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«QUANDO NAPOLI ERA CAPITALE» di GIUSEPPE PIANELLI (VII)

Posted by on Mar 2, 2021

«QUANDO NAPOLI ERA CAPITALE» di GIUSEPPE PIANELLI (VII)

GUIDA ALLA LETTURA /1

I manuali di storia della scuola dell’obbligo sono, per comodità, divisi in capitoli. Solo che questi non si limi­tano ad essere numerati, bensì recano dei titoli. E questi titoli, contrariamente a quel che si pensa, non si limitano a descrivere il contenuto del capitolo ma danno anche un giudizio di valore. Esempio: “Medioevo”, “Rinascimento”, “Risorgimento”, “Re­sistenza “.


«Analizziamo i termini. “Medioevo ” significa, come tutti sanno, “età di mezzo “, laddove “Rinascimento ” sta per “nuova nasci­ta”. Se si rinasce vuol dire che prima si era morti, ma anche che prima di essere morti si era già nati una volta, per cui adesso si “rinasce “. Dunque il Medioevo, epoca precedente al Rinasci­mento, era il tempo in cui l’umanità era stata morta. Quanto du­ra il Rinascimento? Pochi decenni, verso la fine del Quattrocen­to. Poi? Si ha l Età Moderna, e tutti tiriamo un respiro di sollie­vo. Anche se, a ben vedere, le guerre e le catastrofi sembrano moltiplicarsi a ritmi parossistici: guerre tra Francia e Inghilter­ra, tra Francia e Spagna, tra cattolici e protestanti, tra lanzi­chenecchi e tutti gli altri, guerre di successione, di devoluzione, delle due dame, dei tre imperatori, dei quattro papi e dei cinque eserciti.


«La Riforma: finalmente Lutero spezza le catene del dogma e della Chiesa. Controriforma: l’Italia ricade nell’oscurantismo. Solo a ben guardare si scopre che le guerre di religione stavano tutte nei paesi protestanti, mentre in Italia si stava tranquilli. «Il Medioevo, i “secoli bui”. Quanto è durato? Dalla caduta dell ‘Impero Romano fino alla scoperta dell America. Così dice il Manuale. Dunque mille anni e qualche cosina. Mille anni! Sbrigativamente catalogati come “età di mezzo”. Cribbio, che lunga morte! Ma “in mezzo” a cosa? All’Età Classica e al Ri­nascimento. Vuol dire che si era vivi ai bei tempi di Atene e Ro­ma, poi si morì per mille anni e si rinacque infine alle soglie del Cinquecento. Infatti nel Rinascimento riappaiono, nell’arte, i trionfi di Bacco ed Arianna, Ercole, Apollo e Minerva. Cioè il paganesimo antico. Ecco la  “rinascita”.  Tra un paganesimo (quello antico) e l’altro (quello rinascimentale) c ‘era un perio­do di mille anni che quelli che ci abitavano chiamavano “Cri­stianità “. Ergo: durante i secoli cristiani eravamo morti, mentre si era ben vivi nei tempi pagani».


Questa lunga citazione è tratta dall ‘Introduzione del libro di Rino Camilleri, Fregati dalla scuola, Effedieffe, Milano, 1997. Lo segnalo a chi ha avuto la pazienza di scorrere fin qui questa storia del Sud e abbia inten­zione di andare avanti. Queste poche paginette, posso portarne le prove, hanno fatto andare in bestia fior di professoroni, di quelli che in buona o malafede (ma importa?) hanno scritto o insegnato (e lo fanno ancora oggi) la storia del Sud sugli assiomi, sui postulati, sulle dichiarazioni apodittiche, sui dogmi della scienza moderna, che poi sono molti di più di quelli della Chiesa la quale si limita almeno ai puri misteri. Rino Cammilleri è anche un umorista e non c ‘è niente di più irritante di chi sorride per coloro che con sussiego scambiano la faccia preoccupata per serietà. Non parliamo poi di quelli che per giustificare il fine usano i mezzi della fandonia, della falsificazione, dell’omissione, della calunnia e del sentito dire. Di questo, ve ne accorgerete, la storia del mondo e dell ‘Italia è piena.


