«QUANDO NAPOLI ERA CAPITALE» di GIUSEPPE PIANELLI (XV)
CAPITOLO V
L’EPOPEA DEL POPOLO NAPOLETANO
Da qualsiasi parte lo si guardi, il “1799” a Napoli è un’epopea. Lo è per certi democratici d’oggi che, nella “Repubblica napoletana”, vedono i semi dell’attuale ordinamento italiano, e lo è per coloro che, nella rivolta spontanea del popolo che cacciò i francesi, vedono il riscatto di una nazione dalle farneticazioni dei “pensatori”.
Sui cinque mesi della Repubblica napoletana s’è scritto tanto quanto non s’è fatto per tutto il resto della storia del Sud, sono nate leggende che neppure il buonsenso riesce a scalfire, sono state inventate schiere di “martiri”, di “carnefici” e di eroi e, quel che è peggio, i popolani di Napoli, da allora, sono diventati per sempre “lazzaroni”, camorristi, plebaglia, ignoranti, selvaggi assetati di sangue. Napoli, i Borbone e il Sud tutt’intero, da quel 1799, si sono sempre portati dietro la fama di oscurantisti, retrivi, reazionari sulla quale i “liberali” del Nord avrebbero innalzato le ragioni per poter occupare, devastare, derubare il più antico, illustre, colto, bello e ricco stato italiano e annetterlo come provincia per sempre sottosviluppata alla corona di uno staterello di frontiera che aveva la presunzione di diventare potenza internazionale e che ci riuscì.
La storia del secolo successivo, fino all’annessione del 1860 e alla disperata ma instancabile rivolta popolare contro il nuovo Stato, a cui è stato affibbiato il marchio infamante di “brigantaggio”, non è spiegabile, così come ce la vogliono raccontare, senza quel 1799 che diede alle idee già iscritte nel codice genetico della riforma protestante e partorite fra le doglie della rivoluzione forse il più grande smacco della loro folgorante avanzata in Europa.
In Italia, il Regno di Napoli fu l’unico stato a non soccombere all’Armata francese e a liberarsi dai giacobini venuti d’oltralpe, e da quelli (pochi) di casa sua, con le sue sole forze e, soprattutto, grazie ad una sollevazione corale del suo popolo. Furono i più umili, i più poveri, senza organizzazione, con pochissime armi, a tener testa alla più formidabile macchina da guerra che fosse stata mai concepita fino a quel tempo. Alla «Nazione in armi» si contrappose una nazione di gente scalza e affamata che si batteva sotto una bandiera bianca con il segno della Croce e, come ai tempi antichi, con il motto «In hoc signo vinces».
Della storia di quell’epopea (vista dall’altra parte) ci campano ancora istituzioni sovvenzionate dallo Stato, cattedratici e sedicenti filosofi che passano per mecenati distribuendo il danaro pubblico a intellettuali disoccupati. Convegni, seminari, libri a profusione, articoli su riviste specializzate e sui giornali a larga diffusione. Celebrazioni, feste e mostre perpetuano l’idea di un grande evento che un “fato crudele” volle soffocare ma che seppe risorgere affrancando dalle catene dell’oscurantismo le genti d’Italia.
Dalla parte della storia vera, che non è guidata né dal fato né dal caso (il “caso”, diceva uno scrittore, è la Provvidenza degli imbecilli), gli avvenimenti così come si svolsero in quel 1799 non sono arrivati a noi se non in poche cronache estemporanee, e non perché non ci fossero validi scrittori per redigerle ma perché quel «mostro sanguinario» di Ferdinando IV, finita la bufera, per espressa disposizione, vietò la pubblicazione di qualsiasi opera riguardante la Repubblica napoletana e i suoi esiti. «Il Re avrebbe voluto stendere il velo dell’oblio su una vicenda che, seppur vittoriosa, considerava legata agli eccessi di una guerra fratricida e il cui ricordo non avrebbe fatto altro che rinfocolare rancori nefasti».
