Posted by altaterradilavoro on Mag 29, 2019
Gli accademici snobbano tutti i
libri contro la versione “ufficiale” da loro accreditata.
E così i revisionisti impazzano: il caso
dell’anti-risorgimento
di Marcello Veneziani
Egregi storici di professione che liquidate con disprezzo i testi e le persone che a nord e a sud criticano il Risorgimento e ne descrivono massacri e malefatte, dovreste tentare un’autocritica onesta e serena. So che è difficile chiedere a molti di voi l’umiltà di rimettere in discussione le vostre pompose certezze e il vostro sussiego da baroni universitari, ma tentate uno sforzo. Se oggi escono libri e libercoli a volte assai spericolati, poco documentati e rozzi nelle accuse, nostalgici del passato preunitario, lo dobbiamo anche a voi. Se nei libri di testo e di ricerca, se nei corsi di scuola e d’università, se nei convegni e negli interventi su riviste e giornali, voi aveste scritto, studiato e documentato i punti oscuri del Risorgimento, oggi non ci troveremmo a questo punto. E invece quasi nessuno storico di professione e d’accademia, nessun istituto storico di vaglia ha mai sentito il dovere e la curiosità di indagare su quelle «dicerie» che ora sbrigate con sufficienza.
Ho letto e ascoltato con quanto fastidio – e cito gli esempi migliori – Giuseppe Galasso, Galli della Loggia, Lucio Villari parlano della fiorente pubblicistica sul brigantaggio, i borboni, i massacri piemontesi e i lager dei Savoia. Ne parlano con sufficienza e scherno, quasi fossero accessi di follia o di rozza propaganda. Poi non si spiegano perché tanta gente affolla e plaude i convegni sull’antirisorgimento, a nord o a sud, e disprezza il Risorgimento, se un libro come Terroni di Pino Aprile sale in cima alle classifiche, se nessuno sa dare una spiegazione e una risposta adeguate alle accuse rivolte ai padri della patria. Curioso è il caso di Galasso che prima accusa i suddetti antirisorgimentali di scrivere sciocchezze e poi dice che erano cose risapute; ma allora sono vere o no, perché non affrontarle per ricostruirle correttamente o per confutarle? Ed è un po’ ridicolo criticare le imprecisioni altrui, ridurle ad amenità, e poi non batter ciglio se il suo articolo, professor Galasso, viene titolato sul Corriere della Sera «Nel sud preunitario», mentre il brigantaggio di cui qui si tratta si riferisce all’Italia postunitaria. Par condicio delle amenità.
Ma il problema riguarda tutto un ceto di storici boriosi, che detengono il monopolio accademico e scolastico della memoria. Perché avete rimosso, non vi siete mai cimentati col tema, non volete sottoporvi alla fatica di rimettere in discussione quel che avete acquisito e sostenuto una volta per sempre? Detestate i confronti e perfino la ricerca che dovrebbe essere il vostro pane e il vostro sale. Il risultato è che per molta gente questi temi sono scoperte inedite.
Per la stessa ragione, non è possibile trovare sui libri di storia, nei testi scolastici e universitari o nei vostri interventi sui giornali, le pagine infami che seguono alla rivoluzione napoletana del 1799 con intere città messe a ferro e fuoco, migliaia di morti ad opera dei giacobini rivoluzionari. Celebrate i collaborazionisti delle truppe francesi ma omettete i loro massacri, le città rase al suolo. Non è ideologica anche la vostra omertà? O ancor peggio, poi non vi spiegate, voi storici titolati del Novecento, perché libri come quelli di Giampaolo Pansa esplodano in libreria con centinaia di migliaia di lettori: ma perché voi, temendo l’interdizione dalla casta, non avete avuto il coraggio di riaprire le pagine sanguinose della guerra partigiana, il triangolo rosso e gli eccidi comunisti. Così fu pure per le foibe. Poi con disprezzo accademico sbrigate questi libri come pamphlet giornalistici, roba volgare e imprecisa. Ma quei morti ci sono stati sì o no, e chi li uccise, e perché? Quelle ferite pesano ancora nella memoria della gente sì o no? Che coesione nazionale avremo, caro Galli della Loggia, nascondendo vagoni di scheletri negli armadi?
Sul Risorgimento non avete il coraggio di rispondere a quelle domande e così contribuite in modo determinante a rendere le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia come uno stanco rituale, estraneo agli italiani, dominato dai tromboni e dalle stucchevoli oleografie. Salvo poi scrivere stupefatti e indignati che il Paese non partecipa, è assente, è refrattario. Ma non vi accorgete che lo diventa se continuate con il vostro manierismo e le vostre omissioni?
