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Pillole di Memorie per “La storia de’ nostri tempi” di Don Giacomo Margotti (II)

Posted by on Ago 17, 2024

Pillole di Memorie per “La storia de’ nostri tempi” di Don Giacomo Margotti (II)

Consigliamo agli amici e ai naviganti di prestare la dovuta attenzione al testo di Giacomo Margotti, di cui andiamo pubblicando alcune parti e che meriterebbe di esssere conosciuto nella sua interezza, in quanto – secondo il nostro modesto parere – esso costituisce, insieme al De Sivo, un vero e proprio pilastro per una rilettura del Risorgimento.

Tra le pagine del Margotti si riconosce, a volte in maniera impressionante, l’Italia dei nostri giorni: arruffonna, dominata dalle finanziarie e dai furbi di turno. Vi si ritrovano tutti i mali di cui si sparla da tempo vanamente, mali che vengono ipocritamente messi in relazione con una presunta borbonizzazione dell’Italia:

  • proliferazione degli incarichi
  • malversazioni
  • ruberie
  • arricchimenti facili
  • uso e abuso del pubblico denaro

Voi avete concentrato nel solo Luigi Bonaparte

«la ragione dell’Italia attuale».

Cosi GIUSEPPE FERRARI

ai Deputati F8 ottobre 1860.

(Atti ufficiali N. 143, pag. 558).

I PRIMI VAGITI DEL REGNO D’ITALIA

Questa terza serie delle Memorie per la Storia de’ nostri tempi è destinata a raccogliere i documenti relativi alla nascita del Regno d’Italia. Riservando i giudizii allo storico libero ed imparziale, ci restringeremo a ristampare ciò che abbiamo scritto di mano in mano che avvenivano i fatti principali, e fu da noi pubblicato in Torino, quando avvenivano. Ci conviene però mandare innanzi qualche notizia cronologica che serva di guida al lettore.

L’11 marzo 1861, il Conte Camillo Benso di Cavour, presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro sopra gli affari esteri, presentava alla Camera dei Deputati un progetto di legge, in virtù del quale “S. M. il Re Vittorio Emanuele II assumeva per sé ed i suoi successori il titolo di Re d’Italia”. Fu nominato relatore di questo progetto il deputato Giorgini, che presentò la sua relazione alla Camera il 14 febbraio 1861. La Camera lo discusse nella stessa tornata, e l’approvò all’unanimità con 294 voti. Il Senato avea prima approvato il Regno d’Italia nella tornata del 26 febbraio 1861. La legge fu promulgata il 17 di marzo 1861 e porta il N° 4671 nella Raccolta degli Atti del Governo.

Parecchi mesi prima, nell’ottobre del 1860, dopo l’invasione delle Marche, dell’Umbria e del Regno delle Due Sicilie, il Ministero avea chiesto ed ottenuto dal Parlamento «la facoltà di compiere l’annessione di nuove provincie italiane». La discussione di questo progetto di legge incominciava nella Camera dei deputati l’8 di ottobre 1860 e durava tre giorni. Il primo a parlare era Giuseppe Ferrari e diceva ohe «il Piemonte si sovrappese a tutte le città dell’alta Italia» che «fu strana, fu maravigliosa la concordia artificiale colla quale lo Stato Subalpino, quasi unanime nei diversi suoi partiti, sostenne la parte di liberatore italiano»; che «ove giungeva il Piemonte non poteva più sussistere né il Duca di Modena, né la Duchessa di Parma, né il Granduca di Toscana, o il Re di Napoli, nessun Principe, nessun Re, né Principe italiano potea conservarsi». (Atti Ufficiali della Camera, anno 1860, N° 143, pag. 556). Lo stesso deputato Ferrari dichiarava: «sono stato avversario dell’unita Italiana, la credo tragica nell’azione sua, destinata a creare immemorabili martirii e crudelissimi disinganni, benché necessaria come gli scandali alla storia, come i sacrifizii e gli olocausti alla religione. Ma al certo i Ministri che non dividono questa mia opinione, non hanno mai parlato di unita italiana nel 1848, ancor meno dopo la battaglia di Novara; e nei recenti protocolli del 1859, quando accusavasi l’unita austriaca nei ducati italiani, ogni nota del gabinetto piemontese non era forse federale?» (Atti ufficiali della Camera, loc. cit., pag. 558).

