Alta Terra di Lavoro

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15 agosto 1863, la legge Pica: permise all’Italia lo sterminio delle genti del Sud

Posted by on Apr 27, 2019

15 agosto 1863, la legge Pica: permise all’Italia lo sterminio delle genti del Sud

Nell’agosto del 1863 le armi avevano smesso di rimbombare da tempo anche a Gaeta e a Civitella del Tronto, ultimi baluardi borbonici. Il trono che era stato di Carlo d’Angiò, Alfonso il Magnanimo e Carlo III di Borbone fu assimilato da quello di Casa Savoia. Il Regno delle Sicilie non esisteva più già da un paio d’anni. Il presente era così diverso e lontano da quel passato, il quale aveva reso in maniera unica Napoli e il Mezzogiorno protagonisti della grande storia, che tutto appariva caduco, invivibile ed impensabile fino a qualche mese prima.

In questo mondo nuovo, sorto dalle ceneri di un’età irripetibile, c’era però chi voleva continuare ad ancorarsi ardentemente a quel tempo. C’era chi non aveva esitato a mettere in discussione tutto, anche la propria vita, affinché quel passato potesse esistere ancora. Uomini innamorati della propria terra, identità e libertà, per la storiografia dominante: briganti.

L’Unità d’Italia era divenuta realtà, ma nel Mezzogiorno d’Italia si continuava a combattere. Malgrado la disparità di risorse, mezzi ed uomini, erano proprio i briganti a creare numerosi grattacapi all’esercito italiano con azioni di guerriglia ed avventurose scorribande in molti paesi con l’intento di portare la popolazione locale alla ribellione. Col passare del tempo un numero sempre maggiore di persone si aggregò al movimento di resistenza postunitario e la cosa preoccupò le autorità competenti.

Già nell’estate del 1862 re Vittorio Emanuele II aveva proclamato lo stato d’assedio per le regioni dell’Italia meridionale, al fine di reprimere il fenomeno. Non ottenendo risultati soddisfacenti, a distanza di dodici mesi, si decise di promulgare la legge Pica. Era il 15 agosto 1863.

Il provvedimento fu emanato in deroga agli articoli 24 e 71 dello Statuto albertino, garanti dell’uguaglianza di tutti i sudditi davanti alla legge, ed introdusse il reato di brigantaggio. Per i colpevoli di tale crimine era previsto il giudizio dei Tribunali Militari che sorsero in tutte le regioni meridionali. Le pene previste erano la fucilazione, lavori forzati a vita o lunghi anni di carcere.

È stato notato che alla sospensione dei diritti costituzionali, la nuova disposizione governativa introdusse misure come la punizione collettiva per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro i villaggi. Veniva giustificato il concetto di responsabilità comune. La legge diede, in sostanza, un potere abnorme all’autorità militare su quella civile. Se su qualcuno ricadeva il sospetto di essere brigante, o era semplicemente il parente di un sospettato, veniva fucilato senza processo e senza possibilità alcuna di dimostrare la propria innocenza.

Moltissimi furono i soprusi e le prepotenze arbitrarie; intere famiglie vennero arrestate senza motivo, uomini assolti dai giudici continuarono a marcire in carcere e così via. Anche in Parlamento, viste le ingiustizie che si erano verificate, si sollevò un forte ma inconcludente dibattito. La legge Pica non faceva nessuna distinzione ed affrancava i militari, e i loro fucili, da ogni tipo di vincolo morale e giuridico. Il brigantaggio, movimento dagli ideali politici e legittimisti, venne ufficialmente assimilato al più becero banditismo.

Si pensi che nel breve lasso di tempo nel quale la legge speciale fu in vigore eliminò, tra esecuzioni ed arresti, 14000 briganti o presunti tali. Malgrado la durezza del provvedimento il governo non ottenne i risultati sperati. I briganti continuarono a lottare, con eroica ostinazione, la loro guerra ineguale contro l’esercito italiano fino al 1870.

Fonti:
– Cesare Cesari, Il Brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano dal 1860 al 1870.
– Mario D’Addio, Politica e magistratura (1848-1876).
– Gigi Di Fiore, Controstoria dell’Unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento.
– Francesco Saverio Nitti, Eroi e briganti. deuse

Antonio Gaito

fonte https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/storia/210743-legge-pica-brigantaggio/?fbclid=IwAR16j_UE5p14mq1-ny2zE5EKbq3BhVh2an9rFDL4d85k1SHxXqI0nNhTifo

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Quanto è costato al Sud l’unità d’Italia: uno scritto di Nitti

Posted by on Apr 6, 2019

Quanto è costato al Sud l’unità d’Italia: uno scritto di Nitti

Un passo di un celebre scritto del grande meridionalista fa giustizia di tutte le menzogne che ancora oggi si raccontano sulle vere ragioni dell’impoverimento del mezzogiorno

Francesco Saverio Nitti (1868-1953), insigne uomo politico, fu Presidente del Consiglio (dal 1919 al 1920), economista di rango, saggista, scrittore ed antifascista che nei suoi scritti e nei suoi saggi affrontò, come d’altronde lo fece dal canto suo con lucide analisi il socialista Gaetano Salvemini (1873-1957), la nascita e l’evolversi in Italia della “questione meridionale”. I due – tra i massimi esponenti del meridionalismo – nei loro saggi e nei loro scritti approfondirono le cause dell’arretratezza del Sud a seguito dell’unificazione nazionale.

