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«QUANDO NAPOLI ERA CAPITALE» di GIUSEPPE PIANELLI (X)

Posted by on Mar 5, 2021

«QUANDO NAPOLI ERA CAPITALE» di GIUSEPPE PIANELLI (X)

CAPITOLO III 

L’«ETÀ D’ORO» DI FERDINANDO

La prima cosa che si sente dire di Ferdinando IV, successore di Carlo VIII al Regno di Napoli, è che fu incolto e grosso­lano. Infatti, cominciano col dire i suoi biografi, ebbe come precettore il Principe di San Nicandro, grande cavalcatore, grande schermitore, grande bevitore ma affatto versato nelle buone ma­niere, nelle lettere e nelle arti. Nulla si dice di Padre Francesco Cardel, dotto e pio gesuita tedesco che ne curò la formazione spirituale e intellettuale né peraltro si ricorda che l’educazione alla politica e agli affari di Stato glie la diede il toscano Bernardo Tanucci, nientepopodimeno.

È un modo di far storia, questo, non nuovo nel mondo (per la morale si chiama calunnia o diffamazione) ma che la storiografia moderna ha assunto come metodo scientifico. «Calunniate, calun­niate, qualcosa resterà» diceva Voltaire: di questa scuola ha fatto le spese, fra gli altri, l’intera dinastia dei Borbone delle due Sicilie, fi­no al punto che “borbonico”, anche sui vocabolari, vale ormai per oscurantista, retrivo, reazionario.


Ferdinando non fu né incolto né grossolano. Di lui, per esempio, ci restano tutti i diari privati che egli, puntualmente, se­condo quanto gli raccomandava Padre Cardel, scriveva senza per­dere un giorno, dietro ai più piccoli avvenimenti. Senza farne un fi­ne letterato, queste migliaia di fogli rivelano una buona cultura e soprattutto una grande sensibilità d’animo e una solerte scrupolosità per i suoi doveri. È notorio che Ferdinando, ancora giovane, sotto la reggenza del Tanucci, si interessasse di tutti gli affari di Stato e che, anche più tardi, volle sempre metter bocca in tutte le questioni, an­che le più minute.


Ma tant’è, essendo Ferdinando vissuto a cavallo di grandi avvenimenti storici, ed essendo fra i pochi sovrani che li superarono ed anzi ne mostrarono la spavalda e meschina inconsistenza, essen­do, come tutti gli altri re borboni, perfetta rappresentazione di tutto quel che significava il mondo meridionale e degli umori e delle spe­ranze che lo animavano, essendo (anche se ciò non è notato da al­cuno) l’unico monarca di grande statura sopravvissuto in pieno, col suo lunghissimo regno (17591825), alla prima grande bufera rivo­luzionaria d’Europa, essendo infine il rappresentante di un popolo che, unico in Italia, era riuscito, con le sue sole forze, a non farsi travolgere dall’ubriacatura giacobina e ad umiliare i francesi, beh, non gliela si può proprio perdonare.


Ferdinando, fra tanti “monarchi assoluti”, fu l’unico a sca­valcare il Settecento salvando, oltre la testa, la corona, lo Stato, e la devozione del suo popolo.

L’idea di sovrano assoluto

“Democrazia” è una parola magica. Ovunque, al giorno d’oggi, venga pronunciata ottiene l’effetto di tacitare immediata­mente gli avversari, di mettere in imbarazzo gli interlocutori, di ge­nerare spropositate attestazioni di fede e gare sovrumane di venera­zione. Religione senza Dio in cui tutti sono sacerdoti, senza sforzo si diffonde per tutta la terra. Non impone sacrifici ai suoi profeti ma ne richiede, ad occhi chiusi, ai suoi neofiti che presto, a loro volta iniziati alla profezia, se li scrollano di dosso imponendoli ad altri e perpetuando all’infinito la buona novella del progresso. Ecumenica per sua natura, questa religione si manifesta in infinite maniere: democrazia infatti fu quella sovietica e fu quella cambogiana di Pol Pot, è quella cinese e quella di Fidel Castro, quella americana, quel­la italiana, afghana, iraniana, irachena, libica e quella del Ruanda. Democrazia costituzionale, democrazia popolare, democrazia par­lamentare, democrazia proletaria, democrazia dirigista, democrazia liberista, riti diversi e diversa liturgia, una sola trinità le unisce: la libertà che, come il sommo Iddio, nessuno ha visto mai né alcuno, dopo tanti ragionamenti, sa definire, l’uguaglianza, purissimo spiri­to e per questo invisibile, e la fraternità dell’uomo nuovo suo figlio, buono per natura, anche quello, ancora misterioso e di là da venire. Decisa a catechizzare tutti, scomunica senza remissione i «refrattari» i quali vengono confinati nei gulag, nei campi di rieducazione, nelle carceri del popolo o, (giudicate voi se sia il migliore deicasi) condannati alla sufficienza, alla derisione, o alla damnatio memo­riæ: in ogni caso, cruento o incruento, alla distruzione.


