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Pitagora e la scoperta della musica

Posted by on Mar 25, 2024

Pitagora e la scoperta della musica

In un mio vecchio post senza parole, intitolato semplicemente “Pitagora”, Antonella Ruggiero suona un curioso strumento ispirato al celebre “monocordo” del filosofo di Samo. Questo strumento fu inventato e utilizzato da Pitagora per i suoi studi di teoria musicale.

Come il suo stesso nome suggerisce, era composto da una sola corda, tesa tra due ponticelli sopra una cassa armonica; sotto la corda un terzo ponticello intermedio e mobile consentiva di dividere la corda stessa a piacere, dando origine a suoni diversi. Pitagora fu il primo a fondare lo studio della musica su basi matematiche.

Dalle sue sperimentazioni sul monocordo capì che una corda messa in vibrazione produce un suono la cui “altezza” percepita dall’orecchio umano è in stretta relazione con la lunghezza della corda stessa.
Certo, Pitagora non poteva arrivare a concepire il legame tra l’altezza di un suono e la frequenza dell’onda sonora associata; più semplicemente si accorse che più la corda è lunga, più la nota prodotta viene avvertita come “bassa” o “grave”; al contrario una corda più corta produce una nota che viene riconosciuta come più “alta” o “acuta”.
Ma il grande matematico greco non si fermò a questa elementare considerazione. Ebbe infatti l’idea di associare ogni nota ad un numero, precisamente l’inverso della lunghezza della corda responsabile della generazione del suono stesso. Ad esempio, associò al numero 1 la nota prodotta da una corda lunga 1 metro, e al numero 2 la nota prodotta da una corda lunga mezzo metro.
Grazie a questo utilizzo dell’inverso della lunghezza, note più acute risultano associate a numeri più grandi, in modo da conciliare l’altezza della nota con l’altezza del numero che la rappresenta.
Inoltre, adoperando questo metodo, ogni nota risulta contraddistinta da un numero che è di fatto proporzionale alla propria frequenza.

Una volta ideato questo sistema di numerazione dei suoni, Pitagora considerò diverse “coppie” di note (che a questo punto potevano essere tradotte in coppie di numeri), e scoprì che le note che “stanno bene insieme” sono legate tra di loro da un rapporto numerico semplice.  Ad esempio, se facciamo vibrare una corda che produce una nota legata al numero 1, e poi un’altra corda che genera un suono associato al numero 2 (in questo caso, quindi, la prima corda è lunga il doppio della seconda), otteniamo due suoni che l’orecchio umano, istintivamente, classifica come “simili”, o addirittura “uguali”. Questo intervallo musicale è quello che noi chiamiamo “ottava” (il motivo di questo nome diventerà chiaro più avanti). Le due note suonano all’orecchio così “uguali” che nella tradizione musicale vengono chiamate con lo stesso nome: ad esempio due do.
Quando non sono impegnato con il lavoro o con le mie corbellerie divulgative, mi onoro di far parte di un pregevole coro, alle cui performance contribuisco con una mediocre voce di basso. Ebbene, i brani che cantiamo prevedono, nella maggior parte dei casi, quattro voci, che corrispondono ai quattro registri di soprano, contralto, tenore e basso; normalmente le quattro parti portano avanti altrettante linee melodiche indipendenti, che però si intrecciano reciprocamente generando un contrappunto che fa del coro un vero gruppo polifonico. In alcuni casi, però, ad esempio quando cantiamo brani della tradizione gregoriana, le voci sono soltanto due: soprani e contralti cantano all’unisono, mentre tenori e bassi cantano esattamente la stessa melodia ma traslata in basso di un’ottava. Questo è un esempio di canto corale monodico, in cui se due note vengono “suonate” insieme, si tratta di due note separate tra loro da un rapporto numerico pari a 2:1. In altre parole, se volessimo riprodurre con una corda la nota intonata da soprani e contralti (quella all’ottava superiore, insomma), servirebbe una corda lunga esattamente la metà di quella necessaria per imitare la nota cantata dai  bassi e dai tenori.
Il rapporto numerico semplice tra le lunghezze delle corde si riflette (anche se Pitagora questo non lo sapeva) nel rapporto tra le frequenze dei suoni fondamentali: se, ad esempio, le donne del coro intonano un la centrale (quello del diapason, per intenderci), pari a una frequenza di 440 hertz, gli uomini del coro rispondono con un la all’ottava sotto, pari a una frequenza di 220 hertz.
Un altro intervallo di note che “suonano bene insieme”, notò Pitagora, è quello associato al rapporto 3:2: in questo caso non avvertiamo quel senso di “uguaglianza” di note, ma universalmente la combinazione sonora è percepita come gradevole, armoniosa, o, come dicono i musicisti, “consonante”.
Partendo dalla nota associata al numero 1, quindi, invece di passare alla nota legata al numero 2 (cioè prodotta da una corda lunga la metà), passiamo a una nota legata al numero 3:2 = 1,5 (quindi prodotta da una corda lunga due terzi rispetto alla prima).
Così come l’intervallo collegato al rapporto 2:1 viene chiamato dai musicisti “ottava”, quello connesso al rapporto 3:2 è detto “quinta” (ancora una volta, non preoccupiamoci del motivo: apparirà chiaro più avanti).
Sulla base di questa semplice matematica, possiamo ripercorrere il metodo attraverso il quale Pitagora costruì la prima scala musicale (per la verità, prima di lui furono matematici cinesi a inventare il procedimento, ma la tradizione occidentale attribuisce la scoperta al filosofo di Samo).
Partendo da una nota convenzionalmente associata al numero 1, saltiamo avanti di una ottava, arrivando alla nota contraddistinta dal numero 2:1 = 2. Le due note così ottenute, come abbiamo visto, suonano come “la stessa nota”. E’ quindi naturale assegnare loro lo stesso nome, ad esempio “do”, ma abbiamo anche la necessità di distinguerle in qualche modo: utilizziamo per questo motivo la convenzione di chiamare “do1” la nota iniziale, più bassa, e “do2” la seconda, all’ottava superiore.

