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«QUANDO NAPOLI ERA CAPITALE» di GIUSEPPE PIANELLI (VIII)

Posted by on Mar 3, 2021

«QUANDO NAPOLI ERA CAPITALE» di GIUSEPPE PIANELLI (VIII)

Capitolo II

I BORBONE DI NAPOLI

Rampollo di una Farnese, nipote di una Medici, Carlo, figlio di secondo letto di Filippo V di Spagna, aveva quarti suffi­cienti (come si dice tanto in araldica come nei pedegree degli animali di razza) per definirsi italiano. Così, all’incirca, si esprimono gli storici nostri contemporanei che si sono interessati dei Borbone di Napoli e di Sicilia, l’ultima dinastia a capo dell’ormai scomparso Regno del Sud, per dire che, “finalmente” si apriva una prospettiva “nazionale”.


Il punto è che a nessuno, allora, sarebbe venuto in mente di domandarsi la nazionalità né d’un re né di chicchessia. Re e schiavi (così si chiamavano i prigionieri di guerra musulmani che nessuno avrebbe mai riscattato: intendendoli schiavi perché non liberi come i cristiani) facevano parte di quel popolo che amministravano o fra il quale vivevano liberi o in servitù. Per distinguere l’origine (ma poiché loro, re, mercanti o schiavi, ne erano fieri) si aggiungeva al nome la loro provenienza: e così poteva aversi un «Johannes lom­bardo de Neapoli» (dove lombardo stava per longobardo), «Athanasius Kiurakopulo greco de Palermo», «Yussuf schiavone de Botunto» (dove schiavone stava per slavo, cioè per dalmata, croato o co­munque “di quelle parti”), «Habram ebreo de Tarento» e, alla stessa maniera, «Alphonso re aragonese de Neapoli». Il concetto moderno di nazionalità, quello secondo il quale i francesi della rivoluzione «spopolarono» la Vandea, o quello della razza, secondo il quale i nazisti trovarono una «soluzione finale» per il problema di zingari ed ebrei, quel concetto nessuno l’aveva ancora ideato.


Legati ancora all’idea che un patto (fædum) sociale non do­vesse badare ad altro che alla fedeltà dei contraenti, i quali, non po­tevano venirvi meno a rischio di perdervi l’onore, gli uomini della Cristianità pensavano che le nazioni fossero solo unioni di popoli legati, appunto, da un patto comune col loro re, che il re lo fosse con gli altri sovrani e che tutti lo fossero con Dio, rappresentato in questa terra dal Papa.

Il mondo cosmopolita dell’«Ancien régime»

Certo, oggi l’onore è parola quasi spregevole e al suo posto v’è la “dignità umana” la quale, fondata non più sui sacrosanti doveri de­gli uomini, dei patti se n’infischia quando questi cominciano a di­ventare svantaggiosi, e punta invece sui diritti che si possono sem­pre inventare a profusione e imporre agli altri definendoli incivili e acquisendosi, così, il diritto di incivilirli, con le buone o con le cat­tive. Ma allora, quasi fino alla fine del diciottesimo secolo, chiun­que dimostrasse d’avere onore, di saper tener fede ai patti, era con­siderato un buon cristiano, cioè un fratello, cosa che, per chi crede, è molto più importante che libero o uguale.


Nella Napoli vicereale, quando arrivarono gli austriaci e co­minciarono, credendo di ingraziarsi il popolo, a maltrattare gli spa­gnoli, i napoletani si sollevarono in massa alla loro difesa gridando «È gente nostra!».


Del resto se, da Madrid, il Re mandava a Napoli i suoi mi­gliori uomini di governo, il Napoletano, dal canto suo, faceva lo stesso per la corte Cattolica che, come per ogni altro regno, non si poneva il problema di donde venisse un ministro purché sapesse far bene il suo mestiere. Peraltro, pensavano quei re, abituati da sempre a metter sù famiglia scegliendosi la sposa in altri paesi, è più facile, per un ministro, un giudice, un comandante di truppe o un ammira­glio, restare onesto lontano da parenti, clienti ed interessi troppo personali.