Gaetano Salvemini nei suoi scritti pose la necessità di ancorare il movimento socialista su posizioni meridionaliste, sollecitando la strategica alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud. Francesco Saverio Nitti, la cui attività di economista fu apprezzata a livello internazionale, approfondendo le cause che determinarono, dopo l’Unità d’Italia, l’arretratezza e l’impoverimento del Sud, elaborò nei suoi scritti, dopo averne sviscerato le cause, numerose proposte per affrontare e superare la “questione meridionale”, analizzando, tra l’altro, le ragioni del brigantaggio nel Sud Italia che andava inteso, non come fenomeno criminale, ma come rivolta sociale popolare e contadina repressa nel sangue dalle truppe italo-piemontesi del generale Cialdini in una guerra civile che durò diversi anni.
A tal fine per zittire i falsi risorgimentalisti unitari e i mestatori della storiografia ufficiale freschi reduci dalle celebrazioni del 150° anniversario dell’unità ed ancora i leghisti che, dal canto loro, si ostinano a dire che il Sud è stato ed è la palla al piede del nostro Paese, sarebbe cosa buona e giusta che costoro per documentarsi, rinfrescarsi la memoria e correggere le loro distorte visioni della storia si vadano a rileggere, facendosene una ragione , a proposito di quanto anzidetto, quello che Francesco Saverio Nitti ebbe a scrivere nella sua opera: “L’Italia del Nord e l’Italia del Sud” e traendone alla fine le debite conclusioni

Francesco Saverio Nitti: “L’Italia all’alba del XX secolo (1901)Discorso Quarto”

“Il grande dissidio della vita italiana. L’Italia del Nord e l’Italia del Sud. Due cose sono oramai fuori di dubbio: la prima è che il regime unitario, il quale ha prodotto grandi benefizi,non li ha prodotti egualmente nel Nord e nel Sud d’Italia; la seconda è che lo sviluppo dell’Italia settentrionale non è dovuto solo alle sue forze, ma anche ai sacrifizii in grandissima misura sopportati dal Mezzogiorno. Quando per la prima volta sollevai la questione del Nord e del Sud e cercai farla passare dal campo delle affermazioni vaghe, in quello della ricerca obbiettiva, non trovai che diffidenze.
“Molti degli stessi meridionali ritenevano pericolosa la discussione e non la desideravano. Poichè appartengo a una razza di perseguitati e non di persecutori, ho appunto perciò maggiore il dovere della equità; e trovo che a quaranta anni di distanza cominciamo ad avere, non solo l’obbligo, ma anche il bisogno di giudicare senza preconcetti. Ora, ciò che noi abbiamo appreso dei Borboni non è sempre vero: e induce a grave errore attribuire ad essi colpe che non ebbero, ed è fiacchezza d’animo per noi tutti non riconoscere i lati manchevoli del nostro spirito e della nostra educazione, e voler attribuire ogni cosa a cause storiche.
“I primi deputati meridionali, scelti presso che tutti fra i patrioti più notevoli, ignoravano quasi completamente il Mezzogiorno. Erano in gran parte ideologi; antichi profughi; avvocati, maestri della parola e viventi di vecchie tradizioni letterarie. Da dieci anni la ricchezza dell’Italia settentrionale è grandemente cresciuta; nel Mezzogiorno vi è invece arresto e in qualche provincia vi sono anzi tutti i sintomi della depressione. La Lombardia, il Piemonte e la Liguria, godendo tutti i benefizi di un regime doganale fatto quasi ad esclusivo loro benefizio, dopo avere goduti i frutti di una politica finanziaria, che per quaranta anni riserbava ad essi i maggiori benefizi e al Sud i maggiori danni, sono in trasformazione profonda; sicchè il distacco fra il Nord e il Sud si accentua. E qualunque finzione per negare, non serve a nascondere la verità, che si manifesta in tutte le forme.
“Quando nel 1860 il regno delle due Sicilie fu unito all’Italia, possedeva in sé tutti gli elementi della trasformazione. L’Italia meridionale aveva infatti un immenso demanio pubblico. Le imposte dei Borboni erano mitissime e Ferdinando II avea cercato piuttosto di mitigarle che di accrescerle. Le accuse che Antonio Scialoja movea alla finanza borbonica, esaminate ora onestamente, sulla base delle pubblicazioni ufficiali, non resistono alla critica. Dal 1820 al 1860 il regime economico e finanziario dei Borboni determinò una grande capitalizzazione. Il commissario governativo mandato a Napoli da Cavour, dopo l’annessione, il cavaliere Vittorio Sacchi,riconosceva tutti i meriti della finanza napoletana, e nella sua relazione ufficiale non mancava di additarli. All’atto della costituzione del nuovo Regno, il Mezzogiorno, come abbiam già detto, era il paese che portava minori debiti e più grande ricchezza pubblica sotto tutte le forme.
“Furono venduti per centinaia di milioni i beni demaniali ed ecclesiastici del Mezzogiorno, e i meridionali, che aveano ricchezza monetaria, fornirono tutte le loro risorse del tesoro, comprando ciò che in fondo era loro;furon fatte grandi emissioni di rendita nella forma più vantaggiosa al Nord; e si spostò interamente l’asse della finanza. Gl’impieghi pubblici furono quasi invasi dagli abitanti di una sola zona.
“Ebbene: dal 1860 a oggi i 56 miliardi che lo Stato ha preso ai contribuenti sono stati spesi in grandissima parte nell’Italia settentrionale. Le grandi spese per l’esercito e per la marina; le spese per il lavori pubblici; le spese per i debiti pubblici; le spese per tutti gli scopi di civiltà e di benessere, sono state fatte in grandissima parte nel Nord. Perfino le spese fatte nel Mezzogiorno furono in gran parte erogate per mezzo di ditte settentrionali.
“Ho un elenco quasi completo dei grandi appaltatori dello Stato dopo il 1862; non figurano che pochissimi meridionali. Le grandi fortune dell’Italia settentrionale sono state compiute mediante lavori pubblici o forniture militari; la storia del regime ferroviario da venti anni a questa parte, (la conversione delle obbligazioni tirrene è classico esempio) spiega non pochi spostamenti di ricchezza. Anche le tendenze imperialiste del Sud, frutto più che di ogni altra cosa, di ignoranza, sono state sfruttate ( ironia dei fatti!) da grossi interessi del Nord.
“La pochezza dei rappresentanti del Mezzogiorno e la confusione delle idee è stata tale che, per tanti anni, si è detto e si è pubblicato nella Camera e fuori che il Mezzogiorno pagava poco e viceversa otteneva il maggior benefizio delle spese allo Stato!In altri termini si è aggiunta la ironia crudele al danno; ironia dei fatti, se non delle intenzioni.[Ora dalle mie indagini risulta che, proporzionalmente alla sua ricchezza, il Sud paga per imposte di ogni natura assai più del Nord; e viceversa lo Stato spende molto meno].
“In queste landa la civiltà non è rappresentata spesso che dai carabinieri; e il Governo non appare che sotto le forme della prepotenza e della violenza, costretto, per conservare i suoi feudi politici, a consegnare ogni provincia, ogni zona nelle mani dei peggiori avventurieri parlamentari. Si credeva che le grandi spese per lavori pubblici fossero state fatte nel Mezzogiorno e ho dimostrato che non è vero; si credeva che i meridionali avessero invaso gli impieghi e ho trovato che tra gli impiegati il minor numero era di meridionali.La trasformazione rapida dell’Italia del Nord non è suo merito: è conseguenza di condizioni storiche e geografiche evidentissimi. E così anche la depressione del Sud non risponde ad alcuna necessità etnica; ma solo a condizioni che possono mutare e che noi crediamo dovranno mutare.
“Le prime grandi industrie che sono sorte nel Nord sono state fatte nella più gran parte da francesi, da tedeschi, da svizzeri: il libro d’oro dell’industria e del commercio di Lombardia abbonda di suoni gutturali e di desinenze aspre. Ora, invece, l’Italia meridionale è rimasta medioevale in molte province, non per sua colpa,ma perchè tutto l’indirizzo della politica interna, economica e doganale hanno determinato questo fatto. Tra l’Italia del Nord e l’Italia del Sud è ora più grande differenza che nel 1860: e, mentre la prima si avvicina ai grandi paesi dell’Europa centrale, per la sua produzione e per le sue forme di vita pubblica, la seconda ne rimane lontana, e, per la produzione sua, rimane anzi assai più vicina all’Africa del Nord.
“Sono tutte nel Mezzogiorno quelle regioni che non solo danno proporzionalmente alla loro ricchezza di più,ma quelle che ricevono meno in paragone di ciò che danno. Mentre le imposte sono dunque più aspre nel Sud, le spese sono in tutte le forme scarsissime. Si è detto e ripetuto sempre che lo Stato abbia fatto grandi spese per lavori pubblici nel Sud: ora, invece, ènel Nord che le più grandi spese sono avvenute. Le spese portuali, per le spiagge, per i fari, sono state e sono destinate quasi tutte al Nord: e così quasi tutte le altre spese. La massa degli impiegati dunque, alcontrario di ciò che si dice, è stata finora sempre dell’Italia settentrionale e della centrale; l’Italia meridionale e la Sicilia hanno avuto sempre nell’amministrazione dello Stato un’importanza scarsa.
“L’Italia meridionale, vivente degli impieghi, quale è stata dipinta, non è mai esistita: non si tratta che di una immorale leggenda. I confronti stabiliti in Nord e Sud fra Udine e Potenza: Alessandria e Bari; Verona e Avellino; Como e Salerno, dimostrano che povere province del Sud pagano tuttavia assai spesso più di ricche province del Nord, e che lo Stato, viceversa, fa minor numero di spese. La burocrazia nei più alti gradi era quasi esclusivamente composta di elementi settentrionali fin verso il 1880;anche ora è notevole la prevalenza di essi. La situazione tra il 1899 e il 1900 era questa: mentre l’Italia settentrionale rappresenta appena 36,8 di tutta lapopolazione del regno, ha 52,8 per cento di tutti gl’impiegati superiori: l’antico regno delle Due Sicilie,rappresentando una massa di popolazione superiore, cioè 37,9 ha appena 19,7 per cento dell’amministrazione centrale superiore. Tenendo anche conto del personale superiore del Ministero della guerra e della marina e degli ufficiali ammiragli, l’Italia settentrionale, che dice di combattere il militarismo,rappresenta 63,9 di tutto il personale indicato, l’Italia meridionale e la Sicilia, che hanno popolazione superiore, appena 13,5.
“Così dunque la leggenda, secondo cui i meridionali avrebbero una preponderanza nelle pubbliche amministrazioni, non ha nessuna base di realtà. Fra il 1860 e il 1870 vi erano Ministeri interi che quasi non avevano un solo meridionale; dopo le proporzioni si sono modificate, ma come ogni cosa, i meridionali sono rimasti sempre in una situazione di notevole inferiorità”.

