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1859: la caduta dello Stato pontificio a Bologna e in Romagna

Posted by on Lug 11, 2019

1859: la caduta dello Stato pontificio a Bologna e in Romagna

Il 12 giugno 1859 il cardinale legato di Bologna lasciava la città, abbandonandola per sempre. Il giorno dopo anche gli altri legati ne seguivano la sorte, segnando la fine del plurisecolare potere pontificio al di sopra dell’Appennino. La fuga non fu causata da nessuno di quei tumulti, moti o rivoluzioni che avevano punteggiato la storia dell’Ottocento; semplicemente il potere del papa cadeva perché era venuto a mancare il puntello su cui si era retto negli ultimi dieci anni: l’esercito austriaco. Pochi giorni prima, infatti, i francesi, spalleggiati dai piemontesi, avevano sconfitto l’esercito asburgico a Magenta, tra il Ticino e Milano, aprendosi la strada per occupare la Lombardia. L’immediata conseguenza sul piano militare era stata il richiamo delle guarnigioni austriache dai presidi che mantenevano a sud del Po: Piacenza, Bologna, Ancona e Ferrara, che fu l’ultima a essere sgomberata. Privi di questo appoggio, i vecchi poteri ducali e quelli del papa erano implosi sotto la spinta di un’opinione pubblica ormai consapevole dell’impossibilità di una loro apertura in senso costituzionale e pronta ad abbracciare la causa del Piemonte sabaudo. Ma come si era arrivati a una tale situazione?

Per spiegare l’esito dell’evoluzione politica nelle Legazioni, che portò ai plebisciti per l’annessione nel marzo 1860 e alla proclamazione del Regno d’Italia l’anno seguente, occorre in primo luogo fare riferimento al decennio precedente, il cosiddetto “decennio di preparazione”, secondo un’abusata formula storiografica che tendeva ad accreditare l’idea di un Piemonte a guida cavouriana da subito propenso a mettersi alla guida della riscossa nazionale dopo le sconfitte del 1848-49, per arrivare al felice compimento dell’unità italiana.

Una tale visione, di stampo fortemente deterministico, è stata in anni recenti messa in discussione da studi che hanno messo in luce come gli eventi che portarono, nel triennio 1859-61, al traguardo dell’unificazione, non fossero stati in realtà predeterminati né da Cavour né dagli altri protagonisti del Risorgimento, che casomai furono in grado di cavalcare con grande abilità una situazione spesso confusa, in cui le possibili opzioni erano numerose e un esito felice per i patrioti italiani tutt’altro che scontato. In questo contesto, il destino delle Legazioni giocò un ruolo particolare, decisivo per le sorti dell’intero processo unitario, in primo luogo per il loro essere parte di uno Stato particolare, quello del pontefice, su cui si appuntavano le attenzioni di tutta Europa per il doppio ruolo di sovrano temporale e capo della Chiesa cattolica; in seconda istanza per l’azione dei commissari che vennero chiamati a reggerne le sorti dopo la fuga legatizia e che, nell’incertezza generale, seppero tenere ferma la rotta verso l’approdo dell’annessione al Regno di Sardegna, condizionando così anche i successivi eventi del 1860-61.

Per spiegare la caduta dello Stato pontificio occorre fare riferimento a quella perdita di consensi che ebbe inizio, in maniera traumatica, a partire dall’allocuzione di Pio IX del 29 aprile 1848, durante la Prima guerra d’indipendenza: emersero allora le contraddizioni insite nel potere papale, a capo di uno Stato che doveva tutelare la libera espressione del proprio primato spirituale e che per questo motivo non poteva prender le parti di un movimento come quello nazionale, per il quale tuttavia aveva espresso simpatia nel biennio precedente. La condizione di capo della Chiesa cattolica non poteva conciliarsi con l’idea di un’Italia libera dallo straniero, specie quando quest’ultimo era il cattolicissimo impero asburgico. Il fallimento delle illusioni neoguelfe, le divisioni politiche tra i fedeli al papa e il partito dei filosabaudi, la sconfitta militare piemontese, avevano determinato la crisi del partito moderato e lasciato spazio all’iniziativa dell’altro grande filone del Risorgimento italiano, quello democratico.

L’esperienza della Repubblica romana sarebbe stata la sua più alta espressione, ma quando anch’essa cadde, sotto l’urto delle armi francesi, il ritorno dei legati, sorretti dal potere militare austriaco, scavò un solco ancora più profondo tra democratici e moderati, che videro cancellata anche la possibilità di qualche moderata riforma di stampo liberale, alla quale il papa si era mostrato favorevole prima del trambusto generale. Ancora fino al 1853, l’iniziativa politica nelle Legazioni rimase in mano ai democratici, specie a Bologna, almeno fino a quando il fallimento del moto milanese di quell’anno non mostrò quanto irrealistica fosse l’ipotesi di rovesciare i vecchi poteri con il metodo insurrezionale. Gli anni seguenti furono quindi segnati dal ripiegamento e dalla mancanza di prospettive, in cerca di una guida che potesse far rifiorire le speranze e riaccendere le passioni forzatamente sopite.

Questo ruolo fu assunto dal Piemonte cavouriano, che nel corso del decennio stava sempre più assumendo una connotazione nazionale, moderna, riformista. Certo il Regno sabaudo era stato l’unico a conservare lo Statuto, la carta costituzionale che Carlo Alberto aveva concesso nella turbolenta primavera del 1848. Sebbene si trattasse di una carta assai moderata, il suo mantenimento aveva reso il Piemonte il luogo più liberale della penisola, attirando migliaia di esuli in cerca di rifugio, con il benefico effetto di sprovincializzarne la cultura e l’opinione pubblica. L’azione di governo di Massimo D’Azeglio prima e, dal 1852, di Camillo Cavour, ebbe il merito di interpretare lo Statuto nel senso di moderare le intromissioni monarchiche e di mettere in atto la divisione tra Stato e Chiesa, un’operazione che causò parecchi malumori nella corte e la tenace resistenza delle gerarchie ecclesiastiche, ma che fu condotta in porto con abilità dal primo ministro sabaudo. La modernizzazione della flotta e del porto, la costruzione di canali e ferrovie, i miglioramenti commerciali e industriali confermarono la modernità dell’opera di Cavour, che guardava in particolar modo ai modelli francese e inglese e che tentò di guadagnarsi un ruolo internazionale con la partecipazione alla guerra di Crimea, contro la Russia. In realtà, i governi francese e inglese puntavano a stipulare un’alleanza con l’Austria e la partecipazione piemontese serviva loro per togliere ogni possibile preoccupazione derivante agli Asburgo dal fronte italiano, tuttavia Cavour capì che l’occasione poteva essere propizia per giocare un ruolo importante, in cui più che l’unificazione italiana allettava l’idea dell’allargamento del Regno di Sardegna a sud del Po.

Era una mossa che serviva a Cavour per giustificare davanti ai suoi avversari interni la partecipazione alla guerra di Crimea. A Parigi, il primo ministro piemontese tentò infatti di sostenere le ambizioni di espansione nei confronti dei due Ducati emiliani, di Modena e Parma, invano. Presentò però anche i mali derivanti all’Italia dal malgoverno degli antichi regimi, concentrando l’attenzione sulle Legazioni grazie a un memoriale redatto da Luigi Carlo Farini e da Marco Minghetti i quali, attraverso dati ufficiali, dimostravano l’inefficienza finanziaria, il disordine amministrativo, e il caos nell’ordine pubblico che turbavano i domini settentrionali del papa. Come ha scritto Aldo Berselli, “i ‘sudditi’ del papa proclamavano l’incapacità dei prelati a governare, chiedevano di governarsi o almeno amministrarsi da soli, separandosi eventualmente dal corpo dello Stato Pontificio con qualche accorgimento amministrativo” (Berselli 1980, 99). Ufficialmente Cavour ottenne ben poco, ma Francia e Inghilterra, oltre a rompere le loro relazioni con il Regno delle Due Sicilie, altro modello di cattiva gestione, rimproverarono lo Stato pontificio – e l’Austria che lo sorreggeva – della cattiva amministrazione che alimentava continui possibili rivolgimenti nelle popolazioni.