Così era per gli eserciti che, composti da gente che il soldato lo faceva di professione, erano mercenari, cioè reclutati a pagamen­to soprattutto fra i popoli più bellicosi e disciplinati per tempera­mento ed educazione, più bravi a saper maneggiare una picca o un archibugio invece di una zappa: per esempio gli svizzeri, i frisoni e gli ungheresi, considerati i più bravi, fedeli e ordinati soldati del mondo. E poiché, come abbiamo visto, erano la fedeltà e l’onore a stabilire se una guerra fosse o no giusta, e poiché a nessun “pacifi­sta” era venuto in mente che quello del militare fosse un mestiere men che onesto e decoroso, poteva capitare, e capitava, che a di­fendere il diritto dell’una e l’altra parte si potessero trovare persone che parlavano la stessa lingua ed anche lo stesso dialetto.


Le guerre, per questo, non erano quelle delle stragi e dei massacri dell’epoca moderna quando i nemici divennero tali in for­za di un’ideologia che divideva i popoli per lingua, religione, idee e forma di governo ma, pur senza trattarsi d’un incontro sportivo (oggi, talvolta, più pericoloso), si combattevano solo fra gente del mestiere, e i comandanti stavano attenti a coinvolgere il meno pos­sibile i civili. Il re di Prussia soleva vantarsi che, quando scendeva in guerra, i suoi popoli non se ne accorgessero nemmeno. Spesso, la vittoria veniva patteggiata dopo l’esibizione delle proprie forze in spettacolari parate accompagnate da strepitose fanfare, corni, rullar di tamburi, bandiere sventolanti e divise sgargianti: ognuno dei contendenti, con qualche scaramuccia o volteggio di cavalleria mi­surava le sue forze e quello dell’altro e poi, fra inchini e rispettosi complimenti, i generali firmavano la pace prima di invitarsi a tavo­la, «data l’ora tarda e la fatica». Il maggior impegno era quello, semmai, di mantenere la disciplina fra la truppe dei reggimenti rac­cogliticci che, se durante la battaglia cercavano di esporsi di meno, soprattutto dopo le vittorie, erano zelantissime nel saccheggio e nel derubare gli ufficiali feriti (anche i propri) per arrotondare la paga e magari per disertare subito dopo se il bottino ne valeva la pena.


Le carneficine medievali, poi, esistono solo nei film hollivuddiani giacché i cavalieri, a causa del riscatto che se ne poteva chiedere alle famiglie, valevano solo da vivi, e meglio se in buona salute. Le più grandi battaglie di quei secoli si risolvevano con po­che decine di morti. Quella di Bouvines (1214), che ingaggiava quarantamila persone, una cifra spropositata per quei tempi, contò, secondo i cronisti del tempo, quindici vittime e, con tutto il rispetto per Dante, cinque quella di Montaperti (1260) che ne metteva in campo cinquemila: un po’ poco per far rosse l’acque dell’Arbia. Inimmaginabile pensare che l’equipaggio dell’Enola Gay (1945), ot­to uomini in tutto, avrebbero fatto, un giorno, con un colpo solo, 60.000 vittime immediate ad Hiroshima e circa 500.000 per le con­seguenze della radioattività, praticamente tutti civili.


Del resto, la Chiesa, pur convinta che dalla guerra, in questo mondo, talvolta non se ne potesse scampare, aveva dettato, sotto pena di scomunica, regole e tregue che ne limitavano i danni. Per una ragione o per l’altra, per devozione (ma vera) a Dio, alla Ma­donna e ai santi, alla fine, ben escluse le feste, la Quaresima, l’Avvento ed altri tempi speciali dell’anno liturgico, non si poteva combattere che dal martedì al giovedì, senza contare che, per evitar disagi, difficilmente s’impegnava battaglia nei mesi freddi e piovo­si. In quanto alla notte, nessuno si sarebbe sognato di rompere il giusto riposo dai Vespri del tramonto alle Lodi del mattino.


La guerra, comunque, anche se con l’invenzione delle armi da fuoco divenne più crudele, era sempre un mestiere apprezzabile per chi la praticava, da soldato, per guadagnarsi la vita e, comunque sempre meno pericolosa, per tutti, delle pestilenze e delle carestie che, senza distinzione di campo e di diritto fra patrizi e villani, mie­tevano decine di migliaia di vite di tutte le età ogni venti o trent’an­ni.