fonte

https://palermo.meridionews.it/articolo/76324/la-storia-di-aldo-ed-helios-un-sogno-di-liberta-ricordi-di-un-giramondo-dalla-citta-che-amava/ lsd

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I progetti politici unitari del Risorgimento e la loro caratteristica elitaria

Posted by on Mar 13, 2019

I progetti politici unitari del Risorgimento e la loro caratteristica elitaria

Così, anche nella Penisola, nella prima metà dell’800, a livello di ristrette e colte elites, borghesi ed intellettuali, divenne sempre più presente e forte la convinzione dell’esistenza di un’unica Nazione Italiana che si faceva ascendere da alcuni all’impero romano, da altri al Medioevo; ad essa si facevano risalire i fasti del Rinascimento con il suo primato culturale indiscusso (che coincideva, con apparente paradosso, col punto più basso della rilevanza politica dell’Italia nel contesto europeo). Giovani universitari, avvocati, medici, giornalisti, scrittori, avevano formato il loro pensiero leggendo le opere di Foscolo, Berchet, Giusti, Giannone, Manzoni, Poerio, Pellico, Cuoco, D’Azeglio, Balbo, Botta e Gioberti (solo per citarne alcuni) e credettero fosse arrivato il momento di battersi per dare a questa Nazione uno Stato unitario; erano una esigua minoranza anche perchè solo pochissimi italiani sapevano leggere e scrivere (persino al momento dell’unità il loro numero superava a malapena il 20%).