Il Dep. Ferrari diceva al Conte di Cavour lì presente: «Io non posso considerare il Conte di Cavour come ministro né d’indipendenza, né della spedizione di Roma, né di quella di Venezia. Forse lo sarà egli dell’influenza francese?… Voi considerate l’influenza francese come l’atto personale e direi anche capriccioso d’un uomo, dell’Imperatore dei Francesi, e nel proclamare la vostra gratitudine al capo della Francia, voi avete concentrato nel solo Luigi Bonaparte la ragione dell’Italia attuale. Con ciò si costituisce un nuovo sistema imperiale; l’Imperatore, il Cesare antico e precisamente l’uomo isolato, che scende dall’alto, che s’invoca come liberatore, astrazione fatta dalla nazione alla quale appartiene; che sia Carlo IV di Boemia, o Ludovico di Baviera, che sia Francese o Tedesco, nessuno parla della patria sua, e tutti gli chiedono di rendere felici le nazioni, e le vostre espressioni eccessive di gratitudine, le vostre frasi smodate di riconoscenza, mi annunziano che RESPINTO L’IMPERO TEDESCO VOI RICADETE NELL’IMPERO RIVOLGENDOVI AL CESARE FRANCESE» (Atti ufficiali, loc. cit.).

Il deputato Ferrari conchiudeva: «Giacche la storia non volle che l’Italia appartenesse alla classe delle nazioni unitarie, colla federazione possiamo raggiungere ogni più gloriosa meta. Colla federazione ogni città si trasforma in capitale e regna sulla sua terra; colla federazione ogni stato italiano si riconosce con una propria assemblea erede delle patrie glorie; poi ogni assemblea nomina i rappresentanti della nazione nella dieta    La costituzione comincierà solo nell’istante in cui sorgerà l’era federale» (Atti uff., N° 144, pag. 559).

Come ben vede il lettore, non potendo noi scrivere un po’ di prefazione a questa terza serie delle Memorie per la Storia de’ nostri tempi, cerchiamo di farla scrivere dai deputati inviolabili. Le verità dette dal Ferrari nell’ottobre del 1860 splendono di maggior luce cinque anni dopo. Quando il Ferrari le pronunziava nella Camera, venivano accolte con incredibili rumori. Correvano allora i giorni della poesia. Il deputato Boggio vedeva quell’Italia intorno a cui prima «si attortigliavano otto aspidi» ora divenuta onorata, libera, felice, potente. E il deputato Sineo diceva: «sollevato il nero marmo che copriva il suo avello, l’Italia risorge colla sua aureola di sapienza e di gloria (pag. 561). E il deputato Mellana chiedeva in grazia ai suoi elettori «che il giorno che i comizii elettorali si riuniranno per volontà di popolo sul Campidoglio, io potessi colà una volta rappresentare la mia patria». E poeticamente soggiungeva: «Quel giorno, o signori, ha da venire, è legge più forte dello stesso destino» (pag. 569). E il dep. Armelonghi: «L’Italia ha bisogno di Roma, e Roma ha bisogno d’Italia. Roma è la capitale nata dell’Italia futura; senza Roma insomma l’Italia non può essere una. E i casi nostri camminano cosi veloci, cosi gagliardi, che sarebbe poco men che ridicolo d’immaginare, che potessero arrestarsi per cosi piccolo ostacolo» (pag, 569).

II deputato Chiaves avvertiva: «il Papato seguiterà a sussistere, ed è pure una grande potenza, o signori» (pag. 571). Il deputato Bertani raccontava che Garibaldi «me presente, sui monti di S. Angelo espresse la sua gioia quel giorno che un telegramma gli annunziava l’entrata del nostro esercito in Roma» (pag. 572). E Marco Minghetti trovava «nella nostra rivoluzione il carattere di moralità, di civiltà, dirò persino di legalità» (pag. 578), legalità, civiltà, moralità che il Minghetti dovea pii tardi praticare nel suo Ministero! E il deputato Mosca diceva «non dev’essere più possibile che l’Europa dubiti un solo momento della volontà che abbiamo di fare l’Italia, di feria ad ogni costo, di farla presto » (pag. 583).

