’interesse della religione e del Papa, anche quando considerava necessaria
la cessazione del potere temporale. Segnalando al governo di Palermo la
soluzione che vede profilarsi, Ventura valuta come irreversibile la situazione
creatasi: Roma avrebbe avuto due tipi di rappresentanze, il Pontificato e la
Repubblica (191).
Nel contesto della convinta adesione alla Repubblica
Romana, il pensatore siciliano sembra pervenire, dall’unità tra fede e
politica, alla distinzione fra lo Stato e la Chiesa, facendo suo il
convincimento dalla filosofia tomistica e dagli autori della seconda Scolastica,
quali i gesuiti Suarez e Juan De Mariana (1536-1624). Egli ritiene che le forme
assunte dal potere politico siano di per sé indifferenti, perché, se Dio
conferisce la sovranità alla comunità politica (societas perfecta), che “[…]
non appartiene che a sé medesima” (192), tale sovranità può
assumere “[…] diverse forme e condizioni a seconda del tipo di
delega che la comunità ha conferito alle persone che esercitano la pubblica
autorità” (193).
11. L’esilio volontario in Francia
Liberata Roma a opera delle armate di Carlo Luigi
Napoleone Bonaparte (1808-1873), il presidente della Repubblica Francese, nata
con la caduta della Monarchia di Luglio, Ventura, per evitare ritorsioni, si
ritira per breve tempo a Civitavecchia (Roma), da dove s’imbarca per Marsiglia,
in Francia, quindi raggiunge Montpellier.
La notizia del suo arrivo Oltralpe mette in allarme
l’arcivescovo di Parigi, mons. Marie Dominique Auguste Sibour (1792-1857), il
quale, nell’agosto del 1849, chiede consiglio a Pio IX su come debba comportarsi
nei suoi confronti. Nel lasciare piena libertà al presule parigino di decidere
quali atteggiamenti assumere verso Ventura, il Pontefice gli fa presente che il
teatino ha “[…] trasformato la sua cattedra di apostolo in una
tribuna politica per diffondere un stato d’animo che è quello del “primi
demagoghi d’Europa”” (194).
Dopo la stagione napoletana e quella romana, prende
corso in terra di Francia una nuova e feconda fase dell’impegno politico,
religioso e apologetico del sacerdote palermitano, anche se, in un primo tempo,
il suo soggiorno a Montpellier non è proprio dei più felici, essendo egli
guardato con sospetto sia dai democratici, sia dai cattolici, molti dei quali
nutrono ancora speranze di una restaurazione legittimistica, pur sempre compromessa
con il gallicanesimo. Lo stesso vescovo della città, mons. Charles-Thomas
Thibault (1796-1861), il quale, anche se gli concede di celebrare la messa e di
predicare in diocesi, in un primo tempo si guarda bene dal frequentarlo. Qui
gli giunge la notizia della condanna, da parte della Congregazione dell’Indice,
del suo Discorso funebre pei morti di Vienna. Egli invia subito al Papa
una lettera, datata 8 settembre1849, con la quale ritratta le tesi e le
dottrine, che “[…] si trovano o potrebbero trovarsi in
contraddizione con l’insegnamento della S. Chiesa Cattolica, Apostolica,
Romana, unica vera” (195). Non tarda neppure la risposta di Pio
IX, che da Gaeta, il 6 ottobre dello stesso anno, nel prendere atto con
compiacimento del suo ravvedimento, lo esorta a “[…] a essere
costante nel confutare gli errori sparsi nel mondo, e nello sbarbicare da tutti
gli spiriti le opinioni false e dannose” (196).
Col tempo Ventura riesce a guadagnarsi anche la stima
e la fiducia del vescovo di Montpellier, che, nel 1850, lo difende dall’accusa
di diffondere eresie, avanzata da un cenacolo cartesiano-giansenistico sulla
stampa francese; l’anno seguente, infatti, la commissione appositamente creata
dal presule attesta l’assoluta ortodossia delle sue omelie (197).
11.1 La querelle anticartesiana
Nel mese di febbraio del 1851 Ventura si stabilisce a
Parigi, dove, oltre a svolgere la consueta attività di instancabile
predicatore, tiene una serie di conferenze di carattere filosofico;
riflessioni, queste, che, saranno raccolte e date alle stampe nel volume La
Ragione filosofica e La Ragione cattolica (198), un vero e proprio
trattato di storia della filosofia e di filosofia (199), di apologetica (200) e
di dogmatica (201), esposto in modo organico, spaziando dalla filosofia antica
a quella medievale, correttamente definita la “[…] ragione
cattolica dei secoli cristiani” (202), alla moderna. In questo saggio
è inoltre approfondito l’insegnamento morale della Chiesa, la cui necessità è
data, secondo il teatino, sia dal suo contenuto universale, sia dalla facilità
con la quale ogni persona può apprenderlo, perché ogni uomo è predisposto ad
accoglierlo, essendo naturaliter aperto alle verità cattoliche (203);
infine vengono esposti gli aspetti costitutivi del dogma cattolico: la Trinità
e l’Incarnazione (204).
Dopo aver rifiutato una cattedra all’Università della
Sorbona, il teatino continua l’attività di conferenziere e polemizza con i
sostenitori della scuola filosofica cartesiana, prendendo spunto da una
singolare vicenda. Il visconte Victor de Bonald (1780-1871) — figlio di
Louis-Gabriel-Ambroise, l’autore della Legislazione primitiva —,
contrariato per alcune osservazioni fatte da Ventura sulle riflessioni
filosofiche del padre, interviene con degli articoli su alcuni giornali, L’Univers
e Le Correspondant, “[…] ispirato e coadiuvato
dall’agonizzante società cartesiano-giansenista di Montpellieri”
(205). Il polemista siciliano risponde a questi articoli, dando alle stampe lo
studio Della vera e della falsa filosofia (206), in cui demolisce,
secondo i canoni della filosofia scolastica del “Defini, divide, negato
probato” (207), le tesi razionalistiche di Victor de Bonald, al quale
fa il seguente rimprovero: le sue lettere sono di tutta evidenza pretestuose,
essendo volutamente scritte per dare risalto alle idee cartesiane, piuttosto
che alla difesa del padre (208).
La critica che Ventura rivolge a de Bonald padre — del
quale peraltro il religioso siciliano riconosce i grandi meriti, definendolo “[…]
ingegno eminente, — filosofo profondo, — saggio pubblicista, — distinto
scrittore, — cattolico sincero e fervente” (209), senza mai porlo tra “[…]
“i filosofi da commedia”” (210), come invece lo accusa il
figlio —, è circostanziata: il visconte, restringendo la filosofia a quella antica
e a quella moderna, mette in ombra la scuola medioevale, cioè sant’Anselmo
(1033/1034-1109), sant’Alberto Magno (1200 ca.-1280), san Tommaso e san
Bonaventura da Bagnoregio O.F.M. (1217-1274); in sostanza, secondo il teatino,
de Bonald, non conoscendo la filosofia scolastica, ne snatura i contenuti
(211).
Successivamente Victor de Bonald ripubblica i citati
articoli — con una prefazione in cui elogia la Legislazione primitiva
dell’insigne genitore —, ampliandoli, ma anche replicando a Ventura sui controversi
punti della filosofia di Cartesio [René Descartes (1596-1650)], sottolineando,
fra l’altro, che il pensatore siciliano non ha compreso la profondità di quel
pensiero (212). Ventura, con il Saggio sull’origine delle idee e sul
fondamento della certezza (213), gli risponde, tornando su quelle questioni
di critica cartesiana non del tutto chiarite. Con questa pubblicazione, egli
vuole pure definire come nella mente vengono a formarsi i concetti e i criteri
certi sui quali s’imposta il comportamento, e porre così fine alla “[…]
guerra ostinata che da tre secoli e più si fanno gl’idealisti e i
materialisti, i tradizionalisti e i razionalisti, i dommatisti e gli
scettici” (214); una querelle infinitaoriginatasi fin
dall’epoca rinascimentale, quando è stata abbandonata“[…] la
scienza cristiana, la quale sola aveva risolto questi grandi problemi e decise
queste gravi questioni” (215).
Lo studio, nella prima parte, mette a confronto le due
scuole dell’origine idee, quella del realismo scolastico, che lui sostiene di
seguire, e quella dell’innatismo razionalistico, confutando, con puntuali
citazioni di san Tommaso, anche le obiezioni che hanno la pretesa dell’avallo
scritturistico (216).
Il problema della certezza del conoscere viene
sviluppato nella seconda parte, dove distingue fra la certezza assoluta del
razionalismo, quella oggettiva e soggettiva del realismo tomistico, la certezza
intuitiva delle prime verità indimostrabili e quella dimostrativa; qui Ventura
critica l’idea che è vero ciò che all’uomo sembra vero; tale convinzione,
aggiunge, a conclusione della sezione, è la porta da cui passa qualsiasi errore
(217).
La terza e ultima parte del saggio è dedicata al
metodo d’indagine filosofica, distinguendone due modalità. Il metodo
inquisitivo dei cartesiani, ma non del vero Cartesio, parte dal dubbio e rimane
però sempre in esso, senza giungere a conclusioni, come i filosofi greci che,
come dice san Paolo (5/10 ca.-64/67 ca.), nella Prima Lettera ai Romani,
non trovano mai la verità: “[…] Graeci sapientiam quaerunt, et
stulti facti sunt” (218).Il metodo dimostrativo prende le
mosse dalla fede e non è che l’attività della ragione che riconosce i propri
limiti e accetta l’aiuto che le proviene dalla religione, dall’autorità e dalle
“[…] concezioni dello spirito comuni a tutti gli uomini”
(219). Solo il secondo è il vero metodo della filosofia cristiana, “[…]
di tutti i filosofi cattolici, tutti i padri e i dottori della Chiesa”
(220), ma anche di Ventura e dell’autore della Legislazione primitiva.
Pertanto il figlio, Victor de Bonald, si trova in disaccordo non solo con il
padre teatino, ma pure con il proprio genitore, la cui onorabilità come
pensatore e filosofo dice di aver voluto difendere.
Ma vi è un altro punto di disaccordo fra i due. Il
teatino afferma che de Bonald padre riconosce, ben più di lui, i limiti del
metodo e della metafisica cartesiana e li critica severamente. Tuttavia,
osserva Ventura, Cartesio non ha rinnegato le verità di fede, e pur essendo
mosso dal dubbio universale, ha trovato nella fede un punto saldo, fermo “[…]
e da quel punto egli ha ragionato e ben ragionato sopra Dio, sopra
l’anima” (221). Il punto fermo di Cartesio, quindi, per Ventura, non è
il “cogito, ergo sum“,ma Dio, creatore del mondo,
dell’uomo, della ragione, dei sensi e dei mezzi per conoscere la verità (222).
Victor de Bonald, invece, per difendere il genitore, si fa sostenitore del
dubbio universale e in quello rimane. Il saggio si conclude con l’auspicio di
un ritorno alla filosofia cristiana, al suo metodo d’indagine filosofica, per
salvare sia il futuro della scienza che la società dall’imbarbarimento (223).
11.2 L’ultimo incontro con Lamennais
A Parigi, nel marzo del 1852, il padre teatino
incontra Lamennais, in forma discreta, ma con dei testimoni, onde “[…]
non spargere “ambigue voci” nel pubblico ed attirargli il biasimo
di Roma” (224). Il bretone, dopo avergli illustrato la sua “nuova
religione”, contraria a ogni dogma cattolico, di cui “[…] l’umanità
era gravida” (225), riceve da Ventura una risposta sarcastica: “[…]
Voi vi ingannate […]: io le ho toccato il polso, ed ho trovato che
non è “gravida”, ma inferma d’una “idropisia””
(226). L’incontro, che si prolunga per alcune ore, gli dà l’opportunità di
confutare, con “[…] grande sfoggio di dottrina ed
erudizione” (227), tutti gli errori derivati dalla sua svolta liberale
ed evidenziare le contraddizioni con le dottrine che invece ha sostenuto con
convinzione nell’Essai sur l’indifférence en matière de religion. Da
quel momento i rapporti fra i due si interrompono definitivamente. Infatti, non
si sarebbero più incontrati, e due anni dopo, il 26 febbraio 1854 “[…]
Lamennais, sul suo letto di morte, rifiuterà di ricevere colui che era stato
suo discepolo” (228).
11.3 Rapporti e corrispondenze con l’Italia
Dopo aver predicato, nell’agosto 1852, gli esercizi
spirituali a oltre trecentocinquanta sacerdoti della diocesi di Pamiers, nel
sud-ovest della Francia, Ventura, rientrato a Parigi, contrae una grave
malattia polmonare che lo riduce in fin di vita (229). A guarigione avvenuta,
egli sente il dovere di inviare una lettera a Pio IX, che, informato dal nunzio
apostolico a Parigi — ma anche La Gazette de France portava
quotidianamente notizie sulla sua salute —, ha manifestato un sincero
interessamento per le sue condizioni. Ventura esprime al Pontefice la propria
gratitudine per la partecipazione alle sue sofferenze fisiche, per le preghiere
recitate, e fatte recitare, per chiedere a Dio una sua pronta guarigione e per
avergli confermata la pensione a suo tempo concessagli da Leone XII, quando ha
lasciato l’insegnamento alla Sapienza, ragguagliandolo pure sullo stato delle
sue future pubblicazioni (230).
Il teatino non tralascia d’indirizzare anche al Re
delle Due Sicilie, Ferdinando II, una missiva di ringraziamento per essersi
espresso, in occasione della sua malattia, “[…] ne’ sensi della
più grande indulgenza, d’un’immensa bontà” (231), per la protezione
che aveva assicurato alla sua famiglia residente in Sicilia e per aver
facilitato il viaggio a Parigi del nipote Paolo Cultrera C.R. (232). Inoltre
ritiene opportuno scusarsi per quanto ha scritto sulla rivoluzione siciliana
del 1848, in particolare nelle Menzogne diplomatiche, ossia l’esame dei
pretesi diritti che s’invocano dal Gabinetto di Napoli sulla questione
siciliana, affermando che la “[…] condotta nobile e generosa
[…] di Vostra Maestà, mi ha tanto più confuso, che l’attitudine da me presa
nelle vicende del 1848 pareva che avesse dovuto per sempre escludermi dagli
effetti della vostra clemenza. A proposito di questi avvenimenti, io son
dolentissimo di avere in qualcuno de’ miei scritti di quel tempo fatto torto al
carattere morale di Vostra Maestà “ (233).
Frattanto in Francia avviene un cambio istituzionale:
la Repubblica, si trasforma in Impero, sul cui trono sale Carlo Luigi Napoleone
Bonaparte, con il nome di Napoleone III. L’imperatore, che di Ventura apprezza
l’eloquenza e la cultura, pensa di insignirlo dell’Ordine della Legion d’Onore,
ma, non essendo certo che ciò sarebbe gradito dalla Curia romana, interpella
preliminarmente il nunzio a Parigi, dal quale ha una risposta negativa. Il
teatino ne è contrariato, non tanto per il mancato conferimento del titolo
onorifico, cui, a suo dire, non ambisce, quanto piuttosto per l’offesa ricevuta
dal rappresentante del Papa, che dava adito a malevoli dicerie circa i suoi
rapporti con Roma. Pertanto, nel 1856, egli scrive al segretario di Stato, il
cardinale Giacomo Antonelli (1806-1876), pregandolo di intervenire preso il
Pontefice affinché gli venga restituita l’onorabilità (234).
La risposta, datata 15 marzo 1856, affidata al
canonico Luigi Gaggiotti, prosegretario della Congregazione dei Vescovi e dei
Religiosi, specifica la motivazione del parere negativo espresso dal nunzio: la
Santa Sede, trattandosi di un’onorificenza secolare, è contraria al
conferimento della Legion d’Onore agli ecclesiastici; negli unici due casi
particolari in cui è stata data l’autorizzazione ad accettarla, ne è stato
comunque proibito l’uso pubblico. Relativamente al recupero dell’onore, il
canonico gli rappresenta che Pio IX ha appena emanato un breve — che viene
allegato alla nota — sulle indulgenze, lucrabili da coloro che avrebbero
assistito alle sue prediche; ciò avrebbe fatto comprendere a tutta la Francia
l’alta considerazione di cui egli gode presso il Sommo Pontefice. La missiva si
conclude con la comunicazione che egli è stato pure scelto, con grande apprezzamento
dell’Imperatore, per una predica quaresimale a Corte (235).
11.4 La ripresa della polemica antirazionalistica
L’attività apologetica del teatino non conosce
comunque sosta: nel 1853, dopo aver dato alle stampe Le donne del Vangelo
(236), pubblica La donna cattolica (237), volume che, tradotto in più
lingue, mette in risalto le meritevoli opere delle regine, fra cui quella di
Spagna, Isabella la Cattolica (1451-1504), che, lungo i secoli, sono salite sui
troni di vari Paesi europei. Ventura lo invia in omaggio alla regina di Spagna
Isabella II di Borbone (1830-1904), la quale gli risponde con una missiva, in
cui dichiara di apprezzare il contenuto del libro (238). Si tratta di un
ringraziamento non puramente formale, perché la sovrana nello scritto del
teatino, pur non dichiarandolo, vi scorge un indubbio sostegno alla propria
legittimità a governare la Spagna, messa in discussione dai carlisti (239).
L’anno 1856, invece, segna invece il suo ritorno agli
studi filosofici e teologici, con la pubblicazione del corposo saggio La
tradizione e i semi-pelagiani della filosofia, ossia il semi-razionalismo
svelato, in cui critica due forme di razionalismo. Il razionalismo puro,
assoluto — “[…] ribellione della ragione contro la rivelazione
divina” (240), “[…] un’invenzione diabolica, un
pensiero infernale” (241), generatore de “[…] l’idealismo,
il materialismo, il panteismo, l’ateismo e lo scetticismo” (242)—,
secondo cui l’uomo può, con la sola ragione, conoscere tutte le verità
fondamentali, intellettuali e morali (243); il semi-razionalismo, che, “[…]
complice del razionalismo filosofico” (244)o “[…]
razionalismo sedicente “cattolico”” (245) non è che un razionalismo
mascherato, come quello dei semi-pelagiani, che non si schierano né con
sant’Agostino (354-430), né con Pelagio (354 ca.-427 ca.), non avendo “[…]
né la passione dell’errore né il coraggio della verità” (246).
Quest’ultima critica è rivolta ai tomisti ortodossi, che, convinti che vi possa
essere una correlazione fra ragione e fede, asseriscono che l’uomo, con i soli
mezzi razionali, è in grado di conoscere e dimostrare delle verità nell’ordine
naturale, praticare alcune virtù, innalzarsi a qualche verità morale e
spirituale, evitare dei peccati, predisponendosi al ricevimento della grazia
necessaria a praticare ogni bene e rifuggire ogni male (247).
Il tradizionalismo, invece, reputa che l’uomo può
conoscere, per deduzione, molte verità, anche di ordine morale e spirituale, e
dimostrarle con certezza, svilupparle e applicarle, solamente se sorretto dalla
rivelazione, dalla grazia e da ciò che le generazioni hanno tramandato (248),
arrivando quindi “[…] alla cognizione certa senza mescolanza
d’errore” (249). Questa scuola, specifica Ventura, ha stimolato
importanti ricerche e studi storici “[…] intorno alle tradizioni
dei popoli, alla vera origine dei falsi culti e del vero culto” (250),
e in particolare ha messo in risalto il nesso religione-società politica.
Autori come de Bonald, de Maistre, Chateaubriand e il primo Lamennais hanno
saputo riconoscere le verità sia della tradizione naturale, sia di quella
soprannaturale, rivelata (251), “[…] il fatto capitale ed
immenso d’una rivelazione divina primitiva e la necessità dell’insegnamento
tradizionale per la formazione dell’uomo sociale” (252). Infatti,
continua il teatino, anche dall’esperienza scaturisce la constatazione che “[…]
l’uomo a cui nessuno parla non parla; l’uomo con cui nessuno ragiona non
ragiona; […] l’uomo al quale nessuno fa conoscere la verità non conosce
nessuna verità, come l’uomo che non è generato non nasce” (253);quindi
“[…] per la generazione dell’uomo primitivo si è propagata la
vita fisica, in pari modo pel linguaggio e l’insegnamento dello stess’uomo la
vita intellettuale e morale, il linguaggio e la cognizione di tutte le verità
essenziali dell’ordine sociale e religioso si son propagate e stabilite in
tutta l’umanità” (254).
11.5 Le prediche alle Tuileries
Durante la Quaresima del 1857, Ventura tiene, alla
presenza di Napoleone III, nella cappella del palazzo delle Tuileries, nove
prediche, tutte inerenti al potere: “[…] la sua origine, la sua
dignità, i suoi doveri, ciò che Dio vuole da esso, ciò che debbe fare per
rispondere a’ bisogni del popolo […] e promuovere la prosperità e
l’incremento della famiglia cristiana” (255).
Frutto di tale predicazione è il corposo saggio Il
potere politico cristiano (256), uscito nel 1858, con prefazione di Louis
Veuillot (1813-1883). Il polemista francese presenta Ventura come un grande
apologeta, la cui parola, pur rimanendo nell’ambito religioso, assume
necessariamente un significato politico. In particolare, secondo Veuillot,
Ventura, che ha analizzato il fenomeno delle rivoluzioni così da vicino tanto
da rimanerne coinvolto, suscitando reazioni contrastate, mentre proclama le
verità per la salvezza dei suoi ascoltatori, e quindi anche per quella
dell’imperatore, denuncia anche i danni che la Rivoluzione ha causato alla società
(257). Le sue prediche, che pur generano del malcontento nella Corte, non
determinano reazioni negative da parte di Napoleone III, che, anzi, osserva
Veuillot, sembra sempre ben disposto d’animo nell’udirle (258).
Ventura, in effetti, predica senza reticenze o timori,
è schietto di fronte al sovrano; il contenuto delle sue omelie alle Tuileries
ne è la conferma. Infatti, nonostante abbia considerato inevitabile il colpo di
Stato del 1852 e salutato con soddisfazione il risultato del plebiscito del 21
novembre dello stesso anno, egli non smette di condurre a fondo la sua critica
agli errori del gallicanesimo, dell’autoritarismo e del cesarismo (259), che,
saldati al centralismo amministrativo, hanno causato la rovina della Francia e
connotano ancora la società politica francese. Il centralismo, poi, e su questo
aspetto la sua insistenza è martellante, deve essere abbandonato per tornare
alle libertà delle province (260).
Nello stesso tempo, il padre teatino non manca di
riconoscere come nella Francia del Secondo Impero, pur nel contesto di una
separazione dello Stato dalla Chiesa, il cattolicesimo e le “[…] tradizioni
dell’impero di Carlo Magno [742-814]“ (261)siano
tornati in auge (262). L’imperatore del Sacro Romano Impero, infatti, ha
indicato in qual modo si dovesse esercitare un potere cristiano: “[…]
i seguaci di Carlo Magno furono ristoratori e vendicatori del cattolicesimo,
essi sono stati onnipotenti e gloriosi: quando hanno voluto operare alla guisa
di Filippo il Bello [Filippo IV di Francia (1268-1314)] e di Luigi XIV,
scomparvero dalla scena politica” (263). L’imperatore dei francesi
deve pertanto conformarsi a quel modello ideale.
11.6 La formalizzazione definitiva del pensiero
politico-religioso
L’anno successivo alla pubblicazione de Il potere
politico cristiano, cioè nel 1859, Ventura riprende e sviluppa i concetti
già anticipati negli articoli sul Giornale ecclesiastico di Roma e
durante la predicazione alle Tuileries, dando alle stampe il Saggio sul
potere pubblico o esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale
(264), un volume ponderoso, sintesi e sistematizzazione del suo pensiero
politico-religioso.
Nella Prefazione dell’Autore, egli
confessa, in via preliminare, che “Non avendo alcun obbligo né
all’assolutismo né alla rivoluzione, e non essendo tenuti per alcun legame,
pure di semplice simpatia, né all’uno né all’altra, noi non speriamo né temiamo
nulla, né dall’uno né dall’altra […] Abbiamo noi dunque pensato
d’uniformarci a’ disegni della Provvidenza […], lanciando questa esposizione
[…] del diritto pubblico cristiano, questa manifestazione […] della
verità in politica, che sola può salvare l’uomo e la società, “Et veritas
liberabit nos”” (265).
Proseguendo, il teatino asserisce che il pensiero
cristiano è contrario sia alla teoria “panteistica” del potere come
diritto divino, teoria propria dell’assolutismo regio — che ha condotto al
centralismo, “[…] mostruosità rivoluzionaria […] sotto il
punto di vista civile, politico e sociale” (266), e ha annientato ogni
diversificazione del potere in altri settori sociali —, sia a quella
“atomistica” della sovranità popolare, di matrice protestante,
negatrice di ogni potere e di ogni società. Il cristianesimo rigetta i due
opposti errori e insegna che l’origine e le prerogative del potere non possono
arrecare danno o limitazione all’autonomia e alla libertà dei popoli. E ciò che
il potere riconosce di diritto ai popoli non indebolisce in alcun modo la sua
potenza e la sua autorità (267), perché il governo migliore non è “[…]
quello che “fa tutto”, ma quello che “lascia fare tutto”
ciò che non compromette affatto la giustizia e l’ordine pubblico”
(268); il primo è il governo pagano, il secondo quello cristiano (269).
Ventura, ripercorre i temi classici dell’origine della
società, del suo fine e del potere — “[…] la società è
la concordia delle intelligenze unite tra esse per la sottomissione al
medesimo potere, per il fine della loro conservazione e del loro
perfezionamento” (270) —, mettendo in evidenza gli aspetti
condivisibili delle dottrine di de Bonald, il primo ad aver riscoperto “[…]
la filosofia e il diritto pubblico cristiano, che i tre ultimi secoli di
insegnamento pagano avevano fatto quasi interamente scomparire anco dalle
scuole cattoliche” (271), riconducendo la politica al suo fondamento
religioso. Nello stesso tempo, egli mette in guardia il lettore su un limite
dell’autore de La legislazione primitiva, derivato dal suo cedimento
alle forme di razionalismo insite nel gallicanesimo, forse senza averne piena
consapevolezza, cioè quello di riconoscere al Papa solo un potere spirituale,
ministeriale, e non anche quello effettivo, il potere-terrestre sulla società
religiosa, la Chiesa, da lui presieduta, potere quest’ultimo che i gallicani assegnano
allo Stato (272). L’assicurare alla gerarchia cattolica la sola direzione
spirituale delle coscienze — negandole però il potere effettivo nell’ambito
della società della quale è manifestazione — conduce all’affermazione del
principio pagano della supremazia dello Stato rispetto alla religione e alla
Chiesa, come è realmente avvenuto, sia nei Paesi protestanti (273), sia nelle
nazioni cattoliche, prendendo, di volta in volta, il nome di “[…] Gallicanesimo,
di Giuseppismo, di Leopoldismo, di Cesarismo anglicano” (274).
Ora, insiste il sacerdote palermitano, se il fine
della società è quello di conservare e perfezionare l’uomo, in relazione alla
sua spiritualità, alla moralità e al suo destino eterno, non è possibile
sfuggire all’idea che il cattolicesimo, che dell’uomo rappresenta la verità,
conoscendone il fine ultimo, sia necessario a ogni società, dalla famiglia alla
“società politica” nazionale, per il raggiungimento degli scopi delle
stesse (275). Ciò vale, a maggior ragione, anche per la società religiosa delle
nazioni, che non potrebbe perseguire il proprio fine senza il cattolicesimo,
religione dalle caratteristiche dell’universalità, depositario della verità
naturale e rivelata, valevole per tutti gli uomini, di ogni tempo e di ogni
luogo; differente quindi dal protestantesimo, il quale “[…] non [è]
altro che il disprezzo della tradizione [che] si fortifica della
divinità della ragione e della Bibbia” (276). Da qui, sottolinea l’ex
generale teatino, sulla scia dell’insegnamento di san Bernardo di Clairvaux
(1090-1153) e dell’Aquinate, nasce la necessità di un Pontefice che sappia
riunire le nazioni, formando la repubblica cristiana, nel loro fine di
conservarsi e di perfezionarsi (277).
La società pubblica, chiarisce Ventura, può
storicamente presentarsi sotto quattro forme, “1° Nomade o
stabilita; 2° Non costituita o costituita; 3° Perfetta o imperfetta; 4°
Incivilita o barbara” (278). I quattro punti vengono da lui introdotti
e sviluppati con abbondanza di dati scritturistici e con riferimento ai
classici, ai Padri e ai dottori della Chiesa.
La prima società pubblica, “[…] risultante
dallo sviluppo della famiglia di Adamo in famiglie” (279), non è mai
stata nomade e si è trovata stabilita sul territorio nel medesimo tempo in cui
si è costituita. Tuttavia, un gruppo sociale che non si è ancora stabilito
permanentemente in un territorio non si trova mai allo stato selvatico o
naturale, come sostengono i materialisti. Per costoro l’uomo naturale è simile
alle bestie; altri invece dicono che l’uomo selvatico è “[…] l’uomo
della natura, l’uomo compìto, l’uomo perfetto […] non avente che i suoi
istinti per regola” (280). In realtà ogni gruppo tende naturaliter
a stabilirsi su un dato territorio, perché questo, e solo questo, è il suo
stato naturale. Nessuna famiglia, nessuna società, secondo quanto dicono
Aristotele e san Tommaso (281), è cominciata dallo stato di selvatichezza;
anzi, laddove un qualche stato di selvatichezza è presente, questa determina la
distruzione della società stessa, la sua morte (282). L’uomo, prosegue il
teatino, tende naturalmente a costituirsi in società, come il fanciullo aspira
a diventare adulto (283). Essendo Dio il creatore di tale natura, Dio è il
creatore anche della “società civile” (284).
La società pubblica è costituita solo quando essa
rende a Dio un culto pubblico, “[…] esercitato da uomini
speciali o dal sacerdozio” (285), e la giustizia viene esercitata a
norma di una legislazione scritta “[…] applicata a’ casi
speciali dal sovrano o da’ suoi delegati” (286). In assenza di questi
due aspetti la società non può dirsi costituita; e, contrariamente a quanto
affermano “[…] i partigiani della repubblica degli atei”
(287), non sono mai esistite società atee.
La società pubblica conosce anche un terzo stato: essa
può essere imperfetta o perfetta. Si ha il primo caso quando la società
appartiene “[…] ad un capo od a una famiglia in
particolare” (288), come ai primi tempi successivi al diluvio
universale. In quel periodo, come attesta la Scrittura, “[…] i
popoli e le nazioni appartenevano ai figli ed ai nipoti di Noè” (289),
che esercitavano un potere di semplice educazione dei figli. Formatesi nuove
famiglie con i figli divenuti a loro volta padri, “[…] l’ufficio
dei loro avoli [cambia] radicalmente […], dovendo mantener l’ordine
fra numerose famiglie […] il loro Potere, da dimestico che era, [diventa]
naturalmente Potere pubblico e la loro paternità [si muta], sempre
naturalmente, in una vera dignità reale” (290). Re naturali,
quindi, patriarcali, non eletti, né di origine contrattuale: si tratta, secondo
la definizione di Ugo Grozio [Huig Van Groot (1583-1645)], di reami
patrimoniali, unici esempi di potere non conferito dal popolo, guide comunque
di una società imperfetta (291), perché dipendente da un capo o da una
famiglia.
Il passaggio dalla società imperfetta a quella
perfetta si ha allorquando le famiglie non dipendono più da un capo, causa il
naturale sviluppo e il moltiplicarsi delle famiglie; ciò le porta ed essere
indipendenti le une dalle altre e a costituirsi in potere di sé medesime;
quindi signore e padrone di sé, “sui juris, in sua potestate”
(292). Anche nel caso di conquista del territorio da parte di una potenza
straniera, seppure attraverso una guerra giusta, la società perfetta non perde
la sovranità: “[…] il popolo sottomesso, […] il medesimo
Potere vinto, conservano la pienezza dei loro diritti” (293).
Infine, la società è incivilita, quando
professa la vera religione, perché non si dà vero incivilimento se non nel
rispetto, nell’amore, nell’affetto dell’uomo per l’uomo, incarnati nei costumi
e anche protetti dalle leggi (294). Una “società politica” che
professa una falsa religione e che adotta una legislazione conforme ad essa è
semplicemente barbara, “[…] perché la barbarie non è che il
disprezzo e il mercato dell’uomo per l’uomo, che dai costumi passa nelle
leggi” (295). E l’uomo barbaro non è l’uomo naturale, ma l’uomo
degenerato che “[…] ha sperperato il patrimonio divino della
verità e della giustizia delle leggi; e nella storia dell’umanità
l’incivilimento ha sempre preceduto la barbarie, come la verità ha sempre
preceduto l’errore, e l’innocenza il delitto” (296).
Forte dell’insegnamento della Scrittura, di san
Tommaso e della seconda Scolastica, di Suarez in particolare, dopo aver
evidenziato l’assoluta necessità di un potere in ogni comunità perfetta,il
sacerdote palermitano affronta il tema della forma di potere pubblico
preferibile, restringendo il campo alla monarchia e alla repubblica e
annoverando fra quest’ultima anche i governi costituzionali. Delle due,
tuttavia, non indica quale sia la migliore, perché la forma istituzionale più
adatta deve sempre essere quella che corrisponde alle particolari contingenze
storiche. Ventura è comunque della convinzione che ogni potere pagano è un
potere assoluto e che il potere cristiano è essenzialmente temperato. E
suffraga queste asserzioni con dei precisi riferimenti alla storia
dell’umanità, antica e moderna, dando pure testimonianza di una grande
erudizione (297).
Passando poi a illustrare la dignità e l’origine
divina del potere pubblico, il padre teatino censura l’ateismo, il panteismo e
l’idealismo, con i loro corollari del naturalismo, del fatalismo e
dell’umanitarismo. Questi errori, già presenti in nuce nelle prime
eresie apparse in seno alla nascente cristianità — l’arianesimo, l’origenismo e
il manicheismo —, non presentano la verità sull’uomo (298). Pertanto, si deve
ribadire la concezione antropologica cattolica, per la quale l’uomo, composto
di corpo e di spirito, è capace di conoscere la verità, partendo dai dati
forniti dalla sensibilità, per riconoscere in sé “[…] la verità
del cuore [che è] in certa guisa la virtù della mente” (299).
La Bibbia, relativamente alla storia umana, è profetica e storica, perché
registra le cadute e le resurrezioni umane (300).