Questa aspirazione ad un’unione statale della Penisola divenne il loro ideale da realizzarsi però tramite quattro progetti politici molto diversi e in palese conflitto tra loro: quello repubblicano-centralistico di Mazzini: repubblica e stato fortemente centralizzato; quello repubblicano-federale di Cattaneo il quale affermava che “gli italiani senza federalismo saranno sempre discordi, invidiosi, infelici[1]; quello monarchico-federale a guida papale di Gioberti, il quale, in antitesi al pensiero di Mazzini, faceva notare che “il popolo italiano“ non può essere soggetto d’azio­ne politica perché non è ancora altro che «un desiderio e non un fat­to, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa», per questo motivo la guida del risorgimento nazionale deve essere «monarchica ed aristocratica, cioè risedente nei prìncipi e avvalorata dal concorso degl’ingegni più eccellenti, che sono il patriziato naturale e perpetuo delle nazioni»; infine, quello monarchico-centralistico, il “tutto mio” dei Savoia. Alberto Banti, a proposito delle incompatibilità tra i quattro progetti politici unitari, scrive [2]:“Le fratture che correvano all’interno del mo­vimento nazionale erano di un tipo tale per cui chi avesse vinto la partita, avrebbe vinto tutto, e chi avesse perso sarebbe rimasto con un pugno di mosche in mano, in posizione politica (e spesso anche personale) del tutto marginale“. Anche per questo i massimi esponenti delle varie correnti di pensiero, si detestavano a vicenda, ad esempio Cavour affermava: ”Ciò che manca a Mazzini per essere un sommo rivoluzionario è il coraggio morale, l’intrepidità a fronte dei pericoli, il disprezzo della morte”, gli dava, insomma, del codardo, accusa peraltro ribadita da molti che criticavano “l’agiatissimo esilio” del Genovese e la sua contemporanea accesa retorica che spingeva altri soggetti a prendere le armi in pugno e a morire; “infame cospiratore e autentico capo di assassini” rincarava Cavour; di contro Mazzini gli rispondeva che “Io vi sapevo, da lungo tempo, tenero alla monarchia piemontese più assai che della patria comune; adoratore materialista del fatto più che di ogni santo, eterno principio…perciò se io prima non vi amavo, ora vi sprezzo”. Garibaldi, a sua volta, chiese a più riprese a Vittorio Emanuele II di liquidare Cavour il quale affermava che “Garibaldi è il più fiero nemico che io abbia”.

Bisogna, inoltre, rimarcare il fatto che “L’ingombrante presenza austriaca della penisolaponeva due ordini di problemi. Innanzi tutto, creava uno squilibrio permanente nei rapporti tra Stati italiani, dato che nessuno di essi aveva il peso ed il prestigio militare sufficienti a bilanciare l’influenza asburgica. In secondo luogo, catalizzava il problema italiano intorno alla parola d’ordine della cacciata dello straniero, ricca di suggestioni emotive …tali da far passare in secondo piano, come minimalista e inadeguato, qualunque programma volto a ottenere riforme costituzionali o amministrative nell’ambito degli ordinamenti esistenti…questa peculiarità italiana fece sì che la dimensione cospirativa di stampo settario (Mazzini)…avesse un peso rilevante[3] anche perché i programmi federalisti del Gioberti e di Cattaneo, rispettivamente monarchico e repubblicano, pur se rispettosi delle realtà secolari degli stati italiani, sostanzialmente fallivano nella soluzione del “problema Austria”.

Tutti questi progetti unitari “raccoglievano ostilità e soprattutto indifferenza nel popolo italiano”[4], nella prima metà dell’Ottocento, infatti, l’idea di un’Italia unita e indipendente non si era formata, com’era del tutto assente una coscienza nazionale; né sono da contrapporre a queste asserzioni le “spontanee insurrezioni popolari unitarie“ che si manifestarono nei vari stati italiani, esse erano notoriamente organizzate da agenti sabaudi, né tanto meno i risultati dei “plebisciti“ confermativi le annessioni piemontesi, che seguirono alla cacciata dei sovrani preunitari, e che nessuna mente intellettualmente onesta può definire, guardando alle modalità del loro svolgimento, libera espressione di volontà popolare.

Persino nel fervore delle guerre di indipendenza il sentimento di appartenenza ad un’unica patria era molto labile: nella prima, del 1848, i soldati piemontesi non mostrarono nessuna aspirazione alla causa unitaria e nazionale tanto che quando Gioberti e Brofferio (due importanti esponenti liberali e unitaristi) si presentarono al loro cospetto e tentarono di istruirli sul significato”risorgimentale” della guerra “le mille imprecazioni dei nostri Ufficiali il fecero desistere dalla sua impresa. [Brofferio] si fece accompagnare in vettura da tre Ufficiali per paura che per strada lo ammazzassero. Gioberti gli toccò la stessa sorte e un soldato finì per tirargli addosso un torsolo di cavolo”[5].

Nella seconda guerra (del 1859) “i soldati dell’esercito sardo, quasi esclusivamente contadini e popolani … non erano ancora ben persuasi che il Piemonte fosse in Italia, tanto è vero che ai volontari provenienti dalle altre regioni d’Italia rivolgevano la domanda: “Vieni dall’Italia?”[6]. Furono solo 10mila i volontari accorsi dalle altre regioni d’Italia (la popolazione complessiva di queste regioni era di 20 milioni di abitanti), un’ulteriore prova, se mai ce ne fosse bisogno, di quanto poco era sentita l’istanza di una unione politica dell’Italia, questo fatto riempì d’indignazione Cavour che si sfogò ripetutamente nella sua corrispondenza privata, i volontari arruolati a Torino, provenienti dalle Due Sicilie, furono 20 [7]. Il conflitto si svolse tra l’avversione del popolo piemontese, oppresso fiscalmente a causa della onerosissima politica estera governativa, l’indifferenza dei lombardi (protagonisti nel marzo del 1848 delle Cinque giornate di Milano) e l’ostilità dei veneti che si batterono valorosamente nelle fila dell’esercito austriaco.

Durante la terza (1866) quando a Lissa il comandante austriaco von Teghethoff annunciò agli equipaggi delle sue navi, composti quasi integralmente da veneti, che la battaglia contro la marina del regno d’Italia era stata vinta, essi lanciarono i berretti in aria in segno di giubilo e gridarono “Viva San Marco” [simbolo di Venezia].