Come forse sapete, sono tutt’altro che un detrattore del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, anzi sono un fautore di lunga data dell’identità italiana, quando eravamo davvero in pochi a difenderla. Sono convinto che il processo unitario fosse necessario, che molti patrioti fossero ardenti e meritevoli d’onore, e che l’idea stessa di unire l’Italia fosse il sacrosanto coronamento di un’identità, di una storia, vorrei dire di una geografia, di una cultura e di una lingua antiche. Ma per rendere autentica quell’unità non possiamo negare le sue pagine oscure e pure infami, non possiamo negare le sofferenze che ne seguirono e lo sprofondare del sud nei baratri della miseria, della malavita e dell’emigrazione. Quella malavita organizzata che dette una mano ai garibaldini come poi agli sbarchi americani. Sono convinto che l’Unità d’Italia non portò solo guai ma modernizzò il Paese, lo alfabetizzò e lo fece sviluppare; e considero meritevoli di rispetto i cent’anni e passa che seguirono all’Unità d’Italia, la nascita dello Stato italiano e di una dignitosa borghesia di Stato, la graduale integrazione dei meridionali nello Stato, il loro grande contributo alla scuola e all’università, alle prefetture e alle forze dell’ordine, alla magistratura e all’alta dirigenza dello Stato, all’impiego pubblico e militare. Non possiamo buttare a mare più di un secolo di storia per qualche decennio finale di parassitismo.
Ma bisogna avere il crudo realismo di narrare anche l’altra faccia della storia; per amor di verità, per rispetto di quei morti e per riportare dentro l’Italia gli eredi di coloro che subirono l’Unità. Perché resta ancora da costruire un’Italia condivisa e non da dividere un’Italia già costruita.
Sul Risorgimento non avete il coraggio di rispondere a quelle domande e così contribuite in modo determinante a rendere le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia come uno stanco rituale, estraneo agli italiani, dominato dai tromboni e dalle stucchevoli oleografie. Salvo poi scrivere stupefatti e indignati che il Paese non partecipa, è assente, è refrattario. Ma non vi accorgete che lo diventa se continuate con il vostro manierismo e le vostre omissioni?
Come forse sapete, sono tutt’altro che un detrattore del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, anzi sono un fautore di lunga data dell’identità italiana, quando eravamo davvero in pochi a difenderla. Sono convinto che il processo unitario fosse necessario, che molti patrioti fossero ardenti e meritevoli d’onore, e che l’idea stessa di unire l’Italia fosse il sacrosanto coronamento di un’identità, di una storia, vorrei dire di una geografia, di una cultura e di una lingua antiche. Ma per rendere autentica quell’unità non possiamo negare le sue pagine oscure e pure infami, non possiamo negare le sofferenze che ne seguirono e lo sprofondare del sud nei baratri della miseria, della malavita e dell’emigrazione. Quella malavita organizzata che dette una mano ai garibaldini come poi agli sbarchi americani. Sono convinto che l’Unità d’Italia non portò solo guai ma modernizzò il Paese, lo alfabetizzò e lo fece sviluppare; e considero meritevoli di rispetto i cent’anni e passa che seguirono all’Unità d’Italia, la nascita dello Stato italiano e di una dignitosa borghesia di Stato, la graduale integrazione dei meridionali nello Stato, il loro grande contributo alla scuola e all’università, alle prefetture e alle forze dell’ordine, alla magistratura e all’alta dirigenza dello Stato, all’impiego pubblico e militare. Non possiamo buttare a mare più di un secolo di storia per qualche decennio finale di parassitismo.
Ma bisogna avere il crudo realismo di narrare anche l’altra faccia della storia; per amor di verità, per rispetto di quei morti e per riportare dentro l’Italia gli eredi di coloro che subirono l’Unità. Perché resta ancora da costruire un’Italia condivisa e non da dividere un’Italia già costruita.
Marcello Veneziani
fonte ilgiornale 31 agosto 2010
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Posted by altaterradilavoro on Apr 29, 2019
Gli accademici snobbano tutti i libri contro la versione “ufficiale” da loro accreditata.
E così i revisionisti impazzano: il caso dell’anti-risorgimento
di Marcello Veneziani
Egregi storici di professione che
liquidate con disprezzo i testi e le persone che a nord e a sud criticano il
Risorgimento e ne descrivono massacri e malefatte, dovreste tentare
un’autocritica onesta e serena. So che è difficile chiedere a molti di voi
l’umiltà di rimettere in discussione le vostre pompose certezze e il vostro
sussiego da baroni universitari, ma tentate uno sforzo. Se oggi escono libri e
libercoli a volte assai spericolati, poco documentati e rozzi nelle accuse,
nostalgici del passato preunitario, lo dobbiamo anche a voi. Se nei libri di
testo e di ricerca, se nei corsi di scuola e d’università, se nei convegni e
negli interventi su riviste e giornali, voi aveste scritto, studiato e
documentato i punti oscuri del Risorgimento, oggi non ci troveremmo a questo
punto. E invece quasi nessuno storico di professione e d’accademia, nessun
istituto storico di vaglia ha mai sentito il dovere e la curiosità di indagare
su quelle «dicerie» che ora sbrigate con sufficienza.