Analogamente, in campo politico, l’uomo è caduto in
due gravi errori: l’assolutismo, per il quale il potere deriva immediatamente
da Dio, escludendo ogni intervento dell’uomo, e la rivoluzione, che stima il
potere come “[…] un fatto dell’uomo, […] una invenzione
puramente umana” (301). La verità, invece, è che il potere politico
deriva da Dio, è un’istituzione divina non conferita direttamente a chi il
potere lo esercita; essa è mediatamente, cioè indirettamente, affidata al
principe dalla comunità o dal popolo, come “[…] fatto immediato
della società perfetta” (302), sicché l’uomo sottomettendosi al
potere, non ubbidisce a un uomo come uomo, ma “[…] all’uomo come
rappresentante di Dio, come esercitante l’azione di Dio” (303).
Questa verità politica e tutte le verità morali e
religiose sono comunicate da Dio all’uomo, fin dalla creazione del mondo;
l’uomo, pertanto, apprende dal Creatore i mezzi per sussistere fisicamente e
per alimentare il proprio spirito con le verità sociali e religiose (304). Pure
l’autorità dei principi malvagi, relativamente all’origine e alla sorgente da
cui scaturisce, è divina, ma deve essere condannata per gli abusi da essa
esercitati, pur essendo permessa da Dio, come afferma sant’Ambrogio
(339-340?-397), per castigare i popoli corrotti ed empi. Tale dottrina,
radicata anche fra i pagani e che costituisce il “[…] dogma
dell’origine divina del potere” (305), ha, da sempre, il consenso dei
popoli cattolici, essendo esposta chiaramente nella Scrittura, sostenuta dai
Padri e dai dottori della Chiesa (306). E tuttavia il “dogma”è
osteggiato dagli assolutisti, dai protestanti e dai rivoluzionari (307).
Essendo la società perfetta la vera detentrice del
potere, essa, in certi casi, può resistere al potere pubblico, cambiare la
forma istituzionale e deporre le persone che la governano, “[…] nell’interesse
della sua conservazione e della sua prosperità” (308) poiché “salus
populi suprema lex esto” (309). Il religioso palermitano pensa che
tale potestà sia fondata sul diritto naturale e, con san Tommaso e con Suarez,
riduce a quattro i casi in cui è lecita l’opposizione al potere pubblico e cioè
a) quando esso viola le leggi sostitutive delle Stato, compiendo abusi di potere;
b) quando si tramuta in tirannide; c) allorché diventa un nemico pubblico del
Paese che gli è soggetto; d) quando toglie al popolo ogni forma di
rappresentanza e ogni mezzo legale per far presenti i bisogni e le lamentele.
In questo modo, attraverso l’autorità delle Scritture
e degli scolastici e producendo pure numerosissimi esempi e considerazioni di
carattere storico, il padre teatino respinge le argomentazioni dei pubblicisti
regi che vedono sempre una rivolta contro Dio in ogni forma di opposizione al
sovrano (310).
La sua riflessione prosegue nella delucidazione dei
concetti di legittimità, “[…] la conformità delle cose alle
leggi costitutive” (311), e di legalità, la “[…] conformità
delle cose colle leggi regolamentarie” (312), per poi applicarli, con
dovizia di riferimenti storici e scritturistici, alle situazioni politiche del
passato e del presente, riconoscendo nelle varie situazioni presentate i poteri
legittimi e quelli usurpati.
L’usurpatore, tuttavia, a seguito di una guerra
giusta, esercita ugualmente un potere legittimo, quando rispetta la
costituzione che il popolo conquistato si è data. Al riguardo, Ventura porta
l’esempio del governo dell’Austria in Lombardia, che di questo territorio ha
rispettato la costituzione, anche se, ammonisce il teatino, negli ultimi tempi
questa legittimità è venuta meno, così come è avvenuto con tutti i governi
della Restaurazione, che non hanno più riconosciuto le antiche costituzioni dei
loro Stati. La Francia, poi, ha avuto per molto tempo una costituzione
monarchica che ha assicurato al suo popolo un potere stabile e la libertà.
L’assolutismo ha sostanzialmente messo da parte questa legge fondamentale e le
continue rivoluzioni, che l’hanno resa ingovernabile, non sono state che la
continua richiesta della nazione di riavere la propria costituzione. I
legittimisti di ogni Paese, inoltre, sbagliano a confondere il diritto
ereditario della sovranità con il diritto di proprietà, quasi un contratto enfiteutico.
Il diritto alla sovranità si acquista solo con il consenso della nazione, che
deve essere dato, anche solo in modo implicito, tutte le volte che il potere
passa da una persona all’altra (313).
Negli ultimi capitoli, Ventura riflette sul diritto di
elezione, concludendo che ogni sistema elettorale basato sul censo, tipico dei
regimi liberali, è immorale ed illegittimo, poiché esclude dall’esercizio di
tale diritto le persone sprovviste di proprietà, i proletari, che, invece, per
diritto naturale, ne devono in ogni caso godere. Una legge di rappresentanza
centrata sulla paternità è, come già il teatino aveva sostenuto nella sua
proposta di legge elettorale per lo Stato Pontificio, la forma più appropriata,
i cui effetti benefici sono rintracciabili nel sistema elettorale
dell’Inghilterra e degli Stati Uniti (314).
Infine, Ventura conclude il Saggio con una
serrata critica alla centralizzazione del potere — frutto del diritto pubblico
pagano, per il quale lo Stato è il “[…] padrone assoluto delle
persone e dei beni d’ogni società pubblica” (315) —, i cui effetti
nefasti si sono visti in Francia con la politica di Luigi XIV, ma anche negli
Stati della Restaurazione, che a tale politica non hanno mai rinunciato.
In Italia, osserva il teatino, la politica di
centralizzazione trova la massima espressione nel Regno di Sardegna, sostenuto
dai “fusionisti”, che, abbandonata ogni idea confederativa, fanno
coincidere la “causa italiana” con la “causa piemontese”
(316), a discapito quindi delle monarchie e delle tradizioni politiche presenti
nella Penisola (317). Fra questi Ventura annovera Vincenzo Gioberti (1801-1852)
(318), il sacerdote e filosofo torinese che, pubblicata l’opera Del
Rinnovamento civile d’Italia (319), ha abbandonato il neoguelfismo e quindi
anche ogni idea confederativa sostenuta nel suo Del Primato morale
civile degli italiani (320).
Attualmente, continua padre Ventura, l’unico Stato
italiano a essere immune dalla centralizzazione è lo Stato della Chiesa;
solamente i governi instaurati dagli eserciti stranieri in epoca rivoluzionaria
ve l’hanno per breve tempo introdotta (321). L’idea poi di adottare in tutti
gli Stati il Codice Civile francese, voluto dai “fusionisti”, è del
tutto da rigettare. Ora, per il teatino, i popoli italiani sono contrari allo
Stato centralizzato, ma favorevoli a una forma confederativa (322). Tale idea
gli sembra essere presente nel progetto che “[…] il pio e dotto
abate Rosmini [Antonio Rosmini Serbati (1797-1855)]“ (323) ha
presentato a Pio IX. Pertanto, per ristabilire un ordine cristiano, occorre
intraprendere una grande opera di decentralizzazione del potere e ritornare
all’arte del “lasciar fare”; arte “[…] benedetta,
capace sola d’arrestare il socialismo da cui la società è minacciata”
(324). Ciò è possibile solo soppiantando il “[…] governo pagano,
o dell’arte di fare tutto” (325), il “[…] tristo
privilegio” (326) della rivoluzione che domina “[…] da
signore la religione, l’insegnamento, il Comune e la famiglia” (327).
Il Saggio sul potere pubblico, scritto in
Francia e rivolto principalmente all’élite politica francese, risente
certamente del clima politico culturale del tempo, non negli aspetti
dottrinali, ma nelle ricostruzioni storiche. Così, Ventura tende a mettere in
secondo piano l’influsso della Riforma protestante e delle guerre di religione
sulla nascita del pensiero politico rivoluzionario, rimarcando il ruolo
fondamentale dell’assolutismo monarchico, rappresentato da Luigi XIV, e del
gallicanesimo; tutte le rivoluzioni, a suo dire, nascono da una rivolta dei re
contro i loro popoli. E nel rappresentare a Napoleone III il modello di monarca
da seguire per restituire alla Francia il suo cattolicesimo e la sua
costituzione naturale, il teatino non indica il Re Sole, ma Carlo Magno
(742-814) (328).
11.7 La denuncia dello spiritismo, la critica ai piani
di studio dei gesuiti e la difesa del tradizionalismo
Negli ultimi anni della sua esistenza, Ventura, pur in
condizioni di salute precarie, alterna la predicazione e lo studio: il 5
ottobre 1858 pronuncia il suo ultimo discorso pubblico sul tema del Matrimonio
cristiano (329); a dicembre pubblica Le delizie della pietà. Trattato
sul culto di Maria Santissima (330), ricevendo una lettera d’elogio di Pio
IX e l’anno successivo dà alle stampe il Corso di filosofia cristiana, ossia
Restaurazione cristiana della filosofia (331). Questa è l’ultima sua
fatica, che intraprende perché convinto che “[…] si è filosofato
e si filosofa almen da due secoli fuori della religion cristiana, e che una
tale filosofia insegna a’ giovani di fare poco o nessun conto di Dio gittandoli
nel razionalismo pagano” (332). È pure un periodo in cui il polemista
siciliano si interessa, con preoccupazione, dello spiritismo, del satanismo e
della negromanzia; un fenomeno, quello occultista, “[…] che,
partito dagli Stati Uniti dove era esploso nel 1848, tra il 1852 e il 1853 [si
è] diffuso con una progressione inarrestabile in Inghilterra, Germania,
Francia, e ha cominciato a lambire le maggiori città dell’Italia
settentrionale” (333).Ventura vi intravede la presenza del “[…]
diavolo, deciso a scatenare la sua offensiva contro il cattolicesimo”
(334). Di quest’ipotesi demoniaca il sacerdote siciliano è convinto
assertore, come stanno a testimoniare le corrispondenze che, a partire dal
dicembre 1857, egli ha con il cardinale Girolamo d’Andrea (1812-1868), prefetto
della Congregazione dell’Indice, e il sostegno dato, con delle lettere di
presentazione, a due volumi sulle tematiche demoniache e negromantiche degli
scrittori Henri-Roger Gougenot des Mousseaux (1805-1876) e Jules-Eudes de
Mirville (1802-1873) (335).
Un altro problema, ampiamente dibattuto nella società
francese, civile e religiosa, del tempo e sul quale Ventura prende posizione, è
quello educativo. Egli si fa divulgatore delle tesi dell’abbé Jean-Joseph
Gaume (1802-1879), che distingue fra un’educazione cristiana, centrata
fondamentalmente, anche se non esclusivamente, sullo studio dei testi sacri, e
un’educazione laica, sostanzialmente pagana, avente come base lo studio degli
autori classici (336). Su questi temi, Ventura parla in alcune conferenze alle
Tuileries, il cui contenuto è pubblicato ne Il potere politico cristiano,
sotto il titolo Sulla necessità di una riforma dell’insegnamento pubblico
nel vantaggio della religione (337).
Il religioso siciliano è per il metodo educativo
cristiano, contro quello pagano, secondo lui, adottato dai gesuiti, con i quali
poi entra in aperta polemica (338). Con queste convinzioni, per evitare che gli
“[…] ottantamila pagani, che le scuole vomitano ogni anno
[sul]
paese” (339) finiscano col corromperlo, propone a Napoleone
III di introdurre una riforma degli studi, che metta l’insegnamento religioso a
fondamento e coronamento di tutte le attività scolastiche (340). Inoltre è del
parere che gli autori pagani, la cui importanza culturale non vuole negare,
debbano comunque essere presentati ai giovani, ma solo nell’età della piena
maturità, per evitare che si formino degli spiriti ribelli (341), perché la “[…]
rivoluzione nasce da ciò che si apprende nell’adolescenza” (342).
In alcune delle lettere inviate al cardinale d’Andrea fra il 1855 e il 1857,
sconfessando nuovamente il suo precedente sostegno alla Repubblica Romana,
Ventura segnala come la rivoluzione del 1849 si sia ispirata alle dottrine e
alle liturgie pagane della Roma repubblicana, con questi risultati: ucciso il
ministro Pellegrino Rossi (1787-1848), il Papa è dichiarato decaduto e i
gesuiti vengono cacciati dagli stessi che hanno studiato nei loro collegi
(343).
La corrispondenza con l’alto prelato romano mette pure
in evidenza un altro aspetto dell’impegno apologetico di Ventura, questa volta
sul versante filosofico. Egli, nelle sue polemiche contro i razionalisti e i
semi-razionalisti, ritenuti i veri responsabili del gallicanesimo e, in ultima
analisi, dell’assolutismo centralizzatore, si schiera, nonostante i suoi
continui richiami al tomismo ed alla Scolastica, con i filosofi e gli apologeti
del tradizionalismo francese (344), i quali, influenzati anche dalla temperie
culturale romantica, ritengono che la ragione, senza la rivelazione, non può
pervenire, oltre che alle verità soprannaturali, anche a quelle naturali, che
la tradizione scolastica considera invece dimostrabili, quali l’esistenza di
Dio, l’immortalità dell’anima, la legge morale, la vita futura, destando non
poche preoccupazioni nella gerarchia romana (345). La conoscenza della verità è
quindi il frutto non della razionalità umana, ma di una rivelazione che Dio, al
momento della creazione, ha fatto all’uomo e che viene trasmessa alla stirpe
umana per mezzo della società.
Come altri tradizionalisti francesi — fra i quali
Augustin Bonnetty (1798-1979) e don Louis-Eugène-Marie Bautain (1796-1867) —,
pure Ventura perviene a una visione filosofico-religiosa, sostanzialmente
fideistica (346). Se si pensa che egli si propone di rimediare ai guasti del
razionalismo cartesiano, proponendo quello che lui sostiene essere il vero
tomismo, la sua adesione al tradizionalismo sembra perfino paradossale (347).
Aperto è quindi il suo contrasto con molti teologi, ma anche con La Civiltà
Cattolica, che, a suo parere, si sono compromessi con il cartesianesimo
(348).
Nel luglio 1855, la Congregazione dell’Indice fa
sottoscrivere a Bonnetty quattro proposizioni che risolvono la diatriba del
presunto contrasto fra ragione e rivelazione; la quarta proposizione, infatti,
afferma definitivamente che il tomismo non conduce al razionalismo. I teologi e
i vescovi francesi di tendenze gallicane colgono l’occasione per scatenare una
forte polemica contro L’Univers, il giornale di Veuillot, apertamente
schierato con il tradizionalismo francese. Grande è la delusione di Ventura,
che sperava invece di veder riconosciuti i propri meriti di filosofo e di
apologeta; lo sconforto si tramutata in forte dispiacere dopo il successivo
pronunciamento de La Civiltà Cattolica, che, nello stesso anno,
si schiera a difesa dei diritti della ragione, così come li ha sostenuti la
Congregazione dell’Indice (349).
Il sacerdote siciliano considera ormai colma la
misura, non potendo tollerare, a suo dire, che i veri cattolici vengano
severamente richiamati, mentre i gallicani, i cartesiani e i razionalisti in
genere sono elogiati dalle autorità ecclesiastiche. Decide allora di scrivere
una infuocata lettera a Pio IX, in cui denuncia l’operato e gli scritti del
clero e dell’episcopato francese, accusati, salvo poche eccezioni, di essere
razionalisti e sostanzialmente protestanti, praticanti e sostenitori di ogni
nefandezza morale, fra cui il concubinato, nel contesto di una preoccupante
diminuzione della fede nelle parrocchie francesi (350). La missiva è
attentamente letta dal Pontefice, il quale vi appone in calce una semplice
annotazione che riconosce nelle affermazioni del teatino delle verità, ma anche
delle esagerazioni, frutto della sua fervida fantasia (351).
Negli ultimi anni, durante l’estate, Ventura suole
trascorrere un periodo di riposo a Versailles, nei pressi di Parigi. In questa
località, il 18 luglio 1861, le sue condizioni di salute si aggravano. Chiede
di essere assistito da un sacerdote e che gli siano amministrati i sacramenti.
E mentre al suo capezzale giunge anche il generale dei Chierici Regolari, che
gli porta la benedizione del Sommo Pontefice, egli, quasi a lascito spirituale,
dichiara nuovamente la sua avversione verso il gallicanesimo e il suo disprezzo
nei confronti della filosofia moderna, aggiornata forma del paganesimo (352).
Gioacchino Ventura rende l’anima a Dio il 2 agosto
1861. Dopo le esequie a Versailles, il suo corpo viene traslato a Parigi e poi
a Roma, dove riposa nella chiesa di sant’Andrea della Valle, presso la casa
madre dei teatini.
12. Conclusioni
Legittimista e contro-rivoluzionario convinto, Ventura
approda a una severa critica dell’assolutismo e poi della Restaurazione, rintracciando
nelle fondamenta della società medioevale le radici delle libertà religiose e
civili e delle strutture sociali; una civiltà che può essere ricostruita
secondo modalità nuove. Il teatino, infatti, con rigore intellettuale,
alimentato da una profonda cultura storica, filosofica e scritturistica, supera
la pregiudiziale legittimistica, riconoscendo “[…] la relatività
delle forme istituzionali rispetto alla sostanza etico-politica che [può]
trovarsi in pur differenti forme di governo” (353). Fondamentalmente
egli anticipa un aspetto del pensiero politico-sociale di Leone XIII
(1878-1903), per il quale ogni popolo, fatta salva la giustizia, ha il diritto
di “[…] di darsi quel genere di governo che meglio convenga
alla loro indole, o alle istituzioni e ai costumi dei loro padri”
(354)e ogniforma di governo è buona purché sappia procedere “[…]
diritta verso il suo fine, cioè il bene comune” (355). La sua idea
di rappresentanza politica, inscindibilmente legata al concetto di sovranità
elaborato dalla seconda Scolastica, non può neppure essere confusa con quella
democrazia secolarizzata in seguito teorizzata dal gruppo francese del Sillon
e condannata da san Pio X (1903-1914) (356).
Il suo pensiero non è stato adeguatamente considerato
dalla storiografia “ufficiale” del Risorgimento. È stato detto,
infatti, che Gioacchino Ventura è “[…] un personaggio oggi
ignorato […]. Se egli avesse tradito la Chiesa, certamente sarebbe stato
riverito e sarebbe stato oggetto di attenzione da parte della storiografia
liberale” (357). Da parte di alcuni storici si vuole comunque vedere
in lui l’anticipatore del pensiero cattolico-liberale e degli ideali unitari
del Risorgimento, senza valutare che il suo cattolicesimo ha un’impronta
tradizionalistica, certamente non riconducibile alle tesi fondamentali del
liberalismo e che la sua idea di una confederazione italiana presieduta dal
Papa, condivisa con Rosmini, non può essere accomunata alle altre due proposte
unitarie, quelle avanzate dai liberali monarchici, stretti attorno alla causa
sabauda di forte accentramento del potere, e dai repubblicani mazziniani
sostenitori di un’unità nazionale negatrice dell’identità cattolica della
nazione. La religione, inoltre, è, per Ventura, una discriminante fondamentale
anche sul terreno politico, perché, così si esprime, pensare a una “[…]
libertà fuori del cristianesimo è contro il cristianesimo” (358) e “[…]
la libertà, senza la religione, degenera in anarchia” (359). La
libertà dipende quindi da una precedente scelta religiosa. Senza l’adesione al
cattolicesimo non è possibile vivere le libertà e in libertà; professare una
falsa religione conduce necessariamente a errare sul terreno politico e quindi
a non difendere la libertà (360).
Lo spessore del suo pensiero non lo distoglie dal fare
delle discutibili scelte nella concretezza degli avvenimenti politici del
tempo. Infatti, se può trovare giustificazione la sua collaborazione con il
governo siciliano del 1848, inserendosi la vicenda nella tradizione del
separatismo siciliano, rivendicato da secoli nei confronti di Napoli, non
condivisibile è per i cattolici il sostegno, ancorché in seguito più volte sconfessato,
che egli dà alla Repubblica Romana del 1849, una delle molteplici espressioni
dell’anticattolicesimo risorgimentale, i cui seguaci, come Rosmini gli fa
presente, si sono macchiati di atrocità, di delitti e di sacrilegi (361).
Difficile comprenderne la giustificazione, che pure Ventura cerca di dare nella
prefazione al suo Discorso funebre pei morti di Vienna. Sicuramente, il
padre teatino, convinto che la singola forma istituzionale sia di per sé
“neutra” e che, pertanto, di principio non sia condannabile
un’adesione a essa, non ne scorge, in quella contingenza storica, il reale
portato rivoluzionario, dato dal fil rouge che unisce i nuovi detentori
del potere a tutti quei mali sociali e politici che con profondità e acutezza
denuncia nei suoi studi: il democratismo protestantico, il giurisdizionalismo
assolutistico, il centralismo amministrativo. E tuttavia, egli si mantiene
ancorato, senza il timore di palesare contraddizioni, all’impianto dottrinale
cattolico, giungendo a prefigurare un potere politico saldato ai valori
cristiani (362).
Nonostante la sua riflessione, dottrinalmente fondata,
sull’origine del potere e della sovranità, le concrete opzioni politiche, unite
a un’attività propagandistica assidua e battagliera nel sostenerle, gli procurano
l’ostilità degli ambienti della Restaurazione, incomprensioni e avversioni fra
i legittimisti, anche fra quelli italiani, che, peraltro, nel nuovo corso
scaturito dal Congresso di Vienna, ravvisano, quanto lui, i tratti regalistici.
Ventura, oltre le letture ideologicamente interessate,
è apologeta e polemista di profonda fede, vissuta nell’esercizio instancabile
della missione sacerdotale, e di filiale dedizione al Papato, manifestata e
sostanziata, dopo le censure di Roma, nelle ritrattazioni e nelle sconfessioni
(363), ora del proprio operato politico, ora degli scritti, le quali,
considerato il suo temperamento particolarmente impulsivo e appassionato,
dovettero costargli molto, sia per il travaglio intellettuale, sia per la
rottura delle consolidate relazioni interpersonali che queste autocritiche
avrebbero poi comportato (364).
La descrizione della Rivoluzione come processo
plurisecolare, la proclamazione della necessità di un ritorno “[…] agli
originari principi dell’ordine cristiano” (365), innestati “[…]
sul tronco mutilo ma ancor vivo delle acquisizioni antiche” (366),
ne fanno comunque un significativo esponente del pensiero politico cattolico
dell’Ottocento, ma non assimilabile, se non per quanto riguarda la prima fase
della sua vicenda umana, alla scuola controrivoluzionaria, in primis,
per l’abbandono del campo legittimistico, e, poi, come è già stato detto, per
l’incoerenza fra i suoi postulati teorici e la valutazione di fatti politici
rilevanti, quali le rivoluzioni di Roma e di Vienna del biennio 1848-1849 e
l’avvento del Secondo Impero francese.
Può, tuttavia, essere condivisa la tesi di chi
sostiene che Gioacchino Ventura “[…] la cui vitalità sfugge e
supera le categorie e le classificazioni […] appare come una sorta di
grande cappellano militare di un cattolicesimo popolare, autoritario,
ultramontano” (367).
Paolo Martinucci
Note:
(1) Paolo Cultrera C.R. (1805-1884), Della vita e
delle opere del Rev. P. Gioacchino Ventura: ex generale dell’ordine dei Teatini,
Lorsnaider, Palermo 1877, p. 1.
(2) Sulla data di nascita di Gioacchino Ventura non
tutti i biografi sono d’accordo; infatti molti la collocano al giorno 8
dicembre, festa dell’Immacolata Concezione di Maria. Al riguardo, cfr.
Francesco Andreu (1908-2002), Il p. Ventura de Raulica e i Gesuiti
(1808-1824), in Regnum Dei. Collectanea theatina a Clericis Regularibus
edita, anno LXVI, n. 136, Roma (pro manuscripto) 2010, pp. 193-238
(p. 195), in cui la disputa è chiarita.
(3) Cfr. ibid., p. 194.
(4) P. Cultrera, op. cit., p. 1.
(5) Ibid., p. 2.
(6) Cfr. F. Andreu, Il p. Ventura de Raulica e i
Gesuiti (1808-1824), cit., pp. 195-196.
(7) Cfr. ibid., p. 199.
(8) Ibid., p. 198.
(9) Cfr. ibid., p. 209; e P. Cultrera, op.
cit., pp. 2-3.
(10) Ibid., p. 4.
(11) F. Andreu, Il p. Ventura de Raulica e i
Gesuiti (1808-1824), cit., p. 214.
(12) Ibidem. Non risulta quindi confermata
l’opinione di Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa (1768-1838), diffusa
quando Ventura aveva preso le distanze dai legittimisti, secondo cui egli,
invece, sarebbe stato cacciato dalla Compagnia di Gesù per l’incapacità a
sottomettersi alla disciplina e alle dottrine dei Gesuiti (cfr. ibidem,
nota 58).
(13) Cfr. P. Cultrera, op. cit., p. 4.
(14) Ibid., pp. 4-5.
(15) F. Andreu, Il p. Ventura de Raulica e i
Gesuiti (1808-1824), cit., p. 218.
(16) Gioacchino Ventura, C.R., Decisione del
giornale costituzionale sopra de’ Regolari riesaminata al tribunale del buon
senso, s.e., Napoli 1820.
(17) Cfr. Idem, Considerazioni sopra gli ordini
regolari dettate dalle attuali circostanze, Miranda, Napoli 1820;
con lo stesso titolo è stato successivamente pubblicato in Opere del p.
Gioacchino Ventura, a cura di Gabriele De Stefano, 13 voll., Saracino,
Napoli 1864, vol. XIII, pp. 389-429.
(18) P. Cultrera, op. cit., p. 6.
(19) Cfr. ibid., p. 7.
(20) Cfr. ibid., p. 14.
(21) Cfr. [G. Ventura,] Programma, Napoli 26
Maggio1821, in Enciclopedia ecclesiastica, e morale, anno I, tomo I,
Sangiacomo, Napoli giugno-luglio-agosto 1821, pp. III-XVII (pp. XVI e XVII).
(22) Cfr. Paolo Pastori, La diffusione del pensiero
di Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, in Robertino
Ghiringhelli e Oscar Sanguinetti(a cura di), Il cattolicesimo
lombardo tra Rivoluzione francese, Impero e Unità, Esa, Edizioni
Scientifiche Abruzzesi, Pescara 2006, pp. 99-129 (p. 106).
(23) Cfr. P. Cultrera, op. cit., p. 8.
(24) Cfr. [G. Ventura,] Colpo d’occhio sopra le
cagioni della decadenza della Religione nel Regno delle Due Sicilie, in Enciclopedia
ecclesiastica, e morale, anno I, tomo I, cit., pp. 3-27 (pp. 6-20).
(25) Cfr. ibid., p. 13.
(26) Ibidem.
(27) Ibid., p. 20.
(28) Cfr. P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 108.
(29) Cfr. [G. Ventura], Malattie dello spirito. La
febbre tricolore, in Enciclopedia ecclesiastica, e morale, anno I, tomo I,
cit., pp. 37-40 (pp. 37-39).
(30) Ibid., p. 80.
(31) Ibidem.
(32) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 110.
(33) Cfr. ibidem.
(34) [G. Ventura,] Malattie dello spirito. La
febbre tricolore, cit., pp. 80-88 (p. 83).
(35) Cfr. ibid., p. 84.
(36) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 110.
(37) Cfr. [Marie-Louis-Auguste Demartin du Tyrac,] Discorso
del signor Conte de Marcellus sulla legge repressiva dei delitti della stampa,
recitato nella Camera dei Deputati di Francia nella seduta del 25 Gennaro,
in Enciclopedia ecclesiastica, e morale, anno II, tomo III, Sangiacomo,
Napoli gennaio-febbraio-marzo 1822, pp. 289-297 (p. 295 e p. 296); [Idem,] Discorso
del signor Conte de Marcellus pronunziato alla Camera dei deputati di Francia
nella seduta del 14 maggio, ibid., anno I, tomo I, pp. 137-155.
(38) Cfr. P. Pastori, La diffusione del
pensiero di Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., pp.
111-112.
(39) Cfr. Ferdinando I [re del Regno delle Due Sicilie
(1751-1825),] Decreto reale del 7 giugno 1821, in Enciclopedia
ecclesiastica, e morale, anno I, tomo I, cit., pp. 117-118; cfr. Raffaele
De Giorgio [Direttore della Real Segreteria di Stato degli affari
Ecclesiastici], Circolare ai Vescovi ed Arcivescovi del Regno delle due
Sicilie del 6 giugno 1821, ibid., pp. 118-120.
(40) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 113.
(41) Ibidem.
(42) [G. Ventura,] Osservazioni sopra i
dibattimenti precedenti, in Enciclopedia ecclesiastica, e morale,
anno I, tomo I, Sangiacomo, Napoli giugno-luglio-agosto 1821, pp. 201-215 (p.
203).
(43) Cfr. ibid., pp.202-204.
(44) Ibid. p. 206.
(45) Cfr. ibid., pp.
206-208.
(46) Cfr. ibid., pp.
228-232.
(47) Cfr. P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 114
(48) Ibidem.
(49) Cfr. [G. Ventura,] Dell’Origine del Potere,
in Enciclopedia ecclesiastica, e morale anno II, tomo IV, Sangiacomo,
Napoli aprile-maggio-giugno 1822, pp. 3-22 (pp. 11-12).
(50) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 115.
(51) Ibidem.
(52) Ibidem.
(53) Cfr. ibid., pp.
115-116.
(54) Cfr. Jospeh de Maistre, Du Pape, 2 voll.,
Rusand-Beaucé, Lione-Parigi 1819; Idem, Del Papa nel suo rapporto con la
politica, trad. it., 2 voll., Porcelli, Napoli 1822 e 1823; e Idem Il
Papa, con Introduzione di Carlo Bo (1911-2001), note a cura di
Jacques Lovie (1908-1987) e Joannès Chetail (1909-2002), trad. it., Rizzoli,
Milano 1995.
(55) Cfr. Hugues-Félicité Robert de Lamennais, Saggio
sull’indifferenza in materia di religione, trad. dal francese della
contessa Ferdinanda Montanari Riccini, 4 voll., G. Vincenzi e Compagno, Modena
1824-1827.
(56) Cfr. Gabriel-Ambroise de Bonald, La législation
primitive considérée dans les derniers temps par les seules lumières
de la raison, Le Clerc, Parigi 1817, nonché la traduzione italiana in Idem,
La legislazione primitiva, Sangiacomo, Napoli 1823, dove, nel primo
tomo, è inserito il saggio di padre Ventura.
(57) Avvertimento degli Editori, in G. Ventura,
La ragione filosofica e la ragione cattolica. Ragionamenti predicati a
Parigi nell’anno 1851, Pirotta e C., Milano 1852, pp. 1-8 (p. 1).
(58) P. Cultrera, op. cit., p. 11.
(59) Cfr. P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., pp. 116-117 e p.
120.
(60) G. Ventura, Saggio sul potere pubblico o
Esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale, Rossi, Genova 1859,
pp. 403-404. L’opera, summa del suo pensiero politico, è stata
ripubblicata a cura di Eugenio Guccione, con un suo saggio introduttivo, in G.
Ventura, Il potere pubblico. Le leggi naturali dell’ordine sociale (1859),
Ila-Palma, Palermo-San Paolo del Brasile 1988.
(61) Cfr.P. Pastori, La diffusione del
pensiero di Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p.
117.
(62) Cfr. ibidem.
(63) Mario D’Addio, Gioacchino Ventura dalla
Restaurazione alla Rivoluzione, in E. Guccione (a cura di), Gioacchino
Ventura e il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento. Atti
del seminario internazionale, Erice (Trapani), 6-9 ottobre 1988, 2 voll.,
Olschki, Firenze 1991, vol. I, pp. 1-37 (p. 9).
(64) Ibid., p. 13.
(65) Idem, Il concetto di democrazia in Ventura,
ibid., vol. II, p. 578.
(66) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 119.
(67) Ibidem.
(68) Cfr. ibidem.
(69) G. Ventura, Memorie di religione di morale e
di letteratura, in Giornale ecclesiastico di Roma, tomo III,
Poggioli, Roma luglio-agosto-settembre 1825, pp. 131-142 (p. 133).
(70) Cfr. F. Andreu, Il p. Ventura de Raulica e i
Gesuiti (1808-1824), cit., p. 226
(71) Cfr. ibidem.
(72) Cfr. Giuseppe Pignatelli, Aspetti della
propaganda cattolica a Roma da Pio VI a Leone XII, Istituto per la Storia
del Risorgimento Italiano, Roma 1974, p. 47.
(73) Cfr. ibid., p. 301 e M. D’Addio, Gioacchino
Ventura dalla Restaurazione alla Rivoluzione, in E. Guccione (a cura di), Gioacchino
Ventura e il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento,
cit., p. 11.
(74) Cfr. G. Pignatelli, op. cit., pp.
305-306.
(75) Cfr. P. Cultrera, op. cit., pp.
16-17.
(76) Cfr. G. Ventura, Saggio sul potere pubblico,
in Giornale ecclesiastico di Roma, tomo IV, Poggioli, Roma
ottobre-novembre-dicembre 1825). Questo studio anticipa molti dei temi che
saranno trattati in Idem, Saggio sul potere pubblico o Esposizione delle
leggi naturali dell’ordine sociale, cit.
(77) Cfr. Karl Ludwig von Haller, La restaurazione
della scienza politica, trad. it., a cura di Mario Sancipriano (1916-2004),
3 voll., Utet. Unione Tipografica Editrice Torinese, Torino 1963-1981.
(78) Cfr. G. Ventura, Saggio sul potere pubblico o
Esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale, cit., pp. 99-129 (pp.
99-111).
(79) Cfr. ibid., pp.
121-123.
(80) Cfr. ibid., p.
121.
(81) Ibid., p. 126.
(82) Cfr. Idem, De jure publico ecclesiastico
commentaria Sacrae Studiorum Congregationi judicio et censurae subjicienda,Bourlié, Roma 1826.
(83) Cfr. P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., pp. 121-122.
(84) Ibid., p. 122.
(85) P. Cultrera, op. cit., p. 18.
(86) Cfr. G. Ventura, La Francia nel suo rapporto
col cristianesimo,in Giornale ecclesiastico di Roma, tomo
III, Poggioli, Roma luglio-agosto-settembre 1825, pp. 193-247.