È un mondo, quello che scomparve in pochi secoli, minato dalla grande divisione protestante, fatto esplodere dalla rivoluzione francese, fatto crollare dalle sue conseguenze e spazzato via dai na­zionalismi, un mondo molto difficile da comprendere oggi. Para­dossalmente, noi, figli di quest’epoca che si ritiene adulta, tenuti eternamente a balia di governi, di stati e di imperi economici che de­cidono tutto per noi promettendoci, per quando saremo grandi, un infinito e sterminato “paese dei balocchi” e impegnandoci in “con­tratti sociali” fatti da altri e mai rispettati, e sui quali, del resto, la nostra “opinione democratica” spesso non sembra avere nessun va­lore, paradossalmente, dicevamo, consideriamo bambini gli uomini della Cristianità solo perché, invece di “cittadini” si chiamavano “sudditi”.


Conoscere veramente quello che, dopo la rivoluzione fu de­finito sprezzantemente l’«ancien régime», antiquato di fronte alle «felici sorti e progressive» che i «philosophes» auspicavano per chi si sottometteva alla loro ragione, richiede, di fatto, un pensiero da bambino, abbastanza spudorato da guardare senza pregiudizi il pas­sato.


Calamitosa come una pestilenza fu l’opera di demolizione iniziata dalla cosiddetta Riforma. Se ognuno poteva (perché questo ne era il succo) interpretare la volontà di Dio a modo suo, non c’era più ragione di far onore ai patti con chi la pensava diversamente. Difatti, stabilito questo concetto con la protezione di un principe lo­cale, si cominciarono a rompere tutti quelli che, man mano, sem­bravano gravosi. In questo modo, naturalmente, si stringevano sempre più quelli col principe che sottoscriveva le divisioni e che quindi aveva sempre più potere sui suoi sudditi. Nessuno s’era ac­corto che nasceva il totalitarismo.


Il principe, senza più doversi sottomettere al Papa e all’Imperatore, diventò sempre più forte e indipendente fino a quando si trovò in contrasto con quello vicino. Così successe in Germania, minando il Sacro Romano Impero, che fidava, oltre che sull’approvazione di Roma, sulla concordia dei principi elettori. L’erosione arrivò fino alle fondamenta dividendo quei popoli dal resto della Cristianità.


Successe anche con l’Inghilterra quando la Chiesa di quel paese, che s’era divisa da Roma per le foie di Enrico VIII, per darsi una ragione “dottrinale” (giacché stancarsi di sei mogli è poco evangelico anche per i teologi) non decise di aderire, anch’essa, al Luteranesimo. Lo fece per la via più “aggiornata”: il Calvinismo, una delle tante correnti della Riforma che, nel giro di soli vent’anni, s’era già frazionata in una serie di scuole diverse per ogni paese, diffuse in ogni stato, soprattutto in quelli che andavano dalla Ger­mania centrosettentrionale fino all’estremo Nord e all’Est dell’Eu­ropa.


Calvino, svizzero, costretto a predicare ai benestanti di Gi­nevra, angosciato dal dilemma di come si sarebbero salvati i mer­canti della sua città, giunse alla conclusione che, in fin dei conti, non solo i ricchi hanno anche loro diritto al paradiso ma che la pro­sperità è essa stessa un segno della benedizione di Dio. Se volete, una sintesi, questa, poco rispettosa di certo ecumenismo ma suffi­ciente a capire il nocciolo della questione. Tanto sufficiente che i  sociologi che vennero dopo spiegarono proprio in questi termini la nascita del capitalismo moderno e di tutto quello che n’è venuto fuori.


Per avere un quadro più chiaro della Cristianità e di come andò rapidamente sfaldandosi, non basta però la grande eresia pro­testante. Bisogna aggiungervi il problema del «Popolo eletto», degli ebrei che, dalla caduta di Gerusalemme, nel 70 dopo Cristo, ad ope­ra di Tito Vespasiano, pur senza mai perdere il loro carattere di na­zione, erano stati dispersi in mezzo mondo. La parte più cospicua era rimasta nei confini dell’impero romano e, quando si formarono i regni cristiani e il potere sacrale del nuovo impero, furono facil­mente assimilati dalla nuova società.