La libertà secondo i francesi
L’avanzata delle armate “giacobine” in Italia aveva lo scopo di distogliere l’attenzione del popolo francese dalla disastrosa situazione in cui si trovata la Repubblica dopo dieci anni di rivoluzione (la popolazione che nel 1788 era di ventotto milioni di popolazione che nel 1788 era di ventotto milioni di abitanti, fra l’altro, s’era quasi dimezzata) impiegando utilmente quello sterminato «popolo in armi» allevato fra esecuzioni, massacri e stermini: in pratica tutta la gioventù dai 18 ai 25 anni. Il «popolo in armi» era l’eufemismo con cui veniva presentata la moderna “conquista” della coscrizione militare obbligatoria.
Da allora in poi, in forza dei “sacri principi dell’uguaglianza”, i governi potettero disporre di una sterminata massa di persone da usare come “carne da cannone” e, poiché, in nome degli altrettanto sacri doveri della fraternità, era in armi, appunto, tutta la nazione, non si fece più distinzione fra civili e soldati e le guerre diventarono massacri indiscriminati. Con l’esercito repubblicano, che presto fu comandato personalmente dal giovane Bonaparte, si chiude l’epoca delle guerre della Cristianità, combattute fra loro da professionisti.
Raramente, l’abbiamo visto, nelle battaglie del passato, venivano coinvolte le popolazioni civili e le città, prudentemente, si rinserravano nelle mura attendendo gli esiti dei combattimenti per prestare omaggio (opportunisticamente ma alquanto saggiamente) al vincitore giacché sapevano anche che, di norma, se si trattava dell’aggressore, costui, per ingraziarsi i nuovi sudditi, avrebbe conservato alle comunità gli antichi privilegi. Se si trattava invece dell’aggredito, immunità e privilegi sarebbero stati accresciuti. Le città che avevano amministratori più astuti mandavano emissari a spiare, sui campi di battaglia, come si mettevano le cose e, se era conveniente, si dichiaravano dalla parte preponderante issando le insegne del probabile vincitore. Naturalmente era anche questione di fortuna giacché non sempre i pronostici erano esatti. Ma se le cose andavano pel giusto verso, quella comunità era sicura di accaparrarsi la fortuna. In caso contrario, a meno di una grazia sovrana, c’era il pericolo di ritrovarsi saccheggiati, gravati di terribili riscatti o, alla men peggio, infeudati.
Anche in Italia, funzionò così fino a tutto il Settecento (le mura e le porte delle città cominciarono ad essere abbattute dopo l’unità d’Italia). Perciò quando si sente dire che, di fronte all’armata francese le popolazioni si sollevavano “bramose di libertà”, bisogna ricordarsi che, davanti a quell’invasione di cavallette (un numero così grande di soldati giovani a gagliardi non s’era mai visto prima quando i mercenari costavano cari e, in genere erano esperti veterani, e molti ufficiali e sottufficiali si portavano dietro mogli e famiglia), di fronte a quei fanatici che combattevano per la rivoluzione e soprattutto per rifarsi della povertà (gli era permesso di arraffare ai vinti tutto quel che potevano), la gente si affrettava ad arrendersi così come si arrendevano in fretta le scarse guarnigioni.
Il Direttorio repubblicano aveva fatto suo l’editto della Convenzione girondina che, decidendo l’esportazione della rivoluzione, dichiarava di accordare «fraternità e soccorso a tutti i popoli che vorranno ottenere la loro libertà». Le rese venivano quindi trattate, con entusiasmo, da quelli che, dopo essersi messi sul cappello una bella coccarda tricolore (francese: rossa, bianca e blu), già ben indottrinati delle idee d’oltralpe, si ergevano a salvatori della patria, pronti a trarne benemerenze, cariche, stipendi e, naturalmente, riconoscenza dei cittadini salvati dal pericolo dell’invasione. Fu così nel Piemonte già sconfitto, in Lombardia, in Emilia e nelle Romagne che eran Legazioni del Papa, nelle Marche e via di seguito. Solo più tardi, ma abbastanza in fretta, quella gente cominciò a capire dove andava a parare quella libertà: tasse esorbitanti per pagare le spese di guerra e per rinsanguare le esauste casse francesi, sottomissione spietata alle leggi rivoluzionarie, persecuzione del clero e dei dissidenti, scristianizzazione, furto di tutte le opere d’arte destinate ad abbellire la patria dei vincitori.