Ho letto e ascoltato con quanto fastidio – e cito gli esempi migliori –
Giuseppe Galasso, Galli della Loggia, Lucio Villari parlano della fiorente
pubblicistica sul brigantaggio, i borboni, i massacri piemontesi e i lager dei
Savoia. Ne parlano con sufficienza e scherno, quasi fossero accessi di follia o
di rozza propaganda. Poi non si spiegano perché tanta gente affolla e plaude i
convegni sull’antirisorgimento, a nord o a sud, e disprezza il Risorgimento, se
un libro come Terroni di Pino Aprile sale in cima alle classifiche, se nessuno
sa dare una spiegazione e una risposta adeguate alle accuse rivolte ai padri
della patria. Curioso è il caso di Galasso che prima accusa i suddetti
antirisorgimentali di scrivere sciocchezze e poi dice che erano cose risapute;
ma allora sono vere o no, perché non affrontarle per ricostruirle correttamente
o per confutarle? Ed è un po’ ridicolo criticare le imprecisioni altrui,
ridurle ad amenità, e poi non batter ciglio se il suo articolo, professor
Galasso, viene titolato sul Corriere della Sera «Nel sud preunitario», mentre
il brigantaggio di cui qui si tratta si riferisce all’Italia postunitaria. Par
condicio delle amenità.
Ma il problema riguarda tutto un ceto di storici boriosi, che detengono il
monopolio accademico e scolastico della memoria. Perché avete rimosso, non vi
siete mai cimentati col tema, non volete sottoporvi alla fatica di rimettere in
discussione quel che avete acquisito e sostenuto una volta per sempre?
Detestate i confronti e perfino la ricerca che dovrebbe essere il vostro pane e
il vostro sale. Il risultato è che per molta gente questi temi sono scoperte
inedite.
Per la stessa ragione, non è possibile trovare sui libri di storia, nei testi
scolastici e universitari o nei vostri interventi sui giornali, le pagine
infami che seguono alla rivoluzione napoletana del 1799 con intere città messe
a ferro e fuoco, migliaia di morti ad opera dei giacobini rivoluzionari.
Celebrate i collaborazionisti delle truppe francesi ma omettete i loro massacri,
le città rase al suolo. Non è ideologica anche la vostra omertà? O ancor
peggio, poi non vi spiegate, voi storici titolati del Novecento, perché libri
come quelli di Giampaolo Pansa esplodano in libreria con centinaia di migliaia
di lettori: ma perché voi, temendo l’interdizione dalla casta, non avete avuto
il coraggio di riaprire le pagine sanguinose della guerra partigiana, il
triangolo rosso e gli eccidi comunisti. Così fu pure per le foibe. Poi con
disprezzo accademico sbrigate questi libri come pamphlet giornalistici, roba
volgare e imprecisa. Ma quei morti ci sono stati sì o no, e chi li uccise, e
perché? Quelle ferite pesano ancora nella memoria della gente sì o no? Che
coesione nazionale avremo, caro Galli della Loggia, nascondendo vagoni di scheletri
negli armadi?
Sul Risorgimento non avete il coraggio di rispondere a quelle domande e così
contribuite in modo determinante a rendere le celebrazioni dei 150 anni
dell’Unità d’Italia come uno stanco rituale, estraneo agli italiani, dominato
dai tromboni e dalle stucchevoli oleografie. Salvo poi scrivere stupefatti e
indignati che il Paese non partecipa, è assente, è refrattario. Ma non vi
accorgete che lo diventa se continuate con il vostro manierismo e le vostre
omissioni?
Come forse sapete, sono tutt’altro che un detrattore del Risorgimento e
dell’Unità d’Italia, anzi sono un fautore di lunga data dell’identità italiana,
quando eravamo davvero in pochi a difenderla. Sono convinto che il processo
unitario fosse necessario, che molti patrioti fossero ardenti e meritevoli
d’onore, e che l’idea stessa di unire l’Italia fosse il sacrosanto coronamento
di un’identità, di una storia, vorrei dire di una geografia, di una cultura e
di una lingua antiche. Ma per rendere autentica quell’unità non possiamo negare
le sue pagine oscure e pure infami, non possiamo negare le sofferenze che ne
seguirono e lo sprofondare del sud nei baratri della miseria, della malavita e
dell’emigrazione. Quella malavita organizzata che dette una mano ai garibaldini
come poi agli sbarchi americani. Sono convinto che l’Unità d’Italia non portò
solo guai ma modernizzò il Paese, lo alfabetizzò e lo fece sviluppare; e
considero meritevoli di rispetto i cent’anni e passa che seguirono all’Unità
d’Italia, la nascita dello Stato italiano e di una dignitosa borghesia di
Stato, la graduale integrazione dei meridionali nello Stato, il loro grande
contributo alla scuola e all’università, alle prefetture e alle forze
dell’ordine, alla magistratura e all’alta dirigenza dello Stato, all’impiego
pubblico e militare. Non possiamo buttare a mare più di un secolo di storia per
qualche decennio finale di parassitismo.
Ma bisogna avere il crudo realismo di narrare anche l’altra faccia della
storia; per amor di verità, per rispetto di quei morti e per riportare dentro
l’Italia gli eredi di coloro che subirono l’Unità. Perché resta ancora da
costruire un’Italia condivisa e non da dividere un’Italia già costruita.
Sul Risorgimento non avete il coraggio di rispondere a quelle domande e così
contribuite in modo determinante a rendere le celebrazioni dei 150 anni
dell’Unità d’Italia come uno stanco rituale, estraneo agli italiani, dominato
dai tromboni e dalle stucchevoli oleografie. Salvo poi scrivere stupefatti e
indignati che il Paese non partecipa, è assente, è refrattario. Ma non vi
accorgete che lo diventa se continuate con il vostro manierismo e le vostre
omissioni?