La risposta di Pio IX non si fece attendere: l’anno successivo si mise in viaggio da Roma e si recò in visita ai propri territori più settentrionali. Lo scopo del viaggio era manifesto: dimostrare l’attaccamento delle popolazioni per ribattere alle accuse e ai rimproveri che gli erano stati mossi da Parigi. Il papa percorse la via Flaminia, quindi si affacciò nelle Legazioni a Rimini, il 1° giugno 1857 e viaggiò lungo la via Emilia fino a Bologna, ricevendo accoglienze rispettose ma non particolarmente entusiastiche, secondo le cronache del tempo. Nella seconda città dello Stato rimase fino ad agosto, con una puntata a luglio a Ravenna, che era rimasta esclusa dal primo giro di visite. La visita si trasformò in un boomerang per il pontefice, perché – nonostante i divieti emanati in alcuni centri, come la stessa Ravenna – i membri delle èlites laiche locali fecero avere al papa una serie di lagnanze e di richieste di riforme che inficiarono completamente l’obiettivo del viaggio, dimostrando palesemente che quanto si era detto a Parigi relativamente al malcontento delle popolazioni soggette al papa era vero. A Bologna e anche negli altri maggiori centri della regione gli esponenti più in vista delle classi dirigenti moderate si spesero per ottenere un’apertura che avrebbe forse potuto ancora salvare il potere temporale nelle Romagne. Minghetti aveva scritto al ravennate Giuseppe Pasolini in questo senso (Il 1859-‘60 a Bologna 1961, 79). Nella città romagnola il cahier des dolèances firmato da quaranta notabili, tra cui molti consiglieri comunali, suonava così:

Le condizioni interne di queste provincie sono ben lungi dal trovarsi soddisfacenti e all’occhio stesso di chi governa non può sfuggire il disaccordo permanente che regna tra le tendenze dei reggitori e le aspirazioni oneste e liberali dei popoli le quali sono il portato del progresso dei tempi e della civiltà. Grandi sono gli abusi che in nome del Sovrano si commettono, la legislazione è imperfetta, predominante l’elemento ecclesiastico, e disposizioni arbitrarie falsano ed annullano lo spirito delle buone leggi come anche prova l’esempio della non mai attuata legge dell’anno 1850 sulla formazione dei Municipi. Saggie [sic] e liberali riforme poste al coperto d’ogni interpretazione e restrizione sono a nostro vedere il solo valevole a cancellare siffatti mali, e all’alta e benigna mente del Sommo pontefice riuscirà agevole il discernere quali di esse tra le molti possibili siano da preferirsi ad oggetto di pubblico bene1.

Nel caso ravennate, non sembra che il gonfaloniere, Giulio Facchinetti Pulazzini, stretto tra le istanze dei suoi sodali laici e il timore dell’autorità pontificia, fosse particolarmente entusiasta del ruolo di tramite che gli era stato assegnato2, ma ciò non toglie nulla al significato che la protesta comportò. Comunque lo scollamento fu sancito dal deciso rifiuto di Pio IX nei confronti di qualsiasi apertura riformistica che gli veniva anche dalle altre città.

Il pontefice era paralizzato dal ricordo amarissimo del biennio 1848-’49 e della piega che avevano preso gli avvenimenti dopo la concessione della costituzione, e non intendeva modificare una posizione di totale chiusura: “Non ho il coraggio”, pare dicesse a Bologna al marchese Bevilacqua, per giustificare il suo rifiuto, ma non maggiore fortuna avevano ottenuto nei giorni precedenti Antonio Casarini e nemmeno Marco Minghetti, che si spese fino all’ultimo per convincerlo dello stato miserando della vita nei suoi territori e della necessità di cambiare indirizzo. Minghetti scrisse di quell’incontro nei suoi ricordi, sintetizzando il sentimento di sconforto e la decisione ormai irrevocabile di cambiare strada:

Il Papa m’era apparso come l’uomo infastidito d’ogni novità, riluttante ad ogni riforma, deciso di seguir la sua via imperturbabilmente contraria all’idea italiana. Io m’ero sforzato di fargli comprendere, con una insistenza che poteva persino parer tracotanza, come il suo viaggio fosse per avventura l’ultima occasione che si offriva al Governo pontificio di rendersi bene accetto ai sudditi, e come perduta questa, il Piemonte sarebbe stato unico erede delle speranze italiane (cit. in Il 1859-‘60 a Bologna 1961, 82-83).

In effetti il viaggio di Pio IX produsse l’effetto opposto a quello desiderato. La maggior parte dei moderati delle Legazioni, fino ad allora titubanti nell’abbandonare il papa, perse ogni speranza e si rivolse al Piemonte, come già facevano i liberali più convinti. In fondo, come scriveva Luigi Lotti, la differenza tra il 1849, quando le vecchie dinastie riuscirono a tornare in sella dopo le rivoluzioni democratiche, e il 1859, fu nell’atteggiamento dei moderati, legittimisti prima, favorevoli all’annessione al Regno di Sardegna dieci anni dopo. Ciò spiega in buona parte anche il carattere assolutamente pacifico e privo di turbolenze che caratterizzò la caduta del regime pontificio, rimpianto solo dai più fervidi legittimisti, in netta minoranza. Decisivo era stato il formarsi anche a Bologna, poi nelle altre Legazioni, dei comitati locali della Società nazionale, l’associazione semisegreta che il Governo piemontese appoggiava ufficiosamente e che seguiva il motto ideato da Daniele Manin, “Italia e Vittorio Emanuele”, anteponendo a ogni discussione sull’assetto da dare al futuro assetto istituzionale e al modo di arrivarvi la necessità di battere gli austriaci e unificare la Penisola.

Questo esito fu in forse fino all’ultimo. Cavour ebbe chiara la consapevolezza che il piccolo Piemonte non poteva presentarsi a una seconda sfida contro l’impero asburgico senza un potente alleato che gli evitasse le dolorose sconfitte del 1848-’49. Napoleone III, dal canto suo, ambiva a fare della sua Francia la nuova potenza egemone nel continente e poteva contare su un’Austria più isolata di prima del Congresso di Parigi per la freddezza dei rapporti con l’altro grande pilastro della conservazione del sistema post napoleonico, la Russia, uscita umiliata dal congresso. Fu non a caso l’imperatore francese che lanciò a Cavour la proposta di un abboccamento a Plombières, dove furono poste le basi per la Seconda guerra d’indipendenza. In quell’occasione, come è noto, l’unificazione della Penisola non oggetto di discussione, che puntò piuttosto sull’estensione al nord Italia del Regno sabaudo, sulla cessione di Nizza e della Savoia alla Francia per l’aiuto contro gli Asburgo, sull’ipotesi di un regno del centro Italia sotto un Bonaparte.

Furono poi il succedersi incalzante degli eventi a determinare un esito differente. Per sostenere il suo piano, Cavour si appoggiò alla Società nazionale che creò comitati nelle Legazioni e cominciò a operare secondo gli scopi prefissati: raccogliere armi e volontari da spedire verso il Piemonte in vista della guerra contro l’Austria. Era evidente in filigrana la preoccupazione cavouriana di contrapporre una nutrita forza militare non solo al nemico asburgico, ma anche al potente amico transalpino, per evitare di finire preda di un nuovo potente padrone. D’altro canto, i volontari erano una forza particolare, certo non soggetta ai vincoli delle truppe regolari, e potenzialmente pericolosa per l’ordine costituito, ma l’adesione di Garibaldi alla Società nazionale diede una mano per l’accantonamento dei dissidi e l’inquadramento anche di tanti democratici, dopo che furono superate le diffidenze con i moderati.