(87) Manlio Corselli, Legittimismo e
tradizionalismo in Ventura, in E. Guccione (a cura di), Gioacchino
Ventura e il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento,
cit., vol. I, pp. 129-143 (p. 141).
(88) Cfr. G. Ventura, Sulla disposizione degli
spiriti in Europa rispetto alla Religione e della necessità di
propagare i buoni princìpj, in Giornale ecclesiastico di Roma, tomo
III, Poggioli, Roma luglio-agosto-settembre 1825, pp. 17-52.
(89) G. Pignatelli, op. cit., pp.
305-306. Diversa è invece la tesi di Paolo Pastori, il quale ritiene che
Ventura cerca di mediare fra “[…] le idee antiche e le nuove
[…] dunque del tutto senza motivo [è] accusato dal Pignatelli di un
“virulento linguaggio” e di diffondere “tesi apocalittiche““
(P. Pastori, La diffusione del pensiero di Gioacchino Ventura nell’Italia
della Restaurazione, cit., p. 106). Ma Pignatelli si riferisce alle
modalità espressive usate da Ventura sul Giornale ecclesiastico di Roma,
mentre Pastori pensa che esse siano riferite all’esperienza napoletana dell’Enciclopedia
ecclesiastica, e morale.
(90) Cfr. G. Pignatelli, op. cit., p.
306.
(91) Cfr. ibidem.
(92) Cfr. P. Cultrera, op. cit., p. 18.
(93) Cfr. G. Ventura, De methodo philosophandi,
Perego-Salvioni, Roma 1828.
(94) Cfr. Idem, Le osservazioni sulle dottrine dei
signori de Bonald, de Maistre, de La Mennais e Laurentie, Perego–Salvioni,
Roma 1829.
(95) Cfr. Idem, Schiarimenti sulla quistione del
fondamento della certezza tratti da’ princìpi della scuola tomistica,
Perego-Salvioni, Roma 1829.
(96) Dario Caroniti, Potere pubblico, tradizione e
federalismo nel pensiero politico di Gioacchino Ventura, Rubbettino,
Soveria Mannelli (catanzaro) 2014, p. 61.
(97) Cfr. Marco Ravera, Il tradizionalismo francese,
Laterza, Bari 1991, pp. 74-75.
(98) D. Caroniti, op. cit., p. 62.
(99) Ibid., p. 8.
(100) Ibid., p. 69. Sul ruolo di Ventura nella
riscoperta della filosofia di san Tommaso nel secolo XIX, su questa forma di
tradizionalismo mitigato dal neotomismo e sui suoi riflessi nella definizione
di un pensiero politico ancorato ai princìpi cristiani, cfr. ibid., pp.
61-82. Nelle stesse pagine Caroniti analizza anche l’interpretazione che
Augusto Del Noce (1910-1989) ha dato del pensiero “reazionario”
maistriano, bonaldiano e lamennaisiano, che, per il filosofo pistoiese, era
sostanzialmente “modernista”, in quanto, sovrapponendo la politica
alla religione, era colpevole di sacrificare l’escatologia cristiana a una
ideologia immanentistica e laica della storia, che, sempre, risultava essere
manifestazione di una volontà divina.
(101) Cfr. P. Cultrera, op. cit., p. 21.
(102) Cfr. H.-F. Robert de Lamennais, Des progrès
de la Révolution et de la guerre contre l’Église, Marchand de Nouveautés,
Bruxelles 1829.
(103) E. Guccione, Il concetto di democrazia in
Ventura, in Idem (a cura di), Gioacchino Ventura e il pensiero politico
d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol. II, p. 577. Su questo
aspetto del pensiero di Ventura, cfr. pure P. Cultrera, op. cit.,
p. 25.
(104) [G. Ventura,] Lettre du P. Ventura, général
des Théatins, à MM. les rédacteurs de L’Avenir, Dentu, Parigi s.d., p. 7,
consultabile sul sito internet <http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k55267194>,
visitato il 21-2-2014, p. 4 (trad. mia).
(105) Cfr. M. Corselli, op. cit., pp.
131-132.
(106) G. Ventura, Della disposizione attuale degli
spiriti in Europa rispetto alla religione e della necessità di propagare i
buoni principi per mezzo della stampa, cit., p. 23.
(107) Cfr. Anna Morelli, Cattolici liberali belgi e
gli ideali mennaisiani, in E. Guccione (a cura di), Gioacchino Ventura e
il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol. II,
pp. 561-572 (p. 561).
(108) [G. Ventura,] Lettre du P. Ventura, général
des Théatins, à MM. les rédacteurs de L’Avenir, cit., p. 7 (trad. mia).
(109) P. Cultrera, op. cit., p. 25.
(110) Cfr. H.-F. Robert de Lamennais, Réponse à la
Lettre du P. Ventura, in L’Avenir, n. 119, 12-2-1831; la lettera è
pubblicata anche in Articles de L’Avenir, 7 voll., Vanlinthout et
Vandenzande, Lovanio (Belgio) 1830-1831, vol. III, pp. 30-43.
(111) Cfr. P. Pastori, La diffusione del pensiero
di Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 123.
(112) F. Andreu, Un aspetto inedito nel rapporto
Ventura-Lamennais, inE. Guccione (a cura di), Gioacchino Ventura
e il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol.
II, pp. 603-621 (p. 611).
(113) Cfr. ibid., p. 607.
(114) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 124.
(115) Cfr. F. Andreu, Un aspetto inedito nel
rapporto Ventura-Lamennais, cit., p. 608 e p. 612.
(116) Ibid., p. 605.
(117) Ibid., p. 610.
(118) Cfr. ibid., p.
607.
(119) P. Cultrera, op. cit., p. 27.
(120) Cfr. H.-F. R. de Lamennais, Défense de
l’Essai sur l’indifference en matière de religion, Méquignon Fils
Ainé-Périsse Freres, Parigi-Lione 1821, nonché l’edizione italiana Idem, Difesa
del Saggio sull’indifferenza in materia di religione, traduzione dal
francese della contessa Ferdinanda Montanari Riccini, Vincenzi e Compagno,
Modena 1824.
(121) Sui rapporti fra Ventura e la contessa
Ferdinanda Riccini e, in particolare, sull’iniziativa di quest’ultima per
sanare la frattura fra papa Gregorio XVI e il teatino, cfr. F. Andreu, Un
aspetto inedito nel rapporto Ventura-Lamennais, cit., p. 615.
(122) Cfr. ibid., pp. 615-616.
(123) La prima lettera di Ventura al pensatore
bretone, trasmessa per il tramite di un intermediario, il conte Friedrich
Christian Ludwig Senfft von Pilsach (1774-1853) — diplomatico austriaco,
convertito al cattolicesimo e legato ai gruppi del tradizionalismo francese —,
risale al dicembre 1821, quando il teatino gli offre la disponibilità, poi
accettata, a tradurre in italiano l’Essai sur l’indifference en matière de
religion. In seguito, i due si sarebbero incontrati la prima volta a Napoli
nel 1824, in occasione del viaggio del francese in Italia, iniziando un
rapporto di amicizia durato una decina d’anni (cfr. Jean Marie Mayeur, Ventura
et Lamennais, in E. Guccione (a cura di), Gioacchino Ventura e il
pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol. II,
pp. 525-533).
(124) Cfr. F. Andreu, Un aspetto inedito nel
rapporto Ventura-Lamennais, cit., p. 617.
(125) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 124.
(126) Cfr. F. Andreu, Un aspetto inedito nel
rapporto Ventura-Lamennais, cit., p. 613.
(127) Ibid., p. 617.
(128) Cfr. H.-F. R. de Lamennais, Paroles d’un
croyant, Renduel, Parigi 1833 (trad. it., Parole di un credente,
prefazione di C. Bo, introduzione e note di Louis le Guillou (1929-2009),
Rizzoli, Milano 1991).
(129) Cfr. F. Andreu, Un aspetto inedito nel
rapporto Ventura-Lamennais, cit., p. 618.
(130) Cfr. ibidem.
(131) Cfr. P. Cultrera, op. cit., pp. 27-46.
(132) Cfr. ibid., pp. 27-46.
(133) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 125.
(134) Il Manoscritto, che Ventura aveva dettato
a uno scrivano nel 1833durante il suo esilio a Modena presso i conti
Riccini, fu scoperto nel 1938 da una studiosa palermitana, Rosalia Rizzo
(1914-1996), nella biblioteca della cittadina siciliana di Agira (Enna) e in
parte pubblicato dalla stessa nel suo Teocrazia e neocattolicesimo nel
Risorgimento. Giornale ecclesiastico e sviluppo del pensiero politico del p. G.
Ventura attraverso un manoscritto inedito, Sandron, Palermo-Milano 1938.
(135) G. Ventura, Dello spirito della rivoluzione e
dei mezzi di farla terminare, a cura di E. Guccione, Giappichelli, Torino
1998. Sulle vicende della copia originale del Manoscritto, che,
depositata nella biblioteca della casa madre dei teatini presso Sant’Andrea
della Valle a Roma, viene ritrovata ad Agira, per poi andare persa nel corso di
avvenimenti legati al secondo conflitto mondiale — sembra sia stata trafugata
durante l’occupazione americana della Sicilia —, cfr. E. Guccione, Presentazione.
Un inedito del 1833 anticipatore del liberalismo cattolico italiano, ibid.,
pp. 1-3; e R. Rizzo, Introduzione, ibid., pp. 15-17.
(136) Cfr. P. Pastori, op. cit., pp.
124-127.
(137) Ibid., p. 124.
(138) La critica all’assolutismo regio degli Stati
europei, declinato nelle varie dottrine dispotiche del regalismo, del
giurisdizionalismo e del gallicanesimo, di cui non fu immune nemmeno Napoleone
Bonaparte (1769-1821), è sviluppata in molte pagine del Manoscritto; per
l’approfondimento, cfr. G. Ventura, Dello spirito della rivoluzione e dei
mezzi di farla terminare, cit., p. 86, p. 124, p. 148 e pp. 150-174.
(139) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 124.
(140) Cfr. ibidem.
(141) Cfr. ibid., p.
126.
(142) Ibidem.
(143) Cfr. G. Ventura, Dello spirito della
rivoluzione e dei mezzi di farla terminare, cit., pp. 124-155 e p. 293.
(144) Ibidem.
(145) Cfr. P. Pastori, La diffusione del pensiero
di Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 127.
(146) Cfr. ibidem.
(147) Ibidem.
(148) Cfr. G. Ventura, Dello spirito della rivoluzione
e dei mezzi di farla terminare, cit., pp.120-123.
(149) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 126.
(150) Cfr. J. de Maistre, Considerazioni sulla
Francia, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1985, pp. 7-19 (n. trad. ed ed.,
a cura di Guido Vignelli, Editoriale il Giglio, Napoli 2010).
(151) Cfr. G. Ventura, Dello spirito della
rivoluzione e dei mezzi per farla cessare, cit., pp. 296-297.
(152) Cfr. Idem, Paolo III e Pio IX e la nuova arma
di Roma, in Idem, Opere complete del rev. Padre Gioacchino Ventura,
2 voll., Rossi-Turati, Genova-Milano 1860, vol. I, pp. 179-195; e P. Cultrera, op.
cit., pp. 55-57.
(153) La grafica del nuovo stemma proposto da Ventura
si trova all’inizio, quasi a ornamento, del volume G. Ventura, Opere
complete del rev. Padre Gioacchino Ventura, cit.; cfr. pure P. Cultrera, op.
cit., p. 56; la descrizione riportata in quest’ultimo, in verità, è in
parte differente da quella sopra presentata.
(154) Cfr. G. Ventura, Elogio funebre di don
Giuseppe Maria Graziosi, in Idem, Raccolta di elogi funebri e lettere
necrologiche, Rossi, Genova 1852, pp. 365-402.
(155) Cfr. P. Cultrera, op. cit., pp.
67-71; E. Guccione, Aspetti del pensiero politico di Gioacchino Ventura,
in G. Ventura, Il potere pubblico. Le leggi naturali dell’ordine sociale
(1859), Ila-Palma, Palermo-San Paolo del Brasile 1988, pp. 9-39 (p. 33),
nonché Jacques Prévotat, Le séjour de G. Ventura à Paris, in E. Guccione
(a cura di), Gioacchino Ventura e il pensiero politico d’ispirazione
cristiana dell’Ottocento, cit., vol. II, pp. 535-560 (p. 556).
(156) G. Ventura, Discorso funebre per i morti di
Vienna, cit., pp. 3-110.
(157) Ibid., p. 100.
(158) Cfr. P. Pastori, La diffusione del pensiero
di Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 127.
(159) Cfr. ibid., p. 128.
(160) G. Ventura, Discorso funebre per i morti di
Vienna, cit., pp. 3-52.
(161) Sul ruolo di Ventura nelle vicende italiane del
periodo 1846-1848, cfr. i saggi contenuti in E. Guccione (a cura di), Gioacchino
Ventura e il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento,
cit., fra i quali Pasquale Hamel, Chiesa, unità e autonomia siciliana nel
pensiero politico di Ventura, vol. I, pp. 325-340; Umberto Muratore I.C., Libertà
e religione nei rapporti Ventura-Rosmini, pp. 145-162; Francesco Renda
(1922-2013), Ventura e la questione siciliana, pp. 237-251; Francesco
Michele Stabile, La corrispondenza diplomatica con la segreteria di Stato,
pp. 341-386; Francesca Riccobono, Il problema siciliano del 1848 nella
prospettiva politica europea: il giudizio di Gioacchino Ventura, pp.
387-408; Maria Sofia Messana Virga, Il problema istituzionale in Sicilia,
vol. II, pp. 409-498; Fausta Puccio, Ventura “commissario della Sicilia
a Roma”, pp. 499-524; Gabriella Gentile Portalone, Cenni sulla
libertà di commercio in Sicilia, pp. 737-752, e Bernard A. Cook, Ventura
and the United States, pp. 647-662.
(162) P. Hamel, op. cit.,
vol. I, p. 325.
(163) Cfr. G. Ventura, Elogio funebre di Daniello
O’ Connell, in Opere del P. Gioacchino Ventura, a cura di G. De
Stefano, cit., vol. VII, pp. 9-65.
(164) Cfr. ibid., pp.
19-21.
(165) Cfr. ibid., p.
40, p.51 e p. 53.
(166) Cfr. Idem, Saggio sul potere pubblico o
Esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale, cit., p. 510.
(167) P. Cultrera, op. cit., p. 78; si
tratta di uno stralcio della relazione che Ventura inviò alla Commissione
pontificia incaricata di redigere uno Statuto. Sul diritto di voto riconosciuto
ai padri di famiglia, cfr. pure G. Ventura, Saggio sul potere pubblico o
Esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale, cit., pp. 509-519.
(168) Cfr. Idem, Sopra una Camera di Pari nello
Stato Pontificio, Zampi, Roma 1848.
(169) Cfr. ibid., pp.
3-5.
(170) Ibid., p. 20.
(171) Cfr. ibidem.
(172) Cfr. Idem, La questione sicula del 1848
sciolta nel vero interesse della Sicilia, di Napoli e dell’Italia, Zampi,
Roma, 1848.
(173) Cfr. Idem, Memoria per il riconoscimento
della Sicilia come stato sovrano ed indipendente, Dato, Palermo 1848.
(174) Cfr. Idem, Le menzogne diplomatiche, ossia
l’esame dei pretesi diritti che s’invocano dal Gabinetto di Napoli sulla
questione siciliana, Tip. Di Via del Sudario, Roma 1849.
(175) Cfr. P. Cultrera, op. cit., pp.
80-83.
(176) F. Renda, op. cit., p. 238.
(177) Cfr. ibid., pp. 85-89; F. Riccobono, op.
cit., pp. 394-396; e F. Puccio, op. cit., pp. 503-507.
(178) M. S. Messana Virga, op. cit., p.
421.
(179) G. Ventura, La questione sicula nel 1848,
sciolta nel vero interesse della Sicilia, di Napoli e dell’Italia, cit., p.
5.
(180) Cfr. ibid., pp. 29-46.
(181) F. Renda, op. cit., p. 239.
(182) Cfr. ibidem.
(183) Cfr. G. Ventura, Memoria per lo
riconoscimento della Sicilia come Stato sovrano ed indipendente, cit., pp.
7-28.
(184) Cfr. ibid., p. 36.
(185) P. Cultrera, op. cit., p. 84.
(186) Cfr. G. Ventura, Menzogne diplomatiche,
ovvero esame dei pretesi diritti che s’invocano dal Gabinetto di Napoli nella
questione sicula, cit., p. 250.
(187) Ibid., p. 525.
(188) Circa il rifiuto di Ventura a far parte
dell’assemblea costituente della Repubblica Romana, non tutti gli storici
concordano. Paolo Cultrera sottolinea che il teatino si rifiutò di accettarne
la nomina, Guccione, invece, ritiene che Ventura accettò tale nomina, pur non
partecipando ad alcuna seduta di lavoro. Al riguardo, cfr. P. Cultrera, op.
cit., pp. 98-99 ed E. Guccione, Antonio Rosmini e Gioacchino Ventura
di fronte al problema dell’unità. Bozza per gli Atti dell’Undicesimo Corso
dei “Simposi Rosminiani” Antonio Rosmini e il problema storico
dell’unità d’Italia, Stresa (Verbania), Colle Rosmini, 25-28 agosto 2010,
consultabile sul sito internet <http://www.rosmini.it/Resource/CentroSt-
udi/Simposi/2010%20Simposio%20Guccione.pdf>,
visitato il 7 ottobre 2013, p. 3.
(189) Cfr. Idem, Aspetti del pensiero politico di
Gioacchino Ventura, cit., p. 33.
(190) Cfr. Cfr. P. Hamel, op. cit., p.
328; ed E. Guccione, Antonio Rosmini e Gioacchino Ventura di fronte al
problema dell’unità, cit.
(191) Cfr. P. Hamel, op.
cit., p. 328.
(192) Enzo Sciacca, Costituzionalismo e liberalismo
in Ventura, in E. Guccione (a cura di), Gioacchino Ventura e il pensiero
politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol. I, pp. 111-127 (p. 115).
(193) Ibid., p. 117.
(194) J. Prévotat, op. cit.,
p. 543 (trad. mia).
(195) P. Cultrera, op. cit., p. 109.
(196) Ibid., pp.
113-114.
(197) Cfr. ibid., pp.
131-139.
(198) Cfr. G. Ventura, La Ragione filosofica e La
Ragione cattolica, trad. it., Pirotta e C., Milano 1852.
(199) Cfr. ibid., pp.
9-146
(200) Cfr. ibid., pp.
147-214
(201) Cfr. ibid., pp.
215-314
(202) Cfr. ibid., p.
70.
(203) Cfr. ibid., pp.
147-214.
(204) Cfr. ibid., pp.
215-314.
(205) P. Cultrera, op. cit., pp. 162-163.
(206) Cfr. G. Ventura, Della vera e della falsa filosofia,
trad. it., Turati-Rossi, Milano-Genova1854.
(207) P. Cultrera, op. cit., p. 163.
(208) Cfr. G. Ventura, Della vera e della falsa
filosofia, cit., pp. 10-13.
(209) Ibid., p. 7.
(210) Ibidem.
(211) Cfr. ibid., pp. 16-18, nonché Idem, La
Ragione filosofica e La Ragione cattolica, cit., pp. 100-108.
(212) Cfr. P. Cultrera, op. cit., p. 165.
(213) Cfr. G. Ventura, Saggio sull’origine delle
idee e sul fondamento della certezza, trad. it., Turati- Rossi,
Milano-Genova 1854.
(214) Ibid., p. 6.
(215) Ibidem.
(216) Cfr. ibid., pp.
11-67.
(217) Cfr. ibid., pp.
67-128.
(218) Ibid., p. 130. Ventura
parafrasa sinteticamente i versetti di san Paolo, che così recitano: “[…]
21 quia, cum cognovissent
Deum, non sicut Deum glorificaverunt aut gratias egerunt, sed evanuerunt in
cogitationibus suis, et obscuratum est insipiens cor eorum. 22
Dicentes se esse sapientes, stulti facti sunt“ (Rom. I,
21-22).
(219) Ibidem.
(220) Ibid., p. 131.
(221) Ibid., p. 214.
(222) Cfr. ibidem.
(223) Cfr. ibid., pp. 258-266.
(224) P. Cultrera, op. cit., p. 168.
(225) Ibid., p. 167.
(226) Ibidem.
(227) Ibid. p. 169.
(228) Jean Marie Mayeur, Ventura et Lamennais,
in E. Guccione (a cura di), Gioacchino Ventura e il pensiero politico
d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol. II, pp. 533 (trad. mia).
(229) Cfr. P. Cultrera, op. cit., pp. 175-176.
(230) Cfr. ibid., pp. 177-178.
(231) G. Ventura, Lettera al re Ferdinando II,
ibid., p. 180.
(232) Cfr. ibidem.
(233) Ibidem.
(234) Cfr. P. Cultrera, op. cit., pp. 197-198.
(235) Cfr. ibid., pp. 198-200.
(236) Cfr. G. Ventura, Le donne del Vangelo,
trad. it., Stamperia Reale, Milano 1867. È una raccolta di omelie già
pubblicate a Roma prima dell’esilio francese e che Ventura riprende per la
predicazione nella parrocchia parigina di san Luigi d’Antin, ampliandole,
dandole poi nuovamente alle stampe (cfr. P. Cultrera, op. cit., p.
158-159).
(237) Cfr. G. Ventura, La donna cattolica,
trad. it., 2 voll., Cairo, Roma 1856.
(238) Cfr. P. Cultrera, op. cit. p. 197,
dove è trascritta la lettera di ringraziamento inviata da Isabella II a
Ventura.
(239) Ventura è schierato in favore della giovane
sovrana e polemizza in più occasioni con il partito carlista, sostenitore,
nella guerra civile spagnola (1833-1839), della legge salica. In particolare,
nella lettera del 17 luglio 1834, con la quale prende le distanze dalle tesi di
Lamennais, il teatino manifesta anche a Gregorio XVI la propria ostilità verso
i carlisti (cfr. F. Andreu, Un aspetto inedito nel rapporto
Ventura-Lamennais, cit., p. 618).
(240) G. Ventura, La tradizione e i semi-pelagiani
della filosofia, ossia il semi-razionalismo svelato, Turati-Rossi,
Milano-Genova 1857, p. 29.
(241) Ibid., p. 30.
(242) Ibid., p. 32.
(243) Cfr. ibid., p.
35.
(244) Ibid., p. 14.
(245) Ibid., pp. 14-15.
(246) Ibid., p. 47.
(247) Cfr. ibid., pp.
45-50.
(248) Cfr. ibid., pp.
38-45.
(249) Ibid., p. 48. Secondo E. Guccione, in
Ventura si può riconoscere un tradizionalismo che si differenzia in parte da
quello del primo Lamennais, trattandosi di un “tradizionalismo
mitigato”, che limita l’incapacità della ragione umana a individuare le
verità metafisiche (cfr. E. Guccione, Aspetti del pensiero politico di
Gioacchino Ventura, cit., p. 10). Sull’argomento cfr. anche F. Andreu, P.
Gioacchino Ventura. Saggio biografico, in Regnum Dei. Collectanea
theatina a Clericis Regularibus edita, anno XVII, Roma 1961, pp. 57-58 e
pp. 133-134; e Idem, Ventura di Raulica, Gioacchino, in Enciclopedia
Cattolica, 12 voll., Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il Libro
Cattolico, Città del Vaticano 1954, vol. XII, col. 1.239.
(250) G. Ventura, La tradizione e i
semi-pelagiani della filosofia, ossia il semi-razionalismo svelato, cit.,
p. 515.
(251) Cfr. ibid., pp.
513-517.
(252) Ibid., p. 517.
(253) Ibid., p. 39.
(254) Ibid., pp. 39-40.
(255) Ibid., pp.
204-205.
(256) Cfr. Idem, Il potere politico cristiano:
discorsi pronunciati nella Cappella imperiale delle Tuileries durante la
Quaresima dell’anno 1857, trad. it., Rondinella, Napoli 1860.
(257) Cfr. Louis Veuillot, Introduzione, ibid.,
pp. VII-XVIII (pp. XIII-XIV).
(258) Cfr. ibid., p. XV.
(259) Cfr. G. Ventura, La Chiesa e lo Stato, o
teocrazia e cesarismo, ibid., pp. 223-260 (pp. 243-260)
(260) Cfr. Idem, Sulla ristorazione dell’Impero in
Francia, ibid., pp. 291- 325 (p. 316 e pp. 326-328).
(261) Ibid., p. 308.
(262) Cfr. ibid., pp.
291-325. Ventura, inoltre, precisa quali siano le vere radici
della nazione francese: “Il solo cattolicesimo è la sua essenza, la sua
anima, la sua forza e la sua vita. Essa è dunque cattolica o nulla” (ibid.,
p. 304). Questa ascendenza religiosa, aggiunge il teatino, fu subito
riconosciuta anche dal fondatore del Primo Impero, Napoleone Bonaparte, che,
nonostante, avesse avuto dei contrasti con il papato, cercò di riappacificarsi
con la Chiesa, ravvisando nel cattolicesimo uno dei valori fondativi della
Francia post-rivoluzionaria (cfr. ibidem).
(263) Ibid., p. 307.
(264) Cfr. ibid., nota
57.
(265) G. Ventura, Saggio sul potere pubblico o
Esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale, cit., pp. VI-VII.
(266) Ibid., p. XXIV.
(267) Cfr. ibid., pp. VIII-IX.
(268) Ibid., p. XXIII.
(269) Cfr. ibid., p. 683.
(270) Ibid., p. 51.
(271) Ibid., p. 24.
(272) Cfr. ibid., p.
22-29.
(273) Cfr. ibid., p.
49-50.
(274) Ibid., p. 113.
(275) Cfr. ibid., pp. 51-74.
(276) Idem, La tradizione e i semi-pelagiani della
filosofia, ossia il semi-razionalismo svelato, cit., p. 579.
(277) Cfr. Idem, Saggio sul potere pubblico o
Esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale, cit., pp. 75-124.
(278) Ibid., p. 126.
(279) Ibidem.
(280) Ibid., p. 129.
(281) Cfr. ibid., pp.
131-132.
(282) Cfr. ibid., p.
131.
(283) Cfr. ibid., p.
133.
(284) Cfr. ibid., p.
134.
(285) Ibidem.
(286) Ibidem.
(287) Ibid., p. 138.
(288) Ibid., p. 139.
(289) Ibid., p. 140.
(290) Ibidem.
(291) Cfr. ibid., p.
141.
(292) Cfr. ibid., pp.
140 e 145.
(293) Ibid., p. 144.
(294) Cfr. Ibid., p.
150.
(295) Ibidem.
(296) Ibid., p. 151.
(297) Cfr. ibid., pp.
156-203.
(298) Cfr. ibid., pp.
204-205.
(299) Ibid., p. 204.
(300) Cfr. ibid., p.
205
(301) Ibid., p. 206.
(302) Ibid., p. 268; sull’origine immediata e
diretta del potere pubblico per mezzo della società, cfr. anche le pp. 268-313.
(303) Ibid., p. 266.
(304) Cfr. ibid., pp.
206-208.
(305) Ibid., p. 225.
(306) Cfr. ibid., pp.
216-267.
(307) Cfr. pp. 314-333.
(308) Ibid., p. 415.
(309) Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), De
legibus, l. IV.
(310) Cfr. pp. 334-414.
(311) Ibid., p. 415.
(312) Ibidem.
(313) Cfr. ibid., pp.
415-505.
(314) Cfr. ibid., pp.
506-544.
(315) Ibid., p. 617.
(316) Cfr. ibid., p.
662.
(317) Cfr. ibid., pp. 657-663.
(318) Ventura, nel 1848, conosce Gioberti a Roma, dove
questi si trova in qualità di inviato straordinario del Regno di Sardegna, e,
sebbene non ne apprezzi il pensiero politico, quando il piemontese si presenta
alla sua porta di casa, gli concede quel colloquio richiesto con insistenza. Il
religioso siciliano annota con scrupolo i temi trattati e nel Saggio ne
fa una sintesi, esprimendo anche tutta la sua contrarietà ad ogni soluzione
“fusionistica” della questione italiana (cfr. ibid., pp.
657-665 e P. Cultrera, op. cit., pp. 92-93).
(319) Cfr. Vincenzo Gioberti, Del Rinnovamento
civile d’Italia, 2 voll., Bocca-Chamerot, Torino-Parigi 1851.
(320) Cfr. Idem, Del primato morale e civile degli
italiani, 3 voll., Meline, Bruxelles 1843.
(321) Cfr. G. Ventura, Saggio sul potere pubblico o
Esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale, cit. ibid.,
pp. 651-668.
(322) Cfr. ibid., pp.
614-667.
(323) Ibid., p. 666.
(324) Ibid., pp.
683-684.
(325) Ibid., p. 683.
(326) Ibid., p. 674
(327) Ibidem.
(328) Cfr. J. Prévotat, op. cit., pp.
559 e 560.
(329) Cfr. G. Ventura, Il matrimonio cristiano,
trad. it., Rondinella, Napoli 1859.
(330) Cfr. Idem, Le delizie della pietà. Trattato
sul culto di Maria Santissima,trad. it., Cairo, Roma 1861.
(331) Cfr. Idem, Corso di filosofia cristiana,
ossia restaurazione cristiana della filosofia, trad. it., Rossi, Genova
1863.
(332) P. Cultrera, op. cit., p. 221.
(333) Giuseppe Monsagrati, Polemiche inedite
dell’ultimo Ventura, in E. Guccione (a cura di), Gioacchino Ventura e il
pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol. II, pp. 701-736 (pp. 704-705).
(334) Ibid., p. 705.
(335) Cfr. ibid., p.
706.
(336) Cfr. ibid., pp.
710-711. Questi i volumi dell’abbé francese: Jean-Joseph Gaume, Le
Catholicisme dans l’éducation ou l’unique moyen de sauver la science et la
societé, Gaume Frères, Parigi 1835; Idem, Le ver rongeur des societés
modernes ou le paganisme dans l’éducation, Gaume Frères, Parigi 1851; e
Idem, La Révolution. Recherches historiques sur la propagation du mal en
Europe depuis la Renaissance jusqu’à nos jours, 4 voll., Gaume Frères,
Parigi 1856.
(337) Cfr. [G. Ventura,] Sulla necessità di una
riforma dell’insegnamento pubblico nel vantaggio della religione, in Idem, Il
potere politico cristiano: discorsi pronunciati nella Cappella imperiale delle
Tuileries durante la Quaresima dell’anno 1857, cit., pp. pp. 45-112.
(338) Cfr. ibidem.
(339) Ibid., p. 93.
(340) Idem, Sulla necessità di una riforma dell’insegnamento
pubblico nel vantaggio della letteratura e della politica, ibid.,
pp. 113-146.
(341) Cfr. G. Monsagrati, op. cit., pp.
710-711.
(342) Ibid., p. 711.
(343) Cfr. ibidem.
(344) I filosofi scolastici più ortodossi, fra cui il
domenicano côrso, nonché cardinale, Tommaso Maria Zigliara (1833-1893),
criticavano il tomismo di padre Ventura perché la sua gnoseologia aveva una
caratterizzazione molto empirica, limitando in modo significativo le facoltà
della ragione. Costoro ritenevano che il pensiero del teatino fosse
riconducibile al tradizionalismo, non a quello moderato ma addirittura a uno
“rafforzato”, essendosi egli allontanato considerevolmente dalle
dottrine della conoscenza di san Tommaso (cfr. ibid., p. 713).
(345) Cfr. G. Monsagrati, op. cit., pp.
712-713.
(346) Secondo il teologo Giovanni Perrone S.J.
(1794-1876), i citati tradizionalisti francesi dovrebbero essere definiti “soprannaturalisti”
(cfr. don Pietro Cantoni, “Tradizionalismo” e Tradizione, in
Pier Luigi Zoccatelli e Ignazio Cantoni (a cura di), A maggior gloria di
Dio, anche sociale. Scritti in onore di Giovanni Cantoni nel suo settantesimo
compleanno, Cantagalli, Siena 2008, pp. 69-83 (p. 70, nota 6).
(347) Cfr. G. Monsagrati, op. cit., p.
713, nota 47.
(348) Cfr. ibidem.
(349) Cfr. ibid., pp.
713-715.
(350) Cfr. ibid., pp.
715-716.
(351) Cfr. ibid., p.
716.
(352) Cfr. ibid., p. 719.
(353) P. Pastori, Ventura lettore di Bonald, in
E. Guccione (a cura di), Gioacchino Ventura e il pensiero politico
d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol. I, pp. 213-216 (p. 215).
(354) Leone XIII, Lettera enciclica Diuturnum
illud, del 29 giugno 1881, in Enchiridion delle encicliche. 3. Leone XIII
(1878-1903), a cura di Erminio Lora e Rita Simionati, Edb. Edizioni
Dehoniane Bologna, Bologna 1997, pp. 170-195 (p. 175).
(355) Idem, Lettera enciclica Au milieu des
sollicitudes ai vescovi francesi, del 16 febbraio 1892, ibid.,
pp. 692-719 (p. 703 e p. 705).
(356) Cfr. San Pio X, La concezione secolarizzata
della democrazia. Lettera agli Arcivescovi e ai Vescovi francesi “Notre
charge apostolique”, n. trad. it., Edizioni di Cristianità, Piacenza
1992.
(357) Gabriele De Rosa (1917-2009), Sturzo mi disse,
Morcelliana, Brescia 1982, p. 58.
(358) G. Ventura, Discorso funebre per i morti di
Vienna, cit., p. 45.
(359) Ibid., p. 3.
(360) Cfr. G. Monsagrati, op. cit., p.
717.
(361) Cfr. U. Muratore, op. cit., p.
148.
(362) Cfr. F. Riccobono, op. cit., p.
388.
(363) Cfr. D. Caroniti, op. cit., p. 59.
(364) Nel 1849, a Montpellier, Ventura è sollecitato
dagli ambienti liberali francesi a ribellarsi al Papa e a criticare
l’organizzazione gerarchica della Chiesa. Egli risponde dando alle stampe
un’opera, Lettere al Signor L. T. Ministro protestante — molto
apprezzata a Roma —, in cui rimarca i motivi della sottomissione e della
obbedienza dovute al Papa (cfr. ibidem; e in particolareG.