Di carattere pacifico, attendendo pazientemente la venuta del Messia, stretti in un patto altrettanto trascendente di quello che le­gava fra loro i cristiani, fedeli a un libro considerato altrettanto sa­cro che il Vangelo, e a una lingua altrettanto stabile quanto per gli europei il latino, gli ebrei si organizzarono in comunità che seppero convivere, soprattutto nelle città, con le leggi che si dava la Cristia­nità.


Generosamente protette dalla Chiesa, che riconosceva nei fi­gli di Giacobbe i progenitori della Sacra famiglia e degli apostoli e nel loro sangue quello stesso sangue divino del loro Re immortale, le comunità israelitiche poterono prosperare anche al riparo da co­loro che, da poco convertiti, non facevano troppa distinzione fra pagani e infedeli alla nuova legge. Posti sotto la tutela del Vescovo, gli ebrei solo a questi dovevano rispondere delle loro azioni e a lui, invece che all’ Universitas (come si chiamavano le comunità civili), versare le proprie decime. In cambio avevano il diritto di professare il proprio culto, di erigere sinagoghe, ospedali e cimiteri, d’avere proprie scuole e di non dover partecipare, a differenza degli altri, alla difesa della propria città in caso d’assalto né di dover prestare servizio militare per alcun re, vassallo o feudatario. Nemmeno l’im­peratore aveva diritto di trascinare in giudizio penale gli ebrei e tan­to meno di condannarli a morte. Federico II, nel suo contenzioso col Papa, aveva anche il sopruso d’aver creato suoi “famigli” tutti gli ebrei del Regno, e non per una supposta sua particolare tolleranza, come piacerebbe credere a certi storici, ma per poter spremere anche da loro le tasse ormai insufficienti del Sud dissanguato.


Se la legge mosaica non consentiva alcuni traffici con i propri correligionari, nulla prevedeva per quelli con i “gentili”, e gli ebrei, in seno alle comunità civili seppero presto affermarsi con quelle professioni e quei mestieri che la coscienza dei cristiani rite­neva, allora, illeciti o poco decorosi. Fra i mestieri, gli ebrei, seppe­ro rendersi indispensabili come tintori, lanaioli, commercianti di stracci da macero, e nelle professioni si improvvisarono speziali, medici, mercanti e, soprattutto banchieri, potendo prestare ai cri­stiani denaro ad interesse come invece fra loro era proibito e a que­sti ultimi era vietato dalla rigida etica del tempo.


La loro solidale fraternità, diffusa in tutte le nazioni della «Santa Romana Repubblica», permise di crearsi una rete vastissima di commerci e di scambi, di fondaci e di garanzie, soprattutto per­ché, stretti da un patto molto più antico di quello dei cristiani, gli ebrei non avevano, fra loro, diffidenze e remore e potevano contrat­tare, barattare, stipulare crediti e prestiti sulla garanzia della sem­plice parola.


È umano ed era ineluttabile che quella loro libertà e quel loro successo attirassero le gelosie dei concorrenti cristiani e non deve meravigliare (né far passare per razzismo) che, messa da parte la coscienza, qualcuno, meno devoto, cercasse di risolvere i suoi pro­blemi economici con le mani o, peggio, con le armi. Succedeva fra cristiani e cristiani, non v’era ragione che a far le spese non potesse essere, meglio, un infedele. Tanto più facile se Giudeo, cioè parente di quel Giuda che tutti conoscevano come traditore. Più tardi, quando gli ebrei furono diventati una bella potenza economica, e ne profittavano imperatori e sovrani (papi compresi), tenendoseli cari come ai nostri giorni si tengono cari quei “paradisi finanziari” che sono i piccoli stati dove ogni traffico è lecito, si dovette cominciare a difenderli con gli sbirri e con pene severe contro i prevaricatori. Se, più tardi, intorno ai ghetti (che oggi hanno suono oltraggioso ma che allora prendevano semplicemente il nome dall’isola di Ghetto dove, a Venezia, si radunavano gli ebrei) furono costruite mura e se si proibì agli abitanti di uscirne di notte (quando del resto, senza illuminazione, non andavano per strada che ubriaconi e malfattori) fu solo per difenderli dai tanti malintenzionati.


