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Pellagra, il mal della miseria

Posted by on Dic 29, 2019

Pellagra, il mal della miseria

Il termine “Pellagra” compare per la prima volta nell’ articolo scientifico scritto da Francesco Frapolli  “Animadversiones in morbum, vulgo pelagram. Mediolanum 1771” nel quale descriveva una malattia fino ad allora sconosciuta e caratterizzata da alterazioni cutanee, disturbi addominali e sintomi di natura psichiatrica. Il termine  deriva con molta probabilità dal dialetto lombardo col significato di “pelle ruvida” caratteristica peculiare di questa malattia.

Una affezione simile era già stata segnalata dallo spagnolo  Gaspar Casal i Julián nel 1735 e descritta nella sua opera uscita postuma nel 1762 dal titolo Historia Natural y Médica del Principado de Asturias datada a Madrid l’any 1762. Il terzo capitolo di questo libro contiene la descrizione di una malattia endemica tra i contadini asturiani che Casal stesso definisce col termine “mal de la rosa”. La estrema povertà che regnava in questa regione della Spagna costringeva la popolazione ad una alimentazione povera costituita prevalentemente da alimenti derivati dal mais e pressochè priva di carne, dieta  che lo stesso medico mise in relazione con questa malattia. Chi ne veniva colpito presentava un tipico rossore ed un’esantema con vescicole sul dorso di mani e piedi ed una eruzione simile intorno al collo che Casal descrive in questo modo: “in questi pazienti anche se non in tutti si presenta una ruvidezza di colore cinereo scuro che dalla parte antero-inferiore del collo a mò di colletto lo circonda salendo  fino a raggiungere,  da ambo i lati , i muscoli trapezi senza estendersi ulteriormente. Anteriormente viene interessata una striscia di cute che dal collo scende lungo lo sterno per arrivare al centro del torace. Questa lesione è talmente caratteristica che non si riscontra in nessun’altra malattia e  quando è presente permette di fare diagnosi di mal del la rosa”.

Il termine “mal de la rosa” deriva dal colore rosso scuro delle cicatrici cutanee che residuavano in questi soggetti come conseguenza delle recidivanti lesione  eritematose.

La notorietà di questa “nuova” malattia arrivò al mondo scientifico grazie al  medico francese Francois Thiery che avendo trascorso un periodo di tempo  a Madrid sentì parlare di  Casal e del Mal del la rosa e decise di trarne  una relazione che spedì al Journal de medicine, chirurgie et pharmacie, che la pubblicò qualche anno più tardi, nel 1755 e cioè 7 anni prima della pubblicazione postuma del lavoro di Casal.

Frapolli  nella sua opera ricordata all’inizio di questo articolo aveva individuato un decorso ben preciso della malattia che prevedeva  uno stadio iniziale nel quale i sintomi si riducevano alle alterazioni cutanee sopra descritte, un secondo nel quale a queste si aggiungevano altri disturbi quali  sudorazione eccessiva, diarrea, interruzione  del ciclo mestruale, deperimento organico; a questa fase chiamata da Frapolli « conclamata » faceva seguito l’ultima, definita « disperata », nella quale comparivano segni inequivocabili di squilibrio mentale. In questo stadio la malattia veniva considerata incurabile e il destino che attendeva i pazzi pellagrosi era la cronicizzazione del loro stato e spesso  l’internamento in strutture manicomiali fino al sopraggiungere della morte.

Una descrizione della sintomatologia simile a quella fatta da Frapolli ma più aderente alla realtà la riporta il medico Achille Sacchi, Segretario e Relatore della Commissione  della Provincia di Mantova per la pellagra che nel 1878 riportava:  “Venuta la primavera, il malato presenta, sulle parti della cute più esposta al sole, il dorso delle mani e dei piedi scalzi, la faccia, il collo e la parte mediana del petto sotto l’aperto sparato della camicia, 