Come forse sapete, sono tutt’altro che un detrattore del Risorgimento e
dell’Unità d’Italia, anzi sono un fautore di lunga data dell’identità italiana,
quando eravamo davvero in pochi a difenderla. Sono convinto che il processo
unitario fosse necessario, che molti patrioti fossero ardenti e meritevoli
d’onore, e che l’idea stessa di unire l’Italia fosse il sacrosanto coronamento
di un’identità, di una storia, vorrei dire di una geografia, di una cultura e
di una lingua antiche. Ma per rendere autentica quell’unità non possiamo negare
le sue pagine oscure e pure infami, non possiamo negare le sofferenze che ne
seguirono e lo sprofondare del sud nei baratri della miseria, della malavita e
dell’emigrazione. Quella malavita organizzata che dette una mano ai garibaldini
come poi agli sbarchi americani. Sono convinto che l’Unità d’Italia non portò
solo guai ma modernizzò il Paese, lo alfabetizzò e lo fece sviluppare; e
considero meritevoli di rispetto i cent’anni e passa che seguirono all’Unità
d’Italia, la nascita dello Stato italiano e di una dignitosa borghesia di
Stato, la graduale integrazione dei meridionali nello Stato, il loro grande
contributo alla scuola e all’università, alle prefetture e alle forze
dell’ordine, alla magistratura e all’alta dirigenza dello Stato, all’impiego
pubblico e militare. Non possiamo buttare a mare più di un secolo di storia per
qualche decennio finale di parassitismo.
Ma bisogna avere il crudo realismo di narrare anche l’altra faccia della
storia; per amor di verità, per rispetto di quei morti e per riportare dentro
l’Italia gli eredi di coloro che subirono l’Unità. Perché resta ancora da
costruire un’Italia condivisa e non da dividere un’Italia già costruita.
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Posted by altaterradilavoro on Mar 10, 2019
Sylvain
Bellenger, direttore della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte,
ha organizzato, con la collaborazione del texano The Edith ‘O Donnell Institute
of Art History, il “Centro
Studi per la Storia dell’Arte e dell’Architettura delle città portuali”.
Un centro internazionale che, nato nel settembre scorso, in un edificio
borbonico nel Real Bosco, chiamato la Capraia, lunedì ha
fatto la sua prima relazione pubblica. L’argomento: “Abitare un fondaco al Cavone.
Dall’archivio alle fonti orali, tracce e memorie della cultura popolare”.
Due i relatori: la
professoressa Brigitte
Marin, che, docente di Storia Moderna all’ Aix-Marseille
Université, è onusta di altri prestigiosi incarichi, e Marcello Anselmo,
storico contemporaneista, ricercatore nella stessa università marsigliese e
autore di réportages e
di studi sociali sulle città dell’Europa Meridionale.
La
professoressa Marin ha iniziato parlando del suo condiviso metodo di
studio: definire un fenomeno urbano risalendo alle sue origini
storiche, attraverso la ricerca e l’attenta lettura di documenti di archivio.
In più, la professoressa dimostra di tener conto anche degli scritti di altri
studiosi sull’argomento, rifacendosi al compianto Giuseppe Galasso (1929/
2018), storico accademico e importante politico che, come tale, aveva dovuto
attenersi a una considerazione del passato napoletano soprattutto quale causa
dei mali presenti, secondo la prassi solita di ogni governo.
La
Marin, quindi, riferisce di Galasso l’affermazione che i problemi della città
vengono dal passato e che la difficile situazione abitativa in cui versa il popolo
è “la continuità di un
problema irrisolto”. In realtà, durante il governo spagnolo,
quando Napoli era capitale di una delle Spagne, qui ci fu uno straordinario
aumento del numero degli abitanti che, dai 40.000 esistenti durante il
precedente governo aragonese, passarono a centinaia di migliaia.
Nel frattempo, furono costruite nuove mura, mentre veniva
emanato il divieto di costruire fuori dalla loro cinta. Di conseguenza, i
palazzi si innalzarono tanto che ai visitatori dell’epoca Napoli apparve come una
città di grattacieli. E piacque. Ma esistevano ancora, al suo interno, i giardini delle case nobiliari e
dei monasteri e c’era la vista amena delle verdi colline.
L’aumento
demografico continuò anche dopo la terribile peste del 1656, per la quale morì
– si dice- metà della popolazione, tra cui anche artisti famosi come Massimo Stanzione e Battistello Caracciolo.
Dal Seicento la
professoressa riporta l’uso fatto da uno scrittore francese in visita a Napoli,
della parola “fondachiera”,
per indicare la povera gente abitante dei fondaci napoletani, detta, poi,
“plebe” e “gentaglia”. Nello stesso periodo (è forse interessante notarlo), un
napoletano di genio come Gianlorenzo
Bernini, che era stato chiamato da Luigi XIV per
costruire il “Palazzo
del Re”, veniva continuamente criticato dalla Corte e dal Colbert,
Controllore Generale delle Finanze del Regno, e poi era ignominiosamente
rimandato a casa. Così il “Palazzo del Re”, il Louvre, oggi ha le forme
classiche della colonnade di Claude Perrault.