Nell’Islam il trattamento degli ebrei (tollerati, insieme ai cri­stiani, come “popoli del Libro”) non era molto differente salvo che non c’era alcuna autorità religiosa a difenderli e, in quanto a traffici e mercati, i musulmani avevano anche più talento di loro. Presenti in gran numero nella Spagna moresca, quando anche gli ultimi re­gni furono conquistati dai cristiani, gli ebrei furono tollerati come in tutto il resto della Cristianità salvo che, avendo meno concorren­za, negli stati appena nati, si imposero molto prima che in altri, per la loro abilità. Un grosso problema per la Regina Isabella giacché i suoi sudditi, appena usciti da lotte secolari, abituati a comporre con le armi ogni piccolo sgarbo: teste calde, insomma, non sopportava­no questi sempre più ingombranti coinquilini.


Peraltro, molti degli israeliti (alla stessa maniera di molti mori) passavano alla fede cattolica e se per alcuni la conversione era vera, per altri era solo una finzione per vivere tranquilli. In se­greto questi “marrani”, cioé porci, come vennero poi sprezzante­mente chiamati (ma un miglior concetto non dovevano averne gli ex correligionari), continuavano a praticare le loro usanze, a cele­brare i loro culti, a sposarsi fra loro e, naturalmente, a condurre i lo­ro traffici in quel mercato internazionale, che oggi diremmo “paral­lelo”, costituito, senza barriere doganali, fra tutti i discendenti di Giacobbe sparsi da un capo all’altro dell’Europa. Una concorrenza “sleale” quindi, che si attirò l’astio dei vittoriosi ma squattrinati sudditi cristiani. Dato però che gli ebrei non infrangevano, comun­que, nessuna legge del regno né alcun dettato della morale, a nessu­no fu consentito di importunarli impunemente.


Se molti ebrei (certamente quelli più intraprendenti e versati negli affari) avevano trovato l’espediente di farsi battezzare, gli ostinati cristiani si diedero da fare per coglierli in fallo dal lato della fede. L’Inquisizione spagnola nacque proprio per questo, sul mo­dello di quella romana: porre il freno di un processo regolare, con tanto di prove e verdetti, al torrente di accuse di sacrilegio, di be­stemmia e d’eresia che travolgeva qualunque israelita avesse desta­to le invidie dei vicini. Come provano gli archivi spagnoli (non la “leggenda nera” che vi nacque sù), furono certamente più i marrani discolpati che quelli trovati in fallo, e le condanne colpirono, con generosa equanimità, i falsi delatori, quale che fosse il loro stato sociale.


Ma ormai la miccia era accesa e i facinorosi non vedevano l’ora che le polveri esplodessero: linciaggi, improvvisati autodafé, saccheggi, rivolte contro i poteri costituiti si moltiplicarono, mentre i più faziosi sobillavano il popolo credulone con calunnie d’oggi genere, anche le più fantasiose e infamanti: usura, stregoneria, complotto coi mori, tradimento. È impossibile oggi ricostruire i singoli episodi, le atrocità che certo non dovettero mancare, la se­quela di disordini che rendeva la vita impossibile non solo agli ebrei ma a chiunque fosse coinvolto con essi, per una ragione o per l’altra, in rapporti d’affari, di parentela o anche di semplice cono­scenza. Ci dovettero essere certamente vittime anche fra chi fosse solo sospettato di non avere in odio gli israeliti. Una guerra civile che non cessò finché Isabella, che fino allora aveva sopportato pa­zientemente le accuse di preferire i giudei ai suoi figli cattolici, espulse dai suoi stati tutti gli ebrei che volevano rimanere nella loro religione.


La ragion di stato non sempre coincide con la giustizia di Dio o vi coincide in un misterioso disegno che ai reggitori di popo­li, anche santi, e proprio per questo, non resta che eseguire senza capire perché è più grande di loro, anche a costo di farsi odiare. In­famia che tuttora si riversa su Isabella la Cattolica, una delle più fulgide e pie donne della Cristianità, tanto “moderna” e spregiudi­cata da finanziare quel matto d’un navigatore genovese. Ella ebbe solo il torto (ma per chi non crede alla santità) di fare il suo dovere di regina.