Se facciamo altri salti di un’ottava, raddoppiando ad ogni salto il numero della nota, otteniamo via via altri do: il do3, associato al numero 4, il do4, associato al numero 8, il do5, associato al numero 16, e così via. Partendo sempre dal do1 e tornando indietro di un’ottava, otteniamo invece il do0, il cui numero associato è 1:2 = 0,5.

do0do1do2do3do4do5
1:2 = 0,512:1 = 22 * 2:1 = 44* 2:1 = 88 * 2:1 = 16

In questo modo, i pedici aggiunti ai nomi delle note servono ad indicare l’ottava di appartenenza della nota stessa.   Il nostro obiettivo, però, è quello di concentrarci su una sola delle ottave, ad esempio quella contenente le note associate a numeri compresi tra 1 e 2, e determinare l’altezza numerica di queste singole note: vogliamo, in altre parole, costruire una semplice scala musicale che copre l’ottava compresa tra il do1 e il do2. Ripartiamo allora dal do1, e andiamo avanti di una quinta, ottenendo una nota legata al numero 3:2 = 1,5. Essendo questo numero compreso tra 1 e 2, deduciamo che questa nota è compresa tra il do1 e il do2, (com’è ovvio che sia, dato che l’intervallo di quinta è più piccolo di quello di ottava), e la chiamiamo “sol1“.
Partendo sempre dal do1, ma andando indietro di una quinta, costruiamo una nota che risulta associata al rapporto 2:3 = 0,666.  In questo caso ci troviamo sopra il numero 0,5 associato al do0, per cui battezzeremo la nota ottenuta come “fa0“. Sappiamo però che la nostra meta è riempire l’ottava compresa tra il do1 e il do2, mentre questo fa0 si trova fuori di tale intervallo. Niente paura: basta avanzare di una ottava, cioè raddoppiare il rapporto 2:3, ottenendo 4:3. Ecco a voi il “fa1“, corrispondente al numero 4:3 = 1,333.
Dato che con tutte queste note rischiamo di perderci, aggiorniamo la situazione con un nuovo schema, questa volta limitato all’ottava compresa tra il do1 e il do2.