Qui di seguito, capitolo per capitolo, citerò alcuni libri, appunto “una guida alla lettura “. Essi formano una traccia demistificatoria ai luoghi comuni della storia in generale ed a quella di Napoli in particolare. Ecco come essa, grosso modo, si articola normalmente:


1.  Fondazione. Epoca normanna. Tutti sono generalmente d’accordo sui suoi felici inizi. Si tratta, in fin dei conti di un periodo che non compromette nessuno. La storiografia di questo periodo è bella, chiara, abbondante.


2.  Epoca sveva. È caratterizzata da quel Federico imperatore che vuol trasformare il Regno nel primo stato totalitario del mondo. Su Federico e ‘è poco da dire ma tanto da inventare. In fin dei conti era acerrimo nemico del Papa: tanto basta per farne un eroe positivo. Davanti al Palazzo reale, a fine Ottocento misero una sua statua vestito da crociato (quando ancora nessuno aveva fatto delle Crociate una “leggenda nera “). Forza del mito, giacché alla Crociata vi era andato spinto a calci nel sedere.


3.Epoca Angioina. Fratello di un santo, “campione del Papa “, nemico degli Svevi: Carlo d’Angiò ha quanto basta per farne un maledetto. E con lui tutta la discendenza. In quanto alle Giovanne, una sanguinaria, l’altra una ninfomane: un argomento, quello scovato fra le lenzuola che andrà bene per chiunque non abbia altri argomenti che una finta morale. Di questo periodo restano salvi i “Vespri siciliani “, episodio che non si sa quanto sia vero ma che romanticizza una lunga e articolata congiura di baroni che non hanno altro interesse nella secessione che trovarsi un re qualsiasi che non gli tolga il potere.


4. Epoca aragonese: coincide col Rinascimento, quindi dev ‘essere stata buona. Peccato che la segua l’epoca spagnola che, come tutti sanno, riporta l’orologio al medioevo.


5. Due sovrani chiamati entrambi “Cattolici “, Isabella e Ferdinando, un imperatore, Carlo V, che vorrebbe far rientrare la ribellione di Lutero: ce n ‘è abbastanza: con i viceré ecco uno stato ridotto a provincia che la Spagna rapina per i suoi sporchi interessi. Povertà, sporcizia, popolo che cova la rivoluzione. Non a caso, al centro della Napoli spagnola campeggia la rivolta di Masaniello. Solo nove giorni di euforia e poi il pescivendolo d’Amalfi finirà linciato dai suoi stessi compari. Peccato che poi la storia scopra che dietro quella ribellione manovrava la Francia e che della «Real Repubblica» nessun meridionale se ne fosse accorto stando solo nella mente del Duca di Guisa.


6.L’epoca borbonica comincia bene, un re stiracchiato ad essere “italiano “, riforme (parola magica della modernità), grande ascendente degli intellettuali, un altro re protettore dei “filosofi “, una regina illuminista (anzi, protettrice dei massoni), beghe con il Papa, sgarbi come quelli di cacciare i Gesuiti: ecco una dinastia come piace a noi! Ed ecco, invece di porgere la testa come il cognato francese, questo screanzato di Ferdinando si mette contro il popolo assetato d’uguaglianza. Il popolo naturalmente di questa sete non se n’accorge nemmeno e il “redivivo


7.Numa” si trasforma in un truculento carnefice che, mentre il progresso in Francia porta qualche centinaio di migliaia di persone alla ghigliottina, fa giustiziare tre (tre!) baldi giovinotti che volevano appena massacrare tutta la famiglia reale. Quale pozione abbia bevuto Ferdinando per trasformarsi da dottor Jekill in signor Hide la storia non lo dice. Tantomeno ci spiegherà la signora Pimentel come mai Carolina, da enera mamma ed intima amica a cui dedicar delicati sonetti, si sia cambiata in un ‘insaziabile Messalina.


8.Repubblica Napoletana: finalmente ecco la storia, ecco il progresso, inizia il Risorgimento, che per dirla alla Cammilleri, sarebbe il risorgere dalla tomba di una nazione di morti. Per cinque mesi una ventina di “patrioti” si mettono d’accordo con l’esercito d’occupazione: voi fate finta he noi comandiamo e noi vi lasciamo portar via quel che vi pare. Ma non arrivano neanche nudi alla meta. I lazzari, quegli stessi popolani che andavano bene ai tempi di Masaniello, ora chiamati plebaglia, fanno giustizia. La Santa Fede mette fine alla sceneggiata e alle ruberie dei francesi. I francesi, dal canto loro, per salvare la pelle mandano al dia­volo gli amici repubblicani.