Gli ebrei, in seguito, furono espulsi da tutti i paesi sottoposti alla corona spagnola (mezza Europa cioè) compreso il Regno di Napoli dov’erano vissuti tanti secoli indisturbati, pur senza mai di­ventare, come tutti gli altri, «gende nuosta». Nonostante il Papa li accogliesse senza limitazione, la parte più intraprendente degli isra­eliti che non voleva vivere pigramente nei pacifici stati agricoli e pastorali del “Patrimonio di Pietro”, man mano si concentrò lì dove più si sviluppavano i traffici e i commerci. Soprattutto fra i prote­stanti che, nella comune inimicizia ai cattolici, vedevano buone prospettive per affari comuni, furono quelli che attirarono il loro ta­lento e i loro interessi. I paesi fiamminghi e quelli tedeschi del nord, le città anseatiche si popolarono di comunità ebraiche che presto emersero negli affari e nell’economia. In seguito, le alleanze antispagnole, strette fra gli stati protestanti del continente e l’Inghilterra, permisero la penetrazione israelitica anche nell’isola albionica e dettero luogo a una preminenza del capitale ebraico nell’economia del Regno Unito e poi delle sue colonie.


Così forte, alla fine del Settecento, era il potere economico dei banchieri ebrei da potersi permettere di finanziare, come fecero i Rothschild, movimenti rivoluzionari, guerre locali ed anche le grandi guerre di Napoleone o contro Napoleone senza per questo aver preso mai partito se non quello di riscuotere gli interessi dal vincitore. La battaglia di Waterloo fu uno dei più grandi affari per questa famiglia che, senza problemi poteva mercanteggiare in tutt’Europa, sparsa com’era in Austria, in Germania, in Olanda e in Inghilterra. Gli emissari di questa vera banca internazionale, sparsi anch’essi in ogni stato, forniti di propri corrieri più veloci dei servi­zi di posta, riuscirono ad avvertire il capo della loro ditta della sconfitta del deposto imperatore prima ancora che la notizia giun­gesse a Londra. Quel Rothschild, con oculate operazioni di borsa, ci guadagnò una cifra che si dice superiore all’intero tesoro britanni­co.


L’invidia per l’intraprendenza e la fortuna economica è cer­tamente una brutta cosa e, di fronte a Dio, altrettanto certamente, gli ebrei non potevano essere incolpati di speculare e far buoni affa­ri a danno dei cristiani. Ma è difficile convincere di questa verità chi ne ha fatto le spese, specialmente quando si tratta di principi, di re, d’imperatori. Il solco antico scavato da una controversia sul Messia, s’allargava sempre di più fra i seguaci della Legge e quelli del Vangelo e s’approfondiva ancora in un’Europa già divisa fra Chiesa e chiese e dilaniata da lotte intestine che della Verità face­vano mercato.


I superstiti della Cristianità forse si accorsero a Lepanto, l’ultima grande gloriosa impresa in nome delle fede comune, a cui però partecipavano solo le poche potenze rimaste fedeli al Papa, che il nemico non era più solo quello che li pressava dalle coste dell’Africa e dell’Asia e che poteva essere tenuto a bada col filo della spada o a colpi di cannone. Corse voce, né mai fu smentita, che la flotta turca aveva potuto essere allestita coi prestiti dei ban­chieri ebrei che avevano rastrellato danaro dai loro correligionari di tutta Europa e fors’anche dai principi protestanti.


I nemici della Cristianità, ormai, non erano gli uomini: né musulmani né ebrei né protestanti. Il nemico della civiltà cristiana (ma anche di musulmani, ebrei e protestanti) era il denaro, una for­za smisurata che poteva unire e dividere gli uomini al di là di fede, razza e nazionalità. Il patto sacro, dove tutto era misurato sulla pa­rola di Cristo, il patto che aveva tenuto insieme, per mille anni i mille popoli d’Europa, cedeva il passo al contratto, dove tutto si va­lutava sull’interesse immediato. Volendo o non volendo, in questo contratto, a suon di quattrini, siamo stati venduti anche noi e il bel regno del Sud.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/storia/storia_del_sud_vista_dal_sud.html#NATO

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