Nel 1798, al Generale Cherrer, che aveva sostituito Napoleone a capo dell’Armata d’Italia, il Direttorio esecutivo mandava da Parigi l'”Istruzione” che vale la pena, qui, di riportare per intero, in una traduzione del tempo “non autorizzata”:
«L’importante Commissione che vi affida la Patria, Cittadino Generale, non tende a niente meno che a rendere per l’avvenire la Repubblica Francese arbitra del destino delle Nazioni dell’Universo.
«Sin dal momento della caduta di Cartagine, previde Roma la conquista dell’Oriente; nella totale sommessione dell’Italia sono compresi li nuovi trionfi riservati all ‘eroismo della gran Nazione dalla forza insuperabile del destino.
«Li soldati che andate voi a comandare contano le vittorie dal numero delle battaglie che han date, non è permesso dubitare per un solo momento del felice successo delle nostre armi: continuate intanto ad incoraggiare le truppe con tutti quei modi propri, e condurle a de ‘ nuovi trionfi. Le provincie e le Città da sottomettersi abbondano di tutto; Elleno vi offrono degli innumerevoli mezzi per ricompensare li pericoli e le fatiche dei soldati della Repubblica, e noi ve ne facciamo un dovere di servirvene in nome della Patria.
«Ma non basta, che li Tedeschi siano scacciati dal suolo italiano, è necessario trarre da quella bella parte d’Europa tutto il possibile vantaggio, per l’ingrandimento ulteriore della Repubblica. «La Francia non ha bisogno di braccia forestiere per soggiogare li suoi nemici, ma ha ella bisogno delle ricchezze dei popoli vinti. Li figli della gran nazione non devono occuparsi che di fare la guerra, e di comandare, tocca alle Nazioni conquistate il mantenerli e obbedire.
«Il Direttorio Esecutivo ha giudicato necessario fin d’ora di tener nascosto il vastissimo oggetto che s’era proposto, e di abbagliare le teste italiane col fantasma della Sovranità e dell’indipendenza nazionale: quest ‘idea seducente, secondata da persone ambiziose ed avide di questo paese, ebbe tutta quella riuscita che conveniva ai nostri interessi: sedici milioni di uomini furono sottomessi da un numero di combattenti che si poteva chiamare corpo di volontari piuttosto che armate.
«Li monumenti delle Arti e delle scienze che decorano questo paese ebbero una più nobile destinazione; essi sono venuti a decorare li vincitori li soli degni di possederli: l’oro e l’argento di cui l’Italia abbondava fu tutto versato nelle Casse delle nostre armate. Fosse stato possibile di impiegarlo tutto in ricompense, o a riempire il vuoto del tesoro nazionale; ma convenne prodigalizzare a corrompere gli amministratori dei differenti stati a stipendiare li faziosi, gli allarmisti, gli spioni, e presso li forestieri, gli entusiasti apostoli dei nostri principi
«Un tal sistema, utile per le circostanze del momento, deve cessare subito che le Truppe Austriache saranno scacciate da quel cantone d’Italia che la generosità Francese ha voluto credergli, e il nostro Governo deve ritirare dei più solidi frutti da un così prezioso stabilimento.
« Voi siete quello, Cittadino Generale, che il Direttorio Esecutivo ha scielto, per organizzare il governo politico d’Italia, di cui voi siete destinato a terminare la conquista.