Delle
incomprensioni e dei contrasti tra il razionalismo dei francesi e il
naturalismo libero e ardito del Bernini riferì, nel suo diario, Paul Fréart de Chantelou,
Mastro di Casa del Re, rivelandosi amico dell’artista italiano. Il che dimostra
che ancora perdurava in Francia, nella seconda metà del ‘600, l’ammirazione per
la creatività nostrana, ma stava per nascere, da un estremo razionalismo
cartesiano, quell’illuminismo che si esprimerà, più di un secolo dopo, nel
neoclassicismo giacobino.
Del suo lavoro di
ricerca sul fondaco del Cavone, la professoressa Marin non nasconde le
difficoltà. E ricorda come un colpo di fortuna, ma fu premio al suo impegno,
l’essersi imbattuta nei documenti relativi ai monasteri scomparsi. Tra questi
c’è il monastero
femminile di santa Monica, nato come tale nel 1646 da un
conservatorio del 1628.
Nell’insula,
intorno al monastero, le monache costruirono un complesso di abitazioni
modeste, il Fondaco del Cavone appunto, che dettero in fitto a basso prezzo a
gente che aveva scarsi mezzi economici. Fu speculazione o beneficenza? L’uno
e l’altro probabilmente, secondo i casi – suggerisce la professoressa. Che,
citando i documenti, riferisce di numerosi interventi di manutenzione e decoro
fatti, per queste abitazioni, nel Seicento e nel Settecento, che poi, nella
seconda metà dell”800, vennero a mancare, determinandone il degrado.
Ma la
situazione di degrado esistente in questo periodo storico riguardò tutta la
città, e fu quello che Matilde
Serao descrisse ne “Il ventre di Napoli”.
Che non fu soltanto delle sue strutture materiali. Precedentemente, nel
Settecento, invece, la maggior parte dei visitatori, notoriamente Goethe ma non
solo, avevano considerato il popolo napoletano, compresi i poveri,
libero e felice.
Era ammirato il suo
essere “picturesque”,
termine inglese che allora sorse per connotare ciò che è veracemente originale
ed è amabile per la sua diversità. Ma poi, appunto nella seconda metà
dell”800, la povertà diventò miseria. Mentre, come dice la Marin, spesso il
sorriso divertito dei turisti diventava
una sorta di sprezzante ironia. Siamo negli anni successivi
all’unità d’Italia. Il degrado delle abitazioni e dei relativi servizi portò
all’emergenza sanitaria. A Napoli scoppiò il colera. E, di conseguenza, si
giudicò necessario procedere alla bonifica del suo centro e del suo sistema
fognario attraverso quello che fu detto il Risanamento oppure “lo sventramento”.
Che diventò “la più estesa trasformazione urbanistica che la città storica
abbia conosciuto”- ricorda, intervenendo nel colloquio instauratosi tra i
relatori e il pubblico, un architetto, esperto urbanista.
È il professore Italo Ferraro, già
docente alla Federico II e autore di un atlante in 12 volumi (edizioni Oikos),
che racconta la storia di Napoli nella sua concreta realtà edilizia. Da cui si
evince, non come semplice ipotesi ma come indubitabile testimonianza,
l’eccezionale continuità storica dell’antica città partenopea.
Una
continuità che ha fatto si che Napoli, che non è “una città con un porto” costruito
successivamente (come Atene), ma una città-porto fondata da greci marinai,
abbia potuto mantenere
l’impronta delle sue origini marine, nell’organizzazione
sociale, nella filosofia e nell’arte.
Infatti
le antiche lcittà costiere greche, come Neapolis, Palepolis, o Elea, la patria
di Parmenide, modellarono
la loro organizzazione sociale tenendo conto
dell’esperienza che ne avevano fatto sulla nave prima di stanziarsi
sulla costa. Sulle antiche navi, non si eleggevano quali capi i
politici-oratori. Ma era capo il nostromo (cubernetes in greco, gubernator in
latino), il governatore, che otteneva la sua legittimità dando prova delle sue
reali capacità. E ognuno dei marinai aveva le mansioni relative alle proprie
possibilità, il che non comportava la sanzione di una superiorità degli uni
sugli altri, perché era evidente il fatto che si era tutti sulla stessa barca:
una paritaria società di disuguali.
Così,
alla caduta dell’impero romano, Napoli fu, per molti secoli, guidata da un dux
con le funzioni di governatore, e fu un ducato. Finché, dopo l’esperienza
normanna, la città non conobbe gli Angioini, che la resero capitale di un
Regno. E fu il
centro conservatore di una cultura anomala, invisa agli
accademici e temuta dalle Autorità. Una corrente filosofica diversa da quella
classica improntata al razionalismo socratico-aristotelico. Fu l’empirismo
contro il razionalismo, l’esperienza contro lo scientismo, la libertà di vivere
contro l’eccessiva regolamentazione, contro la cosiddetta normalità.
Un fil
rouge lega il filosofo marinaio Parmenide, di cui si
era impadronito Aristotele travisandolo,
al filosofo naturalista Bernardino
Telesio, a Giovanbattista
della Porta e alla sua associazione dei Secreti,
accusata di occultismo, fu chiusa per ordine papale, a Tommaso Campanella,
torturato e imprigionato, a Giordano
Bruno, bruciato vivo in Campo dei Fiori, agli Investiganti
seicenteschi, al principe
di Sansevero, mago lo dissero e non scienziato quale
fu, a misconosciuti uomini geniali, come Giacinto De Cristofaro, chiuso in
prigione per molti anni, e a tanti altri ancora.