un arrossamento con esfogliazione della epidermide e, più di rado, anche forme di alterazioni più gravi, quali sono rilievi aspri, vescicole e screpolature. Corrispondenti alterazioni caratteristiche  si riproducono più tardi nella mucosa delle labbra, della bocca e delle fauci, e sopravviene una diarrea profusa, ostinata, esauriente. L’infermo fattosi sempre più debole non regge più ormai alla menoma fatica, cammina barcollando, colle ginocchia semiflesse e curvo, movendo davanti a sé precipite il passo finché cade boccone. La pelle di tutto il corpo fassi di color terreo e si lascia sollevare floscia in larghe pieghe, i muscoli si sono assottigliati e s’è fatta magra o piuttosto emaciata tutta la persona, quando non abbia invece acquistata una tumidezza cascante e subdiafana, perché il tessuto sottocutaneo si è infiltrito di sierosità. In molti casi di pellagra, qualche volta fin dapprincipio, ordinariamente  in appresso, si manifesta la pazzia, che può prorompere subitanea e vestire tutte le forme dal gaio e loquace esaltamento maniaco alla più cupa e feroce lipemania (depressione ndr) con tendenza al suicidio, all’incendio, all’omicidio; ma più di sovente essa s’inizia con una ebetudine o tardità dell’intelligenza ed una apatica prostrazione d’animo, la quale diventa vera malinconia con alquanto stupore, e si esplica in parole ed atti deliranti di paura, di persecuzione o di una disperazione senza scampo.”

A conferma di quanto descritto da Sacchi c’è da sottolineare come la pellagra, pressoché assente nell’inverno, esplodeva in tutta la sua virulenza in primavera per persistere per tutta la stagione calda. Tale caratteristica dell’endemia condusse alcuni medici a ritenere che fosse proprio il sole o meglio la continua esposizione ai raggi solari, la causa scatenante del morbo.

Inoltre  l’evoluzione della pellagra era così frequentemente indirizzata verso forme di patologie psichiatriche che nel 1880 il direttore del manicomio di Brescia ricostruendo il movimento dei pazzi nel suo ospedale per il quindicennio precedente  rilevava che i pellagrosi costituivano la metà circa dei ricoverati. Lo stesso fenomeno si verificò anche negli altri grandi manicomi dell’Italia del Nord.

Merita di essere riportata anche la descrizione “del pellagroso” fatta da Cesare Lombroso nel suo  Trattato profilattico e clinico della pellagra del 1892: Passeggiando sulle colline della Brianza e del Canavese, vi sarà certo avvenuto incontrarvi in certi infelici simulacri di uomini macilenti, dall’occhio immobile e vitreo, dalle guance gialle allibite, dalle braccia screpolate piagate quasi da scottature o per larghe ferite. Ecco voi li vedete farvisi innanzi, crollando la testa e barcollando le gambe come ubriachi, o quasi spinti da una invisibile forza cadere da un lato, rialzarsi, correre in linea retta, come il cane alla preda, e ricadere ancora, dando in un riso sgangherato che vi fende il cuore, od in pianto che vi par di bambino; pochi giorni dopo quel doloroso incontro sentite buccinare dagli oziosi del caffè rusticano, fra le notizie di una campana che rimette a nuovo, e di una contadina che va a marito, come quel poveretto siasi affogato entro una magra pozza d’acqua che non pareva sufficiente ad annegare un pulcino; può essere invece, e sarebbe ancor peggio, che vi sussurrino come egli abbia freddato, senza alcuna ragione, i figli e la moglie; … senza ragione, ho sbagliato, la causa ve la trovano subito, benché non vi comprendiate granché sulle prime: era un pellagroso!

Prima della descrizione riportata da Casal  quindi la pellagra non esisteva; non ne facevano cenno i medici, non era presente tra le cause di morte, non era citata nelle tabelle nosografiche degli ospedali.

Dai resoconti comparsi nella letteratura medica si evidenzia come  la pellagra comparve inizialmente e con più evidenza  in Europa e principalmente in Paesi come la Spagna, l’Italia e la Francia.

In Italia la seconda inchiesta ministeriale del 1881 evidenziò come i casi di pellagra rilevati fino ad allora risultarono ben 104.063. Il Veneto con i suoi 55.881 pellagrosi si configurava come il vero cuore del fenomeno morboso: qui si concentrava il 55,6% dei malati censiti e si toccavano le più alte percentuali di diffusione del morbo in rapporto alla popolazione agricola, mentre in Lombardia si confermava la tendenza  alla stazionarietà e in Emilia il fenomeno sembrava assumere forme meno vistose.