Ultimo degli oratori parlava il Conte Camillo di Cavour nella tornata dell’11 di ottobre 1860, ed ecco alcune sentenze tolte dal suo discorso registrato negli Atti Uff. della Camera, N° 153, pag. 593, 594: «Un uomo di stato, per essere degno di questo nome, deve avere certi punti fissi che siano, per cosi dire, la stella polare direttrice del suo cammino, riservandosi di scegliere i mezzi o di cambiarli a seconda degli eventi ; ma sempre tenendo rivolto lo sguardo sul punto che deve servirgli di guida. Durante gli ultimi dodici anni la stella polare di Re Vittorio Emanuele, fu l’aspirazione all’indipendenza nazionale. Quale sarà questa stella riguardo a Roma? (Movimento d’attenzione). La nostra stella, o signori, ve lo dichiaro apertamente, è di lare che la città eterna, sulla quale venticinque secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno italico (strepitosissimi e prolungati applausi). Ma forse questa risposta non appagherà pienamente l’onorevole interpellante (Ferrari Giuseppe), il quale chiedeva quali mezzi avremo noi per raggiungere questo scopo. Io potrei dire risponderò se voi prima mi direte in quali condizioni saranno fra sei mesi l’Italia e l’Europa (ilarità e segni di adesione) ma se voi non mi somministrate questi dati, questi termini del problema, io temo, che né io, né nessuno dei matematici della diplomazia potrà riuscire a trovare l’incognita da voi cercata (ilarità generale)… Il problema di Roma non può mio avviso essere sciolto colla sola spada; la spada è necessaria, la fu e lo sarà ancora per impedire che elementi eterogenei vengano a frammettersi nella soluzione di questa questione; ma, e signori, il problema di Roma non deve esser sciolto colla spada sola; le forze morali debbono concorrere. al suo scioglimento… Io credo che la soluzione della questione romana debba esser prodotta dalla convinzione, che andrà sempre più crescendo nella società moderna, ed anche nella grande società cattolica; esser la libertà altamente sviluppo del vero sentimento religioso (bravo, bene!)».

Dopo le parole del conte Cavour la Camera approvava all’unanimità il seguente ordine del giorno «la Camera dei deputati mentre plaude altamente allo splendido valore dell’armate di terra e di mare, e al generoso patriottismo dei volontarii, attesta la nazionale ammirazione e riconoscenza all’eroico Generale Garibaldi, che soccorrendo con magnanimo ardire ai popoli di Sicilia e di Napoli, in nome di Vittorio Emanuele restituiva agl’Italiani tanta parte d’Italia».

Poi la Camera approva anche all’unanimità questo articolo di legge: «Il Governo dal Re è autorizzato ad accettare e stabilire per reali decreti l’annessione allo Stato di quelle provincie dell’Italia entrale e meridionale, nelle quali si manifesti liberamente per suffragio diretto universale la volontà delle popolazioni di far parte integrante alla nostra Monarchia Nazionale». Al levare di quella tornata dell11 ottobre 1860, il Presidente della Camera, che ara il medico Giovanni Lanza, gridò: VIVA L’ITALIA! (applausi generali e grida vivissime VIVA L’ITALIA!).

Allora si compirono le annessioni delle Marche e dall’Umbria e delle Due Sicilie in quel modo che la storia libera a suo tempo dirà; e poi si convocarono Collegi elettorali, e il 18 febbraio 1861 fu radunato il Primo Parlamento Italiano. Perché potesse capire i quattrocentoquarantatre deputati, s’era fabbricata in fretta una Camera di legno. Alle ore 11 antimeridiane il Principe di Piemonte e il Duca d’Aosta e poco dopo Vittorio Emanuele II entravano nella nuova Aula in mezzo alle grida di viva il Re d’Italia! La Maestà del Re leggeva il eseguente discorso, che noi pubblichiamo con quelle medesime avvertenze già da noi stampate il 19 febbraio dei 186

DISCORSO D’INAUGURAZIONE PRIMO PARLAMENTO ITALIANO

Il 18 di febbraio la Corona inaugurava il Parlamento con un discorso che, secondo le consuetudini costituzionali, è soggetto alla critica del giornalismo perché cade sotto la responsabilità del Ministero. Valendoci del nostre diritto pubblichiamo il discorso con qualche osservatone.

Signori Senatori! Signori Deputati!

«Libera ad unita quasi tutta per mirabile aiuto delta Divina Provvidenza, per concorde volontà dei popoli e per lo splendido valore degli eserciti, l’Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra»

Quel quasi tutta ci ricorda la famosa quasi ristorata finanza. Nel quasi tutto vqgliam credere che entreranno anche Nizza, Mentone e Roccabruna cedute alla Francia. La Divina Provvidenza non ha detto ancora l’ultima qua parola. Coloro che l’invocano oggidì speriamo che più tardi né rivedranno i decreti.

«A voi si appartiene il darle istituti comuni e stabile assetto. Nello attribuire le maggiori libertà amministrative a popoli ohe ebbero consuetudini ed ordini diversi, veglierete perché l’unità politica, sospiro di tanti secoli, non possa mai essere menomala».

L’Unità politica fu detta da Balbo un’utopia; e tale venne dimostrata da tanti secoli. Le opere durature non si formano in un giorno. Quando si va contro la natura e le tradizioni dei popoli, si fabbrica sull’arena.

«L’opinione delle genti civili ci e propizia; ci sono propizi gli equi e liberali principii che vanno prevalendo nei consigli d’Europa. L’Italia diventerà per essa una guarentigia d’ordine e di pace, e ritornerà efficace strumento della civiltà universale».