Tra i quali,
presumibilmente, quelli di cui è stata completamente cancellata la memoria.
Questo fil
rouge ci conduce a Gian
Battista Vico. Negli scritti di questo grande filosofo
napoletano si legge una concezione del tempo e dello spazio che ci riporta al
marinaio Parmenide.
Il
tempo, per Vico, non è un’entità unidirezionale e la realtà non è statica ma è
ritmo che si muove ritornando su se stesso, come il mare.
Come la musica napoletana che nutrì il mondo dai tempi di Nerone a quelli di
Paisiello. E lo spazio, per Vico, non è quello definito dalla geometria
cartesiana ed euclidea. Ma è quello che si apprende “con una mescolanza di
corporeità e di pensiero”.
Certamente
anche la gente di mare nella mente non poteva avere lo spazio euclideo ma
quell’ampio spazio marino che si conforma alla curva linea dell’orizzonte e
alla volta del cielo. È un’immagine espressa anche nell’arte figurativa
napoletana. E che è ben diversa da quella dello spazio-scatola a tre
dimensioni che Euclide teorizzò,
pubblicandolo nel 300 a. C., e che viene realizzato dal 1400 in poi, per mezzo
della classica prospettiva toscana. Che è la prospettiva per antonomasia,
l’unica accettata accademicamente e considerata reale, sebbene,
precocemente, L.
B. Alberti la avesse definita artificialis, cioè
meramente astratta. Eppure quella pittura napoletana che non si attiene alle
sue regole è stata spesso considerata arretrata o errata.
Erwin Panofsky, nel suo famoso libro
“La
prospettiva come forma simbolica”, riferisce della realizzazione
dello spazio sulla curva superficie dei vasi magnogreci del IV secolo a C. e di
una prospettiva simile a quella canonica (ma erroneamente realizzata) in alcuni
affreschi pompeiani. Di errori di prospettiva hanno parlato ancora i dotti
riferendosi alle vedute napoletane del Settecento. Non si tratta di errori ma
di una prospettiva diversa che nel Settecento ha raggiunto la sua piena
espressione, tanto da poter essere oggi tradotta in computer grafica.
È la prospettiva di
quello spazio che la gente di mare aveva nel cuore e nella mente: la prospettiva napoletana.
(cfr. “Lo
spazio a 4 dimensioni nell’arte napoletana. La scoperta di una prospettiva
spazio-tempo” ed T. Pironti). Uno spazio attualissimo, coerente a
quest’epoca di imprese spaziali, mentre la prospettiva toscana del ristretto
spazio-scatola è contestata da tempo. Nei dipinti napoletani considerati
sbagliati, c’è la visione
di uno spazio in movimento, che è visto da più punti di vista e
ha quattro dimensioni. Napoli ha intuito da sempre quello che la scienza ha
teorizzato soltanto nei primi anni del Novecento, con Albert Einstein, che
d’altronde ha scritto: “Le
origini del nostro pensiero sono nella Magna Graecia”. La
prospettiva non è soltanto un fatto pittorico: essa rispecchia la mentalità,
ovvero la struttura del pensiero, del pittore-autore, ma anche del suo ambiente.
E la prospettiva napoletana.si basa sui plurali punti di vista di una società
coesa, che danno concretezza a uno spazio iperbolico.
La
persistenza nell’arte figurativa degli stessi caratteri si apparenta alla
persistenza delle stesse famiglie nei quartieri popolari napoletani, come
il Fondaco del
Cavone. Famiglie che costituiscono una società coesa, con gli
stessi modi di pensare, di sentire e di atteggiarsi. Di questa società racconta
l’accurata indagine fatta sul posto dall’attento studioso Marcello Anselmo, che
ha intervistato persone e ha filmato interviste e luoghi, indagando su
importanti fenomeni ma anche su particolari, apparenti minuterie del modo di
vivere del popolo povero, e così ricostruendone la vita.
Tutto questo è reso noto ora al pubblico nella vivace relazione
dello studioso. Che chiarisce come la densità demografica del Fondaco del
Cavone si sia andata via via accentuando. Già era accaduto dopo “lo
sventramento” operato dal Risanamento del centro storico della città, un luogo
densamente popolato, i cui abitanti, quindi, dovettero trasferirsi altrove.
Di questi, mentre i più ricchi occuparono i nuovi appartamenti e quelli di
media fascia andarono ad abitare al Vomero, i poveri andarono ad addensarsi nei
luoghi già sovraffollati come i fondaci. Le condizioni degli abitanti
peggiorarono.
Tuttora
la densità
demografica tende ad aumentare, perché, a volte, pur potendosi
trasferire altrove, i giovani sono rimasti qui, accanto ai genitori, ai nonni,
agli zii e agli amici di sempre. E anche coloro che si erano allontanati,
andando ad abitare le case nuove della periferia, ritornano qui, nella vecchia
Napoli,tra i parenti e gli amici, tra gente conosciuta, in quella società che
gli è propria, a quel modo di vivere che è la loro vita. Così gli ambienti
abitativi, per dar loro posto, si sono solidarmente divisi. Ma sono tenuti
ordinati e lindi, e sono forniti di bagni e di moderne tecnologie casalinghe. I
piani del fondaco si sono innalzati e vengono preferiti quelli più alti.
