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Processi contro il brigantaggio

Posted by on Gen 29, 2024

Processi contro il brigantaggio

Il brigantaggio che si diffonde nell’Italia meridionale, continentale ed insulare, è un fenomeno che si sviluppa a più riprese, e con connotati organizzativi sempre più massicci, tra la fine del ‘700 e il primo decennio dopo l’unità d’Italia.

Fu l’espressione della rivolta anarcoide del mondo contadino del Sud. La sua intensità dipendeva dal grado di malcontento della popolazione rurale: divenne acuto in anni di crisi economica, in occasione di forti tensioni sociali, o anche di sconvolgimenti politico-amministrativi; tramontò parallelamente alla dissoluzione della civiltà contadina e al consolidamento delle compagini statali. Oltre a vera forma di banditismo caratterizzata da azioni violente a scopo di rapina ed estorsione (delinquenti ansiosi di bottino), il fenomeno ha spesso assunto connotati di vera e propria rivolta popolare.
Alla fine del Settecento è importante ricordare il brigante Angelo Duca, detto “Angiolillo”, che si fece fuorilegge nel 1780 e operò nella Basilicata settentrionale. Nella sua storia troviamo molto del brigante giustiziere, con il carattere di fuorilegge ma non di delinquente agli occhi del popolo. Fu catturato nel 1784 e impiccato senza processo, per ordine reale. Nel 1799, dopo che le armate rivoluzionarie francesi invasero il Regno Borbonico meridionale, numerosi banditi dell’epoca si aggregarono ai combattenti antigiacobini, capeggiati dal cardinale Fabrizio Ruffo per la riconquista del Regno di Napoli, divenuto Repubblica Napoletana, da parte della corona borbonica. Alcuni dei capi briganti tra cui si ricorda Michele Pezza (detto “Fra Diavolo”) furono promossi al grado di colonnello dell’armata regia e insigniti di onorificenze. La strategia  della mobilitazione di parte degli strati più poveri della popolazione sotto la guida militare di briganti messa in atto in questi anni, sarebbe stata seguita dai Borboni anche tra il 1806-1815 e dopo il 1860, sempre in concomitanza  dell’esilio dei reali. Durante il decennio francese, vennero attuate dure repressioni contro i briganti, soprattutto in Basilicata e Calabria, regioni in cui si concentrò maggiormente la reazione legittimista alla presenza francese. Nel 1806, i generali francesi Andrea Massena e Jean Maximilien Lamarque, durante la repressione delle rivolte saccheggiarono le città lucane di Lagonegro, Viggiano, Maratea e Lauria, dove numerosi rivoltosi vennero impaccati e fucilati. Durante il regno di Gioacchino Murat, nel secondo periodo napoleonico, il brigantaggio antifrancese rimase sempre attivo e tra le bande più temute del periodo vi era quella di Domenico Rizzo noto come “Taccone” che arrivò a proclamarsi “Re di Calabria e Basilicata”. In seguito alla seconda restaurazione borbonica il re Ferdinando I attuò una campagna repressiva nei confronti delle bande di briganti conferendo speciali poteri ai vertici dell’esercito tra cui il generale inglese R. Church. Nei territori del Sud continentale venivano istituite quattro corti marziali,  Basilicata e Puglia meridionale furono affidate al maresciallo Roth. In tutti i comuni borbonici venivano pubblicate delle liste di banditi, dette “Liste di fuor bando”, contenenti i nomi dei ricercati per brigantaggio, che potevano essere uccisi da chiunque, ricevendo  un premio in denaro.
Nel periodo immediatamente postunitario il brigantaggio nell’ex regno napoletano assunse proporzioni eccezionali, tanto che quello degli anni 1860-1865 è conosciuto come il “grande brigantaggio”. L’ostilità al nuovo regime, motivata da ragioni sia politiche sia religiose, e la delusione per il mancato concretizzarsi delle speranze che avevano accompagnato la rivoluzione unitaria finirono per fondersi e costituirono uno degli elementi di aggregazione delle bande. Il malcontento era generato da un improvviso peggioramento delle condizioni economiche dei braccianti della provincia meridionale che si ritrovarono a