In Romagna l’estensione della Società nazionale fu in effetti più difficoltosa che a Bologna, non per l’opposizione, ormai evanescente, del potere pontificio, incapace di porre un freno alla polarizzazione antipapale delle migliori energie del territorio, quanto per la diffidenza esistente tra moderati e democratici, assai forti nelle Legazioni di Ravenna e Forlì. Lo stesso Cavour aveva espresso al bolognese Casarini le preoccupazioni derivanti dalla situazione romagnola, doppiamente delicata, perché soggetta al pontefice e dalla forte carica rivoluzionaria, temendo che eventuali disordini potessero pregiudicare la buona riuscita globale dell’impresa. Per questo motivo vi erano stati incontri clandestini, nelle strade di Ravenna come nelle pinete circostanti la città (Lotti 1969, 20), che infine erano sfociati in un accordo grazie alla disponibilità dei capi mazziniani, come il cesenate Eugenio Valzania, a una soluzione concorde.

Nella primavera del 1859 la situazione nelle Legazioni era ormai pronta ad esplodere. A marzo alcuni studenti dell’Università bolognese furono costretti alla fuga in Piemonte per aver apertamente manifestato sentimenti patriottici. Alcuni caffé cittadini, luogo di ritrovo dei liberali, furono chiusi dalle autorità. Quando finalmente la guerra tra franco-piemontesi e austriaci scoppiò, nelle Legazioni le partenze di volontari si fecero alla luce del sole, senza che un potere ormai screditato e intimorito, che troppo tardi si era reso conto dell’attività cospirativa dei comitati della Società nazionale, osasse intervenire.

La caduta del vecchio potere avvenne così in maniera che sembrò naturale, pacificamente, anche per gli accordi presi con le truppe pontificie presenti per un loro esodo pacifico. A Lugo, per esempio, il capitano dei gendarmi pontifici, dopo aver rifiutato l’invito della nuova rappresentanza municipale di aderire al nuovo sistema politico, si accordò con essa per lasciare la città nella più perfetta tranquillità, conducendo con sé la truppa di cento gendarmi3.

Gli uomini della Società nazionale scesero per primi nelle piazze con il tricolore in mano tra scene di giubilo da parte della popolazione, non prima, come a Bologna, di essersi assicurati che gli austriaci avessero realmente lasciato la città per portarsi a nord del Po. I ricordi del 1848-’49 continuavano a essere presenti nella mente dei liberali, per cui grande attenzione fu posta all’unitarietà del movimento e a prevenire qualsiasi possibile violenza o tumulto sociale. Fu un grande successo: le Romagne, la regione turbolenta per eccellenza, conobbe una rivoluzione pacifica e ordinata, come mai era stata nella sua storia. Nei Ducati si instaurarono governi provvisori guidati dai liberali, e lo stesso avvenne a Bologna, dove si instaurò una Giunta di governo riconosciuta anche da Ravenna, Forlì, Ferrara, e comprendente anche chi era rimasto fedele a Pio IX fino al 1857. Il passaggio delle ultime truppe austriache, quelle che da Ancona furono richiamate a Ferrara e di lì in Veneto, causò qualche timore: a Ravenna, per esempio, la municipalità provvisoria fece togliere i vessilli tricolori appena innalzati all’avvicinarsi delle truppe che da Ancona si recavano verso Ferrara e si rifugiò prudentemente fuori città, per poi rientrare e risistemare le insegne quando i 5000 austriaci ripartirono.

Si poté allora invocare la protezione di Vittorio Emanuele II quale “dittatore”, nel senso classico del termine. Il Piemonte però non poteva intervenire, per la protesta pontificia presso Napoleone III, che non poteva abdicare totalmente al suo ruolo di potenza protettrice del papa. A governare gli ex Ducati e le ex Legazioni furono mandati dei Commissari, che giunsero alcuni giorni dopo la decisiva battaglia di Solferino e San Martino, lo scontro del 24 giugno che per la sua durezza e il numero dei caduti inspirò a Jean-Henry Dunant l’idea della Croce rossa. Evitate le turbolenze sociali, le vendette politiche, gli scontri con gli austriaci, una perfetta pace regnava negli ex domini pontifici, sebbene si facesse largo il timore per l’immediato futuro: le Legazioni erano quasi indifese, per la partenza dei volontari verso i campi di battaglia lombardi, mentre le truppe svizzere del papa riportavano sanguinosamente l’ordine a Perugia e riconducevano all’ordine anche le province marchigiane. L’11 luglio, finalmente, Massimo D’Azeglio giunse a Bologna dove assunse la carica di commissario, mentre Luigi Carlo Farini era giunto a Modena qualche giorno prima. L’armistizio di Villafranca, una vittoria del ministro degli esteri francese Walewski, mescolò le carte in tavola: la tregua fra Francia e Austria causò l’ira di Cavour, che si dimise, e riportò l’incertezza sulla sorte delle Legazioni, che secondo l’armistizio sarebbero dovute tornare a Pio IX. Ma la tranquillità vigeva nelle Romagne, ed era difficile giustificare una tale marcia indietro al cospetto di popolazioni che sembravano felici del nuovo regime. D’Azeglio, prima di ripartire per Torino, prese velocemente importanti decisioni, tra cui spicca quella di mandare 9000 volontari a Cattolica, al confine con le Marche, che serviva a porre una prima difesa contro il pericolo di invasione da parte delle truppe pontificie.

Mentre le settimane passavano nell’incertezza, il governo provvisorio di Bologna, che veniva ad essere retto in agosto da Leonetto Cipriani, intimo della famiglia Bonaparte, si trovava fare i conti con la resistenza passiva non tanto dei legittimisti, quanto del clero, che non poteva certo approvare la caduta dello Stato pontificio, se non in rari casi che rimasero tutto sommato isolati, quantomeno per la dura censura con cui la Chiesa li colpì.

Nel complesso, l’atteggiamento del clero fu ostile al nuovo governo, secondo le direttive provenienti da Roma che davano istruzioni di mantenere un atteggiamento definibile come resistenza passiva. Non si ebbero clamorosi episodi di rivolta se non casi di contadini incitati contro il nuovo ordine da parte dei propri parroci, nelle zone di collina come a volte in quelle di pianura4. Era uno schema consolidato, che risaliva alle insorgenze antinapoleoniche o quelle contro la Repubblica romana di dieci anni prima, ma anche in questo caso la lezione doveva essere servita: nell’incertezza generale, la stretta vigilanza delle autorità, facilitate anche dal fatto che la maggioranza dei vecchi impiegati aveva espresso fedeltà al nuovo regime e quindi aveva continuato a lavorare negli uffici, aveva reso la vita difficile alle cosiddette “mene clericali”. Quando si verificarono casi di violenza nei confronti di esponenti del clero, la repressione fu immediata, nella consapevolezza della gravità dell’accaduto. Così, quando don Carlo Strada, parroco nel Comune di Montiano, fuori Cesena, fu ucciso da un colpo di pistola, la locale Guardia nazionale arrestò velocemente l’assassino e l’intendenza di Forlì rassicurò il governo bolognese della mancanza di moventi politici nel grave fatto: il giovane assassino aveva infatti sparato dopo essere stato accusato di un “furto di cocomeri”. Che fosse vero o no, la risposta elogiativa da Bologna mostrava quanto chiara fosse la consapevolezza che un gesto simile, se di matrice politica, avrebbe potuto avere mentre il destino delle Romagne era ancora in bilico e tutto il continente guardava al contegno delle ex Legazioni che, se scosse nell’ordine pubblico, avrebbero mostrato il fianco a chi voleva riportare in auge il vecchio potere pontificio:

Sebbene l’avvenuto omicidio – scriveva il “Gerente la Sezione dell’Interno” di Bologna – non derivi da causa politica, né sia dato antivenire simili fatti nelle società umane qualunque, pure è altamente lamentabile che queste atrocità avvengano a danno di tali persone, e in questi solenni momenti in cui tutta l’Europa ha gli occhi rivolti su di noi, o per trarre fondamento a calunnie, o per dare giudizio sul nostro merito e sulla capacità civile5.