Relativamente alla  causa della comparsa della pellagra in Italia si videro fronteggiarsi due fondamentali teorie: quella “carenziale” i cui principali sostenitori furono i dottori Filippo LussanaGaetano Strambio junior,  e lo stesso Achille Sacchi sopra ricordato,  che ravvisava nella povertà della dieta della popolazione più misera delle campagne e in particolare nel monofagismo maidico (mais) le reali cause della malattia, costretta da un’estrema indigenza a cibarsi in modo pressoché esclusivo di polenta fatta con la farina più economica, quella di granturco e la teoria  definita “tossicozeista” formulata inizialmente dal medico bresciano Lodovico Balardini, quindi ripresa e sviluppata da Cesare Lombroso  e dai suoi sostenitori, che imputava l’insorgere del morbo a tossine o batteri contenuti nel mais guasto, non correttamente essiccato che spesso veniva usato per fare la polenta .

Sebbene non confortata da adeguati riscontri sperimentali, l’ipotesi tossicozeista ebbe infine la meglio e fu abbracciata dai medici più autorevoli e  dal 1884 riconosciuta dal Ministro dell’Agricoltura Grimaldi e dal Consiglio d’Agricoltura, che ad essa improntarono un piano d’intervento statale che prevedeva la proibizione  dello smercio e la macinazione di mais non essiccato, immaturo guasto o avariato, l’introduzione di pubblici essiccatoi e forni per la  panificazione,  prescrizioni inerenti la salubrità delle case coloniche e l’istituzione di “locande sanitarie” che distribuissero ai contadini pasti a prezzo modico e con esclusione del mais e l’istituzione di speciali commissioni a livello locale, per rendere più capillare e costante l’intervento pubblico contro l’endemia   pellagrosa.

A questa disparità di giudizi sull’eziologia della pellagra corrispose anche la difformità nei rimedi suggeriti, per contrastare il male, dai sostenitori dell’una o dell’altra teoria. Lombroso per esempio prescrisse contro la pellagra rimedi puramente chimici e farmacologici, quali ad esempio la somministrazione ai malati di acido arsenioso, mentre i “carenzialisti” preferirono rivolgersi ai governanti raccomandando loro l’adozione di radicali riforme in campo sociale ed economico, così da alleviare le condizioni di vita e migliorare il regime alimentare degli strati inferiori della popolazione rurale presso i quali, in special modo, questo morbo si era venuto a diffondere come un “contagio endemico”.

Oggi sappiamo che l’origine dell’endemia pellagrosa  si deve al caratteristico regime alimentare delle classi rurali povere delle regioni del settentrione e del centro Italia. L’effetto saliente consistette nel fatto che il granturco, alimento principale di questi contadini era carente di vitamine essenziali alla sopravvivenza, e soprattutto della vitamina PP (pellagra preventive) altrimenti detta  niacina la cui carenza nella alimentazione rappresenta il vero fattore determinante l’insorgenza della pellagra. Il mais divenne progressivamente l’unica, reale, forma di remunerazione del lavoro contadino e pressoché l’unico prodotto alimentare cui i lavoratori della terra potevano accedere, in virtù dei loro modestissimi livelli di reddito. Questa situazione, che iniziò a manifestarsi negli ultimi decenni del ‘700 e si mantenne tale per tutto il secolo successivo comportando  una continua riduzione delle colture di grano, che veniva quindi sottratto alla loro alimentazione,  venne senz’altro favorita dal prezzo del granoturco  che  era notevolmente inferiore a quello degli altri due principali cereali alimentari, il frumento ed il riso.