Questo stridente contrasto tra gli ideali di una minoranza e le aspettative della grande maggioranza della popolazione fece causticamente commentare che “Il liberalismo, che pretende di essere l’interprete dei destini nazionali e della volontà popolare, è in realtà una parte che pretende di stare per il tutto, una minoranza ideologica che si autoconferisce l’identità di nazione…Italia fittizia che si sovrappone al Paese reale senza rappresentarlo[8] .

Passando dagli idealisti senza secondi fini, alle persone che invece avevano concreti interessi materiali, non vi è dubbio che dietro l’ideale unitario si creò una alleanza tra la borghesia settentrionale e i latifondisti meridionali; la prima, forte dell’appoggio politico del Piemonte, vedeva nell’unità la possibilità di espandere gli affari a danno di quella meridionale, la seconda patteggiò il sostegno ai Savoia in cambio della futura vendita sotto costo delle terre demaniali ed ecclesiastiche, privando in questo modo i contadini degli usi civici (cioè dell’uso gratuito delle terre dello Stato per la semina e il pascolo). La classe che fu fortemente penalizzata dal Risorgimento fu quella popolare la cui condizione economica peggiorò causando il tragico fenomeno dell’emigrazione “il popolo minuto era per il resto del tutto irrilevante ai fini del movimento nazionale, e ciò giova a spiegare come nessun elemento dirigente di quest’ultimo si prendesse la briga di conquistarne le simpatie[9]. Solo Garibaldi lo fece, ma solo strumentalmente, all’inizio della spedizione dei Mille: promise, con degli editti, le terre a chi lo avesse aiutato nella lotta contro i Borbone, poi, una volta ottenuto l’appoggio dei contadini, egli stesso ordinò la repressione di focolai di rivolte popolari, l’episodio più grave fu quello del paese di Bronte, in Sicilia. Qui ci fu la resa dei conti circa le promesse fatte: il 1° agosto 1860 i contadini, insorti contro i proprietari terrieri; uccisero una decina di “galantuomini”; il Nizzardo, sollecitato dal console inglese che gli intimava di far rispettare le proprietà britanniche lì presenti, e spinto anche dal verificarsi di rivolte contadine simili a Linguaglossa, Randazzo, Centuripe e Castiglione, inviò il 6 Agosto sei compagnie di soldati piemontesi e due battaglioni di cacciatori al comando di Nino Bixio, “una forza atta a sopprimere li disordini che vi sono in Bronte che minacciano le proprietà inglesi[10]. Bixio, arrivato a Bronte, uccise subito a freddo un rivoltoso ed emise un decreto con cui intimava la consegna delle armi, l’esautorazione dell’amministrazione comunale e la condanna a morte dei responsabili più una tassa di guerra per ogni ora trascorsa fino alla “pacificazione” della cittadina; nei giorni successivi incriminò cinque persone, tra cui un insano di mente, le quali dopo un processo farsa furono condannate a morte; gli accusati, che erano innocenti (i responsabili erano scappati prima dell’arrivo di Bixio), furono fucilati il 10 agosto e i loro cadaveri esposti al pubblico insepolti[11]. “Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi, ed altri villaggi lo [Bixio] videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva! Ma niuno osò più muoversi….se no ecco quello che ha scritto:“Con noi poche parole; o voi restate tranquilli, o noi, in nome della giustizia e della patria nostra, vi struggiamo [distruggiamo] come nemici dell’umanità[12].

I “galantuomini” avevano vinto su tutti i fronti e Garibaldi si dimostrò, quindi, come dice Denis Mack Smith, “il più religioso sostegno della proprietà“; lo aveva capito, già all’inizio della spedizione dei Mille, un frate siciliano, padre Carmelo, che declinò l’invito del garibaldino Giuseppe Cesare Abba di unirsi alle camicie rosse dicendogli:”Verrei, se sapessi che farete qualche cosa di grande davvero; ma ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete unire l’Italia…così è troppo poco.[13]

Marcello Veneziani[14] osserva, inoltre, che il Risorgimento provocò, per la sua preminente matrice liberale ed anticlericale, anche ”la frattura con l’anima religiosa del popolo italiano, la frattura con il mondo rurale e con i valori tipici di una civiltà contadina, la frattura con il Meridione”.

Interessanti, a quest’ultimo proposito, le opinioni di Denis Mack Smith e Paolo Mieli[15], dice il primo: “Contrariamente alla versione raccontata sui libri della storia ufficiale il popolo meridionale non partecipò al Risorgimento“ e aggiunge il secondo: “La stagione risorgimentale e post-risorgimentale è fatta di migliaia di morti, lotte, spari, massacri. Abbiamo vissuto una lunga guerra civile, di reietti contro buoni. Il popolo, soprattutto dell’Italia meridionale, è stato all’opposizione; lo era dai tempi delle invasioni napoleoniche [le cosiddette “insorgenze” contro i francesi che causarono decine di migliaia di vittime], c’erano stati moti molto forti, per diciannove anni, sino al 1815. Il popolo rimase sordamente ostile, perché legato all’autorità borbonica non percepita come nemica e alla Chiesa cattolica, che era una delle fonti istituzionali alle quali abbeverarsi. Il fenomeno ricordato nei nostri manuali come brigantaggio in realtà fu una guerra civile che sconvolse l’intero Sud, gli sconfitti lasciarono le loro terre e alimentarono la gigantesca emigrazione verso l’America “.

Nel giudizio storico sul distacco della popolazione meridionale dagli ideali di lotta allo straniero e di unità nazionale bisogna, al contrario di una superficiale e accusatoria storiografia ufficiale, mettere in conto che, a parte la sparuta minoranza che aveva nell’animo l’ideale unitario senza secondi fini utilitaristici, la massima parte dei meridionali, dal sovrano al più umile dei sudditi erano consapevoli di essere indipendenti da circa 800 anni, tanto contava il regno del Sud come età, e di avere, quindi, già una Patria bella e formata da secoli, lo straniero (l’Austria) era molto distante e non aveva più nessuna influenza, nè poteva minacciare le Due Sicilie.