La democrazia nacque in Grecia. Massime esponenti ne fu­rono Atene e Sparta: l’una ricordata per aver messo a morte Socrate che pretendeva d’insegnare a pensare con la testa propria, l’altra per sopprimere i neonati gracilini. Nulla di nuovo sotto il sole.


Non è con questo a dire che la democrazia sia la peggiore forma di governo: tale diventa, come ogni altra, quando, appunto, si erge a dogma religioso non ammettendo che alcuna divinità, dopo averla, fin dall’eterno, cogitata, s’intrometta più nei suoi affari. Po­sto che, comunque estesa, mai tutti potrebbero, per una ragione o per l’altra, prenderne parte attiva, cioè governare, come vorrebbe il significato della parola, democrazie o almeno aristocrazie, cioè go­verno di grandi elettori, si ebbero sempre in seno anche ai regimi più monocratici. Senza dover ricordare la Repubblica e l’Impero romano antico, il Sacro romano Imperatore veniva scelto dai prin­cipi elettori, per esempio, e nelle città pur infeudate si ebbe sempre un’universitas di nobili e “popolari”, i patrizi (padri della comunità civile) che s’occupavano dell’amministrazione. In seno al governo della Chiesa, la democrazia pacificamente convive, nell’elezione del Papa, con la monarchia assoluta di quello e con l’aristocrazia dei Cardinali (“Principi”) e di Patriarchi, Arcivescovi e Vescovi (“Nobili vassalli, valvassori e valvassini”). Qualunque membro poi, perché questa struttura sia veramente “popolare”, può salire fino al massimo grado.


La Cristianità, secondo un piano naturale, si strutturò cre­scendo, sul modello della Chiesa che, a sua volta, si strutturava sul modello della Città di Dio, la «Celeste Gerusalemme». Ma se nes­suno, allora, si scandalizzava che la Chiesa terrena non sempre riu­scisse ad uniformarsi a quella in paradiso, tantomeno poteva scandalizzarsi se, nel modello del modello, non sempre le cose andasse­ro per il giusto verso. Se il problema della Chiesa era quello della continua riforma («Ecclesia semper reformanda est» diceva Sant’Agostino), nella società civile era quello del continuo riequili­brio dei poteri fra i vari corpi dello Stato e quello degli stati fra lo­ro. Nobili e popolo, ognuno si contendeva la sua parte di potere e, ufficio del re era quello di far da arbitro fra i due contendenti. Per questo la sua investitura era avvocata al Papa, al di sopra delle par­ti.


Per altri versi, anche l’elezione a sovrano avveniva per scelta democratica, anzi per plebiscito, giacché, come abbiamo visto per Ruggero di Sicilia, non solo il suo valore ma l’omaggio che già gli rendevano tutti i baroni dell’Italia meridionale e la devozione del popolo, fu infine il criterio per cui il Papa lo riconobbe Re. Non la nobiltà delle sue origini: gli Altavilla erano arrivati dalla ricca Normandia come spiantati per mettersi al soldo dei rozzi signorotti pugliesi; non la potenza: i re di Francia erano i più poveri fra tutti i feudatari, la loro terra, anche da sovrani, restò per secoli la più pic­cola del reame; ancor meno la prepotenza: Federico di Svevia e la sua discendenza furono spodestati tanto come re di Sicilia quanto come imperatori; nessuna di queste prerogative costituiva, davanti al potere spirituale del Papa, un privilegio per essere a capo d’un regno cristiano. I sudditi, nobili o popolani di tutt’Europa avevano ben chiaro che non dall’alto o dal basso della scala sociale veniva il potere, giacché il Pontefice (da qualsiasi strato sociale, nobile o plebeo, ricco o povero, avesse avuto i natali), finanche col cambiar­si il nome, s’era messo al difuori d’ogni privilegio e d’ogni potere umano.


La stessa cosa, col medesimo criterio, avveniva per i titoli di nobiltà concessi dal re.