Ventura, Lettere ad un Ministro protestante ed altri scritti minori del rev.
P. G. Ventura, Turati, Milano 1854, pp. 7-100).
(365) P. Pastori, Ventura lettore di Bonald,
cit., p. 216.
(366) Ibidem.
Figlio di Paolo Ventura, barone di Raulica
(1734-1816), avvocato e consigliere della Suprema Corte di Giustizia del Regno
di Sicilia e di Caterina Platinelli, “[…] coniugi di antica
probità e di antichi costumi” (1), Gioacchino nasce a Palermo il 7
dicembre 1792 (2).
La famiglia lo avvia agli studi nella città natale,
presso il Collegio Massimo, retto dai gesuiti, riaperto nel 1805 dopo la
promulgazione del breve apostolico Per alias del 30 luglio 1804 di papa
Pio VII (1800-1823), in base al quale la Compagnia di Gesù veniva richiamata
nell’isola da Ferdinando III re di Sicilia III e IV di Napoli (1751-1825), il
medesimo monarca che, ancora adolescente, nel 1767, per decisione del Consiglio
di reggenza e del primo ministro Bernardo Tanucci (1698-1783), ne aveva decretata
l’espulsione, seppur a malincuore (3).
1. La vocazione
religiosa
Dotato di “[…] una mente vasta, un
ingegno perspicace e una memoria portentosa” (4), Ventura, appena
quindicenne, si segnala per la capacità di cimentarsi in composizioni
letterarie latine, sia in prosa, sia in poesia. Il direttore del Collegio pensa
quindi di proporgli di entrare nella Compagnia di Gesù, incontrando, tuttavia,
in un primo tempo, un diniego, non volendo il giovane Gioacchino abbandonare la
famiglia. La convinzione di poter meglio coltivare gli studi che lo
appassionano e la gratitudine provata verso i maestri lo spingono al passo
decisivo. Egli chiede di entrare nella congregazione di sant’Ignazio di Loyola
(1491-1556), in cui viene accolto il 19 gennaio 1808, non senza aver dovuto
superare dei contrasti in famiglia, dove la sua “[…] risoluzione
[cagiona] dispiacere grandissimo” (5).
Ventura inizia il noviziato nella casa professa, poi,
quando a maggio 1809, su decisione della consulta provinciale, il noviziato
medesimo viene spostato a Caltanissetta, egli vi si trasferisce, frequentando
il biennio di Retorica sotto la guida di un eccellente docente di eloquenza;
queste lezioni, infatti, non si limitano all’apprendimento in aula, essendo
esse accompagnate da esercitazioni “sul campo”, attraverso le
prediche e gli esercizi spirituali diretti ai fedeli nisseni dal pulpito della
chiesa principale della città, che, quando egli parla, è sempre gremita (6).
Conclusa la sua formazione, nel 1814, egli torna a
Palermo, per frequentare il secondo anno di Filosofia, avendo quali professori
dei gesuiti spagnoli, che, espulsi dal loro Paese, avevano trovato ospitalità
in Sicilia. Qui Ventura studia la filosofia di Aristotele (384-383 ca.-322
a.C.) e di san Tommaso d’Aquino O.P. (1225/1226-1274), ai quali riconoscerà, in
età avanzata, di averlo educato alla vera libertà interiore e preservato dagli
errori dei numerosi maestri cartesiani, presenti anche tra i gesuiti (7). In
effetti, in quel periodo, nei collegi della Compagnia, non vige un indirizzo
speculativo univoco, né tanto meno uno pedissequamente scolastico; esiste
piuttosto “[…] una discreta libertà d’indirizzi, rivelantesi in
un ecletticismo inconciliabile con i principi della “philosophia
perennis”” (8). In ogni caso, tali sono i risultati che consegue
nello studio della matematica, della fisica e della filosofia e del greco, in
cui eccelle, che i suoi superiori lo sottopongono a esame pubblico, il cui
esito suscita grande ammirazione nei prelati e nei professori universitari
presenti.
Ventura, poco più che ventenne, riceve l’incarico di
insegnare “belle lettere” nei collegi gesuitici, prima al Collegio
Massimo, poi in quelli di Caltanissetta e di Alcamo (Trapani), nonché Retorica
al Real Convitto Ferdinando di Palermo — dove, nella chiesa annessa, impartisce
pure lezioni di catechismo aperte al pubblico esterno —, annoverando fra i suoi
studenti il fior fiore dell’aristocrazia locale. Risale a questa sua prima
attività di docente la pubblicazione di un Compendio di geografia antica e
moderna, dato alle stampe senza il nome dell’autore, ma adottato in tutti i
collegi della Compagnia di Gesù aperti nell’isola; dello stesso periodo sono
numerose operette — raccolte in quelli che lui definisce “libricini”
—, scritte ad uso didattico per gli allievi (9).
2. L’abbandono
della Compagnia di Gesù e l’entrata nell’Ordine dei Chierici Regolari
Nel 1814 il nuovo provinciale, padre Giuseppe Vulliet
(1779-1831), inizia un’opera di ristrutturazione e di riforma della Compagnia
con tale severità da suscitare perplessità e malcontento in molti. Per alcuni
padre Vulliet è uno sconsiderato vuol distruggere ciò che invece deve
conservare: “[…] la sua condotta [è] da principio attribuita
a una profonda e inesplicabile perversità; ma più tardi [viene] a
sapersi [che è] affetto semplicemente da follia” (10). In
realtà, il nuovo provinciale agisce “[…] con una energia forse
superiore alle esigenze del male” (11); così “[…] molti
dei sofferenti non [reggono] più. Fra questi il Ventura, il quale, il 31
agosto di quello stesso 1817, [chiede] liberamente per sé la patente di
dimissione” (12).
Ventura lascia la Compagnia di Gesù senza aver
ricevuto gli ordini sacri e aver fatto la professione religiosa. Ma la sua
vocazione è sincera: non se ne va perché non sopporta la vita religiosa; egli
vuole diventare sacerdote regolare, come ha promesso a Dio e a Maria Santissima
(13). Decide quindi di diventare teatino, cioè membro dell’Ordine dei Chierici
Regolari, la congregazione fondata da san Gaetano di Thiene (1480-1547) e dal
vescovo di Chieti mons. Gian Pietro Carafa (1476-1559), papa dal 1555 con il
nome di Paolo IV, “[…] le cui costituzioni erano più conformi a’
bisogni del suo spirito” (14). Il 31 maggio 1818, dopo sette mesi di
noviziato, nella casa di San Giuseppe, a Palermo, egli fa la professione
religiosa solenne. Compie poi in pochi mesi la restante parte degli studi
teologici e, nello stesso anno, è ordinato sacerdote “[…] incominciando
ben presto a sfoggiare le sue eccezionali doti oratorie dal pulpito del
magnifico tempio di S. Giuseppe” (15).
3. Segretario
generale dell’Ordine dei teatini e i rapporti con il principe di Canosa
Nei primi mesi del 1819, Ventura viene trasferito a
Napoli, dove gli è affidato l’incarico di istruire i novizi. Il padre generale
dei teatini, apprezzandone le doti, lo vuole accanto a sé nel ruolo di
segretario generale dell’Ordine, nel delicato momento di restaurazione della
congregazione nel Regno delle Due Sicilie (1816-1861), in applicazione del
Concordato del 1818, stipulato tra la Santa Sede e la Corte borbonica.
Scoppiata la rivoluzione nel 1820, Ventura si schiera
a difesa degli ordini religiosi minacciati dalla legislazione propugnata dalla
setta carbonara, dando alle stampe l’opuscolo Decisione del giornale
costituzionale sopra de’ Regolari riesaminata al tribunale del buon senso
(16), più conosciuto con il titolo della seconda edizione, Considerazioni
sopra gli ordini regolari dettate dalle attuali circostanze (17), un
capolavoro “[…] di logica, di eloquenza, di finezza e
d’erudizione” (18).
Sedata la rivolta con l’intervento dell’esercito
austriaco, stabilito dalla Santa Alleanza al congresso di Lubiana in Slovenia
del gennaio 1821, il teatino, che conosce un gran numero di rivoluzionari — di
cui possedeva documentazioni, attestati di benemerenza di varia natura, libri
recanti la firma del proprietario, dagli stessi a lui consegnati nel timore che
cadessero nelle mani dei gendarmi — si rifiuta di rivelarne i nomi al principe
di Canosa, ministro di Polizia borbonico, trincerandosi dietro il segreto del
confessionale (19). Avvicinato nuovamente dal principe di Canosa, che gli offre
il posto di storiografo di corte e la direzione del Giornale officiale delRegno delle Due Sicilie, il teatino declina le proposte, ritenendole poco
confacenti alla sua veste di religioso. Accetta invece, tra il 1821 e il 1822,
alcuni ruoli di prestigio, diventando regio revisore delle stampe nazionali ed
estere, ispettore generale delle scuole primarie del regno e membro della
Giunta di Pubblica Istruzione (20).
4. La
fondazione dell’Enciclopedia ecclesiastica, e morale e l’attività
pubblicistica a Napoli
Il religioso palermitano, a Napoli, fonda il periodico
Enciclopedia ecclesiastica, e morale finanziato dal principe di
Canosa, il cui primo numero esce il 10 giugno 1821, con la finalità esclusiva
di propagandare i principi morali e religiosi, contrapposti all’utopismo
rivoluzionario (21). Ventura è convinto che le opinioni religiose hanno una
grande influenza sulle trasformazioni sociali, sulla determinazione delle forme
di governo e sui costumi e la moralità dei popoli (22) e che solo la religione
può formare quegli uomini virtuosi di cui, nella tristezza dei tempi, gli Stati
avvertono la necessità; l’amore patrio, la sottomissione alle leggi, il
rispetto dell’autorità, la rinuncia del bene privato a vantaggio di quello
pubblico non sono che dei corollari di una vita religiosamente vissuta, unica
capace di inibire le passioni sovvertitrici dell’ordine sociale (23).
Infatti, proprio nel primo fascicolo dell’Enciclopedia
ecclesiastica, e morale, Ventura, come il
visconte Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald (1754-1840), delle cui opere è
attento studioso, ravvisa la genesi dei princìpi che hanno determinato la
Rivoluzione francese nella Riforma protestante e nella graduale diffusione
della cultura razionalistica e libertina, che hanno a mano a mano corrotto i
ceti sociali, fino a coinvolgere coloro che avrebbero dovuto governare con
moralità e giustizia (24). Sul foglio partenopeo, il pensatore siciliano
individua i ministri di Stato europei responsabili, con i loro atti di governo,
del degrado della vita sociale e religiosa: il ministro degli Affari Esteri
francese étienne-François, duca di Choiseul (1719-1785), il primo ministro
portoghese Sebastiaõ José de Carvalho e Melo marchese di Pombal (1699-1782), il
capo di governo spagnolo Pedro Pablo Arbaca de Bolea, conte di Aranda
(1719-1798); il marchese Guillaume Léon du Tillot di Felino (1711-1774),
ministro del ducato di Parma e Piacenza; e il cancelliere austriaco Wenzel
Anton von Kaunitz-Rietberg (1711-1794) (25). Costoro “[…] avvedutamente
renduti Ministri di iniquità” (26),hanno privato “[…]
il trono […] degli antichi appoggi” (27), in particolare di
quello fornito dalla religione (28).
La corruzione della ragione e l’indifferenza nei
confronti della religione e della morale hanno generato delle vere e proprie
malattie dello spirito (29); e fra queste il cosiddetto “mal tricolore“
(30) — la “patologia” di coloro che si sono messi al seguito dello
stendardo esibito dai primi rivoluzionari e dai bonapartisti —, che non si è
diffuso inizialmente in Francia, come alcuni credono, ma, appunto, in Germania
due secoli prima, sebbene “[…] “sotto un carattere, e con
sintomi diversi”” (31), generando uno “[…] stato
di anarchia […] sanguinose guerre […] una falsa idea di
“sovranità del popolo” e […] un’altrettanto infondata idea
della “sovranità della ragione”” (32).
Nondimeno in Ventura sono subito manifesti i pensieri
che lo collocano in una posizione differente da quella di una semplice reazione
all’assolutismo che ha limitato la libertas Ecclesiae. La Restaurazione
ha mantenuto molte leggi e istituzioni delle stagioni del dispotismo illuminato
e del periodo napoleonico; ma non è sufficiente conservare quanto di positivo
la storia e la stratificazione sociale hanno prodotto e tramandato, bisogna
trasformare l’esistente, con la critica della mentalità rivoluzionaria e dei
postulati giurisdizionalistici e regalistici.
Così il teatino, sull’Enciclopedia ecclesiastica, e
morale, pone una distinzione tra la “[…] febbre
tricolore”, espressione di un falso amore per la propria patria, e il
vero amore di patria, che è il rimedio al patriottismo ingannatore, che
maschera particolarismi, volontà di dominare e di arricchirsi e di detenere il
potere politico; mali sociali, questi, derivati da decadimento morale, frutto
di false filosofie, di pregiudiziali scelte di parte, di mancanza di convinzioni
profonde, che portano all’accettazione di ogni novità (33).
Ventura non si limita alla semplice denuncia delle
“novità”. Il sacerdote palermitano, nella convinzione che, contro il
nocivo “[…] alito tricolore” (34), l’unico rimedio è il
ritorno ai sani principi morali e alla pratica religiosa (35), con grande
realismo, sempre dalle pagine dell’Enciclopedia, sostiene ogni
iniziativa che garantisca alla Chiesa maggiori spazi di libertà e, alla
struttura sociale, un ampliamento del suffragio popolare, a difesa della
religione e a sostegno della monarchia (36). Sul foglio napoletano egli elogia,
per esempio, le iniziative dei parlamentari francesi, in particolare quelle di
Marie-Louis-Auguste Demartin du Tyrac conte di Marcellus (1776-1841), che
auspica delle sovvenzioni a tutela delle opere ecclesiastiche e dei sacerdoti,
un ampliamento delle sedi vescovili, una libertà di stampa non assoluta, ma
rispettosa della religione e di quel senso morale così diffuso nella società
francese, una rappresentanza parlamentare non più basata sul censo, bensì
autenticamente popolare, perché è il popolo a stabilire la legittimità di una
monarchia (37).
Le tesi del combattivo nobile francese sono condivise
sia dal teatino sia dal principe di Canosa, in polemica contro il neo-assolutismo
della Restaurazione napoletana (38). E tuttavia ambedue non mancano di
approvare il decreto di Ferdinando IV di Napoli sulle “congregazioni di
spirito” — le associazioni cattoliche che si occupano dell’educazione
morale e religiosa dei giovani —, indubbiamente derivato dalle dottrine
giurisdizionalistiche, che, presso la Corte partenopea, godono ancora di grande
credito. Infatti, il decreto, pubblicato sull’Enciclopedia ecclesiastica, e
morale, assegna alla Chiesa questa azione formativa nel contesto della
pubblica istruzione, ma, in base al Concordato del 1818, sotto il rigido
controllo dello Stato, che fissa una serie di norme da osservare, fra le quali
l’obbligo di istituire le “congregazioni di spirito” in ogni diocesi,
l’istruzione impartita nei giorni festivi con l’obbligo per i maestri di
portare alle funzioni religiose gli alunni. Tale subordinazione allo Stato è di
tutta evidenza, poiché i vescovi devono giurare fedeltà al Sovrano e allo
Stato, pur nell’assicurazione, ai sensi del Concordato, che i beni della Chiesa
non possono essere espropriati (39).
Ventura poi mette in evidenza come la rivoluzione del
1789 e quella napoletana del 1820 hanno alla base gli stessi princìpi
ispiratori, idee “[…] mutuate dalle nozioni roussoviane di
“volontà generale” intesa come ” volontà della nazione”,
come “volontà del popolo”” (40).
Ora, per il teatino, la “volontà del popolo”
può essere positivamente considerata solo se esaminata non astrattamente, ma
“[…] correttamente, nel riferimento, cioè, alla complessa realtà delle
articolazioni della “società civile”” (41). Egli precisa
come i termini di nazione e di popolo abbiano perso il loro autentico
significato. Infatti essi non stanno più ad indicare i cittadini nel loro
insieme e una “società politica”, intesa come un’unica famiglia, ma
solo un gruppo di individui, i cui pensieri politici sono delittuosi perché
contrari ai principi che dovrebbero assicurare la felicità delle persone. E le
rivoluzioni, continua il sacerdote siciliano, non scaturiscono mai da una
presunta “volontà generale”, ma dalle cospirazioni attuate da “[…]
“volontà particolari” di un branco uomini”
(42), che sanno affascinare parte del popolo, rendendolo strumento per
raggiungere fini particolari, contrari al bene comune, incapaci come sono, i
rivoluzionari, di garantire alla popolazione il pane, l’ordine sociale e la
pace religiosa (43).
Seguendo il conte savoiardo Joseph de Maistre
(1753-1821) e de Bonald, anche Ventura, nella polemica contro i liberali e gli
intellettuali più estremisti, pregiudizialmente contrari a ogni forma di
religiosità, fa presente come persino Maximilien-François-Marie-Isidore de
Robespierre (1758-1794) e Napoleone Bonaparte (1769-1821), pur essendo dei
despoti, abbiano ascoltato, anche se per convenienza politica, la nazione e il
popolo, non frustrandone del tutto il sentimento religioso e resistendo alle
richieste di scristianizzazione avanzata da altri rivoluzionari più radicali.
Il primo, “[…] il mostro [che] si arrese” (44),
considerata l’importanza sociale della religione e timoroso della vera
“volontà generale” della Francia, evocando la nozione di Divinità per
riempire il vuoto generato nei cuori dall’ateismo regolato dalla legge, anche
se, in seguito, la falsa “volontà generale” ha imposto il bizzarro
culto dell’Essere Supremo; il secondo, invece, ritenendo prudenzialmente
conveniente riconoscere nella religione la vera “volontà generale”
dell’intera nazione e assicurando la libertà di essere e di professarsi
cristiani (45).
Relativamente ai princìpi cardine della Rivoluzione
francese, Ventura, ancora sullo stesso numero del foglio napoletano, nella
rubrica Costume pubblico, analizza e commenta, con un articolo dal
titolo Vizj sociali. Gl’Intriganti, i concetti di uguaglianza e di
libertà, denunciando, in primis, la falsa uguaglianza propugnata dai
rivoluzionari, i quali, abolendo le distinzioni e i ruoli di ceto, non hanno
fatto altro che trasmettere a altro gruppo sociale i posti-chiave del potere,
senza nel contempo introdurre dei meccanismi per favorire un avanzamento
sociale per effettivo merito (46). E, facendo eco alla riflessione del politico
anglo-irlandese Edmund Burke (1729-1797), il sacerdote palermitano non manca di
sottolineare come i liberali, che pure si sono proclamati difensori dei principi
di eguaglianza, si comportino da monarchi assoluti, i quali, per meglio
controllare lo Stato, conferiscono a delle persone fidate, ma soprattutto
fedeli, gli incarichi di maggior prestigio, mortificando in tal modo le
migliori competenze e le capacità di svolgere determinate funzioni sociali
(47), determinando “[…] improvvisi cambiamenti di status
dei più accesi, dei più decisi e violenti” (48).
In realtà, per Ventura non è possibile assicurare una
vera uguaglianza in politica, poiché differenti sono gli individui fra di loro,
come lo sono gli stessi gruppi sociali, e diversi, inoltre, sono i periodi
storici in cui l’esercizio politico viene svolto. Non si deve, quindi, a suo
dire, confondere l’uguaglianza di natura e di diritto, con la possibilità,
spesso reclamata da gruppi politici in malafede, di giungere a svolgere alte
funzioni pubbliche, senza possedere i talenti necessari. Questa è un’uguaglianza
irreale, sostanzialmente un dogma, al quale i politici fingono di credere; e se
non può esser la politica a creare le condizioni reali di uguaglianza, essa
tuttavia deve regolarle (49). La vera uguaglianza non può che essere la
conseguenza di un “[…] eguagliamento, come educazione e
disciplina delle pulsioni esclusive” (50), di un mutamento “[…]
non naturalisticamente inteso, ma come risultato di un processo di
socializzazione e incivilimento” (51), senza prefiggersi il
raggiungimento di un’uguaglianza assoluta, di per sé ingiusta. È questa “[…]
l’unica via da seguire per costruire una “società civile””
(52), nella quale è possibile l’esercizio della vera libertà, che porta
all’armonizzazione delle condizioni sociali, e non all’incessante rifacimento della
società. La Rivoluzione francese e quella napoletana non sono state che il
mezzo attraverso il quale un gruppo sociale ha cercato di ottenere un potere
incondizionato quanto quello esercitato dalle monarchie assolute (53).
Notevole è il successo dei fascicoli bimestrali dell’Enciclopedia
ecclesiastica, e morale. L’iniziativa editoriale, tuttavia, termina quando
a essa viene a mancare l’appoggio del principe di Canosa, esautorato dal
governo di Luigi de’ Medici, principe di Ottaiano e duca di Sarno (1759-1830),
anche per le pressioni della diplomazia austriaca, che vuole imporre il nuovo
corso dell’”amalgama” fra legittimisti e murattiani, al quale il
principe è contrario, salvaguardando la razionalizzazione e l’accentramento
statale, iniziato, prima della Rivoluzione, dai governi illuminati e continuato
nel periodo napoleonico.
Nello stesso tempo, Ventura si fa promotore della
divulgazione nella Penisola delle opere dei contro-rivoluzionari francesi,
facendo tradurre e stampare, nel 1823, il Du Pape (54)di de
Maistre, corredandolo di proprie annotazioni, e i primi due volumi dell’Essai
sur l’indifférence en matière de religion (55)del sacerdote
francese Hugues-Félicité Robert de Lamennais (1782-1854), che incontra la prima
volta a Napoli, con il quale poi ha rapporti epistolari e stringe una
temporanea amicizia. Scrive poi un saggio sulle opere di de Bonald, inserito
nella traduzione italiana della La législation primitive considérée
dans les derniers temps par les seules lumières de la raison
(56) del visconte francese.
Nel periodo napoletano, pur impegnato nella polemica
ideologico-politica, il teatino non trascura l’esercizio dell’eloquenza, specie
negli elogi funebri dai pergami delle chiese partenopee, tanto da meritarsi il
titolo di “[…] Bossuet italiano” (57). Celebri sono le
commemorazioni di papa Pio VII; di Niccolò Fergola (1753-1824), insigne
matematico napoletano; di Domenico Cotugno (1736-1822), medico della Casa
reale; di Anna Maria Ruffo, principessa di Pettoranello (1775-1823); di Trojano
Marulli, duca di Ascoli Satriano (1759-1823) e di Francesco Maria Statella e
Napoli, principe di Cassaro (1758-1823).
Alcune orazioni — veri modelli di sacra eloquenza —
sono apprezzate anche fuori del Regno, tant’è che vengono stampate a Milano e a
Lucca e hanno traduzioni nelle principali lingue europee, non trattandosi di
una retorica fine a se stessa o di circostanza. Ventura, infatti, sa trarre
dalla vita degli illustri personaggi esempi per far risaltare “[…] la
verità, la santità, l’utilità, l’efficacia, le bellezze del Cristianesimo e
d’inculcare que’ grandi principi d’ordine, che costituiscono il vero bisogno
degli spiriti e il sostegno della società” (58).
5. Ventura e il
pensiero di de Bonald
Il pensiero di Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald influenza
pure la critica che Ventura sviluppa nei confronti della Restaurazione,
partendo dalla preliminare distinzione di alcuni ambiti, che comunque si
trovano in rapporto di interazione: la “società religiosa”, afferente
alla sfera spirituale, dell’etica e dei valori; la “società
politica”, appartenente a quella dell’implementazione storica di quel
sistema di valori religiosi e morali; la “società civile”, quale
conseguenza del rapporto fra le prime due (59).
Per il teatino, la “società civile” formatasi
nel Medioevo si caratterizzava per una configurazione istituzionale
gerarchizzata e molto complessa, per la molteplicità, l’organicità dei corpi
sociali e per le responsabilità differenziate, in un sistema rappresentativo
antesignano dello Stato parlamentare: “Ogni Stato, ogni popolo, ogni
nazione avea una costituzione a sé, avea diritti, privilegi, ed una
rappresentanza nazionale incaricata di garantirla da ogni oppressione e di
tutelarne gl’interessi e la libertà. Gli Stati di Alemagna e del nord aveano le
Diete, l’Inghilterra il Parlamento, la Francia gli Stati generali, la Spagna e
il Portogallo le Cortes, La Sardegna gli Stamienti, il regno di Napoli i
Sedili, la Sicilia il Parlamento, il più antico forse di tutti i Parlamenti di
Europa” (60). L’assolutismo ha distrutto questa “società
civile”. Per ripristinarla occorre una vera e propria rivoluzione,
differente da quella giacobina, la quale è stata una conseguenza dello stato di
malattia della società assolutistica, originato dall’inoculazione di tossine,
cioè di elementi strutturali estranei, nel tessuto sociale (61).
Anche per il teatino, che sostanzialmente riprende le
convinzioni di de Maistre e di de Bonald, la Rivoluzione ha fatto crollare le
mura dell’edificio assolutistico, ma ha lasciato comunque in evidenza le
fondamenta della città medievale, sulle quali si deve avviare la restaurazione
vera (62).
Ventura, poi, elabora un proprio singolare pensiero,
seppur mutuato dalla riflessione bonaldiana sull’”obbedienza attiva”
e sulla “resistenza passiva”, “[…] per mettere in luce
come la religione debba essere considerata come il vero limite sostanziale del
potere: essa infatti impegna il cristiano ad un continuo riscontro della
legittimità dei provvedimenti e dei comandi del governo” (63).
Partendo da quest’ultima, egli perviene a distinguere l’”obbedienza
attiva” dall’”obbedienza passiva”: “[…] la prima
è propria di ogni essere intellettualmente libero e si esprime nella
disposizione ad eseguire con animo pronto i comandi che si riferiscono ai fini
legittimi; l’obbedienza passiva caratterizza chi si comporta meccanicamente,
chi opera come mero strumento senza alcuna valutazione di ciò che gli si chiede
di fare, se sia disonesto o immorale, se sia legittimo o no. L’obbedienza
attiva, che implica invece un atteggiamento vigile nei confronti del potere,
trova il suo naturale complemento nella resistenza passiva, cioè nel rifiuto di
obbedire ai provvedimenti che ledono il diritto divino, naturale e positivo,
senza peraltro assumere alcuna iniziativa che sia direttamente rivolta contro
il potere” (64). Dalle prime riflessioni sull’opera del visconte
francese e dagli studi tomistici che ha intrapreso, Ventura fa derivare
quell’idea di democrazia che lo accompagnerà nel corso della sua vita e che in
un primo tempo gli sembra semplicemente “[…] una forma politica
d’origine pagana e di legittimazione protestante” (65).
Il sacerdote siciliano, fra il 1824 e il 1825, giunge
gradualmente alla convinzione del fallimento completo della Restaurazione,
segnata dalla numerose rivolte sociali e dell’inefficacia, se non
dell’inutilità, del controllo poliziesco. Occorre, a suo parere, intraprendere
un’opera di propaganda, di ricostruzione delle coscienze, attraverso una
educazione ai valori, anche diffondendo la buona stampa, perché la sola opera
repressiva, applicata dai regimi restaurati, ha reso le persone insensibili ai
valori morali e politici, diffondendo sfiducia e indifferenza, lasciando campo
libero al nuovo dispotismo di oligarchie che “[…] non hanno
trovato alcuna difficoltà a riempire il vuoto politico lasciato dalla
sparizione di una “società civile”, sostituendovi finalità
materialistiche, egoistiche, tipiche di ogni regresso da una società evoluta a
una “società naturale”, in realtà alla dimensione privatistica, del
puro e semplice interesse personale.[…] un ritorno alla legge di
natura del più forte, ora del più spregiudicato e del più arrivista, a
qualsiasi prezzo e con qualsiasi mezzo” (66).
Nonostante ciò, Ventura vede nella Rivoluzione, anche
sulle orme del pensiero di de Maistre e di de Bonald, “[…] una
crisi salutare, uno stato febbrile necessario al corpo sociale per recuperare
la sua salute” (67). Scartata, perché di per sé insufficiente, la
semplice contrapposizione ideologica alle forze rivoluzionarie e alla
Restaurazione neoregalistica, considerata improponibile una sollevazione
armata, come invece è avvenuto al tempo della grande insorgenza del 1799,
Ventura, a partire dal settembre 1825, privilegia un’opera di propaganda
finalizzata all’attuazione di una “rivoluzione morale” e alla
riaffermazione dei valori autentici del cristianesimo, unici a poter liberare
l’uomo dalla tirannia liberale e dal dispotismo: queste le linee fondamentali
per poter rifondare la “società civile”medioevale, da attuare
in forme e modalità nuove (68).
La riscossa propagandistica, constata il religioso
palermitano, è già in atto in altri luoghi d’Italia: “[…] in tre
delle più cospicue città cominciarono quasi allo stesso tempo a comparire tre
giornali, dettati dal medesimo zelo, e tendenti allo scopo medesimo, di
propagare le verità sante, divenute oggi il vero bisogno de’ popoli e della
società: cioè l’”Enciclopedia ecclesiastica” in Napoli, l’”Amico
d’Italia” in Torino, le “Memorie di religione, di morale e di
letteratura” in Modena” (69).
6.
Collaboratore del Giornale ecclesiastico di Roma e preposito generale dell’Ordine dei Chierici Regolari
Nel giugno1824, Ventura è nominato procuratore
generale dei teatini, e, prima di trasferirsi a Roma, si reca a Palermo per una
visita ai famigliari (70). Qui, si ammala e si ferma per un lungo periodo,
durante il quale porta a termine una feconda opera di apostolato, convincendo
numerosi giovani ad abbracciare la vita religiosa del suo ordine (71). Giunto
nell’Urbe nel gennaio 1825, il teatino viene subito chiamato a collaborare al Giornale
ecclesiastico di Roma — il foglio che, uscito con il primo numero il 2
luglio 1785 (72) e poi soppresso nel 1798, ha da poco ripreso le pubblicazioni
per volontà di papa Leone XII (1823-1829) (73) —, sul quale, in breve tempo,
eserciterà, in collaborazione l’empolese monsignor Giovanni Marchetti
(1753-1828), una forma di controllo sugli argomenti trattati e sull’indirizzo
politico (74).
Inizia per Ventura una nuova stagione d’intensa
attività pubblicistica di contenuto apologetico e politico, ma anche di
consigliere spirituale, di consulente teologico, di membro della commissione
per la censura dei libri (75); una serie di gravosi impegni finalizzati alla
ricostruzione morale della società, di cui il giornale romano si fa promotore,
illustrando i princìpi ai quali essa deve essere ricondotta.
In un suo contributo, dal titolo Saggio sul potere
pubblico (76), partendo dalle considerazioni di de Bonald e di Karl Ludwig
von Haller (1768-1854), l’autore de La restaurazione della scienza politica
(77), Ventura, dopo aver precisato in via preliminare che il potere risiede in
Dio e che da Dio stesso deriva ogni potere (78), definisce legittimo il sistema
di governo che rispetta e assicura la continuità, cioè la conservazione delle
finalità, dei principi fondativi della società politica, che, pur nella loro
declinazione in una molteplicità di organi istituzionali, sono posti alla base
del patto sociale. La variazione di una forma di governo, poi, è di per sé
legittima ogni qual volta la natura del patto costitutivo ne richieda una
modificazione a beneficio dei fondatori (79).
A sostegno delle proprie convinzioni, Ventura presenta
l’esperienza della Roma repubblicana delle origini, riproponendo il ruolo del
Senato nell’indicare il detentore del potere, in una società basata sul
riconoscimento di chi governa da parte del popolo, con un sistema elettivo
quale soluzione migliore per determinare colui che deve esercitare il potere
stesso (80). In questa prospettiva il nuovo potere, scaturito dalla conquista
dello Stato da parte di una potenza straniera o per usurpazione a opera di un
singolo soggetto, può diventare legittimo se vi è “[…] la
volontà tacita del legittimo possessor del Potere” (81), che riconosce
il rispetto del principio etico fondativo del patto, cioè l’esercizio del
potere a vantaggio del popolo. Concetti, questi, che egli illustra anche nel
suo Commentaria de jure publico ecclesiastico (82), frutto delle sue
lezioni all’Università La Sapienza — il Papa, nel 1825, lo ha nominato
professore di Diritto Pubblico Ecclesiastico —, in cui è appunto trattato il
tema dei fondamenti della società e delle leggi che la devono sorreggere. Le
sue tesi trovano molti oppositori, sia fra i sostenitori dei sovrani della
Restaurazione, sia presso i liberali del costituzionalismo monarchico, che non
possono assecondare l’idea di una distribuzione di parti del potere ai
rappresentanti dei corpi sociali, a svantaggio quindi dei gestori di
un’amministrazione statale burocratica, che è diritto esclusivo del nuovo
gruppo sociale ormai insediato ai vertici dello Stato.
Il teatino, fra molte esitazioni, dubbi,
indeterminatezze espressive, avanza la proposta di estendere anche allo Stato
Pontificio l’applicazione delle idee del Saggi sul potere pubblico,
suscitando reazioni nella Curia, che vede in ciò una qualche limitazione del
potere papale a opera del collegio cardinalizio (83). Ma non è questo il
pensiero di Ventura, perché forte è in lui, come in de Maistre, la certezza che
lo Stato della Chiesa non è una monarchia elettiva: “[…] il Papa
rappresenta lui stesso l’erede del “Fondatore della Chiesa”, del
quale va […] considerato come l’unico esecutore testamentario, e come
tale non necessitante di alcuna altra legittimazione politica che questo
originario legato” (84). Tuttavia, preso atto di tali contrasti, il
religioso palermitano si dimette dagli incarichi di insegnamento e dagli “[…]
onorevoli incarichi di teologo collegiale e di maestro di spirito”
(85).
Continua invece la collaborazione al Giornale
ecclesiastico di Roma, sul quale Ventura, nei suoi numerosi contributi,
esalta l’opera di civilizzazione fatta dalla Francia (86) — “[…] strumento
di mediazione tra l’autorità dei pontefici, potere supremo nella cristianità, e
popoli civilizzati dalla Chiesa” (87)— e riflette sull’origine
della decadenza del senso religioso, ravvisandone la causa prima nella
rivoluzione protestante e nella cultura illuministica e proponendo, quale
rimedio, il ritorno ai saldi postulati etici e politici del cattolicesimo (88).