Certo ora, come nei
vecchi vicoli napoletani, sta
sorgendo, ed è una novità, un senso di insicurezza.
Testimoniato anche dalla chiusura delle porte dei “bassi”, le case a pian
terreno, con la “finestra
zoppa” e, come nota acutamente Anselmo, dalla presenza dei cani –
non i randagi a cui si dà il cibo, un calcio e una carezza – ma cani da difesa
e robusti cani da guardia. Ora vi sono, anche nel Fondaco del Cavone, molti
abitanti che vengono dall’estero, soprattutto africani e cingalesi, gente
sconosciuta. Alcuni rimangono più a lungo, altri fanno un turn-over.
Ma
sono sempre di più e l’atteggiamento di accoglienza proprio delle
civiltà di mare… da Nausica in poi… si chiude in un atteggiamento di
faticosa sopportazione. E ogni tanto si protesta per piccole cose, che fanno
emergere in superficie la diversità tra le etnie. Pure lo spazio, qui, al
Cavone, scarseggia e rende
più aspri gli attriti tra persone che sono profondamente
diverse. Mentre l’armonia di una società è fatta dalla omogeneità dei suoi
componenti.
Dalla relazione degli studiosi molte cose sono state chiarite. Ma una domanda rimane senza risposta. Se i fondaci sono una sorta di antichi magazzini portuali, di origine medievale, che si trovavano un tempo lungo i moli, a Napoli come a Venezia e a Genova, il fondaco del Cavone, come quello, anch’esso napoletano, di San Gregorio Armeno, che non sono costruiti nel porto, perché si chiamano fondaci?
Adriana Dragoni
fonte http://www.agenziaradicale.com/index.php/rubriche/arte-e-dintorni/5739-abitare-un-fondaco-al-cavone-centro-studi-per-la-storia-dell-arte-e-dell-architettura-delle-citt
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Posted by altaterradilavoro on Mar 5, 2019
Con una
intera pagina messa a disposizione dall’edizione di Napoli del quotidiano “la Repubblica” (23.2.2019), il presidente della Società Napoletana di Storia
Patria, Renata
De Lorenzo e diverse associazioni di docenti universitari di
Storia attaccano la Camera di
Commercio di Napoli per la decisione di spostare il busto del
generale piemontese Enrico
Cialdini (1811-1892), responsabile del bombardamento di Gaeta durante l’assedio del 1860-61, dei massacri di Pontelandolfo e Casalduni (14 Agosto 1861) e
di migliaia di fucilazioni, saccheggi e distruzioni di paesi del Sud durante la
repressione dell’insurrezione definita brigantaggio successiva all’unificazione.
Il salone
di rappresentanza dell’Ente, nel Palazzo della Borsa, ospita un grande busto in
marmo di Cialdini,
che la Giunta della Camera di Commercio, su proposta del vicepresidente vicario Fabrizio Luongo,
ha deciso all’unanimità di spostare in altro luogo. “A noi piacerebbe – ha detto Fabrizio Luongo – sostituirlo col volto
di Angelina
Romano, bimba di
9 anni che Cialdini fece
fucilare” (“la
Repubblica-Napoli”, 23.2.2019).
Diverse
città del Sud tra le quali Palermo, Catania, Barletta e Lametia Terme, hanno
cambiato negli anni scorsi la denominazione di strade e piazze intitolate
all’autore delle stragi di civili meridionali. Anche Mestre ha deciso di
cambiare il nome del piazzale che porta il nome del generale piemontese, mentre
Vicenza ha cambiato la denominazione della piazza intitolata al colonnello
vicentino Pier
Eleonoro Negri, luogotenente di Cialdini che guidò i bersaglieri nella strage di Pontelandolfo, e l’ha ridenominata Piazza Pontelandolfo.
A Napoli,
invece il tentativo di spostare un simbolo della violenza con la quale l’unificazione
fu imposta all’ex Regno
delle Due Sicilie provoca la mobilitazione della stampa
radical-chic, delle vestali del Risorgimento, di giornalisti e docenti dietro i
quali si muovono i poteri forti che presidiano la narrazione mitica
dell’unificazione.
Secondo
la De Lorenzo “i comportamenti dei Gruppi dirigenti locali” sono da “contestualizzare in base ad una valutazione del
clima complessivo che dettò scelte a suo tempo condivise”.
Gli atti
di Cialdini e dei suoi uomini, quindi,
non andrebbero valutati per il loro contenuto oggettivo (il massacro di inermi,
donne, bambini) ma giustificati dall’ideologia dominante (il liberalismo
risorgimentale) e dal consenso politico che esso raccoglieva tra i “gruppi
dirigenti”.
Per la De Lorenzo, peraltro, i massacri di
Pontelandolfo e Casalduni sono solo “presunti eccidi”, anche se perfino il
socialista Giuliano
Amato, presidente del Comitato per le celebrazioni per i 150
anni dell’unificazione, chiese ufficialmente scusa, a nome dello Stato
italiano, ai discendenti delle vittime dei massacri.