Con Cipriani, il governo provvisorio compiva nuovi passi, in accordo con Farini a Modena e con Ricasoli a Firenze, per spingere sulla strada delle annessioni al Piemonte. Tra agosto e settembre, prese corpo un esercito, la Lega militare, sotto la guida di Manfredo Fanti e con Garibaldi comandante in seconda, una mossa che dimostrava l’intenzione del governo di sancire la volontà di proseguire sulla strada intrapresa e non tornare indietro. I circa cinquantamila uomini velocemente raccolti da diverse parti d’Italia avrebbero costituito una valida arma di dissuasione nei confronti di qualunque minaccia esterna. Fu compiuto un significativo passo avanti per il superamento delle vecchie divisioni con l’abolizione dei dazi doganali tra ex Ducati, ex Legazioni ed ex Granducato. Ma il passo più importante fu la convocazione delle assemblee che sancirono la volontà di chiudere con il passato e unirsi al Regno sabaudo.

Nelle Romagne, il governo del commissario ne era consapevole e aveva preparato con cura l’evento. L’8 agosto il governo bolognese aveva spedito una circolare riservata in cui ci si rivolgeva agli intendenti delle province – con un lungo e minuzioso giro di parole – perché vigilassero per ottenere Comizi elettorali in sintonia con il nuovo ordine delle cose:

Affinché l’opera importante delle elezioni non sia preoccupata dai partiti, è d’uopo che il Governo, in un Paese non abituato all’esercizio regolare di tali diritti, prenda una benefica iniziativa. Ciò può conseguirsi colla cooperazione di comitati elettorali composti d’uomini estranei al Governo, ma compenetrati dello spirito e delle esigenze giuste e ragionevoli del Paese. La S.V. Ill.ma pertanto valendosi dell’opera di Cittadini, degni di tutta la di Lei fiducia, userà ogni cura, onde in codesto Capo-Luogo e in tutta la Provincia, siano formati Comitati elettorali, incaricati d’illuminare e dirigere gli elettori e di cooperare onde la Rappresentanza Nazionale si componga d’uomini savi ed energici ad un tempo, capaci a penetrarsi della grave importanza del loro mandato, e a comprendere che dal senno, dalla prudenza, dall’energia dell’Assemblea Nazionale dipenderà la salvezza di queste Province e l’adempimento dei voti di queste popolazioni.

Si trattava di adottare misure che mal si conciliavano con il liberalismo che avrebbe dovuto distinguere il nuovo dal vecchio regime dispotico. L’imbarazzo era evidente, fino al limite concettuale della contraddizione di una maggioranza sovrastata dalle minoranze estreme, in cui evidentemente rientravano anche i democratici. La prova tuttavia era troppo delicata per rischiare di fallirla e pertanto un supplemento di raccomandazioni era ritenuto assolutamente indispensabile:

Non è certo tra i desiderii del Governo che gli uomini dei partiti estremi siano esclusi dalle elezioni. Ciò che il Governo desidera pel vero bene del Paese, si è che i partiti estremi non abbiano ad imporre alla Rappresentanza opinioni e desiderii che non sono della maggioranza dei cittadini. Con queste norme generali Ella potrà adunque accingersi alla formazione dei Comitati elettorali, adoperando tutta la prudenza che Le è propria e chiamando a comperarla que’ Cittadini che Ella reputa più acconci all’uopo, sia per la loro probità e saviezza, che pel loro attaccamento all’attuale ordine di cose6.

L’Assemblea, presieduta da Minghetti e composta da 124 membri, si riunì a Bologna il 6 settembre e decretò la volontà di annessione al Piemonte, compiendo un passo decisivo che allontanava ancora di più le ex Legazioni dalla possibilità di un ritorno del vecchio regime.

Le potenze europee non erano però affatto convinte che fosse la scelta migliore, e da parte sua il Regno sabaudo, guidato dal governo di Lamarmora e Dabormida, sembrava disposto ad accontentarsi della possibile annessione degli ex Ducati e abbandonare le Romagne al loro destino, alimentando difficoltà e momenti di scoramento all’interno dei confini delle vecchie Legazioni: leggendo alcuni rapporti degli ufficiali al comando delle truppe stanziate al confine tra Romagna e Marche, emergono diversi motivi di preoccupazione: dopo mesi di incertezza, i fedeli del papa rialzavano la testa, come i fratelli Francesco e Gaspero Vaselli di Serbedone, tra Romagna, Marche e Repubblica di San Marino, che secondo un rapporto di un capitano redatto il 4 ottobre da Morciano, nel Riminese, “in oggi più che mai si mostrano audaci col gridare contro i liberali, e spargendo lo spavento fra gl’inesperti e gl’ignoranti, col far credere una prossima e pronta restaurazione del regime papale”; o come i fratelli Gaspero e Francesco Sellari,

attaccatissimi al Governo dei Preti, [che] hanno dato sospetti di arruolare e spedire uomini al di là del nostro confine per favorire il Governo Papalino. […] Avvezzi alla prepotenza si ridono impunemente del nostro nuovo stato politico. Sono odiati dai circonvicini per le loro soperchierie. Si vuole che in casa loro si trovino molte armi all’intendimento di armare i loro coloni in caso di attacco od in qualsiasi altra propizia occasione7.

Non solo: l’incertezza e l’azione di agenti pontifici inducevano una parte dei giovani sotto le armi a abbandonare i reparti o addirittura ad arruolarsi nelle file papaline stanziate nelle Marche. Un rapporto del 6 ottobre segnala che

varii individui, i quali hanno disertato, prendono la via di S. Marino, senza però entrare in quel territorio, e che in vicinanza di esso si volgono a sinistra nella direzione di Urbino. […] Ieri poi ho scoperto che codesti disertori hanno delle guide sicure che li accompagnano, e che messili sulla strada grande, ove non hanno più timore di errare, rilasciano loro una specie di contromarca per mezzo della quale giunti nei paesi del dominio Pontificio ricevono una somma di denaro. É parimenti mia notizia che tre individui disertati del Reggimento sono stati già arruolati ne’ carabinieri Pontifici8.

La diserzione avveniva anche perché non si sopportava la mancanza di azione, indispensabile per una truppa non di linea ma composta da giovani volontari, accorsi in gran parte per lottare per un’idea; un esercito particolare, come anche gli studi di Eva Cecchinato hanno recentemente dimostrato, dalle caratteristiche proprie, bisognoso di azione e scarso di disciplina. Ecco allora i dubbi che alcuni scappassero per raggiungere Garibaldi, che avrebbe voluto attaccare le Marche per marciare verso Roma e che poi avrebbe rinunciato, a stento trattenuto da Farini, consapevole che ciò avrebbe provocato l’intervento armato delle potenze straniere e compromesso qualsiasi buon risultato ottenuto fino ad allora9. Ce n’era abbastanza per alcune amare considerazioni tra ufficiali dell’esercito sulle difficoltà esistenti non solo nella truppa – in cui le divisioni in gruppi regionali sembrano tornare a galla e guidare scelte collettive – ma anche nei rapporti con le autorità civili e la popolazione che, evidentemente, aveva superato la fase dell’euforia iniziale e, incerta sull’avvenire, aspettava timorosa l’evolversi della situazione:

Ora il generale in capo vuole assolutamente che i soldati prendano l’impegno di 18 mesi; questa misura ottima in se stessa diminuirà di molto il numero delle truppe. I Municipii, i Comitati non fanno nulla per accrescerne il numero. Questi giovani si stancano, e non trovano ne’ loro paesi gente che sappia animarli. Il Rosetti ha perduto un buon terzo delle sue truppe, e temo altrettanto qui, tanto più che la nostra Divisione non è stata mai ferma, ma è andata qua e là e sempre in marcia. Mi duole il dirlo, ma le Romagne rispondono poco all’appello; quelli delle altre provincie, come marcheggiani [sic], umbri, romani si ritirano perché dicono d’essere abbandonati dalle Romagne, e che non è causa loro! I veneti in parte anch’essi avviliti per la sventura di Venezia, in parte perché tenuti in poco conto dai romagnoli co’ quali hanno in comune il carattere, preferiscono d’andarsene, e d’arruolarsi piuttosto a Parma. Ora che il numero delle truppe scemerà, bisognerebbe promuovere un poco lo spirito della gioventù”10.