Crediamo inutile di ricordarvi che la Repubblica Francese essendo unita, tutte le Repubbliche Italiane infantate, e tollerate a causa soltanto dell’imperiosità delle circostanze, devono sparire. L’esistenza dei vinti non consiste che in una tranquilla servitù, e non devono conoscere altre leggi, che quelle che gli verran dettate dal conquistatore.
«Il Direttorio si riserva a far decidere con più maturità la futura sorte di queste Provincie, e frattanto voi stabilirete, Citt. Generale, in tutte le Città un Governatore, tratto dal seno dell ‘Armata, che sarà Capo del Corpo Politico, che voi istituirete di una municipalità, e di una commissione economica. Dipenderanno dalla prima la giudicatura Civile, e Criminale come pure l’amministrazione particolare di cadauna Città, e distretti, quella degli Ospitali, delle fabbriche pubbliche, e cose simili; apparterrà alla seconda l’esazione delle imposte, e il maneggio di esse, in conformità degli ordini che riceverà dal Direttorio.
«Li membri delle rispettive municipalità saranno scielti dai Cittadini del Paese, li più ricchi, e li più onesti, e sopra tutto ragionevoli abbastanza per conoscere che la loro felicità dipende dalla pronta obbedienza alle leggi del più forte. Vi si commette precisamente di non lasciar entrar in quegli onorevoli impieghi alcuno di quegli esseri immorali che colla loro ambizione secondarono li nostri progetti, o mostrarono un ‘inclinazione di opprimere e di arricchirsi.
«Da uomini di tal fatta la Repub. non può aspettarsi una miglior condotta di quella che hanno essi tenuta per li suoi interessi verso i loro concittadini: il lasciarli in posto non potrebbe che disonorare il nome Franc. ch ‘essi soli han reso odioso ai deboli italiani.
«Questo colpo d’Autorità così necessario alla tranquillità e all’economia pubblica e che ridona alle arti e ai mestieri dei loro padri una folla di scellerati che s’impinguavano del Patrimonio Pubblico non mancherà di formare dei malcontenti, ma voi sapreste contenerli col rigore, e questa misura sarà altrettanto più utile quanto che ella ci concilierà la stima di quelli, che vendicati degli insulti sofferti riputarono finora tal razza d’Uomini dispregievoli. «Nella Commissione economica dovranno essere ammessi li soli Cittadini Francesi. Fate in maniera che cada la scelta sopra degli uomini degni della pubblica fede, poiché è stata finora ingannata di troppo.
«Sopprimete al più presto le così dette Guardie Civiche, e legioni Nazionali; Soffocate nei cuori italiani qualche scintilla di ardor marziale. La Romana Potenza si è indebolita subito che ha permesso ai Forestieri l’uso dell ‘armi. Approfittiamo de ‘ suoi errori dopo di avere offuscato lo splendore de ‘ suoi esempi. L’agricoltura, il commercio, le arti, sono le sole professioni che voi dovete incoraggiare in una Provincia soggiogata, destinata a nudrire li suoi Padroni, e ad esserne il granaio.
«Abbandonate in conseguenza a loro stessi li letterati e le scientifiche istituzioni, affine di ottenerne senza violenza, e senza una scossa sensibile l’annichillamento. La scienza deve essere esclusivamente riservata ai soli Cittadini Francesi come lo era ella in Egitto ai Sacerdoti di Memfi, e di Heliopoli. Nel mentre che cercherete voi di umiliare i sapienti classe inutile per lo meno, se anche non sia pericolosa in un Popolo destinato a obbedire, vi darete tutta la cura possibile per onorare, e premiare l’industria, e gli uomini, che coltivando le Arti, e l Agricoltura somministrano alla Repubblica colle produzioni della terra, e con l’argento che ne ritraggono al di fuori li mezzi di mantenere, e di estendere il dominio.