Ci voleva, quindi, un grosso sforzo di immaginazione per pensare di poter mobilitare e soprattutto motivare uomini in armi per un ideale assolutamente incomprensibile. Il fatto che poi questo ideale unitario abbia prevalso nella realtà dei fatti, non vuol dire assolutamente che fosse l’inevitabile conseguenza del “secolo delle nazionalità”, almeno nel modo in cui si ottenne, tanto che anche molti accesi unitaristi affermarono che l’unità d’Italia era stata, per lo svolgimento degli avvenimenti, come un “terno a lotto” o un cosa che poteva riuscire una volta ogni cento anni…

Giuseppe Ressa


Note

[1] riportato da Alessandro Vitale nel Supplemento al n.10 di “Liberal”, febbraio 2002

[2] “ La nazione del Risorgimento”, Einaudi, 2000

[3] Roberto Martucci, “L’invenzione dell’Italia unita”, Sansoni, 1999

[4] Marcello Veneziani, Processo all’Occidente, ed. Sugarco, 1990, pag.225

[5] Giacomo Brachet Contol, “La formazione di Francesco Faà di Bruno”, citato da Francesco Pappalardo “Il mito di Garibaldi”, Piemme, 2002, pag. 94

[6] Girolamo Arnaldi, L’Italia e i suoi invasori, Laterza, 2003, pag. 179

[7] Gigi Di Fiore, I vinti del Risorgimento, UTET 2004, pag. 264

[8] Civiltà Cattolica serie IV, vol. 7 (30 agosto 1860), p.647 riportata da Giovanni Turco in “Brigantaggio, legittima difesa del Sud”, Il Giglio editore, 2000, pag. XX

[9] Denis Mack Smith, citato da Michele Topa, Così finirono i Borbone di Napoli, Fiorentino, 1990, pag.508

[10] Giuseppe Garibaldi, lettera del 3-8-1860, in Epistolario, vol. V p. 197 citato da Francesco Pappalardo, Il mito di Garibaldi, Piemme 2002, pag. 159

[11] in seguito fu celebrato un nuovo processo presso la Corte di Assise di Catania che nel 1863 comminò altre 37 condanne, di cui molte a vita.

[12] Abba, Da Quarto al Volturno, Oscar Mondadori, 1980, pagg.137-8

[13] ibidem, pag.68-69

[14] citato da F.M.Agnoli, “L’epoca delle Rivoluzioni”, Il Cerchio Itaca, 1999

[15] Dal quotidiano “La Stampa“ del 19 maggio 2001, pag. 23.