A render ancora più fosco l’orizzonte, la pace di Zurigo tra Francia e Austria, il 10 novembre, stabilì il ritorno all’assetto precedente sotto una confederazione presieduta dal papa. Ma per ottenere questo risultato sarebbe stato necessario un intervento militare su cui Francia e Austria non trovarono l’accordo, e al quale mancava ogni giustificazione, stante la perfetta tranquillità delle popolazioni nelle ex Legazioni, che sbalordivano le opinioni pubbliche e le diplomazie del continente, abituate a ben altre turbolenze provenienti dalle Romagne. “In quei terribili mesi, i soli ad agire con decisione ed energia furono gli uomini politici dell’Italia centrale: a parte i toscani, Farini e poi Minghetti” (Marcelli 1980, 115-116). Con la differenza che, nel peggiore dei casi, la Toscana avrebbe visto la restaurazione dell’illuminata dinastia dei Lorena, mentre le Legazioni sarebbero tornate sotto uno Stato, ancora in piedi, che non brillava certo per l’opera riformistica. Di fronte a tutte queste difficoltà, sul piano interno come su quello internazionale, l’azione dei governatori assume ancor più rilevanza. Farini, subentrato a Cipriani, assunse il comando unitario di ex Ducati ed ex Legazioni, impegnandosi in un’attività febbrile e decisa che fornì questi territori di un’impalcatura legislativa e amministrativa che l’avvicinava al Piemonte sabaudo, e in una liberalizzazione e modernizzazione che ricordava quella di Cavour negli anni precedenti: abolì i feudi, i fidecommessi e altri privilegi di antica origine; stabilì nuove Camere di commercio; appaltò la ferrovia Castelbolognese-Ravenna, dichiarò l’Università di Bologna, decaduta sia per fama che per numero degli studenti, di primo grado; soppresse la censura preventiva sulla stampa, creò i provveditorati agli studi e addirittura una commissione per le Belle arti, in netto anticipo sui tempi.

Finalmente, la situazione si sbloccò. Napoleone III, desideroso di vantare in patria l’annessione di Nizza e della Savoia, scrisse al papa perché accettasse la perdita delle Legazioni, ma Pio IX rimase fermo sulle sue posizioni e a nulla valse un passo simile da parte di Vittorio Emanuele II. Esauriti gli ultimi tentativi, la strada verso le annessioni, facilitata anche dall’ascesa in Inghilterra di Palmerston, favorevole alla causa italiana, e dal ritorno di Cavour al governo in Piemonte, fu spianata. Il 12 e il 13 marzo i cittadini maschi maggiori di 21 anni e che godessero dei diritti votarono in stragrande maggioranza (426.000 su 427.000 votanti) per l’annessione al Regno di Sardegna, e il 18 marzo il re firmava il decreto che sanciva l’annessione dell’Emilia, il nuovo termine ripreso da Tito Livio per indicare le nuove province.

Oltre a segnare l’ingresso in uno Stato di diritto, i plebisciti furono decisivi per le sorti del processo di unificazione nazionale, poiché Garibaldi – l’anno successivo – li usò a modello per decidere l’annessione delle province meridionali al Regno sabaudo. Merito della tenacia di Ricasoli a Firenze e di Farini in Emilia-Romagna, che per mesi avevano tenuto la barra ferma in un contesto internazionale e interno di estrema incertezza e in bilico tra ritorno al passato e spinta verso l’unità.

Bibliografia

Numerose sono le ricerche che nel corso dei decenni si sono accumulate sul Risorgimento in Romagna, a partire dagli studi politici e storici del Risorgimento di Alfredo Oriani, Luigi Rava e Piero Zama tra fine Otto e prima metà del Novecento, sebbene manchi un’opera dedicata specificamente al triennio unitario. Come spesso succede gli anniversari sono serviti per rinnovare gli sforzi di conoscenza sul tema, e siamo debitori ancora oggi alle ricerche prodotte in occasione del primo centenario dalla fine dello Stato pontificio e dell’Unità. Tra questi:

  • Il Risorgimento e L.C. Farini, 1959;
  • Atti del XLII Congresso di Storia del Risorgimento italiano, Ravenna, 2-3 ottobre 1965, Roma, Istituto per storia del Risorgimento italiano, 1966, e in particolare A. Torre, I governi della Lega, pp. 123-142;
  • Il 1859-‘60 a Bologna, Bologna, EdizioniCalderini, 1961;

ma anche i saggi comparsi su riviste come il Bollettino del Museo del Risorgimento di Bologna, a partire da Il 1859 a Cesena di Sigfrido Sozzi, comparso nel numero del 1960, a. V.

Successivamente sono usciti studi di grande importanza come:

  • Luigi Lotti, Romagna e Toscana dall’Unità ad oggi, Firenze, Le Monnier, 1969, in particolare la Prefazione di G. Spadolini e le pp. 1-31;
  • Umberto Marcelli, Le vicende politiche dalla Restaurazione alle annessioni, in A. Berselli (cur.), Storia della Emilia Romagna, vol. III, Bologna, Bologna university press, 1980, pp. 95-119 e la relativa bibliografia;

e contributi, anche recenti, su singoli protagonisti delle vicende delle Legazioni nel 1859, come:

  • Ottorino Bartolini, Leonetto Cipriani e Luigi Carlo Farini governatori delle Romagne, Cesena, Il ponte vecchio, 2008.

Di grande utilità risultano i saggi contenuti nelle storie locali che negli anni Novanta sono state pubblicate nei principali centri cittadini mentre, a livello generale, si rimanda invece alle opere più recenti e alla relativa bibliografia che comprende ricerche del passato ancora di grande spessore:

  • D. Beales, E. Biagini, Il Risorgimento e l’unificazione dell’Italia, Bologna, Il mulino, 2005;
  • Banti, P. Ginsborg (cur.), Il Risorgimento, Torino, Einaudi, 2007.

fonte http://storiaefuturo.eu/1859-caduta-pontificio-bologna-in-romagna/

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LE ORIGINI RISORGIMENTALI della CORRUZIONE italiana