Se oggi ad educare i futuri capi ci pensa il partito, allora nessuno metteva in dubbio che ad educare i futuri re ci pensassero i re, e i futuri nobili i nobili. Questo, naturalmente, con le dovute eccezioni giacché, lo sanno tutti, la natura umana spesso dirazza e i figli di re posson diventare cialtroni e i figli dei nobili zoticoni. Nello stesso tempo, come dimostrano ancora una volta i Normanni, stesso tempo, come dimostrano ancora una volta i Normanni, con la grazia di Dio e con l’ingegno, tutti posson diventare nobili e re.


Le classi sociali che costituivano la Cristianità erano più mobili e intercambiabili di quel che oggi si pensa: a parte le leggi della demografia che provvedono a sfoltire i popoli e le famiglie, cattiva sorte, fellonia (cioè infedeltà ai patti) e disonore potevano, anche da sole, fare repulisti. Se non bastasse il succedersi delle di­nastie, a scorrere i documenti del passato ci s’accorge che, salvo ra­re eccezioni, almeno otto famiglie aristocratiche su dieci appaiono e scompaiono nel giro di un secolo e che, del restante, solo una con­serva la sua condizione per più di due. Solo per rimanere in Italia, di settemila famiglie contate al tempo del penultimo Savoia (1933), solo un centinaio poteva vantare una nobiltà più antica di trecento anni, ma molte di esse, di fatto decadute, vantavano ormai più solo i ricordi del passato.


La “classe dirigente” dell’ancien régime dunque, nei ritmi di una società durata più di mille anni, non era affatto “sclerotizzata” (anche se poi i governi non cambiavano con la stagione). Tutti, se­condo le loro doti naturali, uguali davanti a Dio, potevano ambire ad elevarsi fino al vertice del potere. Il Papa, rappresentante di Dio sulla terra, quel Dio che aveva preso Davide «di dietro le pecore» per farne il Re d’Israele, era la garanzia per tutti che il potere, in fin dei conti, viene dal Cielo. Del resto, a quei tempi, la Scrittura vale­va qualcosa di più che la «Carta dei diritti dell’uomo» e la Sede di Pietro era più libera delle Nazioni Unite.


Forse proprio sul valore del “sacro” deve meditare chi si ac­cinge a far storia, in un’epoca “laica” in cui i monumenti ai conqui­statori divennero “templi”, quelli alla patria divennero “altare”, in cui i caduti dei vincitori divennero “martiri” e i loro cimiteri “sacrari”, mentre solo, come all’antica, i “sacrifici” restano sempre quelli di stringere la cinta. Tempi questi in cui finanche la mafia, quella pugliese, ha voluto chiamarsi, senz’ombra d’umorismo, “Sacra co­rona unita”. Sacra era (in tempi che al posto dell’umorismo esisteva l’allegria) la corona dell’imperatore e dei re della Cristianità, ma solo perché, attraverso il Papa, proveniva da Dio.


L’eresia non è una menzogna ma un abbozzo di verità, un’opinione, una scuola di pensiero fra tante, come dice la parola latina hæresis. Lutero, in fin dei conti, poteva essere un magister fra i tanti. In un’università avrebbe potuto liberamente disputare con gli altri docenti e con gli studenti finanche, come del resto, sen­za scandalizzare nessuno, faceva San Tommaso d’Aquino, se la Madonna fosse stata o non concepita senza peccato. Eretici, nel senso latino, n’eran nati tanti, ma non tutti erano morti tali giacché, se discutere si poteva su tutto, e senza limitazioni, la parola finale spettava a Pietro. «Roma locuta quæstio soluta» si diceva, tanto era evidente che se le opinioni sono degli uomini, la verità appartiene a Dio. Fra’ Martino poteva così diventare, in alternativa, anche un al­tro San Francesco o uno di quei tanti riformatori, ma veri, della re­ligione, che sentendosi ispirati, non mettevano in dubbio che lo stesso Dio, sui suoi progetti, sapesse convincere anche i papi. Dall'”opinione” di Lutero, diventata legge per decreto dei príncipi tedeschi, nasce dritta dritta la democrazia moderna che, dicendosi comunque “laica”, e quindi non dipendente da Dio, s’arroga lo stravagante diritto di decidere a maggioranza qual’è la verità.