«La mollezza, e il lusso non mancheranno d’introdurli in una nazione esclusa dall’esercizio delle armi, e delle scienze sublimi, che coltiva un suolo fertilissimo. Sarebbe impolitico se non fosse ancora impossibile il pretendere dei costumi austeri dagli abitatori dell ‘Italia. È perciò che in luogo di arrestare l’amore dei piaceri, e dei divertimenti voi dovete proteggerli, ed eccitarli, affine di disporre gli spiriti dal peso della dipendenza, e per renderli sempre più impotenti a tentare delle novità. Per domare le Città della Grecia, e dell ‘Asia, che soffrivano con l’impazienza di essere state private della lor libertà, e sempre pronte a una rivolta, li Sovrani dell’Oriente non trovarono miglior mezzo che quello d’immergerli nei piaceri con spettacoli magnifici, con sontuosi festini, e con amori li più sregolati. Questo regolamento pieno di saggezza riescirà assai più facile per noi che dobbiamo impiegarlo con dei popoli avviliti dall’ozio, da una lunga pace, e molto più dall ‘infingardaggine de ‘ loro imbecilli Governatori, che abbiamo abbattuti.
«Qualunque sia il numero dei Capi d’Opera delle Arti, e delle Scienze trasportati dall ‘Italia nel seno della Repubblica; è certo che esiste ancora colà tanto nei luoghi pubblici, quanto nelle Case dei particolari una quantità enorme di Quadri, di Statue, di Libri, e di Medaglie, vi si trovano ancora delle collezioni di ogni specie di vasi di urne, di colonne, e di obelischi, oggetti preziosi in ogni senso, e molto propri a far preponderare sopra tutte le altre quella Nazione che li possiede. Ella è una massima del Direttorio, che questi monumenti passino un poco per volta sotto nome di dono, o di tributo a nobilitare la Repubblica e verrà rimarcata come una luminosa prova della vostra desterità. Cittadino Generale, se persuaderete gli Italiani a farne una volontaria cessione, che non si lascerà di esigere colla forza nel caso che non vi resti altro mezzo per ottenerlo.
«Nello scrupoloso adempimento della delicata commissione che vi si affida, e sta appoggiata la grandezza della vostra Patria, voi non potete rinunziare alla gloria di avere in un grado così eminente ben meritato di essa.
«Salute e Considerazione».
Del tutto ignorata dalla storiografia “ufficiale”, di questo periodo, è l’opposizione eroica e disperata che si ebbe, soprattutto nelle Legazioni pontificie, per opera dei cosiddetti “insorgenti”, persone di tutte le classi sociali che prese le armi quando, sopportata ogni vessazione, si ribellarono alla violenta scristianizzazione dei loro paesi. Si tratta di una “storia minore”, seppellita sotto la greve rettorica risorgimentale, che solo adesso, pochi coraggiosi stanno scrivendo.
Di fatto, l’avanzata di Bonaparte fu rapidissima. Cominciata con la sua nomina a capo dell'”esercito d’Italia”, il 12 di ventoso del l’anno IV della Rivoluzione (2 marzo 1796), l’armata dilaga in Piemonte, il 14 maggio arriva già a Milano e l’8 settembre si spinge fino a Bassano. Il 31 dicembre fonda la Repubblica cispadana. Intanto ha avuto il tempo di “legalizzare” con un bel trattato, l’occupazione della Savoia, di Nizza e di altre coserelle del Re di Sardegna, attuata già dal 1793. Scende verso gli stati del Papa e, con il trattato di Tolentino, Napoleone legalizza anche la già consumata annessione, alla Francia, di Avignone e del Contado venassino. In Italia fonda la Repubblica cisalpina dove, a Reggio Emilia, nasce il tricolore italiano, a bande orizzontali, rossa, bianca e verde (tanto per non confondersi con quello francese) e scialo di fasci littori, cannoni, bandiere, tamburi, serti d’alloro al centro. Il 5 febbraio 1798 l’esercito francese comandato dal Generale Berthiet entra a Roma e, dopo 10 giorni viene proclamata la Repubblica romana. Dopo altri cinque giorni, per ordine di Napoleone, Pio VI è rapito dal Vaticano.