Le considerazioni del religioso siciliano, scritte con
linguaggio chiaro, ma alieno da ogni galateo diplomatico e non disgiunto, a
volte, da tesi apocalittiche, non sono “[…] le più adatte a
favorire l’adesione aperta delle supreme autorità ecclesiastiche ad una
battaglia sui cui obiettivi molti pur concordavano, non escluso lo stesso Leone
XII” (89). Austria e Francia invece intervengono direttamente per far
cessare la pubblicazione di altri saggi di Ventura. A Parigi è vietata la
diffusione del Giornale ecclesiastico di Roma, mentre da Vienna Klemens
Lothar Wenzel, principe di Metternich (1773-1859), protesta per la volontà
manifestata dal Papa di emanare un documento contro quei vescovi di tendenze
gallicane e giansenistiche favorevoli ad una maggiore autonomia da Roma e
fedeli ai regimi politici in vigore nei propri Paesi (90). Leone XII cede
malvolentieri alle pressioni diplomatiche e la segreteria di Stato proibisce la
continuazione della pubblicazione del Giornale ecclesiastico di Roma
(91).
Libero degli impegni d’insegnamento e cessata
l’attività di controllo sul foglio romano, il religioso siciliano non si
sottrae ad altri servizi in favore della Santa Sede, facendosi, per esempio,
promotore della firma del Concordato fra Santa Sede e Ducato di Modena (92), le
cui trattative erano da tempo arenate. Coglie inoltre l’occasione di questa
diminuzione degli impegni per intensificare l’attività di studio e di
pubblicista: nel 1829 dà alle stampe il De methodo philosophandi (93),
dedicato al visconte François-René de Chateaubriand (1768-1848), Le
osservazioni sulle dottrine dei signori de Bonald, de Maistre, de La Mennais e
Laurentie (94), gli Schiarimenti sulla quistione del fondamento della
certezza tratti da’ princìpi della scuola tomistica (95), opere finalizzate
alla “[…] rivitalizzazione della tradizione filosofica cristiana
e [alla] confutazione degli errori del pensiero moderno, che egli
individua soprattutto nel suo tentativo di secolarizzazione” (96). In
esse è esposto il suo convincimento che la sola ragione non possa giungere alla
comprensione della realtà creata; tutte le conoscenze — anche le più alte,
quali la nozione di Dio e la legge morale — sono il frutto di una rivelazione
primitiva, fatta dal Creatore ai primi uomini e compiutamente espressa da Gesù
Cristo. Questo sapere è trasmesso alle generazioni attraverso la tradizione e
il linguaggio, che, essendo inscindibile dal pensiero, non è di origine umana
ma, pur esso, dono di Dio (97). Il teatino viene quindi a schierarsi con la
scuola del tradizionalismo francese, interpretato come “[…] se
fosse in assoluta coerenza e continuità con le tesi di Tommaso d’Aquino,
Agostino e dei Padri della Chiesa” (98). In seguito, durante il suo
esilio francese, egli avrebbe ripreso e approfondito questi temi, polemizzando
con i tomisti, cultori della filosofia del senso comune, accusandoli di essere
“[…] semi-razionalisti, pelagiani, di utilizzare Platone
[428-427-348-347 a. C.] e Aristotele per intendere il Logos“
(99).In effetti, Ventura intende il tomismo non come lo si sarebbe
compreso dopo il rilancio dello stesso a opera di Leone XIII — con l’enciclica Aeterni
Patris del 4 agosto 1879 —, ma come lo si concepiva nella prima metà
dell’Ottocento, quando, dopo quasi due secoli di cartesianesimo, “[…]
vi era grande diffidenza verso il pensiero di Tommaso, anche nelle scuole
cattoliche” (100).
Nello stesso periodo, il Duca di Modena Francesco IV
(1779-1846), inoltra a Pio VIII (1829-1830) la richiesta di nominare il
polemista palermitano vescovo di quella città. Il Pontefice vuole invece
trattenerlo in Roma, dove, nel febbraio 1830, il Capitolo dell’Ordine dei
Chierici Regolari lo elegge preposito generale (101).
7. I rapporti
con Lamennais
Con la fondazione del giornale L’Avenir,l’appoggio
nel 1830 alla Monarchia di Luglio di Luigi Filippo d’Orléans (1773-1850) e la
pubblicazione del saggio Des progrès de la Révolution et de la guerre contre
l’Église (102), Lamennais dà corso alla propria svolta in senso liberale.
Ventura non segue il bretone nella sua deriva ideologica, pur adoperandosi con
successo per far riconoscere dalla Santa Sede e dal Regno delle Due Sicilie la
Monarchia di Luglio, considerata un dato di fatto cui doversi adeguare per
evitare mali peggiori.
Nel febbraio 1831, La Gazette de France
pubblica una lettera aperta del teatino ai redattori de L’Avenir, in cui
l’invitava a difendere la vera causa cattolica e a non avallare ogni
rivoluzione presentandola come alleata della religione; essi, così facendo,
cadono nell’eccesso contrario a quello che rimproverano ai gallicani, che, come
Lamennais va ripetendo, fanno della religione un alleato del dispotismo.
Ventura, poi, è della convinzione che far coincidere la sovranità sic et
simpliciter con il popolo significa distruggere la sovranità stessa; la
massa, a suo dire, non può essere sovrana nello Stato (103), quanto non lo sono
“[…] i figli […] nella famiglia, i fedeli nella
Chiesa” (104). La democrazia di Lamennais, per il sacerdote siciliano,
non è che una spiacevole conseguenza delle guerre di religione: essa
sostanzialmente introduce i germi del protestantesimo nello Stato, così come la
Riforma luterana ha cercato di inserire la democrazia nella Chiesa. I conflitti
per motivi religiosi hanno relativizzato sia la politica, sia la religione,
portando a ritenere giusti sia il potere di una sola persona che quello gestito
da molti (105), essendo tali potestà totalmente svincolate da ogni principio
spirituale superiore “[…] cioè la fede , questa legge che è
l’unico legame il quale unisce e mette in armonia fra loro le
intelligenze” (106).
Un altro motivo di contrasto con L’Avenir è la
disapprovazione, esplicitata da Ventura nella lettera aperta, della rivolta
scoppiata in Belgio fra il 1830 e il 1831, che invece godeva dell’appoggio
della quasi totalità cattolici (107), poiché essa mirava al distacco
dall’Olanda protestante. Il pensatore siciliano fa presente che il nuovo
congresso belga, egemonizzato dai liberali, sta adottando leggi che ostacolano
la libertà della Chiesa; pertanto, Ventura si chiede se valga la pena liberarsi
dal “[…] dispotismo calvinista solo per cadere nel dispotismo ateo”
(108).
Lamennais, fortemente risentito per i rilievi fatti,
risponde al padre teatino con una nota, “[…] la più acrimoniosa
e insolente contra il P. Ventura” (109), pubblicata su L’Avenir del
12 febbraio 1831. Il bretone, infatti, dopo aver puntigliosamente evidenziato
che l’idea venturiana di sovranità, attinta dagli scritti dei Padri, di san
Tommaso e di Francisco Suarez S.J. (1548-1617), è da lui condivisa, gli
rinfaccia d’essersi servito di un foglio d’orientamento gallicano per sferrare
contro L’Avenir un violento attacco, infarcito di insinuazioni
ingiuriose, di interpretazioni malevole, false e violente fino all’oltraggio,
di lugubri parole e di desolanti congetture (110). Il superiore teatino
comunque colpisce nel segno, perché la sua lettera aperta anticipa, nella
sostanza, il contenuto dell’enciclica Mirari vos, con la quale Gregorio
XVI (1831-1846), il 15 agosto 1832, avrebbe condannato il liberalismo,
determinando una prima rottura con il sacerdote francese (111).
L’anno successivo, comunque, i due si sono già
chiariti e riappacificati. Infatti, nei primi mesi del 1832, Lamennais è ospite
della casa teatina di sant’Andrea della Valle a Roma e, con Jean-Baptiste Henri
Lacordaire O.P. (1802-1861) e Charles de Montalembert (1810-1870) e Ventura stesso,
è ricevuto Gregorio XVI, al quale pensa di poter illustrare le proprie teorie
“liberali”. In realtà si tratta di un incontro “[…] prettamente
formale: nessun accenno all’affare per cui erano a Roma” (112).
Ventura si sente in dovere di svolgere quest’opera di
mediazione, in quanto egli, con il barnabita card. Luigi Lambruschini
(1776-1854), il gesuita padre Jean Louis de Rozaven (1772-1851), il sacerdote
modenese don Giuseppe Baraldi (1778-1832), monsignor Luigi Frezza (1783-1837),
vescovo di Terracina, Sezze e Piperno, nel Lazio, e il padre conventuale
romagnolo Antonio Francesco Orioli (1778-1852), fa parte di quel ristretto
numero di studiosi che su disposizione di papa Cappellari deve esprimere un
parere sul pensiero del polemista francese (113). Il teatino si dedica
all’incarico avuto dal Pontefice con grande impegno e, nella sua relazione
conclusiva, riconosce preliminarmente gli errori di Lamennais, ma pure
sottolinea che ne L’Avenir può essere rintracciato “[…] un
nucleo di verità fra tante posizioni effimere o false” (114). Pertanto
il Papa, secondo il sacerdote siciliano, dovrebbe apprezzarlo, perché puntuale
e chiara è la sua denuncia del gallicanesimo, che opprime la Chiesa, rendendola
vassalla del potere politico (115). È noto infatti come il bretone combatta per
favorire la “[…] comunicazione del clero con la S. Sede; [abrogare]
i “placet”, gli “exequatur”, i veti dei governi sovrani sui
documenti pontifici, come sulle scelte del Conclave;[l’]abolizione di
ogni intervento dello Stato sulla elezione dei vescovi” (116). Inoltre
Ventura fa presente l’opportunità di adottare verso Lamennais un comportamento
molto prudente e non di rottura definitiva, consigliando di adottare questi
accorgimenti “[…] a) accoglienza benevola; b) chiarezza nel rilevare
gli errori ma lealtà nel riconoscerne i meriti; c) non rilasciare per scritto
nessuna approvazione anche delle dottrine più ortodosse, perché non se ne possa
abusare estendendole ad altre dottrine; d) si nomini una commissione per
l’esame; c) riservare al S.to Padre la definitiva decisione da prendere”
(117).
Lamennais, che è ospite dei teatini nella casa
generalizia di Roma e a Frascati (Roma) (118), apprende proprio da Ventura — il
quale invano cerca di “[…] calmarlo e addolcirlo” (119)—,che le sue teorie liberali sono state respinte dalla commissione
pontificia istituita per esaminarle.
Pubblicata la Mirari vos, Ventura cade in
disgrazia, perché molti prelati pensano che egli condivida le idee del
sacerdote francese. Egli è costretto a lasciare l’incarico di preposito
generale dei Teatini su invito del cardinale Bartolomeo Pacca (1756-1844), ma
solo dopo aver fatto eleggere il suo successore, padre Giovanni Laviosa, il
quale, nel mese di agosto del 1833, gli ordina di lasciare Roma.
Ventura si ritira a Modena presso il conte Girolamo
Riccini (?-1865), la cui moglie, Ferdinanda Montanari, aveva curato la
traduzione l’Essai sur l’indifférence en matière de religion e la Défense
de l’Essai sur l’indifférence (120)di Lamennais (121).
Da questa sede, nell’ottobre 1833, l’ex generale
dei teatini invia al Pontefice una nota in cui professa di non essere contrario
al contenuto dottrinale dell’enciclica e di non essersi mai pronunciato contro
il potere temporale, temendo invece le conseguenze di un pronunciamento così
grave e solenne, le cui avvisaglie già sono apparse sui giornali, con una
grande confusione delle idee, a danno soprattutto della gioventù (122).
Ricevuta da Lamennais la comunicazione del suo definitivo abbandono del
cattolicesimo — i due intrattenevano relazioni epistolari dal 1821 (123) —, il
teatino, ritenendo la querelle conchiusa, pensa di poter rientrare a
Roma e, al riguardo, inoltra al Papa la richiesta, che viene subito accolta ed
è seguita anche dalla concessione di una udienza privata (124). In ogni caso, da
quel momento egli interrompe ogni contatto epistolare con la Francia e si
ritira nel silenzio, quasi “[…] un esilio dal mondo
ufficiale” (125), avvertendo in sé un forte desiderio di ribellione
mitigato dalla grande fede (126), ma, comunque, avvicinandosi “[…] mente
e cuore, alla Cattedra di Pietro” (127).
Il distacco del teatino dal gruppo francese de L’Avenir
è poi definitivo, quando, con grande tempestività, Gregorio XVI, il 25 giugno
1834, promulga l’enciclica Singulari nos, che condanna l’opera di Lamennais
le Paroles d’un croyant (128), uscita in Francia il 30 aprile 1834.
Ventura, poiché circolano negli ambienti della Curia delle voci relative a sue
presunte critiche alle due encicliche di condanna del pensiero del sacerdote
bretone, sollecitato dal cardinale Pacca, invia una dichiarazione al Pontefice
in cui, a scanso di equivoci, chiarisce il suo pensiero sulla vicenda.
Dichiarato di non aver letto tutto il libro, ma che, comunque, quanto letto gli
basta per non approvarne la pubblicazione, egli esplicita tutto il suo
dispiacere per il dolore che il Lamennais sta arrecando a Sua Santità. Fa
notare di non condividere nemmeno l’ispirazione filosofica dell’ultimo volume
lamennaisiano, non essendo possibile inserirlo nel contesto di un pensiero di matrice
tomistica o comunque scolastica; critica inoltre la presa di posizione degli
spagnoli, raggruppati attorno al partito carlista, estremamente polemici nei
confronti del bretone. In ogni caso, egli, fin dal dicembre 1833, ha interrotto
ogni genere di rapporto con il pensatore francese. Professa, infine, la sua
sottomissione e l’obbedienza alla Sede Apostolica, nelle quali è sempre vissuto
e nelle quali desidera e spera di morire (129).
Amareggiato e deluso per le voci diffuse sulla
vicenda, Ventura si convince che le dottrine de L’Avenir siano da
approfondite dal punto di vista teologico (130)e decide di tornare a
occuparsi di tematiche prettamente religioso-apologetiche, educative e
formative (131). Oltre a continuare la predicazione nelle chiese romane, egli
pronuncia e pubblica panegirici, elogi funebri — celebre quello per la vedova
romana Virginia Bruni (1812-1840) —, dà alle stampe libretti apologetici,
educativi, discorsi di vario genere, quaresimali, ragionamenti
filosofico-religiosi (132).
8. Il pensiero
“segreto”
In un “[…] inedito e segreto
manoscritto” (133), il “Manoscritto di Agira” (134),il
cui vero titolo è Dello spirito della Rivoluzione e dei mezzi di farla
terminare (135), Ventura, nel 1833, delinea con coerenza il suo distacco
dal legittimismo, dalla Restaurazione, ma anche dall’estremismo di Lamennais
(136). Egli, come de Bonald, rompe le relazioni con i legittimisti, partendo da
un’analisi della Rivoluzione francese scevra dal pregiudizio “[…] esclusivamente
favorevole o […] radicalmente svalutativo” (137).
Nella sua analisi critica dell’antico regime, il
teatino sostiene che l’assolutismo non si è presentato in forme omogenee,
avendo avuto esso gradazioni di accentramento del potere diverse da uno Stato
all’altro. La Francia, già alla morte di Luigi XIV (1638-1715), che della
centralizzazione è stato l’iniziatore e il massimo esponente, ha conosciuto
forti richieste di riforme in senso antiassolutistico, che, pur mantenendo viva
la struttura rappresentativa di tutti ceti, cioè gli Stati Generali, sapessero
esercitare un controllo sugli atti legislativi emanati dal sovrano (138).
Queste domande tese al ripristino della società civile, continua il religioso
siciliano, sono state poi ostacolate dal 1788 al 1792 dal gruppo rivoluzionario,
in un primo tempo appoggiato anche da Luigi XVI (1754-1793), che ha voluto
ridurre ulteriormente il potere del clero e della nobiltà a favore del ceto
borghese, già detentore di enormi fortune nel mondo degli affari, della finanza
e degli appalti statali e desideroso di ampliarle. L’alleanza fra trono e
borghesia, teorizzata e realizzata da don Émmanuel-Joseph Sieyès (1748-1836), è
stata, quindi, la prima forma in cui la Rivoluzione si è presentata. Essa ha
poi assunto un’altra veste, quella dei giacobini che durante il Terrore
(1793-1794) hanno eliminato le persone più autorevoli della Rivoluzione stessa,
“[…] sostenuta dai duchi e dai marchesi” (139). La
Rivoluzione, quindi, conclude Ventura, ha interrotto un processo di riforma
politica e istituzionale che l’assolutismo, inizialmente ha cercato di
bloccare, poi di schiacciare, e che il giacobinismo ha definitivamente
affossato (140).
È quindi evidente come in Ventura la legittimità non
deve coincidere con la volontà del sovrano o di un gruppo oligarchico (141);
solo in un’assemblea rappresentativa dell’intera nazione in tutte le sue
articolazioni sociali, va individuato il principio di sovranità. Da qui può
nascere un ordine civile fondato “[…] sulla volontà della
nazione, sulla sua rappresentanza politica, sulla possibilità di eguaglianza e
sulla vera libertà” (142), il diritto alla quale scaturisce dalle
leggi naturali della società, dai princìpi cristiani e dal suo lungo esercizio
(143). L’assolutismo ha ridotto le libertà delle strutture sociali; pertanto
Luigi XIV, che per primo lo ha introdotto nelle società cristiane, deve essere
considerato “[…] come il fondatore della rivoluzione”
(144).
Come de Bonald, anche il teatino in questo scritto
distingue fra una rivoluzione nata per riportare nella società l’ordine antico,
la libertà della “società civile”, e la Rivoluzione, che distrugge
ogni realtà intermedia fra il sovrano e il popolo; tuttavia, a differenza del
visconte francese, Ventura è più radicale nell’attribuzione delle responsabilità,
che, a suo dire, sono tutte della monarchia assoluta, avvicinandosi su questo
punto a una tesi di Lamennais (145).
Relativamente poi alla forma dello Stato, egli pensa
che le diverse strutture istituzionali, che storicamente si sono presentate,
non sono altro che la manifestazione delle differenti volontà originarie
fondative dello Stato stesso (146). Eppure, ciò non sta ad indicare
un’immutabilità delle forme statuali; esse sono da considerarsi relative e
possono subire modificazioni, ma esclusivamente con l’approvazione di “[…]
un organo mediatore della continuità della sostanza etica della fondazione
dello Stato medesimo, da conservare nel variare delle forme storiche”
(147). E il religioso siciliano individua questo organismo in un senato o
comunque in un’assemblea rappresentativa (148) “[…] della
volontà dell’intera nazione, nella complessità dei suoi fini, dei suoi ceti,
delle sue funzioni” (149).
Ventura è ben consapevole che l’assetto politico
richiamato non è di facile realizzazione, dal momento che, anche per lui, come
per de Maistre, la Restaurazione può essere corretta dagli errori e dai difetti
suoi solo attraverso un’altra rivoluzione sanguinosa, ma purificatrice (150).
Infatti, ammonisce Ventura, Dio consegnerà le monarchie d’Europa alla collera
dei nuovi barbari, i liberali, per punirle delle persecuzioni che da tre secoli
stanno conducendo contro il cattolicesimo. E come i primi barbari, dopo aver
distrutto l’Impero Romano ed essere entrati nella Chiesa, hanno dato vita a
nuove monarchie e alla civiltà cristiana, anche i secondi saranno assorbiti
dalla Chiesa e da essi nasceranno nuove forme di governo per il genere umano
(151).
9. L’accordo
fra la religione e la libertà, “nuova arma”di Roma
Pur non avendo seguito Lamennais nella sua deriva
eterodossa, il polemista siciliano matura nel tempo la convinzione che solo la
riscoperta dell’origine e della funzione dell’autorità avrebbe fatto recuperare
alla Chiesa quel controllo valutativo del potere, che le monarchie restaurate e
quelle costituzionali non le riconoscevano più, e che essa possiede invece per
mandato divino. Questo postulato è inscindibile dall’ortodossia cattolica e
costituisce una garanzia per la rinascita di una “società civile” animata
dai princìpi cristiani e all’insegna del connubio fra religione e libertà, la
“nuova arma”di Roma (152).
A questo suo convincimento, Ventura fa seguire la
proposta di cambiare l’antico stemma di Roma con uno nuovo: uno scudo, con una
croce centrale recante, nell’intersezione dei due legni, il triregno, sorretta
da due donne, simboli della Religione e della Libertà, con ai margini le
scritte “In hoc signo vinces“e”Christus
nos liberavit qua libertate“; ai piedi delle due figure, il globo
terracqueo, nella cui parte inferiore sono i simboli della Roma pagana e quelli
della Roma cristiana (153). La crisi attuale, sostiene il teatino, è morale,
sociale e politica ed è talmente grave che è giunto il momento in cui i
sacerdoti devono essere maggiormente consapevoli dell’importanza del proprio
ruolo (154). In questa prospettiva, egli, nel 1847, scrive una lettera al
vescovo di Digne, in Provenza, Marie Dominique Auguste Sibour (1792-1857),
futuro arcivescovo di Parigi, in cui sostiene l’opportunità che i religiosi
scendano nell’agone politico in difesa dei diritti dei più deboli (155).
Con queste certezze nell’animo, Ventura si schiera
idealmente nel 1848 con le insurrezioni di Vienna e di Roma, nelle quali egli
riconosce una istanza di concreta libertà, connotata anche come indipendenza
nazionale, da rivendicare nei confronti di tutti i regimi restaurati, diversa
dalla “falsa libertà” promessa dai liberali e non in contrasto con il
cattolicesimo. Significativamente, proprio nel Discorso funebre pei morti di
Vienna (156), il teatino sottolinea che “la sovranità politica, il
cui primo principio, la cui prima ragione è in Dio e da Dio, risiede nel
popolo. Non già in quanto che, secondo la dottrina protestante di Jurieu
[Pierre (1637-1713)] e di Rousseau [Jean-Jacques (1712-1778)], ogni
cittadino è sovrano; ma in quanto che, secondo la dottrina di S. Crisostomo
[Giovanni (344/354-407)], di San Tommaso, di Bellarmino [cardinale
Roberto (1542-1621)] e Suarez, la comunità perfetta, lo stato costituito,
l’ha avuta immediatamente da Dio […]. Perciò la comunità o il popolo la
conferisce, colle condizioni che più gli piacciono; e la riprende quando
l’uomo-potere la converte in istrumento di oppressione del popolo da cui l’ha
ricevuta” (157).
Il dispotismo, per Ventura, soffoca il diritto
naturale alla libertà, corrode le istituzioni sociali che assicurano
l’esercizio concreto delle libertà, generando un “rimbarbarimento”
come quello che ha causato la fine dell’Impero romano (158). I nuovi barbari,
che hanno raso al suolo un edificio già in piena rovina, sono i liberali. In
questo mare di desolazione, sono tuttavia poste le condizioni per il ritorno
all’ordine attraverso la conversione dei barbari ai princìpi religiosi, come è
avvenuto con la formazione della “società civile” medioevale. La
Chiesa deve, quindi, assolutamente sconfessare l’alleanza fra trono ed altare,
perché da essa scaturisce l’identificazione fra la religione e il dispotismo, a
discapito della confessione cattolica (159).
Queste riflessioni gli procurano numerosissime
critiche da parte dei sovrani, dei legittimisti, ma anche della Curia romana,
perché, nell’introduzione al Discorso funebre pei morti di Vienna, egli
esprime pure delle valutazioni sulla “fuga” del Papa a Gaeta (Latina)
nel 1848 e sull’operato della Curia stessa (160).
In effetti, Ventura delinea un sistema politico a
grandi linee, i cui esiti non sono ben chiari. Certamente si tratta di un
regime diverso dalla monarchia costituzionale d’impronta liberale, la quale,
secondo il polemista palermitano, assicurando una parvenza di libertà, nasconde
in realtà i propositi della diffusione di un’empietà generalizzata e
dell’oppressione di un ceto.
10. Le
rivoluzioni italiane degli anni 1848 e 1849
Se questo fu il suo pensiero, presente in lui fin dal
1833, circa il futuro delle case regnanti, non può stupire la sua presa di
posizione, in parte contraddittoria e per taluni incomprensibile, sui rilevanti
fatti politici che interessano l’Italia negli anni dal 1846 al 1849: l’elezione
al soglio pontificio del papa beato Pio IX (1846-1878), la rivoluzione
siciliana e la proclamazione della Repubblica Romana (161).
Ventura è chiamato a collaborare con papa Pio IX, “[…]
di cui [è] il più autorevole consigliere” (162). Nel 1847,
il religioso palermitano pronuncia, per decisione di Pio IX, e poi dà alle
stampe l’Elogio funebre di Daniello O’Connell [1775-1847] (163) — il
cattolico irlandese, membro del Parlamento britannico, fulgido esempio di “resistenza
passiva” (164)—, con il quale auspica una era in cui la Chiesa non si
presti più a fare da scudo al dispotismo e ad essere uno strumento della
tirannia (165).
Il religioso teatino è anche l’ispiratore di alcune
riforme nello Stato Pontificio, fra le quali l’istituzione di un Consiglio dei
Ministri e l’introduzione di una limitata libertà di stampa. Consultato pure
per la stesura di un progetto di legge elettorale, fa presente l’opportunità di
una legge centrata sulla paternità, cioè con l’attribuzione del diritto di voto
ad ogni capo famiglia (166). Legge, quindi, non a suffragio universale, né
basata sul censo, per evitare i nefasti risultati registrati in Francia.
Ventura infatti, nel suo rapporto alla commissione incaricata della redazione
di uno Statuto, sostiene che il Pontefice dovrebbe promulgare la nuova legge
elettorale fondata “”[…] sulla paternità e darle per
base un principio morale, in opposizione al diritto pubblico della rivoluzione
che da sessant’anni ha preteso di fondare sul principio materiale della fortuna
le libertà pubbliche e l’ordine sociale”” (167).
Per sondare l’opinione pubblica circa una possibile
struttura costituzionale, nel febbraio 1848, il polemista palermitano pubblica
il saggio Sopra una Camera di Pari nello Stato Pontificio (168). Al
riguardo, presenta tre posizioni riscontrabili anche nello Stato Pontificio: la
prima è favorevole alla completa laicizzazione dello Stato, su imitazione delle
costituzioni di Francia, di Napoli e del Piemonte, con la nomina di una Camera
formata da persone non ecclesiastiche; la seconda è quella dei teorici
dell’”amalgama”, sostenitori della presenza in assemblea di un numero
proporzionato di cardinali, di prelati e di laici; la terza, quella che lui
condivide, vede nel Sacro Collegio una Camera dei Pari (169), il primo corpo politico
dello Stato, inteso come “[…] alta Camera di revisione
politica” (170), affiancata ad una Camera dei deputati (171).
Nel valutare positivamente anche la rivolta scoppiata
a Palermo il 12 gennaio 1848 e il decreto del Parlamento di Sicilia, datato 13
aprile dello stesso anno, che ha sancito la caduta di Ferdinando II (1810-1859)
e della sua dinastia, Ventura viene ad assumere un ruolo sempre più politico.
Infatti, egli si dichiara favorevole alla separazione della Sicilia da Napoli,
per la creazione di un governo indipendente, unito ad una federazione degli
Stati italiani. Le sue convinzioni in merito, delineate in tre opuscoli — La
questione sicula del 1848 sciolta nel vero interesse della Sicilia, di Napoli e
dell’Italia (172) del febbraio 1848; Memoria per il riconoscimento della
Sicilia come stato sovrano ed indipendente (173) del maggio successivo; Le
menzogne diplomatiche, ossia l’esame dei pretesi diritti che s’invocano dal
Gabinetto di Napoli sulla questione siciliana (174), della fine dello
stesso anno —, animano il dibattito politico e suscitano scalpore e reazioni.
Tale è il suo coinvolgimento, emotivo e propositivo, nelle vicende siciliane
che il governo insediatosi a Palermo, presieduto dall’ammiraglio Ruggero
Settimo (1778-1863), lo nomina ministro plenipotenziario e commissario
straordinario alla Corte di Roma, Archimandrita di Messina e Pari spirituale
del Regno (175).
In qualità di rappresentante del governo siciliano
presso la Santa Sede, Ventura, per la verità, dimostra una grande libertà nelle
valutazioni delle vicende politiche, interpretando la sua funzione “[…]
in modo assai creativo” (176), trovandosi alle volte a sostenere
perfino posizioni in contrasto con il mandato ricevuto, per esempio
caldeggiando, dopo aver sposato in prima istanza la causa monarchica — con
l’insediamento sul trono di Palermo del Duca di Genova, il secondogenito di
Carlo Alberto (1798-1849), Ferdinando di Savoia (1822-1855) —, la
trasformazione della Sicilia in Repubblica e in un immenso porto franco (177).
La scelta istituzionale repubblicana, tuttavia, non deve assolutamente portare
l’isola alla separazione dall’Italia, bensì al suo inserimento con “[…]
una Costituzione che rispetti le sue caratteristiche e il suo passato nella
più ampia formula della “nazione italiana”” (178).
Nella prima edizione de La questione sicula del
1848 risolta nel vero interesse della Sicilia, di Napoli e dell’Italia,
stampata a Roma, Ventura, in una prospettiva anche storica — con orgoglio
dichiara che “La Sicilia è stata il più antico paese
costituzionale” (179)—, delinea il profilo della nazione
siciliana e definisce legittimi gli atti del Parlamento di Palermo. La sua
proposta per risolvere la crisi siciliana prevede, in quel momento, il
mantenimento dei due Regni, di Sicilia e di Napoli, con due parlamenti, due
governi, un solo sovrano, sostituito sul territorio da un Viceré o da un
Luogotenente (180); una tale soluzione della crisi siciliana, se fosse stato
accolto questo primo progetto di Ventura, avrebbe, nella sostanza, sancito la situazione
uscita nel 1816 dal Congresso di Vienna, “[…] o, meglio ancora,
il ritorno al 1734″ (181). Avendo la soluzione prospettata generato un
vespaio di critiche, nella seconda edizione dell’opera, uscita a Palermo alla
distanza di un mese dalla prima, per iniziativa del barone Paolo Francesco
Ventura (1784-1854), fratello del teatino, vengono cassate le pagine dedicate
al progetto istituzionale (182).
La Memoria per il riconoscimento della Sicilia come
stato sovrano ed indipendente presenta un impianto più dottrinale e
speculativo. Ventura vi sostiene il principio dell’origine divina del “Potere”,
da esercitarsi attraverso il consenso del popolo, e mostra i casi in cui è
lecito al popolo stesso opporsi e deporre il sovrano. Il suo ragionamento, in
un quadro dottrinale tomistico, è centrato su argomentazioni sorrette anche dal
pensiero di grandi giuristi e di illustri teologi (183). Per il sacerdote
palermitano, Dio conferisce direttamente alla comunità politica la sovranità e
questa ne delega l’esercizio a colui che è chiamato a governare, il quale,
quindi, trae la propria legittimità dalla comunità medesima. Appartenendo la
sovranità alla comunità siciliana, essa ha il diritto revocare quel potere che
è stato delegato al re, e che il re medesimo ha esercitato in forma dispotica.
Pertanto, l’insurrezione siciliana è “[…] 1. Legittima, nel suo
principio, 2. Giusta ne’ suoi motivi, 3. Legale, nelle sue forme, 4. In certo
modo ancora Santa, nel suo compimento” (184).
Nelle Menzogne diplomatiche, ossia l’esame dei
pretesi diritti che s’invocano dal Gabinetto di Napoli sulla questione
siciliana, Ventura confuta le opinioni degli “[…] avversari
della Sicilia [che], abbandonato il terreno de’ princìpi e delle
sanzioni del diritto pubblico universale dei popoli […] si gittarono sul
terreno della diplomazia e de’ trattati” (185), dimenticando che i
trattati non possono mai pregiudicare il diritti delle nazioni che derivano dal
diritto divino e da quello naturale (186). Il teatino ripropone quindi la
classica dottrina cristiana sulla sovranità, elaborata, nel periodo in cui
esisteva ancora la “società civile”, dalla prima e dalla seconda
Scolastica, ma con una particolare enfasi posta sullo spirito di libertà.
Inoltre, in questo studio, il teatino, entrando nella concretezza della
questione, esprime con vigore l’inammissibilità “[…] della
riunione dei due paesi sotto la stessa corona” (187), ritrattando
quanto espresso nella prima edizione dell’opuscolo La questione sicula del
1848 sciolta nel vero interesse della Sicilia, di Napoli e dell’Italia.
Quando, il 24 novembre 1848, Pio IX abbandona Roma a
causa dei tumulti che portano all’uccisione di Pellegrino Rossi (1787-1848),
primo ministro dello Stato Pontificio, Ventura non segue il Papa a Gaeta, come
fanno molti prelati, ma decide di rimanere nell’Urbe, dove incontra Giuseppe
Mazzini (1805-1872) e Giuseppe Garibaldi (1807-1882), compromettendosi con i
rivoluzionari e suscitando un grande scalpore negli ambienti cattolici. Il
polemista siciliano, inoltre, non esita a prendere posizione a favore della
sommossa di Vienna dello stesso anno, riconosce la Repubblica Romana e, pur
rifiutandone la nomina a membro dell’Assemblea costituente (188), le fa
comunque pervenire una proposta di legge in difesa del Papato (189), mentre, in
qualità di rappresentante del governo palermitano, partecipa, unico fra i
diplomatici, alle celebrazioni pasquali del 1849 in San Pietro su iniziativa
del Triumvirato repubblicano (190). Ventura, fortemente criticato per queste
sue decisioni, si difende — lo fa con una lettera a Massimo d’Azeglio
(1798-1866) del 27 luglio 1849 —, rappresentando di aver sempre agito
nell’interesse della religione e del Papa, anche quando considerava necessaria
la cessazione del potere temporale. Segnalando al governo di Palermo la
soluzione che vede profilarsi, Ventura valuta come irreversibile la situazione
creatasi: Roma avrebbe avuto due tipi di rappresentanze, il Pontificato e la
Repubblica (191).