9.  Prima restaurazione. Il trionfo della crudeltà borbonica. Novantasette “martiri” salgono il patibolo. Su quelle vittime, dicono gli storici di poi, si fonderà, appunto, il futuro Risorgimento. Difatti: in cinque mesi hanno ammazzato sessantamila insorgenti, ne hanno giustiziati qualche migliaio, hanno bruciato interi paesi e cortesemente donato ai francesi metà del patrimonio artistico e culturale della nazione. Due donne saranno “madri della Patria “: nessuna persona garbata le vorrebbe nemmeno come sorelle, e come amanti sono un po ‘ troppo trafficate.


10.Finalmente Napoleone, a vendicare la Francia umiliata dai napoletani. Lui ha idee chiare per i suoi luogotenenti: dare alle fiamme, impiccare, spargere il terrore. Durerà solo poco più di dieci anni e finirà come tutti sanno, insieme alla gloria dell’Émpire lasciando in ricordo a Napoli una nuova maschera, “o Pazziarielle “.


11. Seconda restaurazione. Ancora una volta Ferdinando, sempre più Lazzarone, sempre più amico del Papa e dell ‘Europa reazionaria. Dopo Francesco un altro Ferdinando. Di lui si ricorda il soprannome datogli dai liberali, “Re Bomba”, la Costituzione che avrebbe tradito e i sorci verdi che gli fan vedere i carbonari. Per il resto solita miseria, arretra­tezza, volgarità. Sorvoliamo sulla seconda flotta del Mediterraneo, sulla prima nave a vapore, sulla prima ferrovia d’Italia: “giocar elli”. In Italia il Napoletano è l’unico stato ad aver le casse traboccanti, i contadini sa­zi, il popolo felice e i vecchi rivoluzionari fatti ministri ma la storia non perdona e il nuovo impero sentenzia: «La negazione di Dio fatta siste­ma». A Napoli sono borbonici anche i gatti ma a posteriori si scoprirà che erano tutti liberali e «Franceschiello», un re di vent’anni, si lascia battere da un pugno d’uomini con la camicia rossa. La storia svelerà che i mille erano in effetti ventitremila, che potevano contare su svariati mi­liardi degli inglesi, senza contare un esercito regolare, quello del cugino «Galantuomo» che risolve le cose senza neanche perder tempo a dichia­rare guerra.


12. Ecco l’Italia unita, laica e pacificata. Ecco anche per i napoletani le «Magnifiche sorti». Ma quel popolo ingrato invece di far contenti i libe­ratori, si divide a metà: una parte a fare il brigante ed un’altra a far l’emigrante. «Non vi resteranno che gli occhi per piangere» aveva detto l’ultimo re andandosene in esilio. Le ultime lacrime i suoi fedeli le spar­sero per lui. Ora, come tutti sanno, il Sud è il regno della felicità. Dopo centoquarant ‘anni i napoletani non piangono più.


Ma se la condizione della storia italiana è quella descritta da Cammilleri, quella della storia del Napoletano e del Sud, soprattutto dai Borbone in poi, è ancora, come abbiamo visto, più disastrosa. Basti pensare che la stragrande maggioranza di saggi, studi, biografie, articoli divulgativi si rifanno a scrittori di parte, esiliati, fuorusciti, come Giannone, Collet­ta, Cuoco, La Cecilia, De Cesare, Settembrini, quando non danno credito addirittura a romanzieri dall’accesa fantasia di un Dumas padre. In ogni caso, tanto i primi che quest ‘ultimo, cresciuti avendo per maestro quel Voltaire che diceva: «Calunniate, calunniate, qualcosa resterà». Si tratta di libri tuttora editi e citati a profusione.


In pratica non esiste una storiografia meridionale moderna che non sia antiborbonica e antimeridionale. E non ci si meravigli che la più accani­ta sia opera proprio di autori meridionali: tutto sommato è più facile costruirsi una dignità con un attestato che piangere su quella di un ‘anima perduta.


Il lettore avrà capito che in questo libro non si fa una storia meticolosa, storiografia o cronistoria e che quindi, con tutto il rispetto degli onesti ricercatori, non si dà molta importanza a quelle scienze particolari e specifiche che, se hanno il merito di portare più luce alla storia, spesso pretendono di averne la chiave di lettura. Qui partiamo dal capo opposto che è quello del buon senso, dove ognuno può constatare, secondo la lo­gica che non manca a nessuno, se davvero le cose che ci hanno raccon­tato stanno proprio così o se, in nome della scienza, dobbiamo vederle diverse da come il nostro naso ce le fa scoprire.