fonte http://www.ilportaledelsud.org/mr27.htm

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BUROCRAZIA BORBONICA

Posted by on Feb 28, 2019

BUROCRAZIA BORBONICA

Quando in itaglia, la pubblica amministrazione o la macchina dello Stato non va, o se una legge appare ingiusta, meschina, pignola, contro il cittadino, viene fuori il solito luogo comune: «burocrazia e/o leggi borboniche», dal chiaro significato negativo. Niente di più sbagliato, nel 1861, a seguito dell’unificazione politico-territoriale della Penisola, l’intera struttura statale italiana fu modellata su quella piemontese; l’ordinamento giuridico napoletano fu azzerato e delle leggi borboniche non fu conservato un bel niente! Eppure, si continua a parlare dispregiativamente di «stato borbonico», di «leggi borboniche», di «burocrazia borbonica», di «carceri borboniche», come in un’estasi di ignoranza o, peggio, di malafede. Se sfogliamo un vocabolario della lingua italiana, constatiamo che il termine borbonico viene qualificato come aggettivo dispregiativo, riferito al ramo della famiglia che regnò su Napoli e l’Italia meridionale dal 1734 al 1860, a cui hanno volutamente fatto acquisire l’accezione di retrogrado, oscurantista, reazionario, repressivo, ottuso, ingiusto, antiquato, inefficiente ecc…
Una vera e propria calunnia, frutto di una propaganda denigratoria per i governanti ed i legislatori dell’ex Regno delle Due Sicilie, perchè le cose stavano ben diversamente. A 159 anni dall’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte, possiamo affermare con cognizione di causa, che le leggi napoletane erano ottime, tanto che, nel 1852, l’imperatore francese Napoleone III inviò a Napoli una speciale commissione di giuristi e di alti funzionari, perché studiassero proprio la bontà di quelle leggi. Peraltro, nel 1902, lo storico inglese Bolton King (1860-1937) sostenne che «nessuno Stato in Italia poteva vantare istituzioni così progredite come quelle del Regno delle Due Sicilie»; il professor Giuseppe Cicala affermò che «per far funzionare il Sud, basterebbe far funzionare bene ciò che ci hanno lasciato i Borbone: leggi e regolamenti compresi». Lo Stato borbonico, infatti, eccelleva sotto gli aspetti sociale, culturale, industriale, economico, amministrativo ed aveva delle leggi all’avanguardia in numerosi settori; in particolare, il sistema giudiziario meridionale è stato riconosciuto da molti studiosi come il più avanzato dell’Italia pre-unitaria, in linea con la grandissima scuola meridionale di diritto. Sin dal 1774, era stato introdotto nell’impianto processuale napoletano l’istituto della Motivazione delle Sentenze, in linea con le teorie illuministe del giurista napoletano Gaetano Filangieri (1753-1788); e quando la tortura giudiziaria vigeva ancora con tutta la sua ferocia nel cosiddetto “liberale” Piemonte, le leggi borboniche già da un pezzo l’avevano vietata. Era stabilito, che la corrispondenza privata non potesse venire in alcun modo manomessa e che non fosse lecito imprigionare un povero debitore senza un giudizio di merito che ne avesse accertato la frode. È sufficiente consultare, presso l’Archivio di Stato di Napoli (fondo Archivio Borbone), la «Collezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie», per comprendere la modernità e l’elevato livello di civiltà giuridica che caratterizzavano l’Ordinamento duosiciliano.
In campo economico-sociale, nel 1789 (qualche mese prima della Rivoluzione francese), il re Ferdinando IV di Borbone (1751-1825) emanò il Codice-statuto delle Seterie di San Leucio, presso Caserta, per regolamentarvi la vita ed il lavoro degli operai e dei loro nuclei familiari. La colonia di San Leucio fu un progetto ideato e voluto dallo stesso re. L’opificio, conosciuto poi in tutta Europa per l’elevato livello tecnologico ed i cui pregiati manufatti venivano largamente esportati, divenne il fiore all’occhiello dell’industria del Sud. Si trattò di un vero e proprio miracolo (non solo sotto il profilo economico, ma anche sotto l’aspetto sociale), che stupì i contemporanei, realizzato sulla base delle teorie socio-economiche del già menzionato illuminista napoletano Gaetano Filangieri.
Il Codice Leuciano, ben presto tradotto in greco, francese e tedesco, anticipò di quasi un secolo le prime leggi sul lavoro varate in Inghilterra (previdenza, assistenza sanitaria, case ai lavoratori, asili nido, istruzione elementare obbligatoria e gratuita per i fanciulli). Esso perseguiva, obiettivi di convivenza moderni e mirava a realizzare una sorta di socialismo sociale sancendo per i componenti della colonia, la perfetta uguaglianza, con l’unica possibilità di differenziazione basata sul merito. Le giovani coppie avevano diritto di prelazione per sistemarsi. Fu così costruito un vero e proprio stabilimento di moderna concezione, che richiamò gente da fuori e famiglie intere in cerca di lavoro e reddito garantito. Lo statuto prevedeva un criterio retributivo, parsimonioso in anticipo sui tempi, una specie di piano contro il pauperismo del Sud; perché l’iniziativa «dev’essere» – sono parole del re Ferdinando – «utile alle famiglie, alleviandole da’ pesi, che ora soffrono, e portandole ad uno stato tale da potersi mantener con agio, e senza pianger miseria, come finora è accaduto in molte delle più numerose e oziose». Tessuti finissimi, stoffe damascate, lampassi preziosi uscirono per decenni dalle fabbriche leuciane e ben due terzi della produzione totale erano destinati all’esportazione verso gli Stati Uniti d’America. Se mai nella vostra vita aveste la possibilità di toccare la bandiera americana situata nella Sala Ovale della Casa Bianca o quella inglese di Buckingam Palace, sappiate che state toccando le pregiate sete provenienti da San Leucio. E non solo. Dalle seterie san leuciane provengono anche tessuti che si possono ritrovare in Vaticano e al Quirinale, per citare altri esempi dell’arte della piccola comunità. Dal 1997, San Leucio è Patrimonio dell’Umanità.
Con la Convenzione del 14 febbraio 1838, stipulata con la Francia e con l’Inghilterra, il Regno delle Due Sicilie si obbligò a combattere con le armi e con danaro pubblico, la tratta degli schiavi. Ferdinando II (1810-1859) volle in questo modo contrastare quello che lui definiva un «traffico abbominevole» e, nell’autunno del 1839, il re Borbone promulgò la «Legge per prevenire e reprimere i reati relativi al traffico conosciuto sotto il nome di Tratta de’ negri». Questa normativa, costituita da 15 articoli, prevedeva pene diverse a seconda che il bastimento, utilizzato per la tratta, fosse bloccato prima della partenza o venisse catturato dopo, in mare, senza che però il traffico fosse stato portato a termine. Potevano beneficiare di sconti di pena i membri dell’equipaggio che avessero avvisato per tempo la pubblica sicurezza; tali benefici, però, non potevano mai essere applicati in favore dell’armatore, del capitano, degli ufficiali, del proprietario della nave, dell’assicuratore e del prestatore di capitali. Incorreva nelle sanzioni anche chi fabbricava, vendeva o acquistava i ferri da utilizzarsi nella tratta. La pena era più grave, poi, se qualche schiavo negro fosse stato fatto oggetto di maltrattamenti o di omicidio. La Gran Corte criminale, competente per il giudizio in merito, aveva anche il compito di provvedere alla liberazione degli schiavi di colore, ai quali veniva consegnata gratuitamente «copia legale della decisione di libertà». Ricordando che questa era l’epoca in cui il commercio negriero era molto fiorente, soprattutto negli Stati Uniti d’America, ove lo rimase fino alla conclusione della Guerra di Secessione (1865). Una legge pionieristica, promulgata il 17 dicembre 1817 dal re Ferdinando I di Borbone, alla quale seguì il decreto n. 10406 del 19 ottobre 1846 del re Ferdinando