dover fronteggiare un nuovo regime fiscale per loro insostenibile con la privatizzazione delle terre demaniali a vantaggio dei vecchi e nuovi proprietari terrieri. Nel Mezzogiorno la gran massa del clero, rimasto senza proprietà, non ha difficoltà a schierarsi a fianco di chi, per motivi diversi ma convergenti, combatteva, con rudimentali mezzi militari, l’alterigia dei nuovi padroni. La situazione si aggravò subito dopo la vendita all’asta dei beni demaniali ed ecclesiastici. I compratori appartenevano prevalentemente alla nuova borghesia rurale che si stava rivelando ancora più avara e tirannica dei vecchi padroni. A ciò si aggiunse l’istituzione del servizio militare obbligatorio di massa che precedentemente col governo borbonico era obbligatorio, ma soggetto a sorteggio per il suo svolgersi, ed era evitabile col riscatto. Infine, la formazione del Regno d’Italia era sentita da gran parte della popolazione con forti sentimenti religiosi come una minaccia alla propria fede cattolica e alle proprie tradizioni. Dal vicino Stato pontificio, in cui si erano rifugiati i reali borbonici, arrivarono aiuti e costanti incitamenti (fino al 1867) alla lotta armata senza quartiere contro uno Stato che aveva espropriato i beni dei conventi e minacciava la stessa sopravvivenza del potere temporale del Papa. In Calabria, Puglia, Campania, Basilicata, bande armate di briganti iniziarono nell’estate del 1861 a rapinare, uccidere, sequestrare, incendiare le proprietà dei nuovi ricchi. Si rifugiavano sulle montagne ed erano protetti e nascosti dai contadini poveri, ma ricevettero aiuto anche dal clero e dagli antichi proprietari di terre che tentavano, per mezzo del brigantaggio, di sollevare le campagne e far tornare i Borboni che promisero la quotazione delle terre demaniali. Il grosso delle bande era costituito da braccianti, cioè contadini salariati esasperati dalla miseria; accanto ad essi lottarono anche ex garibaldini, ex soldati borbonici, malviventi e latitanti di vecchia data e numerose donne, audaci e spietate come gli uomini. La scintilla della reazione e del brigantaggio si accese nelle provincie di Basilicata, tra le più povere e mal collegate del Meridione, ma che avevano i più compatti e numerosi nuclei rivoluzionari. I briganti, quindi, non furono “criminali comuni”, ma un esercito di ribelli che, all’infuori della violenza privata, non conoscevano altra forma di lotta. Tenuti per secoli nell’ignoranza e nella miseria, i contadini meridionali non avevano ancora maturato una conoscenza politica dei loro diritti e non riuscivano ad immaginare alcuna prospettiva di cambiamento attraverso i mezzi legali. Nelle campagne questi potevano contare sulla simpatia di pastori e braccianti, e sulla connivenza di quasi tutti i rimanenti per il terrore esercitato. Fittissima poi la reste di manutengoli e proprietari costretti a tollerare per non avere danni maggiori. Nel 1861 si ebbero 80 paesi invasi e saccheggiati. Lo Stato italiano rispose con una vera e propria guerra a questa rivolta sociale che, nelle sue manifestazioni più ampie, durò oltre quattro anni: la Guardia Nazionale italiana fu massicciamente impegnata nella repressione, ma resasi responsabile di diversi soprusi e violenze sulla popolazione. Due tra i più famosi comandanti militari della repressione furono Enrico Cialdini, modenese, ed Emilio Pallavicini, genovese. Le più famose bande di briganti erano quelle della Basilicata e delle province vicine, capitanate da Carmine Crocco, Giuseppe Caruso e Giuseppe Nicola Summa. 
Carmine Crocco alias Donatelli fu il capo leggendario del brigantaggio lucano postunitario conosciuto come “Generale dei briganti”, “Napoleone dei briganti” oppure “Generalissimo”. Nacque a Rionero in Vulture, il 5 giugno del 1830 da Francesco Crocco, pastore presso una nobile famiglia venosina e da Maria Gerarda Santomauro, massaia.

fonte

http://archiviodistatopotenza.beniculturali.it/aspz/page/1/301/1/2017/Processi_contro_il_brigantaggio

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