Posted by on Mag 13, 2019

LE ORIGINI RISORGIMENTALI della CORRUZIONE italiana

Quella dei Savoia fu una monarchia democratica fondata sulle tangenti e su una spregiudicata brutalità. Il …nuovo stato fu travagliato da molti scandali, che ebbero come autori financo ministri e lo stesso Re, definito da Lord Clarendon: “ignorante, bugiardo, intrigante che nessuno poteva servire senza danno per la propria reputazione”. Di contro quella dei Borbone fu dignitosa e rispettabile (nonostante le calunnie interessate dei massoni e risorgimentali in genere), con leggi giudicate tra le migliori del tempo. Vittorio Emanuele II, rivolgendosi al plenipotenziario inglese August Paget dichiarò esplicitamente: “Ci sono due modi per governare gli italiani: con le baionette o con la corruzione”. Fece usare le une e l’altra con spregiudicata brutalità e così nacque l’Italia: una monarchia poco democratica fondata sulle tangenti. Il nuovo stato fu travagliato da molti scandali, dal crack della Banca Romana allo scandalo delle Regie Tabaccherie, dove alcuni innocenti pagarono per colpe mai commesse (mentre il re poco prima si era appropriato di 20 milioni dell’epoca come “residuo” di bilancio), sino alle grandi truffe delle ferrovie dove negli elenchi dei soci e nei bilanci c’erano ripetizioni e imprecisioni tali da meritare l’apertura di qualche fascicolo giudiziario. L’avvenimento più imbarazzante fu però l’affare dei lavori del canale Cavour in cui fu coinvolto Gustavo Cavour, fratello del presidente del consiglio Camillo, uno dei maggiori azionisti della Cassa di Sconto, che se n’era accaparrato l’appalto grazie a capitali inglesi. I Cavour erano affaristi abilissimi e spregiudicati. Per esempio durante una carestia, quando il prezzo del pane era altissimo, la famiglia Cavour rappresentava la maggioranza degli azionisti dei mulini di Collegno che facevano incetta di farina e grano. Ferdinando Petruccelli della Gattina, giornalista abile e sarcastico, ne diede un lucido resoconto nel suo libro “I moribondi di Palazzo Carignano”. Il Petruccelli era all’opposizione e non tollerava gli inutili rituali della retorica parlamentare. Nel suo libro leggiamo che la camera, composta da 443 deputati, era in realtà un esercito di principi, duchi, conti, marchesi, generali, ammiragli, avvocati, cavalieri e commendatori. C’erano anche un bey dell’impero Ottomano, qualche legion d’onore ed infine Giuseppe Verdi. Mancava invece Carlo Cattaneo il quale, pur essendo stato eletto per tre volte, si rifiutò di giurare fedeltà ai Savoia. Il centro del parlamento era definito la “zattera della Medusa, dove tutti i naufraghi sono aggrappati, tutti i superstiti, tutti gli sbandati. Essa è un ospizio degli invalidi”. La sinistra sembrava un arcipelago di anime in pena: mazziniani, garibaldini, pseudofederalisti e oltremontani ed infine gli “uccelli da passeggio” cioè l’estrema sinistra, così definita perché sempre sul punto di passare sui banchi della destra. Intanto le tasse continuavano a crescere e i giornali del 1866 rilevarono che 22 milioni d’italiani avevano pagato il doppio delle tasse rispetto a 19 milioni di prussiani. A giudizio degli ambasciatori inglesi —in una nota diplomatica destinata a Londra— il più debole di tutti era il ministro degli esteri conte Campello: “La sua intelligenza è così limitata e appare così totalmente ignaro dei problemi del suo dicastero che tentare di avere una conversazione con lui equivale a perdere tempo”. Seguiamo lo scandalo della Banca Romana nel resoconto del giornalista Pietro Sbarbaro. Sin dai tempi della Repubblica Romana di Mazzini era a capo dell’oligarchia della Banca un certo Tanlongo, che fu incaricato dai vari capi di governo (da Cavour a Giolitti fino a Crispi) di offrire somme considerevoli ad alcuni prelati che avrebbero dovuto ammorbidire il Vaticano sulla questione Unità d’Italia e di assecondare i fratelli della massoneria. A questi furono concessi prestiti personali estesi anche ad amici degli amici con l’emissione in eccedenza di banconote. Giolitti tentò di nascondere lo scandalo, comprese sei buste voluminose che riguardavano Crispi, ma l’affare fu scoperto. Il Tanlongo fu arrestato il 18/1/1893 e la sua difesa sostenne che le irregolarità erano state sollecitate dallo stesso governo. Alla caduta del governo Giolitti fu nominato Crispi il quale, per coprire lo scandalo, d’accordo con il re governò per un anno intero a camera blindata, cioè convocandola solo undici giorni. Fu dimostrato che la Banca Romana aveva consegnato illegalmente a Crispi 718.000 lire dell’epoca (13 miliardi d’oggi). Nessuno tuttavia osò intralciare lo statista che stravinse le elezioni e governò con ampi poteri. La fine politica di Crispi fu segnata dalla cattiva avventura coloniale in Africa, ma non mancarono altri moribondi ad occupare le aule del palazzo. Roma divenuta la capitale del Regno, la Banca Romana, sviluppa il proprio pericoloso giro di affari e diviene, presto, un centro di corruzione politica.
Dal 1881, a questa attività dà particolare slancio Bernardo Tanlongo, un ex-fattore, un affarista divenuto governatore dell’istituto grazie a potenti amicizie. Accreditato per la sua “onestà laboriosa”, questo intrallazzatore di primo ordine, privo di scrupoli e di qualsiasi nozione di economia finanziaria, è deciso a difendere una posizione così avventurosamente conquistata. Nel 1881, è, pertanto, generoso di milioni a giornalisti, deputati, economisti, perché ritardino l’approvazione di una legge che, abolendo il regime di concessione valutaria, condannerebbe a morte la sua banca, che si regge solo in virtù delle proprie emissioni. E, anche quando la legge del 1883 viene approvata, Tanlongo non demorde. Per tenere in piedi una impresa così redditizia è pronto a mettersi fuori legge e a stampare biglietti bancari in grande segreto. Per maggiore sicurezza, li ordina in Inghilterra e in serie doppia, per meglio confondere eventuali investigatori. Poi, con tenacia tutta artigianale, li firma a casa, ad uno ad uno, con un torchietto, prima di rimpinguarne le casse della banca.
L’ingegnosa intraprendenza di Tanlongo non è, tuttavia, la sola ad animare, in quegli anni, la vita economica dell’Italietta. Speculazioni edilizie e audaci iniziative industriali trovano facile sostegno nel sistema bancario, in particolare nelle banche di emissione. Alla lunga, si dà luogo a una inchiesta amministrativa, che investe anche la Banca Romana. Rivalità politiche all’interno della maggioranza ministeriale la generano, Francesco Crispi [1818-1901], allora presidente del consiglio, l’approva, il ministro Luigi Miceli [1824-1906] la sovraintende, l’ignaro senatore Giuseppe Giacomo Alvisi [1825-1892] la dirige, e l’incorruttibile funzionario Gustavo Biagini
la esegue. Ma, quando i risultati della indagine giungono sul tavolo del ministro dell’industria, sono tali da spaventarlo e indurlo a rappezzare la situazione. Biagini è trattato da pazzo visionario ed è ordinata una nuova ispezione, che verifica come il deficit di 10 milioni di biglietti falsi rilevato, sia, miracolosamente, svanito. Ve ne è
abbastanza per lodare l’eccesso di zelo del funzionario inquirente, promuoverlo al altro incarico e seppellire la relazione che Biagini inoltra a chi di dovere.
A cercare di denunciare lo scandalo rimane solo il senatore Alvisi, ma inutilmente!
Appena un anno dopo la sua morte, il repubblicano Napoleone Colajanni [1847-1921] può dare lettura della relazione Biagini, che il senatore ha legato in punto di morte ad alcuni amici. Lo fa il giorno in cui la Camera è chiamata a discutere la proposta avanzata da Giovanni Giolitti [1842-1928] di prorogare di altri sei anni il
regime delle concessioni monetarie alle banche “chiacchierate”.
La requisitoria dell’ex-garibaldino siciliano è anche diretta contro il neoeletto presidente del consiglio ed è tanto più vibrante di indignazione in quanto, poco più di un mese prima, l’uomo di Dronero, anche lui legato da vincoli di riconoscenza al disinvolto trasteverino, lo ha fatto nominare senatore.
Il rapporto suscita le violente ire della maggioranza, Colajanni è coperto di ingiurie e contro di lui volano anche alcuni sgabelli. Miceli lo accusa di falso e giura sull’onorabilità di Tanlongo. A sentire questi signori, non è vero che il banchiere distribuisse “omaggi” in lire; che a diversi notabili del Regno rinnovasse cambiali senza fine; che prestasse, generosamente e a tassi agevolati, a molti, tra i quali anche Crispi; che fosse, perfino, il canale attraverso cui Umberto I [1844-1900],
da pioniere della fuga di capitali all’estero, mandava i propri risparmi alla Banca di Inghilterra. Infine, l’accusato sembra essere Colajanni. Pochi giorni dopo, tuttavia, Giolitti non può esimersi dal nominare una commissione di inchiesta amministrativa, anche se, lo stesso giorno, fa nominare Tanlongo, cittadino al di sopra di ogni sospetto, membro della commissione di vigilanza del debito pubblico!
Questo è troppo anche per i più pavidi, mentre per i più increduli giunge la denuncia della commissione di inchiesta, che, nella Banca Romana, ha rilevato 70 milioni clandestini, 40 a serie doppia, 20 di deficit, come risultato di una serie di falsi che durano da oltre venti anni. Tanlongo è arrestato, e non finisca su un freddo tavolaccio di un carcere di Fenestrelle ma in una accogliente cella a pagamento, riscaldata e arredata con i mobili fatti venire da casa.
Fuori, intanto, continua la battaglia politica e parlamentare; mentre, foglio a foglio, i documenti più compromettenti nell’istruttoria si perdono per strada.
Quelli che rimangono a disposizione della seconda commissione di inchiesta, quella parlamentare “dei sette”, sono sufficienti per determinare la caduta del Governo Giolitti, ma non hanno la forza di mandare in prigione altri onorevoli o ministri.
Troppi sono i politici coinvolti e molti di loro i potenti. In ultimo, lo stesso Tanlongo “se la cava”. E non può essere altrimenti! È depositario di troppi segreti perché possa marcire in galera. Al processo viene assolto. Per i giudici togati è difficile condannare un banchiere di regime e un falsario di Stato!
“I veri colpevoli passeggiano impunemente per le città d’Italia e le loro vittime sono nel reclusorio di Regina Coeli”