Raseri nel suo articolo del 1880  Materiali per l’etnologia italiana, raccolti per cura della Società italiana di antropologia ed etnologia, riassunti e commentati era riuscito a determinare seppur approssimativamente la percentuale dei vari alimenti che componevano  la dieta contadina: ne usciva un quadro sconfortante nel quale il peso del mais e della polenta nelle regioni centro settentrionali  era rilevantissimo e inversamente proporzionale a quello del pane di frumento. Nei 66 comuni della Lombardia presi in esame era generalizzato il consumo di polenta di mais, ma solo 11 conoscevano l’uso del pane di farina bianca, appena il 16%.

Al contrario nel Mezzogiorno il quadro risultava diametralmente opposto: dei 105 comuni scelti nelle Puglie ed in  Basilicata ben 55 facevano largo uso del pane di frumento e in uno solo era riscontrato il consumo  di polenta. Ma la straordinaria differenza alimentare tra nord e sud era rappresentata soprattutto dalla differente presenza della frutta, dei legumi e del vino nell’alimentazione quotidiana: elevatissima nei comuni meridionali, via via decrescente man mano che si saliva verso il settentrione.

L’agronomo austiaco Burger così si esprimeva al riguardo: il mais, fra tutti i cereali, è quello che in uno spazio produce più  semi, che fornisce una gran quantità di foglie, le quali si mangiano con avidità dal bestiame… non ha bisogno che di essere macinato grossolanamente perché sia atto alla consumazione, dà poca perdita, non è necessario che la farina sia convertita in pane perché sia mangiabile; … siccome, finalmente la polenta fatta di fresco è migliore del pane stantio di segale e di grano, ne segue che gli Italiani hanno stupendamente ragione (!!!) di accordare la preferenza al mais su tutti gli altri cereali per gli usi casalinghi.

Ma come è stato possibile che una endemia così diffusa nel territorio agricolo di quasi mezza Italia si sia così rapidamente attenuata fino ad estinguersi con l’inizio del XX secolo, in assenza soprattutto  di una causa certa dell’origine di questa malattia? Attraverso quali meccanismi  si è potuto verificare   questo risultato?

Sicuramente un peso preponderante nella evoluzione favorevole di questa situazione  deve essere  riconosciuto alle  trasformazioni dell’agricoltura ed al  miglioramento delle condizioni di vita delle classi agricole.  In questo contesto sicuramente hanno contribuito  le lotte contadine,  le emigrazioni, l’inurbamento, l’aumento dei salari. la riduzione dei prezzi agricoli e soprattutto i cambiamenti delle abitudini alimentari con l’introduzione di una alimentazione più varia che ha preso il posto di quello che è stato denominato “monofagismo maidico”.

Alla scomparsa della Pellagra contribuì anche la Legge del 12 giugno 1902, n.427  “Sulla prevenzione e cura della pellagra” (con il successivo Regolamento della suddetta Legge (R.D. 5 novembre 1903, n.451, G.U. 1/12/1902) con la quale viene regolamentata la produzione  e conservazione   del granoturco, impedendo l’utilizzo di quello manifestamente ammuffito, non correttamente essiccato o immaturo. L’ “alimentazione curativa” viene fornita in locande sanitarie, in cucine economiche od in altri o simili istituti. Quand’anche questa risulta insufficiente il malato dovrà essere ricoverato in ospedale.

Quando nel 1937 Conrad Arnold Elvehjem, dopo aver isolato la struttura della niacina, diede impulso al suo utilizzo nel trattamento della pellagra, questa malattia in Italia  ormai non rappresentava più un problema sanitario nè sociale.

fonte http://www.alessandrolivistudiomedico.it/pellagra/

Numero e distribuzione dei malati di pellagra nelle diverse regioni nel 1881. Si evidenzia come la diffusione del morbo si concentra prevalentemente nelle regioni del Nord tra cui Piemonte, Veneto Lombardia ed Emilia.
Panem nostrum quotidianum, 1894 (Giuseppe Mentessi). Giovane contadina dall’aspetto triste e sofferente con la figlia malata in braccio, circondata da piante di granoturco. Nell’Italia del Nord del XIX secolo, la pellagra era una malattia ad alta diffusione perchè la povertà della popolazione contadina consentiva solo una alimentazione a prevalente contenuto di mais la cui carenza di vitamina PP (niacina) provocava l’insorgenza della pellagra.

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