Il
presidente della Società
Napoletana di Storia
Patria, il cui metodo di ricerca storica è lo stesso degli
autori delle fiction
televisive, aggiunge che “la
repressione del brigantaggio ebbe manifestazioni crudeli da entrambe le parti in lotta (…) con episodi di cannibalismo [sic!] e altre aberrazioni” da parte di
questi ultimi, e mette sullo stesso piano “la distruzione del villaggio di Bosco”, ordinata dopo i moti
liberali del 1828 dal Governo Borbonico, che avvenne – come scrive il liberale Luigi Settembrini – quando il
villaggio era “già vuoto
di abitanti”, e le stragi di civili inermi compiute dai piemontesi,
per concludere che è su questa base che “la Società Napoletana di Storia Patria si è espressa contro una visione
del passato che stravolge gli spazi e il loro portato simbolico, disancorandoli dalle motivazioni che le hanno
plasmate”.
Torna il
concetto che “la
motivazione” può giustificare un atto, indipendentemente dal
suo contenuto. Con la stessa logica (la tesi dell’“accerchiamento delle potenze capitalistiche”) sono stati
giustificate dai comunisti le epurazioni di massa di Stalin, lo sterminio dei kulaki, i Gulag sovietici… Quanto al “portato simbolico”, bisogna effettivamente chiedersi, se i contadini
arsi vivi insieme alle loro donne ed ai bambini, nel Beneventano, non siano il
simbolo migliore dell’unificazione italiana.
Contro lo
spostamento del busto di Cialdini,
la De Lorenzo ha promosso anche un
appello di docenti universitari di Storia, ospitato senza alcuna replica da “la Repubblica-Napoli” (23.2.2019).
“Negli ultimi anni – scrivono i docenti
universitari – si sono moltiplicati i segnali di una certa
conflittualità nella produzione di memorie collettive “ e citano “l’istituzione di una giornata della memoria per
le vittime meridionali dell’Unità d’Italia”. Quanto alla decisione della Camera di Commercio di spostare
il busto di Cialdini,
si tratterebbe di un episodio di “bonifica
storica”.
Le “memorie collettive” si producono, secondo questi docenti di
Storia, e “negli ultimi anni” la loro “produzione“ sarebbe diventata “conflittuale”. Forse vogliono dire che una nuova generazione di studiosi,
in gran parte non accademici, ha cominciato, sulla base di fatti e documenti
storici e non di costruzioni ideologiche, a mettere in discussione il “rito
antico ed accettato” del Risorgimento del quale sono i guardiani.
Renata De Lorenzo è
un’allieva del prof.
Alfonso Scirocco (1924-2009), titolare della cattedra di Storia
del Risorgimento all’Università
Federico II, poi collaboratrice di Giuseppe Galasso. Il suo libro su Murat, personaggio del quale il
presidente di Storia Patria è un’ammiratrice, è stato presentato in anteprima a
Roma, l’8 luglio 2011, nella sede del Grande Oriente d’Italia, nel corso di una serata conclusa
dal “Gran Maestro” Gustavo Raffi.
Le
cattedre di “Storia del Risorgimento” furono create nelle Università italiane
per costruire la memoria storica di un evento che vide come protagonisti gruppi
ristrettissimi in ciascuno degli Stati pre-unitari dell’Italia. Un bilancio
della loro attività può essere fatto guardando alla produzione. In occasione
dei 150 anni dell’unificazione (2011), dalla parte risorgimentalista
non è stato prodotto nessun contributo scientifico di rilievo, mentre la
divulgazione ha sfornato biografie di personaggi risorgimentali firmate da
giornalisti e compilatori, saccheggiando la bibliografia già esistente, mentre
gli studiosi critici del Risorgimento hanno prodotto contributi originali
corredati da documenti. Basti citare gli studi di Antonella Grippo, Angela Pellicciari, Gennaro De Crescenzo.
Ma perché
i cultori della leggenda risorgimentale non producono nulla di serio? Perché se
ci si mettesse a studiare davvero che cosa fu quello che è stato definito Risorgimento, emergerebbero non solo le
stragi, di meridionali di cui Pontelandolofo
e Casalduni sono solo un esempio, ma
anche la totale mancanza di legittimazione dei suoi “gruppi dirigenti”. Come si svolsero i plebisciti, non solo nel Regno delle Due Sicilie, ma nel Granducato di Toscana, nelle Legazioni Pontificie, in Veneto? Da dove provenivano i “patrioti” e quali legami avevano con le
sette, con potenze straniere come l’Inghilterra? Che ruolo ebbero la camorra e
la mafia nella gestione dell’ordine pubblico a Napoli e nell’avanzata di Garibaldi in Sicilia?
A queste ed altre domande è pericoloso rispondere. Si incrinerebbe definitivamente la ricostruzione affabulatoria dell’unificazione italiana. Meglio continuare a difendere i busti di Cialdini e di altri “eroi” del Risorgimento come lui, per impedire che vengano trasferiti in appositi Musei storici con targhette che rechino scritto: “criminale di guerra”. (LN132/19)
Lettera Napoletana
fonte http://www.editorialeilgiglio.it/due-sicilie-chi-difende-il-busto-di-cialdini/
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