Vorremmo ohe d fosse propizia l’opinione. delle genti cattoliche. Esse protestano invece contro di noi; e le stesse genti civili ci accusarono solennemente in faccia al mondo d’aver conculcato il diritte delle genti.

«L’imperatore dei francesi, mantenendo ferma la massima del non-intervento a noi sommamente benefica, stimò tuttavia di richiamare il suo inviato. Se questo fatto ci fu cagione di rammarico, esso non alterò i sentimenti della gratitudine, né la fiducia nel suo affetto alla causa italiana».

S’è sempre dotto ohe le proteste di Napoleone III erano lustre, ed ora si conferma. E’ la prima volta che si professò gratitudine a chi ebbe l’aria di strapparci e di opporsi ai nostri disegni. Abbiamo ribevuto uno schiaffo; si annunzia e si risponde: grazie! Il bello è che mentre la Corona diceva che l’Imperatore dei Francesi avea richiamato da Torino il suo inviato, la Gazzetta Ufficiale affermava d’aver notato nella tribuna il ministro di Francia!

«La Francia e l’Italia che ebbero comune la stirpe, le tradizioni, il costume, strinsero sui campi di Magenta e di Solferino un nodo che sarà indissolubile».

Questo periodo serve per preparare la strada a nuove cessioni. Potremo cedere più tardi la Liguria e la Sardegna alla Francia per comunità di stirpe di tradizione e di costume.

«Il Governo ed il popolo d’Inghilterra, patria antica della liberti, affermarono altamente il nostro diritto ad essere arbitri delle proprie sorti, e ci furono larghi di confortevoli uffici, dei quali durerà imperitura la riconoscente memoria».

Fidatevi dell’Inghilterra! Lord John Russell, il 5 di febbraio 1861, disse al Parlamento inglese: «Noi abbiamo sempre comunicato confidenzialmente coll’Austria, Russia e Prussia riguardo ad ogni affare d’Europa». Inoltre ha promesso che quando la Francia, a parer suo, fosse nel torto, l’Inghilterra «formerebbe un’alleanza colle grandi Potenze d’Europa per combattere le sue mire» (Times del 6 febbraio 1861, pag. 7a, col. 5a).

«Salito sul trono di Prussia un leale ed illustre Principe, gli mandai un ambasciatore a segno di onoranza verso di lui e di simpatia verso la nobile nazione germanica, la quale, io spero, verrà sempre più nella persuasione die l’Italia,costituita nella sua unita naturale, non può offendere i diritti, né gli interessi delle altre nazioni».

Qui si da la notizia che Lamarmora è stato a Berlino. Sapevamcelo. Ma ha persuaso il leale ed illustre Principe? Non pare che abbia persuaso la Germania, giacché si spera che verrà nella persuasione.

Signori Senatori/ Signori Deputati!

«lo son certo che vi farete solleciti a fornire al mio Governo i modi di compiere gli armamenti di terra e di mare. Cosi il Regno d’Italia posto in condizione di non temere offesa, troverà più facilmente nella coscienza delle proprie forze la ragion dell’opportuna prudenza».

In questo periodo abbiamo l’annunzio di nuovi imprestiti, e di nuove imposte. Dal 1848 in qua non si udì mai Discorso della Corona senza si caro ritornello. Si mantiene la sublime tradizione.

«Altra volta la mia parola suono ardimentosa, essendo savio cosi lo osare a tempo, come lo attendere a tempo. Devoto all’Italia, non ho mai esitato a porre a cimento la vita e la Corona; ma nissuno ha diritto di cimentate la vita e le sorti d’una nazione»,

Si può facilmente abbandonare il sasso dal sommo della montagna, ma è difficile ritenerlo a mezza via. Dio solo ha l’autorità di dire al mare: Verrai fin qui, e non più innanzi. E la rivoluzione e un mare in burrasca.

«Dopo molte segnalate vittorie, l’esercito italiano, crescente ogni giorno in fama, conseguiva nuovo titolo di gloria espugnando una fortezza delle più formidabili. Mi consolo nel pensiero che la si chiudeva per sempre la serie dolorosa dei nostri conflitti civili».

Speriamo di non essere più obbligati a recare documenti di fucilazione, di saccheggi, e d’incendi. Vorremmo pero che colla fama dello esercito fosse cresciuta a svantaggio degli Italiani la fama di lealtà, e non la riputazione di tradimenti.

«L’armata navale ba dimostrato nelle acque di Ancona e di Gaeta che rivivono m Italia i marinari di Pisa, di Genova e di Venezia».

I bombardamenti di Gaeta e d’Ancona non saranno la più bella, pagina detta jstoria d’Italia. La posterità inesorabile si occuperà dell’origine e del modo di questi bombardamenti, e dirà che uno fu contro il Papa, e l’altro contro il figlio d’una Principessa di Savoia, e ne restarono vittime i sudditi innocenti d’ambedue.