Nel contesto della convinta adesione alla Repubblica
Romana, il pensatore siciliano sembra pervenire, dall’unità tra fede e
politica, alla distinzione fra lo Stato e la Chiesa, facendo suo il
convincimento dalla filosofia tomistica e dagli autori della seconda Scolastica,
quali i gesuiti Suarez e Juan De Mariana (1536-1624). Egli ritiene che le forme
assunte dal potere politico siano di per sé indifferenti, perché, se Dio
conferisce la sovranità alla comunità politica (societas perfecta), che “[…]
non appartiene che a sé medesima” (192), tale sovranità può
assumere “[…] diverse forme e condizioni a seconda del tipo di
delega che la comunità ha conferito alle persone che esercitano la pubblica
autorità” (193).
11. L’esilio volontario in Francia
Liberata Roma a opera delle armate di Carlo Luigi
Napoleone Bonaparte (1808-1873), il presidente della Repubblica Francese, nata
con la caduta della Monarchia di Luglio, Ventura, per evitare ritorsioni, si
ritira per breve tempo a Civitavecchia (Roma), da dove s’imbarca per Marsiglia,
in Francia, quindi raggiunge Montpellier.
La notizia del suo arrivo Oltralpe mette in allarme
l’arcivescovo di Parigi, mons. Marie Dominique Auguste Sibour (1792-1857), il
quale, nell’agosto del 1849, chiede consiglio a Pio IX su come debba comportarsi
nei suoi confronti. Nel lasciare piena libertà al presule parigino di decidere
quali atteggiamenti assumere verso Ventura, il Pontefice gli fa presente che il
teatino ha “[…] trasformato la sua cattedra di apostolo in una
tribuna politica per diffondere un stato d’animo che è quello del “primi
demagoghi d’Europa”” (194).
Dopo la stagione napoletana e quella romana, prende
corso in terra di Francia una nuova e feconda fase dell’impegno politico,
religioso e apologetico del sacerdote palermitano, anche se, in un primo tempo,
il suo soggiorno a Montpellier non è proprio dei più felici, essendo egli
guardato con sospetto sia dai democratici, sia dai cattolici, molti dei quali
nutrono ancora speranze di una restaurazione legittimistica, pur sempre compromessa
con il gallicanesimo. Lo stesso vescovo della città, mons. Charles-Thomas
Thibault (1796-1861), il quale, anche se gli concede di celebrare la messa e di
predicare in diocesi, in un primo tempo si guarda bene dal frequentarlo. Qui
gli giunge la notizia della condanna, da parte della Congregazione dell’Indice,
del suo Discorso funebre pei morti di Vienna. Egli invia subito al Papa
una lettera, datata 8 settembre1849, con la quale ritratta le tesi e le
dottrine, che “[…] si trovano o potrebbero trovarsi in
contraddizione con l’insegnamento della S. Chiesa Cattolica, Apostolica,
Romana, unica vera” (195). Non tarda neppure la risposta di Pio
IX, che da Gaeta, il 6 ottobre dello stesso anno, nel prendere atto con
compiacimento del suo ravvedimento, lo esorta a “[…] a essere
costante nel confutare gli errori sparsi nel mondo, e nello sbarbicare da tutti
gli spiriti le opinioni false e dannose” (196).
Col tempo Ventura riesce a guadagnarsi anche la stima
e la fiducia del vescovo di Montpellier, che, nel 1850, lo difende dall’accusa
di diffondere eresie, avanzata da un cenacolo cartesiano-giansenistico sulla
stampa francese; l’anno seguente, infatti, la commissione appositamente creata
dal presule attesta l’assoluta ortodossia delle sue omelie (197).
11.1 La querelle anticartesiana
Nel mese di febbraio del 1851 Ventura si stabilisce a
Parigi, dove, oltre a svolgere la consueta attività di instancabile
predicatore, tiene una serie di conferenze di carattere filosofico;
riflessioni, queste, che, saranno raccolte e date alle stampe nel volume La
Ragione filosofica e La Ragione cattolica (198), un vero e proprio
trattato di storia della filosofia e di filosofia (199), di apologetica (200) e
di dogmatica (201), esposto in modo organico, spaziando dalla filosofia antica
a quella medievale, correttamente definita la “[…] ragione
cattolica dei secoli cristiani” (202), alla moderna. In questo saggio
è inoltre approfondito l’insegnamento morale della Chiesa, la cui necessità è
data, secondo il teatino, sia dal suo contenuto universale, sia dalla facilità
con la quale ogni persona può apprenderlo, perché ogni uomo è predisposto ad
accoglierlo, essendo naturaliter aperto alle verità cattoliche (203);
infine vengono esposti gli aspetti costitutivi del dogma cattolico: la Trinità
e l’Incarnazione (204).
Dopo aver rifiutato una cattedra all’Università della
Sorbona, il teatino continua l’attività di conferenziere e polemizza con i
sostenitori della scuola filosofica cartesiana, prendendo spunto da una
singolare vicenda. Il visconte Victor de Bonald (1780-1871) — figlio di
Louis-Gabriel-Ambroise, l’autore della Legislazione primitiva —,
contrariato per alcune osservazioni fatte da Ventura sulle riflessioni
filosofiche del padre, interviene con degli articoli su alcuni giornali, L’Univers
e Le Correspondant, “[…] ispirato e coadiuvato
dall’agonizzante società cartesiano-giansenista di Montpellieri”
(205). Il polemista siciliano risponde a questi articoli, dando alle stampe lo
studio Della vera e della falsa filosofia (206), in cui demolisce,
secondo i canoni della filosofia scolastica del “Defini, divide, negato
probato” (207), le tesi razionalistiche di Victor de Bonald, al quale
fa il seguente rimprovero: le sue lettere sono di tutta evidenza pretestuose,
essendo volutamente scritte per dare risalto alle idee cartesiane, piuttosto
che alla difesa del padre (208).
La critica che Ventura rivolge a de Bonald padre — del
quale peraltro il religioso siciliano riconosce i grandi meriti, definendolo “[…]
ingegno eminente, — filosofo profondo, — saggio pubblicista, — distinto
scrittore, — cattolico sincero e fervente” (209), senza mai porlo tra “[…]
“i filosofi da commedia”” (210), come invece lo accusa il
figlio —, è circostanziata: il visconte, restringendo la filosofia a quella antica
e a quella moderna, mette in ombra la scuola medioevale, cioè sant’Anselmo
(1033/1034-1109), sant’Alberto Magno (1200 ca.-1280), san Tommaso e san
Bonaventura da Bagnoregio O.F.M. (1217-1274); in sostanza, secondo il teatino,
de Bonald, non conoscendo la filosofia scolastica, ne snatura i contenuti
(211).
Successivamente Victor de Bonald ripubblica i citati
articoli — con una prefazione in cui elogia la Legislazione primitiva
dell’insigne genitore —, ampliandoli, ma anche replicando a Ventura sui controversi
punti della filosofia di Cartesio [René Descartes (1596-1650)], sottolineando,
fra l’altro, che il pensatore siciliano non ha compreso la profondità di quel
pensiero (212). Ventura, con il Saggio sull’origine delle idee e sul
fondamento della certezza (213), gli risponde, tornando su quelle questioni
di critica cartesiana non del tutto chiarite. Con questa pubblicazione, egli
vuole pure definire come nella mente vengono a formarsi i concetti e i criteri
certi sui quali s’imposta il comportamento, e porre così fine alla “[…]
guerra ostinata che da tre secoli e più si fanno gl’idealisti e i
materialisti, i tradizionalisti e i razionalisti, i dommatisti e gli
scettici” (214); una querelle infinitaoriginatasi fin
dall’epoca rinascimentale, quando è stata abbandonata“[…] la
scienza cristiana, la quale sola aveva risolto questi grandi problemi e decise
queste gravi questioni” (215).
Lo studio, nella prima parte, mette a confronto le due
scuole dell’origine idee, quella del realismo scolastico, che lui sostiene di
seguire, e quella dell’innatismo razionalistico, confutando, con puntuali
citazioni di san Tommaso, anche le obiezioni che hanno la pretesa dell’avallo
scritturistico (216).
Il problema della certezza del conoscere viene
sviluppato nella seconda parte, dove distingue fra la certezza assoluta del
razionalismo, quella oggettiva e soggettiva del realismo tomistico, la certezza
intuitiva delle prime verità indimostrabili e quella dimostrativa; qui Ventura
critica l’idea che è vero ciò che all’uomo sembra vero; tale convinzione,
aggiunge, a conclusione della sezione, è la porta da cui passa qualsiasi errore
(217).
La terza e ultima parte del saggio è dedicata al
metodo d’indagine filosofica, distinguendone due modalità. Il metodo
inquisitivo dei cartesiani, ma non del vero Cartesio, parte dal dubbio e rimane
però sempre in esso, senza giungere a conclusioni, come i filosofi greci che,
come dice san Paolo (5/10 ca.-64/67 ca.), nella Prima Lettera ai Romani,
non trovano mai la verità: “[…] Graeci sapientiam quaerunt, et
stulti facti sunt” (218).Il metodo dimostrativo prende le
mosse dalla fede e non è che l’attività della ragione che riconosce i propri
limiti e accetta l’aiuto che le proviene dalla religione, dall’autorità e dalle
“[…] concezioni dello spirito comuni a tutti gli uomini”
(219). Solo il secondo è il vero metodo della filosofia cristiana, “[…]
di tutti i filosofi cattolici, tutti i padri e i dottori della Chiesa”
(220), ma anche di Ventura e dell’autore della Legislazione primitiva.
Pertanto il figlio, Victor de Bonald, si trova in disaccordo non solo con il
padre teatino, ma pure con il proprio genitore, la cui onorabilità come
pensatore e filosofo dice di aver voluto difendere.
Ma vi è un altro punto di disaccordo fra i due. Il
teatino afferma che de Bonald padre riconosce, ben più di lui, i limiti del
metodo e della metafisica cartesiana e li critica severamente. Tuttavia,
osserva Ventura, Cartesio non ha rinnegato le verità di fede, e pur essendo
mosso dal dubbio universale, ha trovato nella fede un punto saldo, fermo “[…]
e da quel punto egli ha ragionato e ben ragionato sopra Dio, sopra
l’anima” (221). Il punto fermo di Cartesio, quindi, per Ventura, non è
il “cogito, ergo sum“,ma Dio, creatore del mondo,
dell’uomo, della ragione, dei sensi e dei mezzi per conoscere la verità (222).
Victor de Bonald, invece, per difendere il genitore, si fa sostenitore del
dubbio universale e in quello rimane. Il saggio si conclude con l’auspicio di
un ritorno alla filosofia cristiana, al suo metodo d’indagine filosofica, per
salvare sia il futuro della scienza che la società dall’imbarbarimento (223).
11.2 L’ultimo incontro con Lamennais
A Parigi, nel marzo del 1852, il padre teatino
incontra Lamennais, in forma discreta, ma con dei testimoni, onde “[…]
non spargere “ambigue voci” nel pubblico ed attirargli il biasimo
di Roma” (224). Il bretone, dopo avergli illustrato la sua “nuova
religione”, contraria a ogni dogma cattolico, di cui “[…] l’umanità
era gravida” (225), riceve da Ventura una risposta sarcastica: “[…]
Voi vi ingannate […]: io le ho toccato il polso, ed ho trovato che
non è “gravida”, ma inferma d’una “idropisia””
(226). L’incontro, che si prolunga per alcune ore, gli dà l’opportunità di
confutare, con “[…] grande sfoggio di dottrina ed
erudizione” (227), tutti gli errori derivati dalla sua svolta liberale
ed evidenziare le contraddizioni con le dottrine che invece ha sostenuto con
convinzione nell’Essai sur l’indifférence en matière de religion. Da
quel momento i rapporti fra i due si interrompono definitivamente. Infatti, non
si sarebbero più incontrati, e due anni dopo, il 26 febbraio 1854 “[…]
Lamennais, sul suo letto di morte, rifiuterà di ricevere colui che era stato
suo discepolo” (228).
11.3 Rapporti e corrispondenze con l’Italia
Dopo aver predicato, nell’agosto 1852, gli esercizi
spirituali a oltre trecentocinquanta sacerdoti della diocesi di Pamiers, nel
sud-ovest della Francia, Ventura, rientrato a Parigi, contrae una grave
malattia polmonare che lo riduce in fin di vita (229). A guarigione avvenuta,
egli sente il dovere di inviare una lettera a Pio IX, che, informato dal nunzio
apostolico a Parigi — ma anche La Gazette de France portava
quotidianamente notizie sulla sua salute —, ha manifestato un sincero
interessamento per le sue condizioni. Ventura esprime al Pontefice la propria
gratitudine per la partecipazione alle sue sofferenze fisiche, per le preghiere
recitate, e fatte recitare, per chiedere a Dio una sua pronta guarigione e per
avergli confermata la pensione a suo tempo concessagli da Leone XII, quando ha
lasciato l’insegnamento alla Sapienza, ragguagliandolo pure sullo stato delle
sue future pubblicazioni (230).
Il teatino non tralascia d’indirizzare anche al Re
delle Due Sicilie, Ferdinando II, una missiva di ringraziamento per essersi
espresso, in occasione della sua malattia, “[…] ne’ sensi della
più grande indulgenza, d’un’immensa bontà” (231), per la protezione
che aveva assicurato alla sua famiglia residente in Sicilia e per aver
facilitato il viaggio a Parigi del nipote Paolo Cultrera C.R. (232). Inoltre
ritiene opportuno scusarsi per quanto ha scritto sulla rivoluzione siciliana
del 1848, in particolare nelle Menzogne diplomatiche, ossia l’esame dei
pretesi diritti che s’invocano dal Gabinetto di Napoli sulla questione
siciliana, affermando che la “[…] condotta nobile e generosa
[…] di Vostra Maestà, mi ha tanto più confuso, che l’attitudine da me presa
nelle vicende del 1848 pareva che avesse dovuto per sempre escludermi dagli
effetti della vostra clemenza. A proposito di questi avvenimenti, io son
dolentissimo di avere in qualcuno de’ miei scritti di quel tempo fatto torto al
carattere morale di Vostra Maestà “ (233).
Frattanto in Francia avviene un cambio istituzionale:
la Repubblica, si trasforma in Impero, sul cui trono sale Carlo Luigi Napoleone
Bonaparte, con il nome di Napoleone III. L’imperatore, che di Ventura apprezza
l’eloquenza e la cultura, pensa di insignirlo dell’Ordine della Legion d’Onore,
ma, non essendo certo che ciò sarebbe gradito dalla Curia romana, interpella
preliminarmente il nunzio a Parigi, dal quale ha una risposta negativa. Il
teatino ne è contrariato, non tanto per il mancato conferimento del titolo
onorifico, cui, a suo dire, non ambisce, quanto piuttosto per l’offesa ricevuta
dal rappresentante del Papa, che dava adito a malevoli dicerie circa i suoi
rapporti con Roma. Pertanto, nel 1856, egli scrive al segretario di Stato, il
cardinale Giacomo Antonelli (1806-1876), pregandolo di intervenire preso il
Pontefice affinché gli venga restituita l’onorabilità (234).
La risposta, datata 15 marzo 1856, affidata al
canonico Luigi Gaggiotti, prosegretario della Congregazione dei Vescovi e dei
Religiosi, specifica la motivazione del parere negativo espresso dal nunzio: la
Santa Sede, trattandosi di un’onorificenza secolare, è contraria al
conferimento della Legion d’Onore agli ecclesiastici; negli unici due casi
particolari in cui è stata data l’autorizzazione ad accettarla, ne è stato
comunque proibito l’uso pubblico. Relativamente al recupero dell’onore, il
canonico gli rappresenta che Pio IX ha appena emanato un breve — che viene
allegato alla nota — sulle indulgenze, lucrabili da coloro che avrebbero
assistito alle sue prediche; ciò avrebbe fatto comprendere a tutta la Francia
l’alta considerazione di cui egli gode presso il Sommo Pontefice. La missiva si
conclude con la comunicazione che egli è stato pure scelto, con grande apprezzamento
dell’Imperatore, per una predica quaresimale a Corte (235).
11.4 La ripresa della polemica antirazionalistica
L’attività apologetica del teatino non conosce
comunque sosta: nel 1853, dopo aver dato alle stampe Le donne del Vangelo
(236), pubblica La donna cattolica (237), volume che, tradotto in più
lingue, mette in risalto le meritevoli opere delle regine, fra cui quella di
Spagna, Isabella la Cattolica (1451-1504), che, lungo i secoli, sono salite sui
troni di vari Paesi europei. Ventura lo invia in omaggio alla regina di Spagna
Isabella II di Borbone (1830-1904), la quale gli risponde con una missiva, in
cui dichiara di apprezzare il contenuto del libro (238). Si tratta di un
ringraziamento non puramente formale, perché la sovrana nello scritto del
teatino, pur non dichiarandolo, vi scorge un indubbio sostegno alla propria
legittimità a governare la Spagna, messa in discussione dai carlisti (239).
L’anno 1856, invece, segna invece il suo ritorno agli
studi filosofici e teologici, con la pubblicazione del corposo saggio La
tradizione e i semi-pelagiani della filosofia, ossia il semi-razionalismo
svelato, in cui critica due forme di razionalismo. Il razionalismo puro,
assoluto — “[…] ribellione della ragione contro la rivelazione
divina” (240), “[…] un’invenzione diabolica, un
pensiero infernale” (241), generatore de “[…] l’idealismo,
il materialismo, il panteismo, l’ateismo e lo scetticismo” (242)—,
secondo cui l’uomo può, con la sola ragione, conoscere tutte le verità
fondamentali, intellettuali e morali (243); il semi-razionalismo, che, “[…]
complice del razionalismo filosofico” (244)o “[…]
razionalismo sedicente “cattolico”” (245) non è che un razionalismo
mascherato, come quello dei semi-pelagiani, che non si schierano né con
sant’Agostino (354-430), né con Pelagio (354 ca.-427 ca.), non avendo “[…]
né la passione dell’errore né il coraggio della verità” (246).
Quest’ultima critica è rivolta ai tomisti ortodossi, che, convinti che vi possa
essere una correlazione fra ragione e fede, asseriscono che l’uomo, con i soli
mezzi razionali, è in grado di conoscere e dimostrare delle verità nell’ordine
naturale, praticare alcune virtù, innalzarsi a qualche verità morale e
spirituale, evitare dei peccati, predisponendosi al ricevimento della grazia
necessaria a praticare ogni bene e rifuggire ogni male (247).
Il tradizionalismo, invece, reputa che l’uomo può
conoscere, per deduzione, molte verità, anche di ordine morale e spirituale, e
dimostrarle con certezza, svilupparle e applicarle, solamente se sorretto dalla
rivelazione, dalla grazia e da ciò che le generazioni hanno tramandato (248),
arrivando quindi “[…] alla cognizione certa senza mescolanza
d’errore” (249). Questa scuola, specifica Ventura, ha stimolato
importanti ricerche e studi storici “[…] intorno alle tradizioni
dei popoli, alla vera origine dei falsi culti e del vero culto” (250),
e in particolare ha messo in risalto il nesso religione-società politica.
Autori come de Bonald, de Maistre, Chateaubriand e il primo Lamennais hanno
saputo riconoscere le verità sia della tradizione naturale, sia di quella
soprannaturale, rivelata (251), “[…] il fatto capitale ed
immenso d’una rivelazione divina primitiva e la necessità dell’insegnamento
tradizionale per la formazione dell’uomo sociale” (252). Infatti,
continua il teatino, anche dall’esperienza scaturisce la constatazione che “[…]
l’uomo a cui nessuno parla non parla; l’uomo con cui nessuno ragiona non
ragiona; […] l’uomo al quale nessuno fa conoscere la verità non conosce
nessuna verità, come l’uomo che non è generato non nasce” (253);quindi
“[…] per la generazione dell’uomo primitivo si è propagata la
vita fisica, in pari modo pel linguaggio e l’insegnamento dello stess’uomo la
vita intellettuale e morale, il linguaggio e la cognizione di tutte le verità
essenziali dell’ordine sociale e religioso si son propagate e stabilite in
tutta l’umanità” (254).
11.5 Le prediche alle Tuileries
Durante la Quaresima del 1857, Ventura tiene, alla
presenza di Napoleone III, nella cappella del palazzo delle Tuileries, nove
prediche, tutte inerenti al potere: “[…] la sua origine, la sua
dignità, i suoi doveri, ciò che Dio vuole da esso, ciò che debbe fare per
rispondere a’ bisogni del popolo […] e promuovere la prosperità e
l’incremento della famiglia cristiana” (255).
Frutto di tale predicazione è il corposo saggio Il
potere politico cristiano (256), uscito nel 1858, con prefazione di Louis
Veuillot (1813-1883). Il polemista francese presenta Ventura come un grande
apologeta, la cui parola, pur rimanendo nell’ambito religioso, assume
necessariamente un significato politico. In particolare, secondo Veuillot,
Ventura, che ha analizzato il fenomeno delle rivoluzioni così da vicino tanto
da rimanerne coinvolto, suscitando reazioni contrastate, mentre proclama le
verità per la salvezza dei suoi ascoltatori, e quindi anche per quella
dell’imperatore, denuncia anche i danni che la Rivoluzione ha causato alla società
(257). Le sue prediche, che pur generano del malcontento nella Corte, non
determinano reazioni negative da parte di Napoleone III, che, anzi, osserva
Veuillot, sembra sempre ben disposto d’animo nell’udirle (258).
Ventura, in effetti, predica senza reticenze o timori,
è schietto di fronte al sovrano; il contenuto delle sue omelie alle Tuileries
ne è la conferma. Infatti, nonostante abbia considerato inevitabile il colpo di
Stato del 1852 e salutato con soddisfazione il risultato del plebiscito del 21
novembre dello stesso anno, egli non smette di condurre a fondo la sua critica
agli errori del gallicanesimo, dell’autoritarismo e del cesarismo (259), che,
saldati al centralismo amministrativo, hanno causato la rovina della Francia e
connotano ancora la società politica francese. Il centralismo, poi, e su questo
aspetto la sua insistenza è martellante, deve essere abbandonato per tornare
alle libertà delle province (260).
Nello stesso tempo, il padre teatino non manca di
riconoscere come nella Francia del Secondo Impero, pur nel contesto di una
separazione dello Stato dalla Chiesa, il cattolicesimo e le “[…] tradizioni
dell’impero di Carlo Magno [742-814]“ (261)siano
tornati in auge (262). L’imperatore del Sacro Romano Impero, infatti, ha
indicato in qual modo si dovesse esercitare un potere cristiano: “[…]
i seguaci di Carlo Magno furono ristoratori e vendicatori del cattolicesimo,
essi sono stati onnipotenti e gloriosi: quando hanno voluto operare alla guisa
di Filippo il Bello [Filippo IV di Francia (1268-1314)] e di Luigi XIV,
scomparvero dalla scena politica” (263). L’imperatore dei francesi
deve pertanto conformarsi a quel modello ideale.
11.6 La formalizzazione definitiva del pensiero
politico-religioso
L’anno successivo alla pubblicazione de Il potere
politico cristiano, cioè nel 1859, Ventura riprende e sviluppa i concetti
già anticipati negli articoli sul Giornale ecclesiastico di Roma e
durante la predicazione alle Tuileries, dando alle stampe il Saggio sul
potere pubblico o esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale
(264), un volume ponderoso, sintesi e sistematizzazione del suo pensiero
politico-religioso.
Nella Prefazione dell’Autore, egli
confessa, in via preliminare, che “Non avendo alcun obbligo né
all’assolutismo né alla rivoluzione, e non essendo tenuti per alcun legame,
pure di semplice simpatia, né all’uno né all’altra, noi non speriamo né temiamo
nulla, né dall’uno né dall’altra […] Abbiamo noi dunque pensato
d’uniformarci a’ disegni della Provvidenza […], lanciando questa esposizione
[…] del diritto pubblico cristiano, questa manifestazione […] della
verità in politica, che sola può salvare l’uomo e la società, “Et veritas
liberabit nos”” (265).
Proseguendo, il teatino asserisce che il pensiero
cristiano è contrario sia alla teoria “panteistica” del potere come
diritto divino, teoria propria dell’assolutismo regio — che ha condotto al
centralismo, “[…] mostruosità rivoluzionaria […] sotto il
punto di vista civile, politico e sociale” (266), e ha annientato ogni
diversificazione del potere in altri settori sociali —, sia a quella
“atomistica” della sovranità popolare, di matrice protestante,
negatrice di ogni potere e di ogni società. Il cristianesimo rigetta i due
opposti errori e insegna che l’origine e le prerogative del potere non possono
arrecare danno o limitazione all’autonomia e alla libertà dei popoli. E ciò che
il potere riconosce di diritto ai popoli non indebolisce in alcun modo la sua
potenza e la sua autorità (267), perché il governo migliore non è “[…]
quello che “fa tutto”, ma quello che “lascia fare tutto”
ciò che non compromette affatto la giustizia e l’ordine pubblico”
(268); il primo è il governo pagano, il secondo quello cristiano (269).
Ventura, ripercorre i temi classici dell’origine della
società, del suo fine e del potere — “[…] la società è
la concordia delle intelligenze unite tra esse per la sottomissione al
medesimo potere, per il fine della loro conservazione e del loro
perfezionamento” (270) —, mettendo in evidenza gli aspetti
condivisibili delle dottrine di de Bonald, il primo ad aver riscoperto “[…]
la filosofia e il diritto pubblico cristiano, che i tre ultimi secoli di
insegnamento pagano avevano fatto quasi interamente scomparire anco dalle
scuole cattoliche” (271), riconducendo la politica al suo fondamento
religioso. Nello stesso tempo, egli mette in guardia il lettore su un limite
dell’autore de La legislazione primitiva, derivato dal suo cedimento
alle forme di razionalismo insite nel gallicanesimo, forse senza averne piena
consapevolezza, cioè quello di riconoscere al Papa solo un potere spirituale,
ministeriale, e non anche quello effettivo, il potere-terrestre sulla società
religiosa, la Chiesa, da lui presieduta, potere quest’ultimo che i gallicani assegnano
allo Stato (272). L’assicurare alla gerarchia cattolica la sola direzione
spirituale delle coscienze — negandole però il potere effettivo nell’ambito
della società della quale è manifestazione — conduce all’affermazione del
principio pagano della supremazia dello Stato rispetto alla religione e alla
Chiesa, come è realmente avvenuto, sia nei Paesi protestanti (273), sia nelle
nazioni cattoliche, prendendo, di volta in volta, il nome di “[…] Gallicanesimo,
di Giuseppismo, di Leopoldismo, di Cesarismo anglicano” (274).
Ora, insiste il sacerdote palermitano, se il fine
della società è quello di conservare e perfezionare l’uomo, in relazione alla
sua spiritualità, alla moralità e al suo destino eterno, non è possibile
sfuggire all’idea che il cattolicesimo, che dell’uomo rappresenta la verità,
conoscendone il fine ultimo, sia necessario a ogni società, dalla famiglia alla
“società politica” nazionale, per il raggiungimento degli scopi delle
stesse (275). Ciò vale, a maggior ragione, anche per la società religiosa delle
nazioni, che non potrebbe perseguire il proprio fine senza il cattolicesimo,
religione dalle caratteristiche dell’universalità, depositario della verità
naturale e rivelata, valevole per tutti gli uomini, di ogni tempo e di ogni
luogo; differente quindi dal protestantesimo, il quale “[…] non [è]
altro che il disprezzo della tradizione [che] si fortifica della
divinità della ragione e della Bibbia” (276). Da qui, sottolinea l’ex
generale teatino, sulla scia dell’insegnamento di san Bernardo di Clairvaux
(1090-1153) e dell’Aquinate, nasce la necessità di un Pontefice che sappia
riunire le nazioni, formando la repubblica cristiana, nel loro fine di
conservarsi e di perfezionarsi (277).
La società pubblica, chiarisce Ventura, può
storicamente presentarsi sotto quattro forme, “1° Nomade o
stabilita; 2° Non costituita o costituita; 3° Perfetta o imperfetta; 4°
Incivilita o barbara” (278). I quattro punti vengono da lui introdotti
e sviluppati con abbondanza di dati scritturistici e con riferimento ai
classici, ai Padri e ai dottori della Chiesa.
La prima società pubblica, “[…] risultante
dallo sviluppo della famiglia di Adamo in famiglie” (279), non è mai
stata nomade e si è trovata stabilita sul territorio nel medesimo tempo in cui
si è costituita. Tuttavia, un gruppo sociale che non si è ancora stabilito
permanentemente in un territorio non si trova mai allo stato selvatico o
naturale, come sostengono i materialisti. Per costoro l’uomo naturale è simile
alle bestie; altri invece dicono che l’uomo selvatico è “[…] l’uomo
della natura, l’uomo compìto, l’uomo perfetto […] non avente che i suoi
istinti per regola” (280). In realtà ogni gruppo tende naturaliter
a stabilirsi su un dato territorio, perché questo, e solo questo, è il suo
stato naturale. Nessuna famiglia, nessuna società, secondo quanto dicono
Aristotele e san Tommaso (281), è cominciata dallo stato di selvatichezza;
anzi, laddove un qualche stato di selvatichezza è presente, questa determina la
distruzione della società stessa, la sua morte (282). L’uomo, prosegue il
teatino, tende naturalmente a costituirsi in società, come il fanciullo aspira
a diventare adulto (283). Essendo Dio il creatore di tale natura, Dio è il
creatore anche della “società civile” (284).
La società pubblica è costituita solo quando essa
rende a Dio un culto pubblico, “[…] esercitato da uomini
speciali o dal sacerdozio” (285), e la giustizia viene esercitata a
norma di una legislazione scritta “[…] applicata a’ casi
speciali dal sovrano o da’ suoi delegati” (286). In assenza di questi
due aspetti la società non può dirsi costituita; e, contrariamente a quanto
affermano “[…] i partigiani della repubblica degli atei”
(287), non sono mai esistite società atee.
La società pubblica conosce anche un terzo stato: essa
può essere imperfetta o perfetta. Si ha il primo caso quando la società
appartiene “[…] ad un capo od a una famiglia in
particolare” (288), come ai primi tempi successivi al diluvio
universale. In quel periodo, come attesta la Scrittura, “[…] i
popoli e le nazioni appartenevano ai figli ed ai nipoti di Noè” (289),
che esercitavano un potere di semplice educazione dei figli. Formatesi nuove
famiglie con i figli divenuti a loro volta padri, “[…] l’ufficio
dei loro avoli [cambia] radicalmente […], dovendo mantener l’ordine
fra numerose famiglie […] il loro Potere, da dimestico che era, [diventa]
naturalmente Potere pubblico e la loro paternità [si muta], sempre
naturalmente, in una vera dignità reale” (290). Re naturali,
quindi, patriarcali, non eletti, né di origine contrattuale: si tratta, secondo
la definizione di Ugo Grozio [Huig Van Groot (1583-1645)], di reami
patrimoniali, unici esempi di potere non conferito dal popolo, guide comunque
di una società imperfetta (291), perché dipendente da un capo o da una
famiglia.
Il passaggio dalla società imperfetta a quella
perfetta si ha allorquando le famiglie non dipendono più da un capo, causa il
naturale sviluppo e il moltiplicarsi delle famiglie; ciò le porta ed essere
indipendenti le une dalle altre e a costituirsi in potere di sé medesime;
quindi signore e padrone di sé, “sui juris, in sua potestate”
(292). Anche nel caso di conquista del territorio da parte di una potenza
straniera, seppure attraverso una guerra giusta, la società perfetta non perde
la sovranità: “[…] il popolo sottomesso, […] il medesimo
Potere vinto, conservano la pienezza dei loro diritti” (293).
Infine, la società è incivilita, quando
professa la vera religione, perché non si dà vero incivilimento se non nel
rispetto, nell’amore, nell’affetto dell’uomo per l’uomo, incarnati nei costumi
e anche protetti dalle leggi (294). Una “società politica” che
professa una falsa religione e che adotta una legislazione conforme ad essa è
semplicemente barbara, “[…] perché la barbarie non è che il
disprezzo e il mercato dell’uomo per l’uomo, che dai costumi passa nelle
leggi” (295). E l’uomo barbaro non è l’uomo naturale, ma l’uomo
degenerato che “[…] ha sperperato il patrimonio divino della
verità e della giustizia delle leggi; e nella storia dell’umanità
l’incivilimento ha sempre preceduto la barbarie, come la verità ha sempre
preceduto l’errore, e l’innocenza il delitto” (296).
Forte dell’insegnamento della Scrittura, di san
Tommaso e della seconda Scolastica, di Suarez in particolare, dopo aver
evidenziato l’assoluta necessità di un potere in ogni comunità perfetta,il
sacerdote palermitano affronta il tema della forma di potere pubblico
preferibile, restringendo il campo alla monarchia e alla repubblica e
annoverando fra quest’ultima anche i governi costituzionali. Delle due,
tuttavia, non indica quale sia la migliore, perché la forma istituzionale più
adatta deve sempre essere quella che corrisponde alle particolari contingenze
storiche. Ventura è comunque della convinzione che ogni potere pagano è un
potere assoluto e che il potere cristiano è essenzialmente temperato. E
suffraga queste asserzioni con dei precisi riferimenti alla storia
dell’umanità, antica e moderna, dando pure testimonianza di una grande
erudizione (297).
Passando poi a illustrare la dignità e l’origine
divina del potere pubblico, il padre teatino censura l’ateismo, il panteismo e
l’idealismo, con i loro corollari del naturalismo, del fatalismo e
dell’umanitarismo. Questi errori, già presenti in nuce nelle prime
eresie apparse in seno alla nascente cristianità — l’arianesimo, l’origenismo e
il manicheismo —, non presentano la verità sull’uomo (298). Pertanto, si deve
ribadire la concezione antropologica cattolica, per la quale l’uomo, composto
di corpo e di spirito, è capace di conoscere la verità, partendo dai dati
forniti dalla sensibilità, per riconoscere in sé “[…] la verità
del cuore [che è] in certa guisa la virtù della mente” (299).
La Bibbia, relativamente alla storia umana, è profetica e storica, perché
registra le cadute e le resurrezioni umane (300).
Analogamente, in campo politico, l’uomo è caduto in
due gravi errori: l’assolutismo, per il quale il potere deriva immediatamente
da Dio, escludendo ogni intervento dell’uomo, e la rivoluzione, che stima il
potere come “[…] un fatto dell’uomo, […] una invenzione
puramente umana” (301). La verità, invece, è che il potere politico
deriva da Dio, è un’istituzione divina non conferita direttamente a chi il
potere lo esercita; essa è mediatamente, cioè indirettamente, affidata al
principe dalla comunità o dal popolo, come “[…] fatto immediato
della società perfetta” (302), sicché l’uomo sottomettendosi al
potere, non ubbidisce a un uomo come uomo, ma “[…] all’uomo come
rappresentante di Dio, come esercitante l’azione di Dio” (303).
