Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Quando Arpino era un’operosa “fullonica”

Posted by on Lug 15, 2021

Quando Arpino era un’operosa “fullonica”

Quando si parla delle industrie della media Valle del Liri che prima dell’unità d’Italia, avevano raggiunto un’invidiabile competitività economica, generalmente si fa riferimento alle cartiere e ai lanifici di Isola del Liri, la Manchester del Lazio meridionale. E così facendo si finisce per trascurare Arpino che anzi, a mio avviso, costituisce l’esempio più significativo di tale fenomeno.

Oggi, la città che ha dato i natali al grande Cicerone e che l’abate Pistilli, sul declinare del XVIII secolo, definiva “una delle prime città mercantili nel Regno” dove “il ramo maggiore del suo commercio è sul lanificio”, conta poco più di sette mila abitanti. Nella prima metà dell’Ottocento, invece, la situazione era molto diversa. Rinnovando una tradizione antichissima (già la famiglia di Cicerone si occupava della lavorazione della lana gestendo una “fullonica”) fece registrare la nascita di un gran numero di fabbriche di lana che si avvalevano soprattutto del lavoro svolto a domicilio. Negli anni immediatamente precedenti all’unità, ad Arpino vi erano 25 fabbriche di grosse dimensioni, 57 medio-piccole e un numero imprecisato, ma assai cospicuo, di aziende a conduzione familiare. In esse trovavano impiego più di 7 mila operai, la qualcosa fece registrare un notevole incremento della popolazione. Basti pensare che nel 1850, mentre Caserta, capoluogo della provincia di Terra di Lavoro, contava 10.845 abitanti, Arpino ne faceva 12.699, quasi duemila in più. Con il trascorrere degli anni, gli industriali arpinati (Ciccodicola, Pelagalli e Viscogliosi su tutti), pur conservando la vecchia localizzazione degli impianti, presero a spostarsi verso la pianura, allestendo opifici nelle vicinanze del Liri, specialmente per sfruttare a fini industriali la poderosa forza motrice delle acque del fiume. Nel borgo, comunque, restarono soprattutto le aziende più piccole, quelle a conduzione familiare, nelle quali trovava impiego la mano d’opera locale e quella dei comuni limitrofi. Una relazione sullo “spirito pubblico”, stilata dalle locali autorità di pubblica sicurezza nell’estate del 1856, parlava di uno stato di “agiatezza quasi generale” mentre “la miseria non domina più che nelle contrade più lontane dai centri dell’operosità commerciale e industriale”. Tutto questo, com’è stato già detto, viene meno subito dopo l’unità d’Italia. Anche perché, inutile girarci attorno, il cuore pulsante del nuovo stato unitario era il Nord e, in particolar modo, il Piemonte e la Lombardia. I nuovi governanti italo-sabaudi consideravano il territorio dell’ex Regno di Napoli “inferiore, degno solo di avere un’attività agricola” e, di conseguenza, “ritenevano innaturale lo sviluppo industriale del Sud”. Per non parlare, inoltre, della quasi totale eliminazione degli investimenti di natura statale e, infine, della persistente volontà di favorire la crescita e lo sviluppo delle aziende posizionate nel settore settentrionale del nuovo stato unitario. Ecco perché i lanifici del Biellese iniziarono improvvisamente a prosperare. E in qualche caso lo fecero utilizzando materialmente quelle stesse macchine che fino a qualche anno prima avevano fatto la fortuna delle fabbriche di Isola, Arpino e Sora. Uno studioso attento e preparato come Carmine Cimmino, in un suo lavoro molto ben articolato (“Capitalismo e classe operaia nel Mezzogiorno nell’800 postunitario: i lanifici della Valle del Liri, di S. Elia Fiumerapido e dell’area matesina”), sostiene che la decadenza dei lanifici della media valle del Liri dopo il 1860 e, quindi, dopo il traumatico passaggio dai Borbone ai Savoia, non sia stata provocata tanto dalla cessazione delle politiche di protezionismo doganale, imposte dalla svolta liberista del nuovo stato unitario, quanto dalle gravi carenze infrastrutturali e, soprattutto, dalla mancanza di una linea ferroviaria per trasportare i prodotti sfornati dagli stabilimenti locali ai luoghi abituali di smercio e di mercato. Ora è indubbio che l’insufficienza del sistema viario e ferroviario per tanto tempo abbia rappresentato, e non solo nell’alta Terra di Lavoro, un problema serio e non sempre considerato con la dovuta attenzione dai governanti borbonici. Dal 1860 al 1890, però, sono passati la bellezza di trent’anni e il nuovo governo italo-sabaudo, in tale direzione, non mosse praticamente una spilla, ossia non realizzò strade né, tanto meno quelle “ferrate”, in loco. A dimostrazione che la sorte dei lanifici, ma anche delle cartiere, della media valle del Liri, era stata già cinicamente decisa: nessuno sviluppo industriale degno di tale nome doveva caratterizzare il meridione d’Italia. Ecco perché il nuovo stato unitario non fece niente per salvaguardare quel “tesoro”. Mancò, scientemente, qualsiasi politica di sostegno economico e infrastrutturale che avrebbe potuto assicurare la permanenza in vita di un settore industriale che pure assicurava ottimi profitti e forniva occupazione a migliaia di operai e di artigiani del posto. Quegli stessi operai che, rimasti senza lavoro, furono costretti, in gran parte, ad emigrare in altre nazioni europee o addirittura oltre Oceano. In una missiva vergata dal sottoprefetto di Sora il 18 marzo del 1899 e indirizzata al prefetto della provincia di Terra di Lavoro in Caserta, così si legge: “Nel Comune di Arpino fiorivano un ventennio addietro molte fabbriche di panni ed in esse erano occupate circa cinquemila operai del luogo. Ma non basta. Era sorta in quasi tutte le famiglie una industria di ramo sussidiario, la quale consisteva nella cardatura e filatura della lana, lana che poi veniva venduta alle fabbriche di panni. E’ ovvio dire che le condizioni finanziarie di Arpino erano allora floridissime e la classe operaia in ispecie godeva un benessere fino a quel tempo insperato. Ma vennero dei giorni funesti… Gli stabilimenti locali, a poco a poco, vennero chiusi, ed i numerosi operai rimasero sul lastrico, senza speranze di occupazione nel paese”. Una lettera questa molto significativa perché, oltre a fotografare in maniera perfetta la situazione di crisi che si era venuta a creare ad Arpino (e non solo), proviene da un funzionario dello Stato, il sottoprefetto di Sora per l’appunto, che pur essendo parte integrante dell’organizzazione centrale, non poteva di certo chiudere gli occhi di fronte ad una realtà che si palesava in tutta la sua irreversibile gravità. E le parole usate non lasciano adito a dubbi di sorta: anche il sottoprefetto sorano era assolutamente convinto dell’inadeguatezza delle politiche adottate dal governo centrale. Una politica di chiaro stampo “coloniale” che aveva colpito una volta di più nel segno: il meridione non doveva avere sviluppo industriale. Doveva essere soltanto un granaio ad uso e consumo del più progredito e civile settentrione. E così, in effetti, andò a finire. Con buona pace di chi aveva sperato che con l’avvento dei nuovi governanti le cose sarebbero cambiate ed avrebbero preso un’altra piega. Invece così non fu. E le conseguenze nefaste sono giunte indelebili fino ai giorni nostri.

Fernando Riccardi

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