«Una valente gioventù, condotta da un Capitano che riempi del suo nome le. più lontane contrade, fece manifesto che né la servitù, né le lunghe sventure valsero a snervare la fibra dei popoli italiani».

Questi elogi a Garibaldi vogliono essere confrontati colle proteste della Gazzetta Ufficiale contro la sua spedizione e colle Note del conte di Cavour, in cui dichiaravasi usurpatore.

«Questi fatti hanno inspirato alla nazione una grande confidenza nei proprii destini. Mi compiaccio di manifestare al primo Parlamento d’Italia la gioia che ne sente il mio animo di Re e di Soldato»

VITTORIO EMANUELE

Qui ha termine il discorso della Corona, e noi pure terminiamo i nostri commenti. Sono stati brevi assai, perché non ci era lecito dire quanto sentivamo nel cuore. Il lettore pensi il resto, e attenda i fatti che verranno.

IL DANARO D’ITALIA

(Pubblicato il 9 ghigno 1861)

Il deputato Ricciardi ha proposto alla Camera un disegno di legge per aprire una sottoscrizione nazionale sotto il nome di Danaro d’Italia, alfine di coadiuvare all’armamento nazionale, soccorrere i feriti, e pagare tutto ciò che e necessario per la fabbrica… italiana. Ecco il suo disegno follo dagli. Atti uff. della Camera, N° 460, pag. 601.

«Art. 1. Una sottoscrizione nazionale, col titolo Danaro d’Italia, sarà aperta, dal giorno della promulgazione della presente legge, in tutti i comuni del regno, coll’unico scopo di aiutare il Governo nel compimento dell’impresa Italiana.

«art. 2.1 nomi de’ sottoscrittori saranno registrati nella Gazzetta ufficiale del Regno.

«Art. 3. Alla fine di ciascun mese il Danaro d’Italia raccolto nella cassa di ogni comune, sotto la responsabilità dei magistrati municipali, sarà versato in quella della ricevitoria generate d’ogni provincia.

«Art. 4. Meta delle somme raccolte sarà posta ad esclusiva disposizione dei ministri di guerra e marineria militare.

«Art. 5. Coll’altra meta sarà costituita una cassa o tontina a beneficio di quanti furono o saranno feriti nelle patrie battaglie e delle famiglie di morti in guerra; cassa o tontina, il cui regolamento sarà sempre compilato per cura della potestà esecutrice.

«Art. 6.,La sottoscrizione del Danaro d’Italia non sarà chiusa che un anno dopo la liberazione ed unificazione intiera dell’italiana Penisola» cioè il dopo pranzo del giudizio universale!»

Nella tornata del 17 di giugno il Ricciardi svolse il suo disegno. La ragione principale che egli addusse fu questa. Abbiamo il Danaro di S. Pietro: dunque vi dee essere il Danaro d’Italia. Guai all’Italia, esclamò l’oratore, se fossero necessarie molte parole per sostenere la mia proposta. Guai se il Danaro d’Italia non fruttasse maggiori somme che il Danaro di S. Pietro!

La proposta del Ricciardi venne combattuta dal deputato La Farina e rigettata dalla Camera; e questo per due motivi; perché non sarebbe onorevole per un Parlamento il promuovere una pubblica sottoscrizione, e perché l’Europa resterebbe altamente scandalizzata qualora una sottoscrizione promossa dalla Camera non corrispondesse all’aspettativa.

E la Camera operò prudentemente, laddove il Ricciardi fu salutato da un giornale libertino come uomo di un’ingenuità antidiluviana, anzi preadamitica, E fu ingenuo davvero, perché suppose che una Camera di Deputati potesse mettersi a confronto del Papa; che la rivoluzione potesse operare quei miracoli di carità e di disinteresse prodotti dal cattolicismo; che i popoli italiani fossero contenti di questo stato di cose e volessero sostenerlo con ispontanee oblazioni. II 20 di maggio il deputato Ricciardi parlava alla Camera, e diceva che, essendo ritornato in Napoli dopo poche settimane di assenza, più non la riconobbe «tanto la trovo squallida e mesta», che vide cola «grandi mali, malcontento generale, malcontento profondo, lamento perenne, stato di miseria profonda, penuria estrema». E poi il 17 di giugno il Ricciardi chiedeva a Napoli il Danaro d’Italia! Oh ingenuità antidiluviana!

Il 20 di maggio il Ricciardi vedeva nel regno di Napoli miseria, ingiustizia malversazione, uno stato di cose intollerabile; le finanze assai bistrattate e un esercito di ladri (1). E ventisette giorni dopo il Ricciardi traeva fuori colla sua proposta del Danaro d’Italia! 0 ingenuità preadamitica!