Giuseppe Brigante Abbate

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Vernissage della mostra “il Sacro nella città degli Angeli”

Posted by on Apr 24, 2019

Vernissage della mostra “il Sacro nella città degli Angeli”

Alfio Borghese, ancora instancabile organizzatore di eventi culturali, ha presentato sabato 20 maggio a Boville Ernica la mostra d’arte sacra nell’ambito della manifestazione “Pasqua con Giotto” promossa dall’amministrazione comunale rappresentata dal sindaco Enzo Perciballi e dal consigliere Martina Bocconi con delega al turismo e centro storico.

La kermesse ha visto esposte le opere di 20 artisti nel suggestivo spazio espositivo allestito nella chiesa di San Francesco dal meraviglioso soffitto ligneo a cassettoni. Qui artisti contemporanei si sono inconsapevolmente misurati con maestri del passato che hanno lasciato le loro tracce sulle pareti della chiesa sulle quali ancora sopravvivono porzioni di affreschi che narrano il livello qualitativo, il prestigio, le stratificazioni pittoriche ed architettoniche dell’edificio chiesastico.

Alfio Borghese, nel suo prologo introduttivo, nell’auspicare una prospettiva di successo della esordiente manifestazione, ha anche ricordato come medesime iniziative del più recente passato – fra le quali la biennale d’Arte Sacra di Sora ideata e curata per diverse edizioni da Michele Rosa – abbiano attirato complessivamente migliaia di artisti anche dall’estero. Dunque una “Pasqua con Giotto” che va continuata sulla scia di quella storica esperienza che ha segnato un periodo particolarmente fecondo nel territorio frusinate.

Alla mostra erano presenti anche opere di artisti storici che hanno operato nel nostro territorio e che hanno arricchito il ventaglio di proposte artistiche presenti come G. Filocamo, F. Rea ed il già citato M. Rosa. A questi ultimi due Borghese ha inoltre tributato ufficialmente il riconoscimento alla carriera artistica consegnando ad ognuno una targa al merito.

Fuori questa sede – ma all’interno di altri due àmbiti chiesastici, anch’essi a navata unica e sempre nel centro storico, Elena Sevi e Marco Gizzi hanno allestito due diverse e particolarissime istallazioni artistiche che hanno evidenziato la personalità ed il percorso maturativo di ognuno di essi, proponendo ora suggestioni teatrali, ora effetti scenografici e multisensoriali ove ombre e giochi di luci hanno reso particolarmente coinvolgente l’interazione tra fruitore, istallazione e “contenitore”.

La ricerca dei luoghi espositivi, ha inoltre permesso di apprezzare il suggestivo contesto urbano d’impianto medioevale e preziosa cornice all’iniziativa culturale.

Particolarmente apprezzata è stata inoltre la proiezione di un audiovisivo illustrato da Umberto Messia sugli affreschi di Giotto presenti nella cappella Scrovegni a Padova, con una sequenza fotografica ad alta definizione alternata alla visione di spettacolari immagini dallo spazio di galassie remote. La visione di nebulose dai colori sgargianti e spettacolari quanto inquietanti buchi neri era sapientemente esaltata dalle musiche di accompagnamento firmate da Ennio Morricone.

Ha chiuso piacevolmente la serata il concerto di musica classica tenuto nella stessa chiesa di S. Francesco, dal quartetto di maestri con musiche di Mozart ed altri, eseguite con strumenti ad arco e clarinetto che hanno prodotto emozioni rievocative di forte intensità.

Cassino, 22 aprile 2019                                   

Errico ROSA

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MICHELE ROSA: UN PROTAGONISTA DELLA RINASCITA CULTURALE ED ARTISTICA NEL ULTIMO DOPOGUERRA

Posted by on Apr 1, 2019

MICHELE ROSA: UN PROTAGONISTA DELLA RINASCITA CULTURALE ED ARTISTICA NEL ULTIMO DOPOGUERRA

Una scommessa, la sua, quella di trasformare le inefficienze culturali della provincia in positiva possibilità di elevazione umana attraverso l’arte, strumento di promozione sociale, di sviluppo e di pace. Un personaggio internazionale, Rosa, che dopo i tre anni di studi all’Università dell’Illinois e dopo la dolce vita romana, invece di accettare l’insegnamento di Storia dell’Arte all’Università di Londra, sceglie di operare in Prov. di Frosinone correndo il rischio di essere definito pittore provinciale, pur di valorizzare il territorio e dare spazio agli artisti locali.

Una fatica immane, lui che aveva raggiunto una notorietà dovuta al successo delle mostre al Palazzo delle Esposizioni a Roma e in tutta Italia. Una impresa epica, quella di convertire un pubblico refrattario ad assorbire messaggi formativi e artistici, in un ambiente di sottosviluppo economico e sociale, non ancora sostenuto dalla Cassa del Mezzogiorno e dall’insorgere della Questione Meridionale. Un’idea, quella di mettere la provincia al centro del mondo, lavorando sulle infinite potenzialità del territorio, condivisa dallo scrittore Libero De Libero. Un’idea condivisa anche da: Domenico Purificato, direttore dell’Accademia milanese di Brera, che alla Prefettura di Frosinone affresca personaggi e panorami frusinati e che, a Fondi, si inventa il premio “La Pastora”;

Manlio Sarra, di ritorno dagli USA, che dedica le sue opere alle donne ciociare, ai mercatini, alle conche di rame e alle tradizioni locali;

dagli scultori Umberto Mastroianni con grandi opere a Frosinone e a Cassino e Tommaso Gismondi che realizza le porte delle chiese di tutto il Basso Lazio.

Come pure è da citare lo scrittore e poeta Giuseppe Bonaviri che alterna i suoi libri con le passeggiate sulla Casilina Sud insieme a Vittorio Miele.

È con loro che Rosa si incontra, al centro di Frosinone, per dare risonanza alla propria terra d’origine.

Sono gli anni sessanta quando Rosa, insieme a Gualdini, decide di riunire, alla “Saletta”, i personaggi di livello nazionale che vogliono discutere di arte e cultura. Un salotto letterario

che Rosa fondò e diresse dal 1961 al 1968, un piccolo locale espositivo usato da Gualdini come laboratorio di cornici, che divenne poi luogo di scambi anche tumultuosi di punti di vista, cenacolo culturale, fenomeno di costume e passerella alla moda per signore eleganti e giovani contestatrici. Rosa, infatti, pretendeva dai suoi artisti il rifiuto ad assoggettarsi alle ideologie politiche e, peggio, ad un asservimento dettato dal bisogno commerciale e dalla voglia di emergere. In particolare, in quegli anni, era facile schierarsi a favore dell’ideologia marxista dominante nella cultura, senza poi condividere le idee del grande filosofo.

Il gruppo di questi artisti, ognuno dei quali in seguito prenderà strade e tendenze diverse, sarà riconosciuto nel movimento definito a posteriori con il termine “Controavanguardia frusinate”, di cui Rosa è considerato il capo-corrente, prima dal docente di letteratura italiana all’Università di Cassino Giuseppe Varone (Michele Rosa l’uomo e l’artista. Provincialità e nuove istanze culturali, edizioni Bianchini, 2006) poi dalla giornalista Nicoletta Turriziani (Provincia italiana e Controavanguardia, edizione TramArte, 2012).