Spaccatasi l’Europa, dopo le divisioni di Guelfi e Ghibellini, fra cattolici e riformati, la frattura andò sempre più accentuando, nel senso che se i protestanti s’ingegnarono sempre più d’essere ta­li, i cattolici si studiarono d’essere più papisti del Papa, cosa che proprio non si può. Antichi attributi onorifici di re, come “Cattoli­ci” (quelli di Spagna), “Cristianissimi” (quelli di Francia), “Fedelissimi” quelli di Portogallo, fino ad “Apostolici” (quelli d’Austria) divennero patenti di merito per assolutizzare sempre più il ruolo dei monarchi. La cosa interessava soprattutto all’aristocrazia che, sa­cralizzando il sistema di governo, sperava così di render sempre più stabile il suo potere.


Proprio le continue tensioni fra re e nobili, cioè fra monarchia ed aristocrazia, erano state la garanzia che nessuno dei due po­teri avrebbe potuto prevaricare sull’altro. Il Papa, arbitro indiscusso ed imparziale, era, a sua volta, il garante del popolo, figlio predilet­to. Il suo potere, benché spirituale, era realissimo, giacché, solo provvisto di quello “delle chiavi” poteva ridurre a ragione i più dispotici sovrani. Se la scomunica riduceva il prestigio di un re a li­vello dell’infimo dei plebei, l’interdetto, vietando di obbedirgli e di pagargli le tasse, lo metteva alla completa mercé dei suoi sudditi. Così successe, come abbiamo visto, di Federico di Svevia. Il siste­ma funzionava, e fu questo delicatissimo equilibrio a mantenere unita la Cristianità per oltre mille anni, in maniera naturale (oggi di­remmo “umana”), sotto lo stesso padre, senza mai abusar della for­za e, tutto sommato, senza che i figli menassero troppo le mani.


Dunque i nobili si dettero da fare per attribuire al loro diretto sovrano tutto quel potere che li avrebbe garantiti nei loro uffici e nei loro privilegi. Quello della piaggeria e dell’adulazione è un vi­zio antico (detto pure, appunto, “cortigianeria”) ma, a partire dal cosiddetto Rinascimento, si trasformò in arte e virtuosismo e, dal Cinquecento al Settecento, ebbe tutto il tempo di convertirsi in scienza del governo o, meglio, del potere. Retorica ed Eloquenza, nobili discipline a servizio dell’insegnamento, diventarono (come dimostrano i pomposi scritti dell’epoca) manieratissimi e leziosi esercizi di incensazione e di prona sudditanza. Tanto nell’arte che nella letteratura, il Rinascimento non fu che la copia di vuote forme e d’idee senz’anima.


La Cristianità che aveva resistito ai rudi popoli del Nord, al­l’orda degli intransigenti musulmani, alla prepotente forza di re ed imperatori, agli allucinati catari e albigesi, ai rigidi riformatori tede­schi, uscendone sempre più compatta, fiera e purificata, si snatura­va sdilinquendosi alla melliflua astuzia dei cicisbei. Il “laicismo” dal Nord penetrava inesorabilmente verso il Sud dell’Europa sull’onda di una filosofia e di una scienza senza freni e di un traffi­car denaro, commerciare e trattare affari senza regole, fin nel cuore degli stati cattolici. La Chiesa, come in ogni suo momento di crisi, reagiva con un dispiego di dottrina, di spiritualità, di ascesi, di ope­re di carità, con una schiera di uomini santi (per il Sud basterebbe ricordare anche solo Sant’Alfonso Maria de’ Liguori). Il mondo ci­vile invece non seppe rispondere che con una semplice facciata di cartone, un baluardo di bei modi e belle maniere, una vuota forma stilistica che non sapeva più incarnare lo spirito cristiano.


Mentre la Spagna, nel suo vasto impero d’oltremare, ostinata nella sua missione cristianizzatrice, aveva speso dobloni ed energie restandone perfino indebitata, insieme ai guadagni sempre più pin­gui che arrivavano, senza tante fisime, dalle colonie inglesi ed olandesi, si spandeva per l’Europa il capitalismo e con esso il pensie­ro riformista. Il cosmopolitismo della Cristianità nato dall’essere tutti stretti in un unico patto, si trasformava in “internazionalismo” fondato sui contratti, sui commerci e sulle transazioni. I borghesi, che prima non erano altro che la parte più ricca e intraprendente dello stesso popolo, diventati generalmente più ricchi degli stessi nobili (quando non di certi principi e certi re) disdegnarono il tradi­zionale appellativo di “popolo grasso” e vollero chiamarsi “civili” mentre, ovviamente il “popolo basso” retrocedeva al rango di ple­baglia. Una volta comprati i feudi dei nobili decaduti, le loro terre e i loro palazzi, i “civili”, nuova classe che voleva trovare una digni­tosa collocazione per non sentirsi alla pari dei propri cocchieri, non potettero fare a meno di volere anche loro un blasone e si industria­rono di scavalcare, a suon di contanti, quella regola concepita, co­me dicemmo, proprio dal primo re del Sud, per cui solo la fede, il valore e la generosità d’un cavaliere potevan dare inizio a un’illustre prosapia (Il Conte di Brienne, nel 1793, febbricitante di rivoluzione, volle rinunciare al suo appellativo feudale tornando a chiamarsi Crachepous, Grattapidocchi).