Il Danaro di S. Pietro venne da se, e non ebbe bisogno di nessun Deputato che lo sostenesse, né di nessun Parlamento che lo sancisse. Appena il Pontefice, di tutti i fedeli il Padre, come Io definì il Concilio Lateranense IV, appena la Chiesa Romana, di tutte le Chiese Madre e Maestra, come la chiamò il Concilio di Trento, furono nei più stretti bisogni, e tosto i cattolici senza tante casse e tante tontine si affrettarono a soccorrere il Padre e la Madre comune. La legge che ordino questi soccorsi fu scritta nel cuore di tutti i credenti; gli articoli erano la fede, la pietà, la carità. Noi stessi abbiamo incominciato a raccogliere il Danaro di S. Pietro senza quasi addarcene. Venne una prima sottoscrizione, poi una seconda, una terza, una quarta, ed oggidì non passa giorno che molte oblazioni non ci giungano per metterle a’ piedi del S. Padre.

Il deputato La Farina e i suoi colleghi temono che il Danaro d’Italia non riesca, e la poverina n’abbia il danno e le beffe. Ma questo noi non abbiamo temuto mai pel Danaro di S. Pietro. Sarebbe stato un far torto alla religione ed al buon cuore degli Italiani, e un bestemmiare la Provvidenza di Dio. Si, tutte le volte che il Papa avrà bisogno troverà sempre de’ figli che metteranno a’ suoi piedi le loro ricchezze.

Il Ricciardi nel promuovere il Danaro d’Italia dimentico che la povera Italia già pagò, paga e pagherà questo danaro. Non lo paga e vero, volontariamente come il Danaro di S. Pietro, non lo paga con eguale consolazione dell’animo; lo paga costrettavi dall’esattore, Io paga al fisco che la munge, lo paga sotto il timore dell’oppignorazione e del carcere, ma lo paga pur troppo e dovrà anche pagarlo per l’avvenire.

(1) Vedi Atti Uff. della Camera, N° 140, pag. 526, 527, 528.

Son Danaro d’Italia le terribili imposte che pesano sul povero Piemonte. Nel 1848 noi pagavamo meno di ottanta milioni all’anno per contribuzioni, e nel 1858 abbiamo pagato 137 milioni di lire; nel 1859 ne abbiamo pagato 148 milioni, e pagammo 150 milioni di lire nel 1860, Questi ottanta milioni di più, che pesano sull’esausto Piemonte, sono Danaro d’Italia.

E Danaro d’Italia furono la Savoia, Nizza, Mentone e Roccabruna, dati alle straniero; e altro Danaro d’Italia sarà pagato tardi o tosto son nuove provincie, affinché la rivoluzione possa ottenere nuove concessioni.

Già pagano e pagheranno ancor più largamente il Danaro d’Italia i Lombardi, i Parmigiani, i Modenesi, i Toscani, i Romagnoli, gli Umbri e i Marchigiani, le cui imposte saranno triplicate, perché possono sedersi al banchetto delle libere nazioni.

Napoli incomincia già a pagare il Danaro d’Italia, e il cavaliere Nigra ce né die un saggio nello specchietto che chiude la sua relazione. Nei quattro, mesi del 1861 Napoli ha visto aumentarsi le sue spese di cinque milioni e mezzo di lire, e aumenta di spese vuol dire sempre aumento di contribuzioni.

La Sicilia paga il suo Danaro d’Italia con un aumento di cinque milioni di spese su quelle che pagava sotto la tirannia dei Borboni. E nella stessa tornata del 17 di giugno il ministro Bastogi annunziava che fra giorni presenterebbe cinque leggi d’impesta! Invece dei sei articoli del Danaro d’Italia avremo cinque brave leggi d’imposta, e sentirete che belli e grandi cordiali evviva alla libertà?

Vi sono però alcuni che non pagano il Danaro d’Italia, ma lo riscuotono, e sono, per esempio, in Sicilia i nuovi impiegati, che consumano lire 899,750 50 più degli antichi; sono coloro ohe aumentarono il debito pubblico dell’isola di una rendita annua di lire 2,550,600, cioè d’un quaranta milioni di capitale; sono coloro che a Napoli nel primo quadrimestre del 1861 si fecero pagare tanti assegni straordinari per 5,740,813 ducati, e questo in linea provvisoria, come attesta il cav. Nigra.

Ed anzi poiché il deputato Riociardi e cosi tenera pel Danaro d’Italia, vorremmo che chiedesse notizia al ministero di quel tale scandaloso processo girato al Popolo d’Italia di Napoli, che aveva accusato certi onorevoli d’avere riscosso un po’ troppo largamente per se il Danaro degli Italiani. Con nostra grande sorpresa quel processo, che a quest’ora dovrebbe essere finito, ci sembra invece sepolto.