Un movimento intellettuale che anticiperà la “Transavanguardia”, un gruppo di artisti genericamente cattolici, con prima regola l’indipendenza dalla politica; poi il recupero di motivi, forme e contenuti più tradizionali la rappresentazione di soggetti, paesaggi, scorci e ritratti legati al territorio. Sono gli anni nei quali nasce a Roma la “Nuova Figurazione” del “Gruppo dei Cinque” di “sinistra”, composto da Fernando Rea, Italo Scelza, Adolfo Loreti, Emanuele Floridia e Federico Gismondi con i quali ci sarà da discutere.

L’arte, insomma, portata in periferia, come nel 1963 quando troviamo Rosa all’Abbazia di Casamari, giudice al concorso di “Pittura in ………….” presieduto da Giorgio De Chirico, con Eliano Fantuzzi, Felice Ludovisi, Franco Miele, Claudia Refice, Carlo Savini, Giuseppe Selvaggi e Gisberto Ceracchini.

Oppure quando organizza le prime tre edizioni della Biennale di Arte Sacra di Pittura e Scultura di Sora e quando avvia, dal 1966 in poi, scambi culturali con Jugoslavia, Romania, Cecoslovacchia, ma anche con Cina e Corea. Quando, dopo il suo soggiorno a Parigi, apre a Sora, nel 1967, la galleria Arte Club Esposizione per ospitare in provincia artisti italiani e stranieri.

Ma è certamente la “Saletta” il luogo in cui comincia a realizzare il suo sogno di riportare l’attenzione sull’arte periferica. E lo fa con le mostre del decano degli artisti ciociari, Giovanni Savani, ovviamente di Ettore Gualdini e di Nicola Solimena, Manlio Alfieri, Erasmo Ranucci, Francesco e Piero De Bernardis, Giuseppe De Rosa, Ulisse Arduini, lo scultore Marcello Lucarelli, Giovanni Filocamo ricordato quest’anno con una mostra alla Villa Comunale di Frosinone, Gaetano Franzese, Vittorio Miele, Bruno Leonetti, Giovanni Fontana, Carlo Marcantonio, Gianpistone famoso per le cupole di Roma, Vincenzo Bianchi, Antonio Ciuffarella, Alba e Iole Carfagna, Olga Manzi, gli attori e pittori Giancarlo Riccardi e Sandro Morato e Lamberto Bracaglia.

Tra i frequentatori della “Saletta” anche Pietro Giambelluca, Mario Celletti, Fiammetta De Feo, Alfonso Capocci, gli architetti Zoldan e Antonio Sanguinetti, il critico d’arte Daniele Maione, i poeti Nestore Caggiano, Ercole Maria Martire e Paolino Colapietro, il presentatore Nino Cellupica, Tullio Perticone e tanti altri.

La ricerca di Rosa, negli anni successivi, lo porterà a superare l’indirizzo figurativo di ispirazione espressionista, per indagare gli spazi dell’astrattismo e dell’arte informale. Uno studio attento di nuove soluzioni cromatiche, passando dall’iniziale sfaldamento delle immagini alla negazione del modello accademico, con l’uso di materiali poveri e di recupero misti a lamine d’oro, soluzioni personali ed originali che colpiscono l’immaginazione.

Roma, marzo 2019

Alfio Borghese

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Il nome della rosa, ci risiamo con la leggenda nera

Posted by on Mar 13, 2019

Il nome della rosa, ci risiamo con la leggenda nera

Già dalla prima scena si è capito che la nuova versione-kolossal de Il nome della rosa, finanziata da RaiCinema, cioè dal contribuente, era anche peggio della precedente, il film di Jean-Jacques Annaud del 1986, tratto dal «palinsesto» di Umberto Eco. La storia della lotta per le investiture ci dice l’esatto opposto della nuova fiction. 

Già dalla prima scena si è capito che la nuova versione-kolossal de Il nome della rosa (finanziata da RaiCinema, cioè dal contribuente) era anche peggio della precedente, il film di Jean-Jacques Annaud del 1986, tratto dal «palinsesto» di Umberto Eco. Il quale, pretendendo questa aggiunta nei titoli, chiarì che il film non poteva rappresentare tutta la complessità del romanzo bestseller omonimo. La prima scena di cui dicevamo è una scritta che avverte lo spettatore che nel 1327, anno in cui si svolge la vicenda, l’imperatore Ludovico stava cercando di «separare la politica dalla religione». Messa così, è chiaro che la simpatia dello spettatore si orienterà verso l’imperatore, che la Chiesa vorrebbe sottomettere imponendo ai posteri uno stato teocratico di tipo, per intenderci, khomeinista.

La storia, vera, dice però il contrario: tutta la lunga Lotta per le Investiture, dal secolo XI al Concordato di Worms del 1122, fu combattuta perché era l’imperatore a voler mettere il cappello sulla Chiesa decidendo lui la nomina dei vescovi. L’imperatore che regnava nel 1327, Ludovico IV il Bavaro, aveva deciso allora di tagliare del tutto i legami con la Chiesa. Infatti, fu il primo imperatore a farsi incoronare non dal papa, ma da un laico, quello Sciarra Colonna che aveva preso a schiaffi il papa Bonifacio VIII ad Anagni. Gesto che simbolicamente chiuse il Medioevo cristianissimo. Gesto la cui portata Bonifacio VIII comprese benissimo, tant’è che ne morì di crepacuore.

La Chiesa, come previsto, finì alla mercé del potere politico: nel 1327 il pontificato non era più a Roma ma ad Avignone, deportato in Francia da Filippo il Bello, il distruttore dei templari. Il potere politico, privo della guida, e del freno, di un’autorità morale, da allora divenne sempre più assoluto, culminando nei totalitarismi del secolo XX.

Il kolossal televisivo già dalla prima puntata ci ha presentato un inquisitore veramente esistito, Bernardo Gui, come la quintessenza del fanatismo più ottuso e ideologico, quasi che l’Inquisizione fosse stata l’antesignana della Gestapo, delle SS e del Kgb. Ora, poiché nessuno storico da decenni si sente di sostenere una fesseria del genere, ecco che una fiction ricavata da un romanzo (fiction a sua volta) ripropone in tutto il suo squallore «gotico» la leggenda nera sull’Inquisizione e i «secoli bui», propalandola per il pianeta alle nuove generazioni (la fiction, infatti, è stata acquistata da molti Paesi).

Trent’anni fa medievisti come Franco Cardini e Marco Tangheroni si spesero per ricordare che a) i monasteri medievali erano fari di cultura, non di ignoranza; b) essi sfamavano i dintorni, tant’è che è rimasto il detto «cosa passa il convento oggi?; c) le biblioteche monastiche non avevano affatto passaggi segreti o libri inaccessibili; d) il divieto di ridere lo immaginava Eco, laddove i monaci copiarono e tramandarono anche opere pagane licenziose come quelle di Ovidio; e) Bernardo Gui fu un mite inquisitore e un fine intellettuale, stimato come il maggiore storico del suo tempo; f) non si potevano accendere roghi su due piedi, la procedura era complessa e garantista; g) i dolciniani, per realizzare il loro comunismo utopico, saccheggiavano e uccidevano. Ancora: il papa Giovanni XXII mai si sognò di abolire i francescani, ma disputava con gli eretici «fraticelli» francescani che intendevano instaurare la povertà assoluta; e i termini della questione sfociavano nell’eresia dell’abolizione, di principio, della proprietà privata. Eccetera.

Ma la potenza delle immagini, in prima serata e a puntate, è praticamente invincibile. La generazione dei Tangheroni, ma anche dei Messori e, ma sì, dei Cammilleri, ha già dato. Tocca adesso alle nuove leve, se ci sono, ricominciare, con pazienza, di nuovo tutto da capo. 

Rino Camilleri

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