II, regolamentava la concessione della cittadinanza agli stranieri. Essa, composta da soli tre articoli, fu la prima normativa della storia sull’immigrazione. Il suo principio informatore era quello secondo cui, per poter acquisire la cittadinanza nel Regno, uno straniero doveva risultare concretamente utile alla collettività ed, in nessun caso, poteva costituire un problema sociale od un peso economico per lo Stato. In particolare, all’articolo 1, così recitava: «Potranno essere ammessi al beneficio della naturalizzazione nel nostro regno delle Due Sicilie: 1. gli stranieri che hanno renduto, o renderanno importanti servizi allo Stato; 2. quelli che porteranno dentro lo Stato de’ talenti distinti, delle invenzioni, o delle industrie utili; 3. quelli che avranno acquistato nel regno beni stabili su’ quali graviti un peso fondiario almeno di ducati cento all’anno; al requisito indicato ne’ suddetti numeri 1, 2, 3 debbe accoppiarsi l’altro del domicilio nel territorio del regno almeno per un anno consecutivo; 4. quelli che abbiano avuto la residenza nel regno per dieci anni consecutivi, e che provino avere onesti mezzi di sussistenza; o che vi abbiano avuta la residenza per cinque anni consecutivi, avendo sposata una nazionale». Questa legge costituisce anche la prova inconfutabile che, prima dell’unità d’Italia, non solo i meridionali non conoscevano il triste fenomeno dell’emigrazione, ma che numerosi erano i casi di emigranti, dall’Italia settentrionale e dal resto del mondo, che venivano a stabilirsi al Sud. Infatti, il Regno delle Due Sicilie era meta ambita da svizzeri, piemontesi, genovesi, russi, austriaci, spagnoli, arabi, slavi e, soprattutto, francesi ed inglesi. Tali flussi migratori verso il nostro Sud forniscono, un dato inequivocabile: lo Stato meridionale era ricco e felice, vi era pace sociale e lavoro. La differenza di cultura, di religione e di lingua non erano motivi di discriminazione né, tanto meno, di emarginazione. Possiamo, quindi, affermare che la legislazione del Regno delle Due Sicilie, in materia di concessione della cittadinanza agli stranieri ed ai loro figli, era avanti, rispetto a quella attualmente in vigore nello Stato Italiano (ad iniziare dalla legge del 5 febbraio 1992, n. 91), di ben centosettantacinque anni!
Un decreto emanato il 3 maggio 1832 dal re Ferdinando II di Borbone, analizzava e regolamentava la situazione dell’igiene pubblica e della raccolta dei rifiuti dell’intero Regno delle Due Sicilie. Un’ordinanza della prefettura di polizia disciplinava, nei dettagli, lo spazzamento e l’innaffiamento delle strade, compresa una sorta di raccolta differenziata ante litteram per il vetro. In particolare, a Napoli, il prefetto dell’epoca, Gennaro Piscopo, ordinò ai napoletani: «Tutt’i possessori, o fittuarj di case, di botteghe, di giardini, di cortili, e di posti fissi, o volanti, avranno l’obbligo di far ispazzare la estensione di strada corrispondente al davanti della rispettiva abitazione, bottega, cortile, e per lo sporto non minore di palmi dieci di stanza dal muro, o dal posto rispettivo. Questo spazzamento dovrà essere eseguito in ciascuna mattina prima dello spuntar del sole, usando l’avvertenza di ammonticchiarsi le immondizie al lato delle rispettive abitazioni, e di separarne tutt’i frantumi di cristallo, o di vetro che si troveranno, riponendoli in un cumulo a parte». Nel dettagliato documento del prefetto di Napoli, composto da 12 articoli, venivano indicate le modalità della raccolta e chi ne era responsabile; si vietava di gettare dai balconi materiali di qualsiasi natura, comprese le acque utilizzate per i bagni, e di lavare o di stendere i panni lungo le strade abitate; venivano, infine, stabilite le pene per le contravvenzioni, non esclusa la detenzione. Questa legge borbonica aveva già risolto il problema della spazzatura quasi duecento anni or sono, annoverando Napoli tra le città più pulite d’Europa.
In campo giudiziario, i re Borbone legiferarono e si adoperarono per la più corretta amministrazione della Giustizia, garantendo in primis l’assoluta «indipendenza della magistratura» dagli altri poteri dello Stato. L’articolo 194 della legge del 29 maggio 1817, infatti, così recitava: «L’Ordine Giudiziario sarà subordinato solamente alle autorità della propria gerarchia. Niun’altra autorità potrà frapporre ostacolo o ritardo all’esercizio delle funzioni giudiziarie o alla esecuzione dei giudicati». Ferdinando II, ben sapendo «che nella pubblicità dei giudizi è riposta la più solenne guarentigia della loro rettitudine, e che codesta pubblicità è la scuola migliore che aver possa un popolo… ordinò e richiamò in osservanza la discussione pubblica di tutte le cause, mirando anche al motivo della gloria del foro, affinché non scemasse il pregio dell’eloquenza degli avvocati con lasciar trasandata la perorazione delle cause». Ai sensi dell’articolo 196 della stessa legge del 1817 menzionata, nessuno poteva essere privato di una proprietà o di alcuno dei diritti accordatigli dalle leggi dello Stato, se non per effetto di una sentenza o di una decisione passata in giudicato. Come non si può non citare il primo Codice Marittimo del mondo (1781), la cui stesura fu curata da Michele Iorio; e il primo Codice Militare d’Italia, promulgato nel 1820.
Infine, gli usi civici e l’istituto dell’enfiteusi, in virtù dei quali la terra veniva concessa in uso a chi la lavorava, per il sostentamento della propria famiglia, dietro pagamento della cosiddetta decima; in sostanza, i contadini erano detentori ed usufruttuari dei terreni demaniali, che restavano però sempre di proprietà pubblica. A quest’ultimo riguardo, non si può prescindere dal ricordare la Prammatica del 20 settembre 1836, di Ferdinando II, sul demanio e sugli usi civici, dal cui testo emerge chiaramente una caratteristica peculiare del Diritto napoletano: la salvaguardia dei diritti dei più deboli dalle prepotenze e dai soprusi dei più forti.
Quindi, si può ben affermare che la struttura statale e le leggi su cui si reggeva il regno borbonico, sono un lascito prezioso che probabilmente molti paesi vorrebbero ereditare e forse chi non può farsene carico deve screditarne la sostanza, attribuendo all’aggettivo borbonico un significato negativo. Le leggi borboniche, semplici ed efficaci, affondavano le radici nella culla del vero diritto e nella legge perfetta del Vangelo. Anche se laico, quel Regno aveva alla base gli elementi portanti di uno stato di amore fatto di tolleranza, mutuo soccorso ed equità sociale, propri del cattolicesimo. E questa fu una delle ragioni che decretarono la condanna morte del Regno delle Due Sicilie, in un mondo in cui le potenze capitalistiche ed ateo-massoniche dell’epoca stavano per sferrare la più vile e violenta delle aggressioni agli antichi Stati cattolici d’Europa. La nostra consapevolezza deve mutarsi in orgoglio di essere i discendenti e gli eredi di un popolo civile, laborioso, prospero e pacifico (mai aggressore, ma sempre aggredito!).

fonte “Un Popolo distrutto”

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LA RESISTENZA DUOSICILIANA

Posted by on Feb 14, 2019

LA RESISTENZA DUOSICILIANA

Proprio con la farsa dei plebisciti scoppiarono con grande violenza contro gli invasori piemontesi le prime rivolte, che si propagarono a macchia d’olio in tutto il Sud. Fu una vera e propria guerra che durò piú di dieci anni ed in cui le truppe piemontesi compirono tanti delitti e tali distruzioni che non si erano mai visti in alcuna altra guerra. Le forze militari impegnate dai piemontesi furono di circa 120.000 uomini, ai quali vanno aggiunti 90.000 militi della collaborazionista guardia nazionale. Queste forze, verso il 1865, comprendevano circa 550.000 uomini, quanto gli Americani nel Vietnam.

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