Del resto le cifre dal Danaro d’Italia sono ben numerose. e Danaro d’Italia il prestito di settecento milioni ohe sta per contrarsi; e Danaro d’Italia il sangue che fu sparso in Crimea ed in Lombardia per passare dalla preponderanza austriaca Botto il predominio francese, e Danaro d’Italia quel numero senza numero d’Italiani che a Capua, a Gaeta, a Messina ed altrove restarono vittime della loro fedeltà. E’ Danaro d’Italia quel cumulo di fucilazioni che incominciale col liberalismo non cesseranno se non quando cessi questa dolorosa parodia della libertà.

E dopo tutto questo il deputato Ricciardi vuole istituire il Danaro d1 Italia, come se noi non avessimo pagato nulla, come se l’Italia dovesse incominciare domani a pagare!

Lode alla Camera che ha rigettato prudentemente la proposta! Il Danaro d Italia sarebbe stato un secondo plebiscito, ma molto più solenne del primo-

Nessuno avrebbe osato accusare i liberali d’aver moltiplicato i danari. Essi sono sempre innocenti di simili delitti!

Però poteva avvenire che dove i voti furono unanimi, quando si trattò di minuzzoli di carta, trattandosi poi di scudi e di lire, il risultato dovesse esser zero. La Farina che se ne intende scongiurò il periodo oppugnando la proposta del Ricciardi, e quando si venne alla votazione sorsero in favore quattro Deputati, e compreso Ricciardi, cinque!

LA PAPPA AL NEONATO REGNO D’ITALIA

(Pubblicato il 28 giugno 1861 )

II Regno d’Italia, figliato da Luigi Bonaparte e dal conte di Cavour coll’assistenza di Garibaldi, Nunziante e Liborio Romano, appena venne alla luce pronunziò questa prima parola: Fame. E la fame dei regni, e massime, dei regni come il nuovo Regno, non si sazia che col danaro. Il regno neonato divorava quando era ancora nascituro, e prima di esistere aveva già ingoiato un millecinquecento milioni. Pensate che cosa doveva mangiare questo pappacchione dopo di essere nato!

Il signor Bastogi incaricato, nella sua qualità di ministro delle finanze, di dare la pappa al nuovo Regno d’Italia, chiese per primo boccone cinquecento milioni effettivi. «Non si crede, dice il Journal des Economistes di Parigi, che il signor Bastogi possa ottenere un imprestito al disopra del 70 per una rendita del 5 per cento. Ed affine di ottenere una somma effettiva di 500 milioni occorrerà di scrivere nel Gran Libro circa 750 milioni di lire». Sicchè, per dare al neonato Regno d’Italia un primo boccone di 500 milioni, noi c’indebiteremo di 750 milioni, perdendone subito 250!

Tuttavia è presto detto colla parola, e presto scritto colla penna 750 milioni! Ma nelle nostre casse non c’erano fondi, il bambino Regno d’Italia gridava; Fame, Fame, e il povero Bastogi corse l’Europa per trovar danari. Andò in Francia, piccino alle porte di tutti i banchieri, e disse : — C’è un bimbo nato or ora con una fame da gigante. Imprestatemi 750 milioni per dargli la pappa.

E i banchieri risposero: — Come si chiama questo bimbo? — E me lo domandate? Soggiunse scandolezzato il sig. Bastogi: Si chiama il Regno d’Italia.

 Il Regno d’Italia! conchiusero i banchieri; Non conosciamo questo Regno,e non vogliamo avere da fare né col bimbo, né colla balia. Andate in pace. —

E il povero Bastogi col bimbo in braccio che strillava per la fame, andò in Inghilterra, e disse ai banchieri di Londra: «Muovetevi a pietà di questo povero bimbo che, nato or ora, già sta per morire, imprestatemi 750 milioni da mettergli in bocca per primo boccone. Pensate che gli Inglesi ebbero parte alla nascita del bambino Regno d’Italia!» I banchieri Inglesi al sentirsi parlare di pietà, trasognarono, e dissero che se il neonato poteva vivere con parole, n’avrebbe avuto a fusone dall’Inghilterra, ma danari no. Gli Inglesi ne pigliano, e non ne danno.

E Bastogi andò nel Belgio, andò in Olanda, andò dappertutto, e fe’ vedere il bambino battezzato col nome del Regno d’Italia, e fe’ sentire i suoi lai, ed imitando ira verso di Francesco Petrarca, gli scrisse sulla fascia: I’ vo gridando: Fame, fante, fame. E i banchieri dell’universo volsero le spalle a Bastogi ed al suo bimbo, dichiarando di non conoscere né l’uno, né l’altro.