Questa verità politica e tutte le verità morali e
religiose sono comunicate da Dio all’uomo, fin dalla creazione del mondo;
l’uomo, pertanto, apprende dal Creatore i mezzi per sussistere fisicamente e
per alimentare il proprio spirito con le verità sociali e religiose (304). Pure
l’autorità dei principi malvagi, relativamente all’origine e alla sorgente da
cui scaturisce, è divina, ma deve essere condannata per gli abusi da essa
esercitati, pur essendo permessa da Dio, come afferma sant’Ambrogio
(339-340?-397), per castigare i popoli corrotti ed empi. Tale dottrina,
radicata anche fra i pagani e che costituisce il “[…] dogma
dell’origine divina del potere” (305), ha, da sempre, il consenso dei
popoli cattolici, essendo esposta chiaramente nella Scrittura, sostenuta dai
Padri e dai dottori della Chiesa (306). E tuttavia il “dogma”è
osteggiato dagli assolutisti, dai protestanti e dai rivoluzionari (307).
Essendo la società perfetta la vera detentrice del
potere, essa, in certi casi, può resistere al potere pubblico, cambiare la
forma istituzionale e deporre le persone che la governano, “[…] nell’interesse
della sua conservazione e della sua prosperità” (308) poiché “salus
populi suprema lex esto” (309). Il religioso palermitano pensa che
tale potestà sia fondata sul diritto naturale e, con san Tommaso e con Suarez,
riduce a quattro i casi in cui è lecita l’opposizione al potere pubblico e cioè
a) quando esso viola le leggi sostitutive delle Stato, compiendo abusi di potere;
b) quando si tramuta in tirannide; c) allorché diventa un nemico pubblico del
Paese che gli è soggetto; d) quando toglie al popolo ogni forma di
rappresentanza e ogni mezzo legale per far presenti i bisogni e le lamentele.
In questo modo, attraverso l’autorità delle Scritture
e degli scolastici e producendo pure numerosissimi esempi e considerazioni di
carattere storico, il padre teatino respinge le argomentazioni dei pubblicisti
regi che vedono sempre una rivolta contro Dio in ogni forma di opposizione al
sovrano (310).
La sua riflessione prosegue nella delucidazione dei
concetti di legittimità, “[…] la conformità delle cose alle
leggi costitutive” (311), e di legalità, la “[…] conformità
delle cose colle leggi regolamentarie” (312), per poi applicarli, con
dovizia di riferimenti storici e scritturistici, alle situazioni politiche del
passato e del presente, riconoscendo nelle varie situazioni presentate i poteri
legittimi e quelli usurpati.
L’usurpatore, tuttavia, a seguito di una guerra
giusta, esercita ugualmente un potere legittimo, quando rispetta la
costituzione che il popolo conquistato si è data. Al riguardo, Ventura porta
l’esempio del governo dell’Austria in Lombardia, che di questo territorio ha
rispettato la costituzione, anche se, ammonisce il teatino, negli ultimi tempi
questa legittimità è venuta meno, così come è avvenuto con tutti i governi
della Restaurazione, che non hanno più riconosciuto le antiche costituzioni dei
loro Stati. La Francia, poi, ha avuto per molto tempo una costituzione
monarchica che ha assicurato al suo popolo un potere stabile e la libertà.
L’assolutismo ha sostanzialmente messo da parte questa legge fondamentale e le
continue rivoluzioni, che l’hanno resa ingovernabile, non sono state che la
continua richiesta della nazione di riavere la propria costituzione. I
legittimisti di ogni Paese, inoltre, sbagliano a confondere il diritto
ereditario della sovranità con il diritto di proprietà, quasi un contratto enfiteutico.
Il diritto alla sovranità si acquista solo con il consenso della nazione, che
deve essere dato, anche solo in modo implicito, tutte le volte che il potere
passa da una persona all’altra (313).
Negli ultimi capitoli, Ventura riflette sul diritto di
elezione, concludendo che ogni sistema elettorale basato sul censo, tipico dei
regimi liberali, è immorale ed illegittimo, poiché esclude dall’esercizio di
tale diritto le persone sprovviste di proprietà, i proletari, che, invece, per
diritto naturale, ne devono in ogni caso godere. Una legge di rappresentanza
centrata sulla paternità è, come già il teatino aveva sostenuto nella sua
proposta di legge elettorale per lo Stato Pontificio, la forma più appropriata,
i cui effetti benefici sono rintracciabili nel sistema elettorale
dell’Inghilterra e degli Stati Uniti (314).
Infine, Ventura conclude il Saggio con una
serrata critica alla centralizzazione del potere — frutto del diritto pubblico
pagano, per il quale lo Stato è il “[…] padrone assoluto delle
persone e dei beni d’ogni società pubblica” (315) —, i cui effetti
nefasti si sono visti in Francia con la politica di Luigi XIV, ma anche negli
Stati della Restaurazione, che a tale politica non hanno mai rinunciato.
In Italia, osserva il teatino, la politica di
centralizzazione trova la massima espressione nel Regno di Sardegna, sostenuto
dai “fusionisti”, che, abbandonata ogni idea confederativa, fanno
coincidere la “causa italiana” con la “causa piemontese”
(316), a discapito quindi delle monarchie e delle tradizioni politiche presenti
nella Penisola (317). Fra questi Ventura annovera Vincenzo Gioberti (1801-1852)
(318), il sacerdote e filosofo torinese che, pubblicata l’opera Del
Rinnovamento civile d’Italia (319), ha abbandonato il neoguelfismo e quindi
anche ogni idea confederativa sostenuta nel suo Del Primato morale
civile degli italiani (320).
Attualmente, continua padre Ventura, l’unico Stato
italiano a essere immune dalla centralizzazione è lo Stato della Chiesa;
solamente i governi instaurati dagli eserciti stranieri in epoca rivoluzionaria
ve l’hanno per breve tempo introdotta (321). L’idea poi di adottare in tutti
gli Stati il Codice Civile francese, voluto dai “fusionisti”, è del
tutto da rigettare. Ora, per il teatino, i popoli italiani sono contrari allo
Stato centralizzato, ma favorevoli a una forma confederativa (322). Tale idea
gli sembra essere presente nel progetto che “[…] il pio e dotto
abate Rosmini [Antonio Rosmini Serbati (1797-1855)]“ (323) ha
presentato a Pio IX. Pertanto, per ristabilire un ordine cristiano, occorre
intraprendere una grande opera di decentralizzazione del potere e ritornare
all’arte del “lasciar fare”; arte “[…] benedetta,
capace sola d’arrestare il socialismo da cui la società è minacciata”
(324). Ciò è possibile solo soppiantando il “[…] governo pagano,
o dell’arte di fare tutto” (325), il “[…] tristo
privilegio” (326) della rivoluzione che domina “[…] da
signore la religione, l’insegnamento, il Comune e la famiglia” (327).
Il Saggio sul potere pubblico, scritto in
Francia e rivolto principalmente all’élite politica francese, risente
certamente del clima politico culturale del tempo, non negli aspetti
dottrinali, ma nelle ricostruzioni storiche. Così, Ventura tende a mettere in
secondo piano l’influsso della Riforma protestante e delle guerre di religione
sulla nascita del pensiero politico rivoluzionario, rimarcando il ruolo
fondamentale dell’assolutismo monarchico, rappresentato da Luigi XIV, e del
gallicanesimo; tutte le rivoluzioni, a suo dire, nascono da una rivolta dei re
contro i loro popoli. E nel rappresentare a Napoleone III il modello di monarca
da seguire per restituire alla Francia il suo cattolicesimo e la sua
costituzione naturale, il teatino non indica il Re Sole, ma Carlo Magno
(742-814) (328).
11.7 La denuncia dello spiritismo, la critica ai piani
di studio dei gesuiti e la difesa del tradizionalismo
Negli ultimi anni della sua esistenza, Ventura, pur in
condizioni di salute precarie, alterna la predicazione e lo studio: il 5
ottobre 1858 pronuncia il suo ultimo discorso pubblico sul tema del Matrimonio
cristiano (329); a dicembre pubblica Le delizie della pietà. Trattato
sul culto di Maria Santissima (330), ricevendo una lettera d’elogio di Pio
IX e l’anno successivo dà alle stampe il Corso di filosofia cristiana, ossia
Restaurazione cristiana della filosofia (331). Questa è l’ultima sua
fatica, che intraprende perché convinto che “[…] si è filosofato
e si filosofa almen da due secoli fuori della religion cristiana, e che una
tale filosofia insegna a’ giovani di fare poco o nessun conto di Dio gittandoli
nel razionalismo pagano” (332). È pure un periodo in cui il polemista
siciliano si interessa, con preoccupazione, dello spiritismo, del satanismo e
della negromanzia; un fenomeno, quello occultista, “[…] che,
partito dagli Stati Uniti dove era esploso nel 1848, tra il 1852 e il 1853 [si
è] diffuso con una progressione inarrestabile in Inghilterra, Germania,
Francia, e ha cominciato a lambire le maggiori città dell’Italia
settentrionale” (333).Ventura vi intravede la presenza del “[…]
diavolo, deciso a scatenare la sua offensiva contro il cattolicesimo”
(334). Di quest’ipotesi demoniaca il sacerdote siciliano è convinto
assertore, come stanno a testimoniare le corrispondenze che, a partire dal
dicembre 1857, egli ha con il cardinale Girolamo d’Andrea (1812-1868), prefetto
della Congregazione dell’Indice, e il sostegno dato, con delle lettere di
presentazione, a due volumi sulle tematiche demoniache e negromantiche degli
scrittori Henri-Roger Gougenot des Mousseaux (1805-1876) e Jules-Eudes de
Mirville (1802-1873) (335).
Un altro problema, ampiamente dibattuto nella società
francese, civile e religiosa, del tempo e sul quale Ventura prende posizione, è
quello educativo. Egli si fa divulgatore delle tesi dell’abbé Jean-Joseph
Gaume (1802-1879), che distingue fra un’educazione cristiana, centrata
fondamentalmente, anche se non esclusivamente, sullo studio dei testi sacri, e
un’educazione laica, sostanzialmente pagana, avente come base lo studio degli
autori classici (336). Su questi temi, Ventura parla in alcune conferenze alle
Tuileries, il cui contenuto è pubblicato ne Il potere politico cristiano,
sotto il titolo Sulla necessità di una riforma dell’insegnamento pubblico
nel vantaggio della religione (337).
Il religioso siciliano è per il metodo educativo
cristiano, contro quello pagano, secondo lui, adottato dai gesuiti, con i quali
poi entra in aperta polemica (338). Con queste convinzioni, per evitare che gli
“[…] ottantamila pagani, che le scuole vomitano ogni anno
[sul]
paese” (339) finiscano col corromperlo, propone a Napoleone
III di introdurre una riforma degli studi, che metta l’insegnamento religioso a
fondamento e coronamento di tutte le attività scolastiche (340). Inoltre è del
parere che gli autori pagani, la cui importanza culturale non vuole negare,
debbano comunque essere presentati ai giovani, ma solo nell’età della piena
maturità, per evitare che si formino degli spiriti ribelli (341), perché la “[…]
rivoluzione nasce da ciò che si apprende nell’adolescenza” (342).
In alcune delle lettere inviate al cardinale d’Andrea fra il 1855 e il 1857,
sconfessando nuovamente il suo precedente sostegno alla Repubblica Romana,
Ventura segnala come la rivoluzione del 1849 si sia ispirata alle dottrine e
alle liturgie pagane della Roma repubblicana, con questi risultati: ucciso il
ministro Pellegrino Rossi (1787-1848), il Papa è dichiarato decaduto e i
gesuiti vengono cacciati dagli stessi che hanno studiato nei loro collegi
(343).
La corrispondenza con l’alto prelato romano mette pure
in evidenza un altro aspetto dell’impegno apologetico di Ventura, questa volta
sul versante filosofico. Egli, nelle sue polemiche contro i razionalisti e i
semi-razionalisti, ritenuti i veri responsabili del gallicanesimo e, in ultima
analisi, dell’assolutismo centralizzatore, si schiera, nonostante i suoi
continui richiami al tomismo ed alla Scolastica, con i filosofi e gli apologeti
del tradizionalismo francese (344), i quali, influenzati anche dalla temperie
culturale romantica, ritengono che la ragione, senza la rivelazione, non può
pervenire, oltre che alle verità soprannaturali, anche a quelle naturali, che
la tradizione scolastica considera invece dimostrabili, quali l’esistenza di
Dio, l’immortalità dell’anima, la legge morale, la vita futura, destando non
poche preoccupazioni nella gerarchia romana (345). La conoscenza della verità è
quindi il frutto non della razionalità umana, ma di una rivelazione che Dio, al
momento della creazione, ha fatto all’uomo e che viene trasmessa alla stirpe
umana per mezzo della società.
Come altri tradizionalisti francesi — fra i quali
Augustin Bonnetty (1798-1979) e don Louis-Eugène-Marie Bautain (1796-1867) —,
pure Ventura perviene a una visione filosofico-religiosa, sostanzialmente
fideistica (346). Se si pensa che egli si propone di rimediare ai guasti del
razionalismo cartesiano, proponendo quello che lui sostiene essere il vero
tomismo, la sua adesione al tradizionalismo sembra perfino paradossale (347).
Aperto è quindi il suo contrasto con molti teologi, ma anche con La Civiltà
Cattolica, che, a suo parere, si sono compromessi con il cartesianesimo
(348).
Nel luglio 1855, la Congregazione dell’Indice fa
sottoscrivere a Bonnetty quattro proposizioni che risolvono la diatriba del
presunto contrasto fra ragione e rivelazione; la quarta proposizione, infatti,
afferma definitivamente che il tomismo non conduce al razionalismo. I teologi e
i vescovi francesi di tendenze gallicane colgono l’occasione per scatenare una
forte polemica contro L’Univers, il giornale di Veuillot, apertamente
schierato con il tradizionalismo francese. Grande è la delusione di Ventura,
che sperava invece di veder riconosciuti i propri meriti di filosofo e di
apologeta; lo sconforto si tramutata in forte dispiacere dopo il successivo
pronunciamento de La Civiltà Cattolica, che, nello stesso anno,
si schiera a difesa dei diritti della ragione, così come li ha sostenuti la
Congregazione dell’Indice (349).
Il sacerdote siciliano considera ormai colma la
misura, non potendo tollerare, a suo dire, che i veri cattolici vengano
severamente richiamati, mentre i gallicani, i cartesiani e i razionalisti in
genere sono elogiati dalle autorità ecclesiastiche. Decide allora di scrivere
una infuocata lettera a Pio IX, in cui denuncia l’operato e gli scritti del
clero e dell’episcopato francese, accusati, salvo poche eccezioni, di essere
razionalisti e sostanzialmente protestanti, praticanti e sostenitori di ogni
nefandezza morale, fra cui il concubinato, nel contesto di una preoccupante
diminuzione della fede nelle parrocchie francesi (350). La missiva è
attentamente letta dal Pontefice, il quale vi appone in calce una semplice
annotazione che riconosce nelle affermazioni del teatino delle verità, ma anche
delle esagerazioni, frutto della sua fervida fantasia (351).
Negli ultimi anni, durante l’estate, Ventura suole
trascorrere un periodo di riposo a Versailles, nei pressi di Parigi. In questa
località, il 18 luglio 1861, le sue condizioni di salute si aggravano. Chiede
di essere assistito da un sacerdote e che gli siano amministrati i sacramenti.
E mentre al suo capezzale giunge anche il generale dei Chierici Regolari, che
gli porta la benedizione del Sommo Pontefice, egli, quasi a lascito spirituale,
dichiara nuovamente la sua avversione verso il gallicanesimo e il suo disprezzo
nei confronti della filosofia moderna, aggiornata forma del paganesimo (352).
Gioacchino Ventura rende l’anima a Dio il 2 agosto
1861. Dopo le esequie a Versailles, il suo corpo viene traslato a Parigi e poi
a Roma, dove riposa nella chiesa di sant’Andrea della Valle, presso la casa
madre dei teatini.
12. Conclusioni
Legittimista e contro-rivoluzionario convinto, Ventura
approda a una severa critica dell’assolutismo e poi della Restaurazione, rintracciando
nelle fondamenta della società medioevale le radici delle libertà religiose e
civili e delle strutture sociali; una civiltà che può essere ricostruita
secondo modalità nuove. Il teatino, infatti, con rigore intellettuale,
alimentato da una profonda cultura storica, filosofica e scritturistica, supera
la pregiudiziale legittimistica, riconoscendo “[…] la relatività
delle forme istituzionali rispetto alla sostanza etico-politica che [può]
trovarsi in pur differenti forme di governo” (353). Fondamentalmente
egli anticipa un aspetto del pensiero politico-sociale di Leone XIII
(1878-1903), per il quale ogni popolo, fatta salva la giustizia, ha il diritto
di “[…] di darsi quel genere di governo che meglio convenga
alla loro indole, o alle istituzioni e ai costumi dei loro padri”
(354)e ogniforma di governo è buona purché sappia procedere “[…]
diritta verso il suo fine, cioè il bene comune” (355). La sua idea
di rappresentanza politica, inscindibilmente legata al concetto di sovranità
elaborato dalla seconda Scolastica, non può neppure essere confusa con quella
democrazia secolarizzata in seguito teorizzata dal gruppo francese del Sillon
e condannata da san Pio X (1903-1914) (356).
Il suo pensiero non è stato adeguatamente considerato
dalla storiografia “ufficiale” del Risorgimento. È stato detto,
infatti, che Gioacchino Ventura è “[…] un personaggio oggi
ignorato […]. Se egli avesse tradito la Chiesa, certamente sarebbe stato
riverito e sarebbe stato oggetto di attenzione da parte della storiografia
liberale” (357). Da parte di alcuni storici si vuole comunque vedere
in lui l’anticipatore del pensiero cattolico-liberale e degli ideali unitari
del Risorgimento, senza valutare che il suo cattolicesimo ha un’impronta
tradizionalistica, certamente non riconducibile alle tesi fondamentali del
liberalismo e che la sua idea di una confederazione italiana presieduta dal
Papa, condivisa con Rosmini, non può essere accomunata alle altre due proposte
unitarie, quelle avanzate dai liberali monarchici, stretti attorno alla causa
sabauda di forte accentramento del potere, e dai repubblicani mazziniani
sostenitori di un’unità nazionale negatrice dell’identità cattolica della
nazione. La religione, inoltre, è, per Ventura, una discriminante fondamentale
anche sul terreno politico, perché, così si esprime, pensare a una “[…]
libertà fuori del cristianesimo è contro il cristianesimo” (358) e “[…]
la libertà, senza la religione, degenera in anarchia” (359). La
libertà dipende quindi da una precedente scelta religiosa. Senza l’adesione al
cattolicesimo non è possibile vivere le libertà e in libertà; professare una
falsa religione conduce necessariamente a errare sul terreno politico e quindi
a non difendere la libertà (360).
Lo spessore del suo pensiero non lo distoglie dal fare
delle discutibili scelte nella concretezza degli avvenimenti politici del
tempo. Infatti, se può trovare giustificazione la sua collaborazione con il
governo siciliano del 1848, inserendosi la vicenda nella tradizione del
separatismo siciliano, rivendicato da secoli nei confronti di Napoli, non
condivisibile è per i cattolici il sostegno, ancorché in seguito più volte sconfessato,
che egli dà alla Repubblica Romana del 1849, una delle molteplici espressioni
dell’anticattolicesimo risorgimentale, i cui seguaci, come Rosmini gli fa
presente, si sono macchiati di atrocità, di delitti e di sacrilegi (361).
Difficile comprenderne la giustificazione, che pure Ventura cerca di dare nella
prefazione al suo Discorso funebre pei morti di Vienna. Sicuramente, il
padre teatino, convinto che la singola forma istituzionale sia di per sé
“neutra” e che, pertanto, di principio non sia condannabile
un’adesione a essa, non ne scorge, in quella contingenza storica, il reale
portato rivoluzionario, dato dal fil rouge che unisce i nuovi detentori
del potere a tutti quei mali sociali e politici che con profondità e acutezza
denuncia nei suoi studi: il democratismo protestantico, il giurisdizionalismo
assolutistico, il centralismo amministrativo. E tuttavia, egli si mantiene
ancorato, senza il timore di palesare contraddizioni, all’impianto dottrinale
cattolico, giungendo a prefigurare un potere politico saldato ai valori
cristiani (362).
Nonostante la sua riflessione, dottrinalmente fondata,
sull’origine del potere e della sovranità, le concrete opzioni politiche, unite
a un’attività propagandistica assidua e battagliera nel sostenerle, gli procurano
l’ostilità degli ambienti della Restaurazione, incomprensioni e avversioni fra
i legittimisti, anche fra quelli italiani, che, peraltro, nel nuovo corso
scaturito dal Congresso di Vienna, ravvisano, quanto lui, i tratti regalistici.
Ventura, oltre le letture ideologicamente interessate,
è apologeta e polemista di profonda fede, vissuta nell’esercizio instancabile
della missione sacerdotale, e di filiale dedizione al Papato, manifestata e
sostanziata, dopo le censure di Roma, nelle ritrattazioni e nelle sconfessioni
(363), ora del proprio operato politico, ora degli scritti, le quali,
considerato il suo temperamento particolarmente impulsivo e appassionato,
dovettero costargli molto, sia per il travaglio intellettuale, sia per la
rottura delle consolidate relazioni interpersonali che queste autocritiche
avrebbero poi comportato (364).
La descrizione della Rivoluzione come processo
plurisecolare, la proclamazione della necessità di un ritorno “[…] agli
originari principi dell’ordine cristiano” (365), innestati “[…]
sul tronco mutilo ma ancor vivo delle acquisizioni antiche” (366),
ne fanno comunque un significativo esponente del pensiero politico cattolico
dell’Ottocento, ma non assimilabile, se non per quanto riguarda la prima fase
della sua vicenda umana, alla scuola controrivoluzionaria, in primis,
per l’abbandono del campo legittimistico, e, poi, come è già stato detto, per
l’incoerenza fra i suoi postulati teorici e la valutazione di fatti politici
rilevanti, quali le rivoluzioni di Roma e di Vienna del biennio 1848-1849 e
l’avvento del Secondo Impero francese.
Può, tuttavia, essere condivisa la tesi di chi
sostiene che Gioacchino Ventura “[…] la cui vitalità sfugge e
supera le categorie e le classificazioni […] appare come una sorta di
grande cappellano militare di un cattolicesimo popolare, autoritario,
ultramontano” (367).
Paolo Martinucci
Note:
(1) Paolo Cultrera C.R. (1805-1884), Della vita e
delle opere del Rev. P. Gioacchino Ventura: ex generale dell’ordine dei Teatini,
Lorsnaider, Palermo 1877, p. 1.
(2) Sulla data di nascita di Gioacchino Ventura non
tutti i biografi sono d’accordo; infatti molti la collocano al giorno 8
dicembre, festa dell’Immacolata Concezione di Maria. Al riguardo, cfr.
Francesco Andreu (1908-2002), Il p. Ventura de Raulica e i Gesuiti
(1808-1824), in Regnum Dei. Collectanea theatina a Clericis Regularibus
edita, anno LXVI, n. 136, Roma (pro manuscripto) 2010, pp. 193-238
(p. 195), in cui la disputa è chiarita.
(3) Cfr. ibid., p. 194.
(4) P. Cultrera, op. cit., p. 1.
(5) Ibid., p. 2.
(6) Cfr. F. Andreu, Il p. Ventura de Raulica e i
Gesuiti (1808-1824), cit., pp. 195-196.
(7) Cfr. ibid., p. 199.
(8) Ibid., p. 198.
(9) Cfr. ibid., p. 209; e P. Cultrera, op.
cit., pp. 2-3.
(10) Ibid., p. 4.
(11) F. Andreu, Il p. Ventura de Raulica e i
Gesuiti (1808-1824), cit., p. 214.
(12) Ibidem. Non risulta quindi confermata
l’opinione di Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa (1768-1838), diffusa
quando Ventura aveva preso le distanze dai legittimisti, secondo cui egli,
invece, sarebbe stato cacciato dalla Compagnia di Gesù per l’incapacità a
sottomettersi alla disciplina e alle dottrine dei Gesuiti (cfr. ibidem,
nota 58).
(13) Cfr. P. Cultrera, op. cit., p. 4.
(14) Ibid., pp. 4-5.
(15) F. Andreu, Il p. Ventura de Raulica e i
Gesuiti (1808-1824), cit., p. 218.
(16) Gioacchino Ventura, C.R., Decisione del
giornale costituzionale sopra de’ Regolari riesaminata al tribunale del buon
senso, s.e., Napoli 1820.
(17) Cfr. Idem, Considerazioni sopra gli ordini
regolari dettate dalle attuali circostanze, Miranda, Napoli 1820;
con lo stesso titolo è stato successivamente pubblicato in Opere del p.
Gioacchino Ventura, a cura di Gabriele De Stefano, 13 voll., Saracino,
Napoli 1864, vol. XIII, pp. 389-429.
(18) P. Cultrera, op. cit., p. 6.
(19) Cfr. ibid., p. 7.
(20) Cfr. ibid., p. 14.
(21) Cfr. [G. Ventura,] Programma, Napoli 26
Maggio1821, in Enciclopedia ecclesiastica, e morale, anno I, tomo I,
Sangiacomo, Napoli giugno-luglio-agosto 1821, pp. III-XVII (pp. XVI e XVII).
(22) Cfr. Paolo Pastori, La diffusione del pensiero
di Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, in Robertino
Ghiringhelli e Oscar Sanguinetti(a cura di), Il cattolicesimo
lombardo tra Rivoluzione francese, Impero e Unità, Esa, Edizioni
Scientifiche Abruzzesi, Pescara 2006, pp. 99-129 (p. 106).
(23) Cfr. P. Cultrera, op. cit., p. 8.
(24) Cfr. [G. Ventura,] Colpo d’occhio sopra le
cagioni della decadenza della Religione nel Regno delle Due Sicilie, in Enciclopedia
ecclesiastica, e morale, anno I, tomo I, cit., pp. 3-27 (pp. 6-20).
(25) Cfr. ibid., p. 13.
(26) Ibidem.
(27) Ibid., p. 20.
(28) Cfr. P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 108.
(29) Cfr. [G. Ventura], Malattie dello spirito. La
febbre tricolore, in Enciclopedia ecclesiastica, e morale, anno I, tomo I,
cit., pp. 37-40 (pp. 37-39).
(30) Ibid., p. 80.
(31) Ibidem.
(32) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 110.
(33) Cfr. ibidem.
(34) [G. Ventura,] Malattie dello spirito. La
febbre tricolore, cit., pp. 80-88 (p. 83).
(35) Cfr. ibid., p. 84.
(36) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 110.
(37) Cfr. [Marie-Louis-Auguste Demartin du Tyrac,] Discorso
del signor Conte de Marcellus sulla legge repressiva dei delitti della stampa,
recitato nella Camera dei Deputati di Francia nella seduta del 25 Gennaro,
in Enciclopedia ecclesiastica, e morale, anno II, tomo III, Sangiacomo,
Napoli gennaio-febbraio-marzo 1822, pp. 289-297 (p. 295 e p. 296); [Idem,] Discorso
del signor Conte de Marcellus pronunziato alla Camera dei deputati di Francia
nella seduta del 14 maggio, ibid., anno I, tomo I, pp. 137-155.
(38) Cfr. P. Pastori, La diffusione del
pensiero di Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., pp.
111-112.
(39) Cfr. Ferdinando I [re del Regno delle Due Sicilie
(1751-1825),] Decreto reale del 7 giugno 1821, in Enciclopedia
ecclesiastica, e morale, anno I, tomo I, cit., pp. 117-118; cfr. Raffaele
De Giorgio [Direttore della Real Segreteria di Stato degli affari
Ecclesiastici], Circolare ai Vescovi ed Arcivescovi del Regno delle due
Sicilie del 6 giugno 1821, ibid., pp. 118-120.
(40) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 113.
(41) Ibidem.
(42) [G. Ventura,] Osservazioni sopra i
dibattimenti precedenti, in Enciclopedia ecclesiastica, e morale,
anno I, tomo I, Sangiacomo, Napoli giugno-luglio-agosto 1821, pp. 201-215 (p.
203).
(43) Cfr. ibid., pp.202-204.
(44) Ibid. p. 206.
(45) Cfr. ibid., pp.
206-208.
(46) Cfr. ibid., pp.
228-232.
(47) Cfr. P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 114
(48) Ibidem.
(49) Cfr. [G. Ventura,] Dell’Origine del Potere,
in Enciclopedia ecclesiastica, e morale anno II, tomo IV, Sangiacomo,
Napoli aprile-maggio-giugno 1822, pp. 3-22 (pp. 11-12).
(50) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 115.
(51) Ibidem.
(52) Ibidem.
(53) Cfr. ibid., pp.
115-116.
(54) Cfr. Jospeh de Maistre, Du Pape, 2 voll.,
Rusand-Beaucé, Lione-Parigi 1819; Idem, Del Papa nel suo rapporto con la
politica, trad. it., 2 voll., Porcelli, Napoli 1822 e 1823; e Idem Il
Papa, con Introduzione di Carlo Bo (1911-2001), note a cura di
Jacques Lovie (1908-1987) e Joannès Chetail (1909-2002), trad. it., Rizzoli,
Milano 1995.
(55) Cfr. Hugues-Félicité Robert de Lamennais, Saggio
sull’indifferenza in materia di religione, trad. dal francese della
contessa Ferdinanda Montanari Riccini, 4 voll., G. Vincenzi e Compagno, Modena
1824-1827.
(56) Cfr. Gabriel-Ambroise de Bonald, La législation
primitive considérée dans les derniers temps par les seules lumières
de la raison, Le Clerc, Parigi 1817, nonché la traduzione italiana in Idem,
La legislazione primitiva, Sangiacomo, Napoli 1823, dove, nel primo
tomo, è inserito il saggio di padre Ventura.
(57) Avvertimento degli Editori, in G. Ventura,
La ragione filosofica e la ragione cattolica. Ragionamenti predicati a
Parigi nell’anno 1851, Pirotta e C., Milano 1852, pp. 1-8 (p. 1).
(58) P. Cultrera, op. cit., p. 11.
(59) Cfr. P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., pp. 116-117 e p.
120.
(60) G. Ventura, Saggio sul potere pubblico o
Esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale, Rossi, Genova 1859,
pp. 403-404. L’opera, summa del suo pensiero politico, è stata
ripubblicata a cura di Eugenio Guccione, con un suo saggio introduttivo, in G.
Ventura, Il potere pubblico. Le leggi naturali dell’ordine sociale (1859),
Ila-Palma, Palermo-San Paolo del Brasile 1988.
(61) Cfr.P. Pastori, La diffusione del
pensiero di Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p.
117.
(62) Cfr. ibidem.
(63) Mario D’Addio, Gioacchino Ventura dalla
Restaurazione alla Rivoluzione, in E. Guccione (a cura di), Gioacchino
Ventura e il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento. Atti
del seminario internazionale, Erice (Trapani), 6-9 ottobre 1988, 2 voll.,
Olschki, Firenze 1991, vol. I, pp. 1-37 (p. 9).
(64) Ibid., p. 13.
(65) Idem, Il concetto di democrazia in Ventura,
ibid., vol. II, p. 578.
(66) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 119.
(67) Ibidem.
(68) Cfr. ibidem.
(69) G. Ventura, Memorie di religione di morale e
di letteratura, in Giornale ecclesiastico di Roma, tomo III,
Poggioli, Roma luglio-agosto-settembre 1825, pp. 131-142 (p. 133).
(70) Cfr. F. Andreu, Il p. Ventura de Raulica e i
Gesuiti (1808-1824), cit., p. 226
(71) Cfr. ibidem.
(72) Cfr. Giuseppe Pignatelli, Aspetti della
propaganda cattolica a Roma da Pio VI a Leone XII, Istituto per la Storia
del Risorgimento Italiano, Roma 1974, p. 47.
(73) Cfr. ibid., p. 301 e M. D’Addio, Gioacchino
Ventura dalla Restaurazione alla Rivoluzione, in E. Guccione (a cura di), Gioacchino
Ventura e il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento,
cit., p. 11.
(74) Cfr. G. Pignatelli, op. cit., pp.
305-306.
(75) Cfr. P. Cultrera, op. cit., pp.
16-17.
(76) Cfr. G. Ventura, Saggio sul potere pubblico,
in Giornale ecclesiastico di Roma, tomo IV, Poggioli, Roma
ottobre-novembre-dicembre 1825). Questo studio anticipa molti dei temi che
saranno trattati in Idem, Saggio sul potere pubblico o Esposizione delle
leggi naturali dell’ordine sociale, cit.
(77) Cfr. Karl Ludwig von Haller, La restaurazione
della scienza politica, trad. it., a cura di Mario Sancipriano (1916-2004),
3 voll., Utet. Unione Tipografica Editrice Torinese, Torino 1963-1981.
(78) Cfr. G. Ventura, Saggio sul potere pubblico o
Esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale, cit., pp. 99-129 (pp.
99-111).
(79) Cfr. ibid., pp.
121-123.
(80) Cfr. ibid., p.
121.
(81) Ibid., p. 126.
(82) Cfr. Idem, De jure publico ecclesiastico
commentaria Sacrae Studiorum Congregationi judicio et censurae subjicienda,Bourlié, Roma 1826.
(83) Cfr. P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., pp. 121-122.
(84) Ibid., p. 122.
(85) P. Cultrera, op. cit., p. 18.
(86) Cfr. G. Ventura, La Francia nel suo rapporto
col cristianesimo,in Giornale ecclesiastico di Roma, tomo
III, Poggioli, Roma luglio-agosto-settembre 1825, pp. 193-247.
(87) Manlio Corselli, Legittimismo e
tradizionalismo in Ventura, in E. Guccione (a cura di), Gioacchino
Ventura e il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento,
cit., vol. I, pp. 129-143 (p. 141).
(88) Cfr. G. Ventura, Sulla disposizione degli
spiriti in Europa rispetto alla Religione e della necessità di
propagare i buoni princìpj, in Giornale ecclesiastico di Roma, tomo
III, Poggioli, Roma luglio-agosto-settembre 1825, pp. 17-52.