Se altri regni, Spagna per prima, resistettero all’assalto dei ricchi borghesi (la “Lingua” di Castiglia dell’Ordine di Malta non ammetteva chi avesse mercanti fra gli antenati: e la seguirono tutte le altre), la “cristianissima” Francia, agricola, pacifica e felice, dove i nobili di campagna mangiavan la minestra con i loro servi e per andare in città si facevan prestare il cavallo dai contadini, fu quella che prima cedette alla lusinga della facile ricchezza. Messa lì fra le più grandi borghesie d’Europa, sempre infastidita da fiamminghi, inglesi e renani, con la sua corte reale senza grandi proprietà, sem­pre costretta a fare i conti con i fornitori, trovò che forse il diavolo, visti i facoltosi vicini, non è così brutto come lo si dipinge e forse non era poi così vile l’espediente di mettere d’accordo Dio con mammona.


Messisi essi stessi in affari con ricchi commercianti, riem­pitisi di debiti con i finanzieri, i re di Francia aprirono le porte a chiunque “bussasse con i piedi”, come si dice di chi ha le mani pie­ne di regali. Tante erano le richieste di titoli ed onori e tanti i “favo­ri” ricambiati, che Luigi XIV diede a un tale D’Oziers l’appalto di concedere patenti di nobiltà. Tuttora, la Francia, non riesce, per il numero smisurato di nomi, ad avere un elenco attendibile della sua passata aristocrazia.


Così, nella nazione dei re taumaturghi, di San Bernardo e dei monaci di Cluny, delle più belle cattedrali del mondo, tanto gelosa della sua fede cattolica da rapire il papato ad Avignone, la bigotte­ria salottiera sostituiva la virile devozione, il bon ton la pietà, il fa­sto pretenzioso l’adorazione, il denaro l’onore. Nasceva il “Terzo Stato”.


La Francia, nazione “primogenita” della Chiesa, nata dall’ac­qua del battesimo di Clodoveo, tramontava nello stesso momento in cui sorgeva invece, sorreggendosi sugli altissimi tacchi delle sue scarpine dorate, il “Re Sole”, incarnazione di quello Stato moderno che la 3lama della ghigliottina, manovrata proprio dal quel “Terzo Stato”, avrebbe, nel sangue, alla fine del secolo, solo consacrato.


Fu quello il tempo che il patto della Cristianità si dissolse in trattati e “concordati”, in cui il Papa fu considerato soltanto il capo di un reame (e alquanto miserello) con cui trattare pari a pari, e il Re divenne «l’immagine di Dio sulla terra» e l’«unto del Signore» e si considerò che la sua corona fosse scesa direttamente dal cielo sulla testa. L’epoca in cui nacque una nuova scienza, il “giurisdizionalismo”, nome erudito per la ragioneria dell’avere e del dare, che misurava a codicilli e pandette i privilegi dei principi e dei ve­scovi, del clero e dei borghesi e quelli del Re e del Papa e, con la storia dei regni e delle investiture, i diritti dell’uno e dell’altro ad aver più o meno potere non solo sulle persone ma sulle loro co­scienze. Giuseppe II, “Imperiale e Reale Apostolica Maestà” dell’Austria, avendo pochi ricchi mercanti in giro per le sue terre ed essendo i suoi ebrei troppo poveri per cavarne qualcosa, decideva quali vescovi rispettavano il Vangelo e quali monaci e frati eran ve­ramente pii e in che misura, a suo parere, giovavano alla religione  li mandava a remengo se i loro beni potevano servire meglio alla nazione. Ogni questione vertente la giurisdizione era condita con dotte citazioni dalla Scrittura e sempre solo sui versetti dei Vangeli si risolvevano ormai le questioni con la Chiesa. Il “libero esame” della Riforma aveva fatto passi da gigante: ogni lettera fra ministri era una disquisizione teologica, un esercizio di esegesi biblica, ogni decreto un’omelia. Dopo il laicismo nasceva così anche il clericali­smo.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/storia/storia_del_sud_vista_dal_sud.html#NATO

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