I nostri ministri, vista la mal riuscita dell’infelice Bastogi, furono a consiglio, ed assordati sempre più di giorno in giorno dalle strida del bimbo che gridava fame, deliberarono di mandarlo a vedere a Napoleone III, Imperatore dei Francesi affinché egli lo riconoscesse per legittimo, e cosi potesse venir conosciuto dal banchieri che prima non né volevano sapere. E venne incaricato di tale missione il conte Vimercati. Il quale, ricevuto il bimbo dalle mani del ministro Bastogi, lo reco prima a Parigi, e poi a Fontainebleau.

E tenerissimo fu il discorso che il conte Vimercati tenne alla Maestà di Napoleone III: «Sire, gli disse, voi conoscete questo bimbo, voi ben sapete che fu concepito a Plombieres. E se non né siete il padre, certo né foste il padrino. Or vedetelo, Sire, come e mingherlino, dilaniato dai vermini, divorato dalla fame. Uditelo come piange, e chiama merce. Ha fame, povero bimbo, e noi non ci troviamo un centesimo da mettergli in corpo. Sire, non disprezzate l’opera delle vostre mani: aiutateci a dar la pappa al nuovo Regno d’Italia, non permettete ai nostri e vostri nemici di dire che appena nato mori d’inedia». E il bimbo piangeva, e Vimercati piangeva, e Napoleone III pensava.

In fine dopo di aver ben pensato conchiuse, ch’egli riconoscerebbe il nuovo Regno d’Italia; cercherebbe qualche gherminella per ischermirsi dall’Austria, interpreterebbe lato sensu il trattato di Zurigo, e quanto a Roma ed al Papa, la provincia di Nizza abbonda d’olio, e il mondo e popolato di gonzi. Due proteste, quattro riserve, dieci genuflessioni, ed e fatto il becco all’oca. Napoleone III fe’ una carezza al bimbo che continuava a gridar fame, e il conte Vimercati lo ricondusse a Torino.

Intanto si aspettava questo riconoscimento, e non compariva. Il bimbo avea viaggiato di qua, di la; di su, di giù; e se avea udito di buone parole, nessuno pero gli avea dato un soldo. Si che continuava a gridar fame; e Bastogi a dichiarare che non sapea come dargli la pappa. Cominciò la Patrie di Parigi a dire che la Francia riconoscerebbe il neonato Regno d’Italia, e il bimbo gridava fame. Il Moniteur ripetè l’articolo della Patrie, ed il bimbo: fame. E i giorni passavano, e l’appetito cresceva. Laonde il barone Bettino Ricasoli chiamò a se il conte Vimercati, e gli disse: — Tornate a Parigi, e pregate l’Imperatore di riconoscere presto questo bimbo, se no possiamo seppellirlo. Avvertitelo che e questione di fame, e che periculum est in mora. —

E Vimercati galoppò di nuovo a Parigi, e da Parigi a Fontaineblau, e gettatosi in ginocchio davanti a Napoleone III, gli baciò il piede, l’assicuro che il nuovo Regno d’Italia pericolava, gli domando in nome della battaglia di Solferino di riconoscerlo il più presto possibile, e gli fe’ promessa che il Regno d’Italia riconosciuto dal Bonaparte, sarebbe stato cosa tutta sua, pronto a tagliarsi anche una mano ed un braccio per darglielo in segno di riconoscenza. E l’Imperatore confermò le fatte promesse, pigliò nota delle cortesi esibizioni, e non andò guari che il riconoscimento del Regno d’Italia apparve sul Moniteur del 25 di giugno.

Ma gli articoli del Moniteur sono belli e buoni, pero empiono il venire di vento e non di pane; e il bimbo non puo campar d’aria. Sicché il ministro Bastogi si accinse a tentare una seconda volta la prova, e vedere se i banchieri vogliono dar danaro al neonato Regno d’Italia, riconosciuto dalla Francia come figlio legittimo. Per la qual cosa presentassi alla Camera dei Deputati, chiedendo la facoltà di contrarre un prestito di 750 milioni, e il 26 di giugno, cioè un giorno dopo il riconoscimento, ebbe principio la discussione.

Di questa noi parleremo pili diffusamente secondo la relazione ufficiale, e divisammo di mandare innanzi a’ nostri articoli la detta storiella che serva loro come di proemio. e uno scherzo, mai nostri Ministri scherzano sempre quando Bi tratta di finanza. Il liberalissimo deputato Saracco diceva il 14 di maggio del 1858: • Noi scherziamo allegramente sopra un vulcano». E soggiungeva: « La pubblica coscienza si rivolta contro questo sistema altrettanto facile che rovinoso di colmare nuovi disavanzi che non hanno mai termine con nuove gravezze che non hanno confine».

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa/margotti_primi_vagiti_del_regno_d_italia.html

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