Fatte queste precisazioni, rimando i lettori avvertiti alla bibliografia es­senziale in appendice che, per le ragioni che ho detto, deve essere utiliz­zata comunque con cautela cercando di far la tara alle spesso incredibili invenzioni che la propaganda partigiana ha fatto diventare ormai luoghi comuni.


La prima parte di questa storia, fino a tutto il 1799, è la rielaborazione dei testi di una serie di incontri seminariali tenuti nell ‘anno accademico 199798 presso la Facoltà di Scienze della Formazione all’Istituto uni­versitario «Suor Orsola Benincasa» di Napoli. A differenza delle dispen­se frutto di quei fortunosi incontri, circolanti tuttora come “samiszdat” fra i napoletani, che di note non ne avevano affatto, anche per non appesantire la lettura, qui ho cercato di farne un uso moderato anzitutto facendo in modo che non siano essenziali e se le possa leggere solo chi vuole, e questo usando il criterio della chiosa e dell’approfondimento. Raramente, in quelle parti ormai tanto incredibili da sembrare inventate di sana pianta, ho usato il consueto metodo della citazione di documenti e testi che giustifichino le mie osservazioni.


A quei vivaci e generosi studenti napoletani fornivo, di volta in volta, a loro richiesta, tutte le referenze e l’apparato critico di cui avevano biso­gno. La stessa cosa mi impegno a fare di persona con i lettori di queste pagine che per validi motivi vorranno chiedermi precisazioni presso l’editore.


Per saperne di più delle mistificazioni storiche e trovare sorprendenti ri­velazioni su fatti dati per scontati ed invece riscoperti con onestà intellet­tuale, sarebbe a dire “con la testa propria”, consiglio di leggere le opere di un autore famoso che ormai è considerato il maestro e il caposcuola d’una coraggiosa revisione radicale della storia non solo italiana: Vitto­rio Messori. A questo intelligente giornalista piemontese che ha affronta­to la sua lunga carriera con rara coscienza professionale e preparazio­ne, e che oggi affronta la storia con altrettanta coscienza critica e docu­mentazione, i meridionali sono debitori del risveglio non solo dell ‘interesse per le vicende della loro nazione ma anche della loro di­gnità calpestata. Tutte le opere di questo autore sono da leggere (per i meridionali come un dovere civico) e per tutti segnalo specialmente la raccolta in tre volumi delle sue meditazioni sulla storia e sulla cronaca, pubblicate nella rubrica «Vivaio» del quotidiano Avvenire: Pensare la storia, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1992, La sfida della fede, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, Le cose della vita, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1995.


La chiave di tutte le falsificazioni storiche, ve ne accorgerete, sta nello spirito anticristiano (quello che oggi, con elegante sufficienza, si pro­clama “laico “) sempre latente fin dai tempi della primitiva evangelizza­zione, scatenatosi con la riforma protestante e giunto a maturazione con la rivoluzione francese. Per decifrare il lungo cammino anticattolico è utilissima la lettura del libro di Luigi Negri, False accuse alla Chiesa, Piemme, Casale Monferrato 1997.


Per una visione non conformista del Medioevo consiglio poi tutte le ope­re, peraltro avvincenti come romanzi, di una grande storica francese, ol­tre che grande letterata, Régine Pernoud, a cominciare dal piccolo sag­gio Medioevo, un secolare pregiudizio, Saggi tascabili Bompiani, Mlano, 1992. Questa autrice, oltretutto, ha il merito di sfatare lucidamente molti luoghi comuni sull’universo femminile nei tempi che si ostinano a chiamare «bui», come ne La donna al tempo delle cattedrali, Rizzoli Edi­tore, Milano 1982.


Ottimi anche i libri di Georges Duby a cominciare da Guglielmo e il ma­resciallo. L’avventura del cavaliere, Laterza, Bari 1985, che basandosi su una storia originale esplora la mentalità e il mondo cavalleresco, le usanze della famiglia nobile medievale e tutto il mondo di quel tempo.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/storia/storia_del_sud_vista_dal_sud.html#NATO

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