do1fa1sol1do2
14:3 = 1,3333:2 = 1,52:1 = 2

Ho volutamente lasciato degli spazi tra una nota e l’altra, perché ancora non sappiamo quali altre note riusciremo a costruire grazie al metodo pitagorico e quali spazi ancora vuoti della scala andranno a riempire.  Ripartendo dal sol1, proseguiamo avanti sempre considerando intervalli di quinta: la prima volta raggiungiamo la nota corrispondente al numero (3:2) * (3:2) = 9:4 = 2,25, che si trova fuori dalla nostra ottava di riferimento. Abbiamo quindi bisogno di abbassarci di un’ottava, dividendo per 2: abbiamo così creato la nota associata al numero 9:8 = 1,125, che chiameremo “re1“.
Salendo ancora di una quinta, giungiamo al suono legato al numero (9:8) * (3:2) = 27:16 = 1,6875, che si trova nel nostro intervallo: questa nota la chiameremo “la1“.
Da questa nota si arriva, con un altro salto di quinta, al numero (27:16) * (3:2) = 81:32 = 2,53125, che è sopra il do2, e quindi necessita di un abbassamento di ottava. Così facendo, cioè dimezzando il numero, otteniamo 81:64 = 1,265625, e diamo il nome “mi1” alla nota che abbiamo generato.
L’ultimo passo ci serve per arrivare alla nota contraddistinta dal numero (81:64) * (3:2) = 243:128 = 1,8984375, che appartiene ancora all’ottava considerata e che chiameremo “si1“.
Non ci resta che mettere in ordine le note che abbiamo costruito grazie a questo procedimento. Ciò che otteniamo è la scala pitagorica:

do1re1mi1fa1sol1la1si1do2
19:8 = 1,12581:64 = 1,2664:3 = 1,3333:2 = 1,527:16 = 1,687243:128 = 1,8982:1 = 2

Il risultato al quale giunse Pitagora è molto elegante dal punto di vista matematico. Per prima cosa, procedendo per intervalli di quinta (eventualmente corretti per ottava), abbiamo ottenuto una scala formata da note che vanno dal do1 al do2: precisamente sette note (senza considerare la ripetizione del do).
Il fatto che le note siano sette, più l’ottava che è uguale alla nota di partenza, ci chiarisce finalmente il motivo del termine “ottava”, che avevamo dato per scontato all’inizio.
Anche la parola “quinta” diventa ora ovvia: si tratta di un intervallo che spazia tra cinque note della scala.

Inoltre, e qui sta il bello, le note della scala che abbiamo costruito risultano disposte in modo piuttosto uniforme; in altre parole gli intervalli tra due note consecutive sono di soli due tipi:
1) un intervallo detto tono, corrispondente a 9:8 = 1,125, esistente tra il do e il re (infatti (9:8)/1 = 9:8), tra il re e il mi (infatti (81:64)/(9:8) = 9:8), tra il fa e il sol (infatti (3:2)/(4:3) = 9:8), tra il sol e il la (infatti (27:16)/(3:2) = 9:8) e tra il la e il si (infatti (243:128)/(27:16) = 9:8);
2) un intervallo detto limma, corrispondente a 256:243 ≈ 1,053, esistente tra il mi e il fa (infatti (4:3)/(81:64) = 256:243) e tra il si e il do (infatti 2/(243:128) = 256:243).

Il fatto negativo è che questi due diversi intervalli non sono imparentati l’uno con l’altro. Sicuramente Pitagora sarebbe stato molto felice se avesse potuto constatare che la limma era esattamente la metà del tono: ma così purtroppo non è.
La limma risulta uguale a circa il 44,25% del tono: insomma, non c’è una relazione semplice tra le due quantità. Ne consegue che l’ottava non può essere divisa in parti proporzionali (per evitare di dover modificare l’intonazione delle singole note al cambiare della tonalità), e questo costituisce il più grave difetto della scala pitagorica appena costruita. Nelle prossime puntate di questa nuova serie di post, vedremo come questo problema fu affrontato e infine risolto.

fonte

https://misterpalomar.blogspot.com/2012/09/pitagora-e-la-scoperta-della-musica.html

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