(89) G. Pignatelli, op. cit., pp.
305-306. Diversa è invece la tesi di Paolo Pastori, il quale ritiene che
Ventura cerca di mediare fra “[…] le idee antiche e le nuove
[…] dunque del tutto senza motivo [è] accusato dal Pignatelli di un
“virulento linguaggio” e di diffondere “tesi apocalittiche““
(P. Pastori, La diffusione del pensiero di Gioacchino Ventura nell’Italia
della Restaurazione, cit., p. 106). Ma Pignatelli si riferisce alle
modalità espressive usate da Ventura sul Giornale ecclesiastico di Roma,
mentre Pastori pensa che esse siano riferite all’esperienza napoletana dell’Enciclopedia
ecclesiastica, e morale.
(90) Cfr. G. Pignatelli, op. cit., p.
306.
(91) Cfr. ibidem.
(92) Cfr. P. Cultrera, op. cit., p. 18.
(93) Cfr. G. Ventura, De methodo philosophandi,
Perego-Salvioni, Roma 1828.
(94) Cfr. Idem, Le osservazioni sulle dottrine dei
signori de Bonald, de Maistre, de La Mennais e Laurentie, Perego–Salvioni,
Roma 1829.
(95) Cfr. Idem, Schiarimenti sulla quistione del
fondamento della certezza tratti da’ princìpi della scuola tomistica,
Perego-Salvioni, Roma 1829.
(96) Dario Caroniti, Potere pubblico, tradizione e
federalismo nel pensiero politico di Gioacchino Ventura, Rubbettino,
Soveria Mannelli (catanzaro) 2014, p. 61.
(97) Cfr. Marco Ravera, Il tradizionalismo francese,
Laterza, Bari 1991, pp. 74-75.
(98) D. Caroniti, op. cit., p. 62.
(99) Ibid., p. 8.
(100) Ibid., p. 69. Sul ruolo di Ventura nella
riscoperta della filosofia di san Tommaso nel secolo XIX, su questa forma di
tradizionalismo mitigato dal neotomismo e sui suoi riflessi nella definizione
di un pensiero politico ancorato ai princìpi cristiani, cfr. ibid., pp.
61-82. Nelle stesse pagine Caroniti analizza anche l’interpretazione che
Augusto Del Noce (1910-1989) ha dato del pensiero “reazionario”
maistriano, bonaldiano e lamennaisiano, che, per il filosofo pistoiese, era
sostanzialmente “modernista”, in quanto, sovrapponendo la politica
alla religione, era colpevole di sacrificare l’escatologia cristiana a una
ideologia immanentistica e laica della storia, che, sempre, risultava essere
manifestazione di una volontà divina.
(101) Cfr. P. Cultrera, op. cit., p. 21.
(102) Cfr. H.-F. Robert de Lamennais, Des progrès
de la Révolution et de la guerre contre l’Église, Marchand de Nouveautés,
Bruxelles 1829.
(103) E. Guccione, Il concetto di democrazia in
Ventura, in Idem (a cura di), Gioacchino Ventura e il pensiero politico
d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol. II, p. 577. Su questo
aspetto del pensiero di Ventura, cfr. pure P. Cultrera, op. cit.,
p. 25.
(104) [G. Ventura,] Lettre du P. Ventura, général
des Théatins, à MM. les rédacteurs de L’Avenir, Dentu, Parigi s.d., p. 7,
consultabile sul sito internet <http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k55267194>,
visitato il 21-2-2014, p. 4 (trad. mia).
(105) Cfr. M. Corselli, op. cit., pp.
131-132.
(106) G. Ventura, Della disposizione attuale degli
spiriti in Europa rispetto alla religione e della necessità di propagare i
buoni principi per mezzo della stampa, cit., p. 23.
(107) Cfr. Anna Morelli, Cattolici liberali belgi e
gli ideali mennaisiani, in E. Guccione (a cura di), Gioacchino Ventura e
il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol. II,
pp. 561-572 (p. 561).
(108) [G. Ventura,] Lettre du P. Ventura, général
des Théatins, à MM. les rédacteurs de L’Avenir, cit., p. 7 (trad. mia).
(109) P. Cultrera, op. cit., p. 25.
(110) Cfr. H.-F. Robert de Lamennais, Réponse à la
Lettre du P. Ventura, in L’Avenir, n. 119, 12-2-1831; la lettera è
pubblicata anche in Articles de L’Avenir, 7 voll., Vanlinthout et
Vandenzande, Lovanio (Belgio) 1830-1831, vol. III, pp. 30-43.
(111) Cfr. P. Pastori, La diffusione del pensiero
di Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 123.
(112) F. Andreu, Un aspetto inedito nel rapporto
Ventura-Lamennais, inE. Guccione (a cura di), Gioacchino Ventura
e il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol.
II, pp. 603-621 (p. 611).
(113) Cfr. ibid., p. 607.
(114) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 124.
(115) Cfr. F. Andreu, Un aspetto inedito nel
rapporto Ventura-Lamennais, cit., p. 608 e p. 612.
(116) Ibid., p. 605.
(117) Ibid., p. 610.
(118) Cfr. ibid., p.
607.
(119) P. Cultrera, op. cit., p. 27.
(120) Cfr. H.-F. R. de Lamennais, Défense de
l’Essai sur l’indifference en matière de religion, Méquignon Fils
Ainé-Périsse Freres, Parigi-Lione 1821, nonché l’edizione italiana Idem, Difesa
del Saggio sull’indifferenza in materia di religione, traduzione dal
francese della contessa Ferdinanda Montanari Riccini, Vincenzi e Compagno,
Modena 1824.
(121) Sui rapporti fra Ventura e la contessa
Ferdinanda Riccini e, in particolare, sull’iniziativa di quest’ultima per
sanare la frattura fra papa Gregorio XVI e il teatino, cfr. F. Andreu, Un
aspetto inedito nel rapporto Ventura-Lamennais, cit., p. 615.
(122) Cfr. ibid., pp. 615-616.
(123) La prima lettera di Ventura al pensatore
bretone, trasmessa per il tramite di un intermediario, il conte Friedrich
Christian Ludwig Senfft von Pilsach (1774-1853) — diplomatico austriaco,
convertito al cattolicesimo e legato ai gruppi del tradizionalismo francese —,
risale al dicembre 1821, quando il teatino gli offre la disponibilità, poi
accettata, a tradurre in italiano l’Essai sur l’indifference en matière de
religion. In seguito, i due si sarebbero incontrati la prima volta a Napoli
nel 1824, in occasione del viaggio del francese in Italia, iniziando un
rapporto di amicizia durato una decina d’anni (cfr. Jean Marie Mayeur, Ventura
et Lamennais, in E. Guccione (a cura di), Gioacchino Ventura e il
pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol. II,
pp. 525-533).
(124) Cfr. F. Andreu, Un aspetto inedito nel
rapporto Ventura-Lamennais, cit., p. 617.
(125) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 124.
(126) Cfr. F. Andreu, Un aspetto inedito nel
rapporto Ventura-Lamennais, cit., p. 613.
(127) Ibid., p. 617.
(128) Cfr. H.-F. R. de Lamennais, Paroles d’un
croyant, Renduel, Parigi 1833 (trad. it., Parole di un credente,
prefazione di C. Bo, introduzione e note di Louis le Guillou (1929-2009),
Rizzoli, Milano 1991).
(129) Cfr. F. Andreu, Un aspetto inedito nel
rapporto Ventura-Lamennais, cit., p. 618.
(130) Cfr. ibidem.
(131) Cfr. P. Cultrera, op. cit., pp. 27-46.
(132) Cfr. ibid., pp. 27-46.
(133) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 125.
(134) Il Manoscritto, che Ventura aveva dettato
a uno scrivano nel 1833durante il suo esilio a Modena presso i conti
Riccini, fu scoperto nel 1938 da una studiosa palermitana, Rosalia Rizzo
(1914-1996), nella biblioteca della cittadina siciliana di Agira (Enna) e in
parte pubblicato dalla stessa nel suo Teocrazia e neocattolicesimo nel
Risorgimento. Giornale ecclesiastico e sviluppo del pensiero politico del p. G.
Ventura attraverso un manoscritto inedito, Sandron, Palermo-Milano 1938.
(135) G. Ventura, Dello spirito della rivoluzione e
dei mezzi di farla terminare, a cura di E. Guccione, Giappichelli, Torino
1998. Sulle vicende della copia originale del Manoscritto, che,
depositata nella biblioteca della casa madre dei teatini presso Sant’Andrea
della Valle a Roma, viene ritrovata ad Agira, per poi andare persa nel corso di
avvenimenti legati al secondo conflitto mondiale — sembra sia stata trafugata
durante l’occupazione americana della Sicilia —, cfr. E. Guccione, Presentazione.
Un inedito del 1833 anticipatore del liberalismo cattolico italiano, ibid.,
pp. 1-3; e R. Rizzo, Introduzione, ibid., pp. 15-17.
(136) Cfr. P. Pastori, op. cit., pp.
124-127.
(137) Ibid., p. 124.
(138) La critica all’assolutismo regio degli Stati
europei, declinato nelle varie dottrine dispotiche del regalismo, del
giurisdizionalismo e del gallicanesimo, di cui non fu immune nemmeno Napoleone
Bonaparte (1769-1821), è sviluppata in molte pagine del Manoscritto; per
l’approfondimento, cfr. G. Ventura, Dello spirito della rivoluzione e dei
mezzi di farla terminare, cit., p. 86, p. 124, p. 148 e pp. 150-174.
(139) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 124.
(140) Cfr. ibidem.
(141) Cfr. ibid., p.
126.
(142) Ibidem.
(143) Cfr. G. Ventura, Dello spirito della
rivoluzione e dei mezzi di farla terminare, cit., pp. 124-155 e p. 293.
(144) Ibidem.
(145) Cfr. P. Pastori, La diffusione del pensiero
di Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 127.
(146) Cfr. ibidem.
(147) Ibidem.
(148) Cfr. G. Ventura, Dello spirito della rivoluzione
e dei mezzi di farla terminare, cit., pp.120-123.
(149) P. Pastori, La diffusione del pensiero di
Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 126.
(150) Cfr. J. de Maistre, Considerazioni sulla
Francia, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1985, pp. 7-19 (n. trad. ed ed.,
a cura di Guido Vignelli, Editoriale il Giglio, Napoli 2010).
(151) Cfr. G. Ventura, Dello spirito della
rivoluzione e dei mezzi per farla cessare, cit., pp. 296-297.
(152) Cfr. Idem, Paolo III e Pio IX e la nuova arma
di Roma, in Idem, Opere complete del rev. Padre Gioacchino Ventura,
2 voll., Rossi-Turati, Genova-Milano 1860, vol. I, pp. 179-195; e P. Cultrera, op.
cit., pp. 55-57.
(153) La grafica del nuovo stemma proposto da Ventura
si trova all’inizio, quasi a ornamento, del volume G. Ventura, Opere
complete del rev. Padre Gioacchino Ventura, cit.; cfr. pure P. Cultrera, op.
cit., p. 56; la descrizione riportata in quest’ultimo, in verità, è in
parte differente da quella sopra presentata.
(154) Cfr. G. Ventura, Elogio funebre di don
Giuseppe Maria Graziosi, in Idem, Raccolta di elogi funebri e lettere
necrologiche, Rossi, Genova 1852, pp. 365-402.
(155) Cfr. P. Cultrera, op. cit., pp.
67-71; E. Guccione, Aspetti del pensiero politico di Gioacchino Ventura,
in G. Ventura, Il potere pubblico. Le leggi naturali dell’ordine sociale
(1859), Ila-Palma, Palermo-San Paolo del Brasile 1988, pp. 9-39 (p. 33),
nonché Jacques Prévotat, Le séjour de G. Ventura à Paris, in E. Guccione
(a cura di), Gioacchino Ventura e il pensiero politico d’ispirazione
cristiana dell’Ottocento, cit., vol. II, pp. 535-560 (p. 556).
(156) G. Ventura, Discorso funebre per i morti di
Vienna, cit., pp. 3-110.
(157) Ibid., p. 100.
(158) Cfr. P. Pastori, La diffusione del pensiero
di Gioacchino Ventura nell’Italia della Restaurazione, cit., p. 127.
(159) Cfr. ibid., p. 128.
(160) G. Ventura, Discorso funebre per i morti di
Vienna, cit., pp. 3-52.
(161) Sul ruolo di Ventura nelle vicende italiane del
periodo 1846-1848, cfr. i saggi contenuti in E. Guccione (a cura di), Gioacchino
Ventura e il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento,
cit., fra i quali Pasquale Hamel, Chiesa, unità e autonomia siciliana nel
pensiero politico di Ventura, vol. I, pp. 325-340; Umberto Muratore I.C., Libertà
e religione nei rapporti Ventura-Rosmini, pp. 145-162; Francesco Renda
(1922-2013), Ventura e la questione siciliana, pp. 237-251; Francesco
Michele Stabile, La corrispondenza diplomatica con la segreteria di Stato,
pp. 341-386; Francesca Riccobono, Il problema siciliano del 1848 nella
prospettiva politica europea: il giudizio di Gioacchino Ventura, pp.
387-408; Maria Sofia Messana Virga, Il problema istituzionale in Sicilia,
vol. II, pp. 409-498; Fausta Puccio, Ventura “commissario della Sicilia
a Roma”, pp. 499-524; Gabriella Gentile Portalone, Cenni sulla
libertà di commercio in Sicilia, pp. 737-752, e Bernard A. Cook, Ventura
and the United States, pp. 647-662.
(162) P. Hamel, op. cit.,
vol. I, p. 325.
(163) Cfr. G. Ventura, Elogio funebre di Daniello
O’ Connell, in Opere del P. Gioacchino Ventura, a cura di G. De
Stefano, cit., vol. VII, pp. 9-65.
(164) Cfr. ibid., pp.
19-21.
(165) Cfr. ibid., p.
40, p.51 e p. 53.
(166) Cfr. Idem, Saggio sul potere pubblico o
Esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale, cit., p. 510.
(167) P. Cultrera, op. cit., p. 78; si
tratta di uno stralcio della relazione che Ventura inviò alla Commissione
pontificia incaricata di redigere uno Statuto. Sul diritto di voto riconosciuto
ai padri di famiglia, cfr. pure G. Ventura, Saggio sul potere pubblico o
Esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale, cit., pp. 509-519.
(168) Cfr. Idem, Sopra una Camera di Pari nello
Stato Pontificio, Zampi, Roma 1848.
(169) Cfr. ibid., pp.
3-5.
(170) Ibid., p. 20.
(171) Cfr. ibidem.
(172) Cfr. Idem, La questione sicula del 1848
sciolta nel vero interesse della Sicilia, di Napoli e dell’Italia, Zampi,
Roma, 1848.
(173) Cfr. Idem, Memoria per il riconoscimento
della Sicilia come stato sovrano ed indipendente, Dato, Palermo 1848.
(174) Cfr. Idem, Le menzogne diplomatiche, ossia
l’esame dei pretesi diritti che s’invocano dal Gabinetto di Napoli sulla
questione siciliana, Tip. Di Via del Sudario, Roma 1849.
(175) Cfr. P. Cultrera, op. cit., pp.
80-83.
(176) F. Renda, op. cit., p. 238.
(177) Cfr. ibid., pp. 85-89; F. Riccobono, op.
cit., pp. 394-396; e F. Puccio, op. cit., pp. 503-507.
(178) M. S. Messana Virga, op. cit., p.
421.
(179) G. Ventura, La questione sicula nel 1848,
sciolta nel vero interesse della Sicilia, di Napoli e dell’Italia, cit., p.
5.
(180) Cfr. ibid., pp. 29-46.
(181) F. Renda, op. cit., p. 239.
(182) Cfr. ibidem.
(183) Cfr. G. Ventura, Memoria per lo
riconoscimento della Sicilia come Stato sovrano ed indipendente, cit., pp.
7-28.
(184) Cfr. ibid., p. 36.
(185) P. Cultrera, op. cit., p. 84.
(186) Cfr. G. Ventura, Menzogne diplomatiche,
ovvero esame dei pretesi diritti che s’invocano dal Gabinetto di Napoli nella
questione sicula, cit., p. 250.
(187) Ibid., p. 525.
(188) Circa il rifiuto di Ventura a far parte
dell’assemblea costituente della Repubblica Romana, non tutti gli storici
concordano. Paolo Cultrera sottolinea che il teatino si rifiutò di accettarne
la nomina, Guccione, invece, ritiene che Ventura accettò tale nomina, pur non
partecipando ad alcuna seduta di lavoro. Al riguardo, cfr. P. Cultrera, op.
cit., pp. 98-99 ed E. Guccione, Antonio Rosmini e Gioacchino Ventura
di fronte al problema dell’unità. Bozza per gli Atti dell’Undicesimo Corso
dei “Simposi Rosminiani” Antonio Rosmini e il problema storico
dell’unità d’Italia, Stresa (Verbania), Colle Rosmini, 25-28 agosto 2010,
consultabile sul sito internet <http://www.rosmini.it/Resource/CentroSt-
udi/Simposi/2010%20Simposio%20Guccione.pdf>,
visitato il 7 ottobre 2013, p. 3.
(189) Cfr. Idem, Aspetti del pensiero politico di
Gioacchino Ventura, cit., p. 33.
(190) Cfr. Cfr. P. Hamel, op. cit., p.
328; ed E. Guccione, Antonio Rosmini e Gioacchino Ventura di fronte al
problema dell’unità, cit.
(191) Cfr. P. Hamel, op.
cit., p. 328.
(192) Enzo Sciacca, Costituzionalismo e liberalismo
in Ventura, in E. Guccione (a cura di), Gioacchino Ventura e il pensiero
politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol. I, pp. 111-127 (p. 115).
(193) Ibid., p. 117.
(194) J. Prévotat, op. cit.,
p. 543 (trad. mia).
(195) P. Cultrera, op. cit., p. 109.
(196) Ibid., pp.
113-114.
(197) Cfr. ibid., pp.
131-139.
(198) Cfr. G. Ventura, La Ragione filosofica e La
Ragione cattolica, trad. it., Pirotta e C., Milano 1852.
(199) Cfr. ibid., pp.
9-146
(200) Cfr. ibid., pp.
147-214
(201) Cfr. ibid., pp.
215-314
(202) Cfr. ibid., p.
70.
(203) Cfr. ibid., pp.
147-214.
(204) Cfr. ibid., pp.
215-314.
(205) P. Cultrera, op. cit., pp. 162-163.
(206) Cfr. G. Ventura, Della vera e della falsa filosofia,
trad. it., Turati-Rossi, Milano-Genova1854.
(207) P. Cultrera, op. cit., p. 163.
(208) Cfr. G. Ventura, Della vera e della falsa
filosofia, cit., pp. 10-13.
(209) Ibid., p. 7.
(210) Ibidem.
(211) Cfr. ibid., pp. 16-18, nonché Idem, La
Ragione filosofica e La Ragione cattolica, cit., pp. 100-108.
(212) Cfr. P. Cultrera, op. cit., p. 165.
(213) Cfr. G. Ventura, Saggio sull’origine delle
idee e sul fondamento della certezza, trad. it., Turati- Rossi,
Milano-Genova 1854.
(214) Ibid., p. 6.
(215) Ibidem.
(216) Cfr. ibid., pp.
11-67.
(217) Cfr. ibid., pp.
67-128.
(218) Ibid., p. 130. Ventura
parafrasa sinteticamente i versetti di san Paolo, che così recitano: “[…]
21 quia, cum cognovissent
Deum, non sicut Deum glorificaverunt aut gratias egerunt, sed evanuerunt in
cogitationibus suis, et obscuratum est insipiens cor eorum. 22
Dicentes se esse sapientes, stulti facti sunt“ (Rom. I,
21-22).
(219) Ibidem.
(220) Ibid., p. 131.
(221) Ibid., p. 214.
(222) Cfr. ibidem.
(223) Cfr. ibid., pp. 258-266.
(224) P. Cultrera, op. cit., p. 168.
(225) Ibid., p. 167.
(226) Ibidem.
(227) Ibid. p. 169.
(228) Jean Marie Mayeur, Ventura et Lamennais,
in E. Guccione (a cura di), Gioacchino Ventura e il pensiero politico
d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol. II, pp. 533 (trad. mia).
(229) Cfr. P. Cultrera, op. cit., pp. 175-176.
(230) Cfr. ibid., pp. 177-178.
(231) G. Ventura, Lettera al re Ferdinando II,
ibid., p. 180.
(232) Cfr. ibidem.
(233) Ibidem.
(234) Cfr. P. Cultrera, op. cit., pp. 197-198.
(235) Cfr. ibid., pp. 198-200.
(236) Cfr. G. Ventura, Le donne del Vangelo,
trad. it., Stamperia Reale, Milano 1867. È una raccolta di omelie già
pubblicate a Roma prima dell’esilio francese e che Ventura riprende per la
predicazione nella parrocchia parigina di san Luigi d’Antin, ampliandole,
dandole poi nuovamente alle stampe (cfr. P. Cultrera, op. cit., p.
158-159).
(237) Cfr. G. Ventura, La donna cattolica,
trad. it., 2 voll., Cairo, Roma 1856.
(238) Cfr. P. Cultrera, op. cit. p. 197,
dove è trascritta la lettera di ringraziamento inviata da Isabella II a
Ventura.
(239) Ventura è schierato in favore della giovane
sovrana e polemizza in più occasioni con il partito carlista, sostenitore,
nella guerra civile spagnola (1833-1839), della legge salica. In particolare,
nella lettera del 17 luglio 1834, con la quale prende le distanze dalle tesi di
Lamennais, il teatino manifesta anche a Gregorio XVI la propria ostilità verso
i carlisti (cfr. F. Andreu, Un aspetto inedito nel rapporto
Ventura-Lamennais, cit., p. 618).
(240) G. Ventura, La tradizione e i semi-pelagiani
della filosofia, ossia il semi-razionalismo svelato, Turati-Rossi,
Milano-Genova 1857, p. 29.
(241) Ibid., p. 30.
(242) Ibid., p. 32.
(243) Cfr. ibid., p.
35.
(244) Ibid., p. 14.
(245) Ibid., pp. 14-15.
(246) Ibid., p. 47.
(247) Cfr. ibid., pp.
45-50.
(248) Cfr. ibid., pp.
38-45.
(249) Ibid., p. 48. Secondo E. Guccione, in
Ventura si può riconoscere un tradizionalismo che si differenzia in parte da
quello del primo Lamennais, trattandosi di un “tradizionalismo
mitigato”, che limita l’incapacità della ragione umana a individuare le
verità metafisiche (cfr. E. Guccione, Aspetti del pensiero politico di
Gioacchino Ventura, cit., p. 10). Sull’argomento cfr. anche F. Andreu, P.
Gioacchino Ventura. Saggio biografico, in Regnum Dei. Collectanea
theatina a Clericis Regularibus edita, anno XVII, Roma 1961, pp. 57-58 e
pp. 133-134; e Idem, Ventura di Raulica, Gioacchino, in Enciclopedia
Cattolica, 12 voll., Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il Libro
Cattolico, Città del Vaticano 1954, vol. XII, col. 1.239.
(250) G. Ventura, La tradizione e i
semi-pelagiani della filosofia, ossia il semi-razionalismo svelato, cit.,
p. 515.
(251) Cfr. ibid., pp.
513-517.
(252) Ibid., p. 517.
(253) Ibid., p. 39.
(254) Ibid., pp. 39-40.
(255) Ibid., pp.
204-205.
(256) Cfr. Idem, Il potere politico cristiano:
discorsi pronunciati nella Cappella imperiale delle Tuileries durante la
Quaresima dell’anno 1857, trad. it., Rondinella, Napoli 1860.
(257) Cfr. Louis Veuillot, Introduzione, ibid.,
pp. VII-XVIII (pp. XIII-XIV).
(258) Cfr. ibid., p. XV.
(259) Cfr. G. Ventura, La Chiesa e lo Stato, o
teocrazia e cesarismo, ibid., pp. 223-260 (pp. 243-260)
(260) Cfr. Idem, Sulla ristorazione dell’Impero in
Francia, ibid., pp. 291- 325 (p. 316 e pp. 326-328).
(261) Ibid., p. 308.
(262) Cfr. ibid., pp.
291-325. Ventura, inoltre, precisa quali siano le vere radici
della nazione francese: “Il solo cattolicesimo è la sua essenza, la sua
anima, la sua forza e la sua vita. Essa è dunque cattolica o nulla” (ibid.,
p. 304). Questa ascendenza religiosa, aggiunge il teatino, fu subito
riconosciuta anche dal fondatore del Primo Impero, Napoleone Bonaparte, che,
nonostante, avesse avuto dei contrasti con il papato, cercò di riappacificarsi
con la Chiesa, ravvisando nel cattolicesimo uno dei valori fondativi della
Francia post-rivoluzionaria (cfr. ibidem).
(263) Ibid., p. 307.
(264) Cfr. ibid., nota
57.
(265) G. Ventura, Saggio sul potere pubblico o
Esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale, cit., pp. VI-VII.
(266) Ibid., p. XXIV.
(267) Cfr. ibid., pp. VIII-IX.
(268) Ibid., p. XXIII.
(269) Cfr. ibid., p. 683.
(270) Ibid., p. 51.
(271) Ibid., p. 24.
(272) Cfr. ibid., p.
22-29.
(273) Cfr. ibid., p.
49-50.
(274) Ibid., p. 113.
(275) Cfr. ibid., pp. 51-74.
(276) Idem, La tradizione e i semi-pelagiani della
filosofia, ossia il semi-razionalismo svelato, cit., p. 579.
(277) Cfr. Idem, Saggio sul potere pubblico o
Esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale, cit., pp. 75-124.
(278) Ibid., p. 126.
(279) Ibidem.
(280) Ibid., p. 129.
(281) Cfr. ibid., pp.
131-132.
(282) Cfr. ibid., p.
131.
(283) Cfr. ibid., p.
133.
(284) Cfr. ibid., p.
134.
(285) Ibidem.
(286) Ibidem.
(287) Ibid., p. 138.
(288) Ibid., p. 139.
(289) Ibid., p. 140.
(290) Ibidem.
(291) Cfr. ibid., p.
141.
(292) Cfr. ibid., pp.
140 e 145.
(293) Ibid., p. 144.
(294) Cfr. Ibid., p.
150.
(295) Ibidem.
(296) Ibid., p. 151.
(297) Cfr. ibid., pp.
156-203.
(298) Cfr. ibid., pp.
204-205.
(299) Ibid., p. 204.
(300) Cfr. ibid., p.
205
(301) Ibid., p. 206.
(302) Ibid., p. 268; sull’origine immediata e
diretta del potere pubblico per mezzo della società, cfr. anche le pp. 268-313.
(303) Ibid., p. 266.
(304) Cfr. ibid., pp.
206-208.
(305) Ibid., p. 225.
(306) Cfr. ibid., pp.
216-267.
(307) Cfr. pp. 314-333.
(308) Ibid., p. 415.
(309) Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), De
legibus, l. IV.
(310) Cfr. pp. 334-414.
(311) Ibid., p. 415.
(312) Ibidem.
(313) Cfr. ibid., pp.
415-505.
(314) Cfr. ibid., pp.
506-544.
(315) Ibid., p. 617.
(316) Cfr. ibid., p.
662.
(317) Cfr. ibid., pp. 657-663.
(318) Ventura, nel 1848, conosce Gioberti a Roma, dove
questi si trova in qualità di inviato straordinario del Regno di Sardegna, e,
sebbene non ne apprezzi il pensiero politico, quando il piemontese si presenta
alla sua porta di casa, gli concede quel colloquio richiesto con insistenza. Il
religioso siciliano annota con scrupolo i temi trattati e nel Saggio ne
fa una sintesi, esprimendo anche tutta la sua contrarietà ad ogni soluzione
“fusionistica” della questione italiana (cfr. ibid., pp.
657-665 e P. Cultrera, op. cit., pp. 92-93).
(319) Cfr. Vincenzo Gioberti, Del Rinnovamento
civile d’Italia, 2 voll., Bocca-Chamerot, Torino-Parigi 1851.
(320) Cfr. Idem, Del primato morale e civile degli
italiani, 3 voll., Meline, Bruxelles 1843.
(321) Cfr. G. Ventura, Saggio sul potere pubblico o
Esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale, cit. ibid.,
pp. 651-668.
(322) Cfr. ibid., pp.
614-667.
(323) Ibid., p. 666.
(324) Ibid., pp.
683-684.
(325) Ibid., p. 683.
(326) Ibid., p. 674
(327) Ibidem.
(328) Cfr. J. Prévotat, op. cit., pp.
559 e 560.
(329) Cfr. G. Ventura, Il matrimonio cristiano,
trad. it., Rondinella, Napoli 1859.
(330) Cfr. Idem, Le delizie della pietà. Trattato
sul culto di Maria Santissima,trad. it., Cairo, Roma 1861.
(331) Cfr. Idem, Corso di filosofia cristiana,
ossia restaurazione cristiana della filosofia, trad. it., Rossi, Genova
1863.
(332) P. Cultrera, op. cit., p. 221.
(333) Giuseppe Monsagrati, Polemiche inedite
dell’ultimo Ventura, in E. Guccione (a cura di), Gioacchino Ventura e il
pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol. II, pp. 701-736 (pp. 704-705).
(334) Ibid., p. 705.
(335) Cfr. ibid., p.
706.
(336) Cfr. ibid., pp.
710-711. Questi i volumi dell’abbé francese: Jean-Joseph Gaume, Le
Catholicisme dans l’éducation ou l’unique moyen de sauver la science et la
societé, Gaume Frères, Parigi 1835; Idem, Le ver rongeur des societés
modernes ou le paganisme dans l’éducation, Gaume Frères, Parigi 1851; e
Idem, La Révolution. Recherches historiques sur la propagation du mal en
Europe depuis la Renaissance jusqu’à nos jours, 4 voll., Gaume Frères,
Parigi 1856.
(337) Cfr. [G. Ventura,] Sulla necessità di una
riforma dell’insegnamento pubblico nel vantaggio della religione, in Idem, Il
potere politico cristiano: discorsi pronunciati nella Cappella imperiale delle
Tuileries durante la Quaresima dell’anno 1857, cit., pp. pp. 45-112.
(338) Cfr. ibidem.
(339) Ibid., p. 93.
(340) Idem, Sulla necessità di una riforma dell’insegnamento
pubblico nel vantaggio della letteratura e della politica, ibid.,
pp. 113-146.
(341) Cfr. G. Monsagrati, op. cit., pp.
710-711.
(342) Ibid., p. 711.
(343) Cfr. ibidem.
(344) I filosofi scolastici più ortodossi, fra cui il
domenicano côrso, nonché cardinale, Tommaso Maria Zigliara (1833-1893),
criticavano il tomismo di padre Ventura perché la sua gnoseologia aveva una
caratterizzazione molto empirica, limitando in modo significativo le facoltà
della ragione. Costoro ritenevano che il pensiero del teatino fosse
riconducibile al tradizionalismo, non a quello moderato ma addirittura a uno
“rafforzato”, essendosi egli allontanato considerevolmente dalle
dottrine della conoscenza di san Tommaso (cfr. ibid., p. 713).
(345) Cfr. G. Monsagrati, op. cit., pp.
712-713.
(346) Secondo il teologo Giovanni Perrone S.J.
(1794-1876), i citati tradizionalisti francesi dovrebbero essere definiti “soprannaturalisti”
(cfr. don Pietro Cantoni, “Tradizionalismo” e Tradizione, in
Pier Luigi Zoccatelli e Ignazio Cantoni (a cura di), A maggior gloria di
Dio, anche sociale. Scritti in onore di Giovanni Cantoni nel suo settantesimo
compleanno, Cantagalli, Siena 2008, pp. 69-83 (p. 70, nota 6).
(347) Cfr. G. Monsagrati, op. cit., p.
713, nota 47.
(348) Cfr. ibidem.
(349) Cfr. ibid., pp.
713-715.
(350) Cfr. ibid., pp.
715-716.
(351) Cfr. ibid., p.
716.
(352) Cfr. ibid., p. 719.
(353) P. Pastori, Ventura lettore di Bonald, in
E. Guccione (a cura di), Gioacchino Ventura e il pensiero politico
d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, cit., vol. I, pp. 213-216 (p. 215).
(354) Leone XIII, Lettera enciclica Diuturnum
illud, del 29 giugno 1881, in Enchiridion delle encicliche. 3. Leone XIII
(1878-1903), a cura di Erminio Lora e Rita Simionati, Edb. Edizioni
Dehoniane Bologna, Bologna 1997, pp. 170-195 (p. 175).
(355) Idem, Lettera enciclica Au milieu des
sollicitudes ai vescovi francesi, del 16 febbraio 1892, ibid.,
pp. 692-719 (p. 703 e p. 705).
(356) Cfr. San Pio X, La concezione secolarizzata
della democrazia. Lettera agli Arcivescovi e ai Vescovi francesi “Notre
charge apostolique”, n. trad. it., Edizioni di Cristianità, Piacenza
1992.
(357) Gabriele De Rosa (1917-2009), Sturzo mi disse,
Morcelliana, Brescia 1982, p. 58.
(358) G. Ventura, Discorso funebre per i morti di
Vienna, cit., p. 45.
(359) Ibid., p. 3.
(360) Cfr. G. Monsagrati, op. cit., p.
717.
(361) Cfr. U. Muratore, op. cit., p.
148.
(362) Cfr. F. Riccobono, op. cit., p.
388.
(363) Cfr. D. Caroniti, op. cit., p. 59.
(364) Nel 1849, a Montpellier, Ventura è sollecitato
dagli ambienti liberali francesi a ribellarsi al Papa e a criticare
l’organizzazione gerarchica della Chiesa. Egli risponde dando alle stampe
un’opera, Lettere al Signor L. T. Ministro protestante — molto
apprezzata a Roma —, in cui rimarca i motivi della sottomissione e della
obbedienza dovute al Papa (cfr. ibidem; e in particolareG.
Ventura, Lettere ad un Ministro protestante ed altri scritti minori del rev.
P. G. Ventura, Turati, Milano 1854, pp. 7-100).
(365) P. Pastori, Ventura lettore di Bonald,
cit., p. 216.
(366) Ibidem.
(367) J. Prévotat, op. cit., p. 559
(trad. mia).
(367) J. Prévotat, op. cit., p. 559 (trad. mia).
fonte http://www.identitanazionale.it/pers_g004.php
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