Il Cittadino Bonaparte, intanto, lasciato il comando dell’Armata d’Italia, è tornato in Francia ed è salpato per la spedizione d’Egitto. L’11 giugno occupa Malta, isola sottoposta al Re di Napoli, e minaccia la Sicilia. Il popolo è già in fermento per le notizie che vengono dal confine. Una lega si forma fra Ferdinando IV, Francesco II d’Austria, l’Imperatore di Russia Paolo I, l’Inghilterra e la “Sublime Porta” (come si denominava l’Impero Ottomano) direttamente minacciata nei suoi possedimenti africani: ma, a parte la novità dei turchi che combattono a fianco ai cristiani, si tratta, al momento, di poche forze raccogliticce. Fra di loro, la maggior parte dei napoletani non avevano mai vista una guerra in vita loro. Il 23 novembre, Ferdinando varca la frontiera pontificia e punta direttamente su Roma mentre gli alleati prendono direzioni diverse. Il 29 successivo il Re di Napoli e di Sicilia entra nella città papale abbandonata in fretta dai francesi che però, riorganizzatisi e battuti gli alleati, ritornarono sulle posizioni perdute e cominciano a dirigersi anche verso il Napoletano. Ferdinando, il 7 dicembre, dopo aver emanato un proclama ai napoletani invitandoli alla resistenza armata, lascia Roma e rientra nella capitale per organizzare la difesa del Regno. Ormai l’Armata d’Italia sta sciamando in Campania e dopo aver occupato Pontecorvo e Benevento, antichi possedimenti del Papa, dirige verso Napoli.
Comincia da questo momento l’epopea dei napoletani. Il 21 dicembre, mentre i giacobini locali già s’organizzano per accogliere degnamente i francesi e gli aristocratici si perdono in lunghissimi parlamentari su come venire a patti con gli invasori, i popolani, passandosi la voce, accorrono a frotte a Largo di Palazzo. «Affacciatomi al balcone, scrive Ferdinando nel suo diario, [ho] veduto un immenso popolo con una bandiera alla testa con un Cristo sopra». I napoletani più semplici hanno capito come stanno le cose: non c’è da fidarsi di «signure e cavaliere». Ormai gira la voce che il Re, senza possibilità di difesa, voglia mettere in salvo la corte nella seconda capitale, Palermo. I francesi sono alle porte della città. I popolani fremono e rumoreggiano: sono pronti a combattere contro i giacobini e, tanto per mostrare di cosa son capaci, linciano subito un povero commerciante francese scambiato per spia. Ferdinando dal balcone li invita a disperdersi e a starsene calmi. Le sue ultime raccomandazioni sono perché il popolo non opponga resistenza agli invasori e attenda fiducioso il suo riscatto: non vuole un bagno di sangue. La stessa notte sale sulla Vanguard, l’ammiraglia di Nelson che, con tutta la sua flotta, è nel golfo di Napoli. Mentre le navi s’allontanano, viene dato fuoco ai bastimenti da guerra in porto, che sono impossibilitati a salpare: i francesi non faranno bottino d’armi. Come al solito, si consoleranno con esosissime “contribuzioni” e con il saccheggio dei palazzi reali, dei forzieri, dei musei e delle biblioteche.
San Gennaro «traditore»
San Gennaro, dal tempo del Re Carlo, è iscritto ufficialmente nei ruoli militari col grado di Maresciallo generale comandante dell’Esercito napoletano. Il suo appannaggio viene versato regolarmente all’Arcivescovo che lo incamera nel Tesoro. Della devozione dei napoletani per colui che, dal Cielo, li protegge soprattutto dalle disastrose eruzioni del Vesuvio, sono state scritte biblioteche. Eppure, nella sua epopea liberatrice, il popolo arrivò a destituirlo, a “degradarlo” e ad eleggere, al suo posto, Sant’Antonio. È un episodio che sembrerebbe confermare la proverbiale superstizione dei popolani partenopei e che, invece, ne attesta la profondissima fede, oltre alla caparbietà. Se, nella Comunione dei Santi, essi non mettono in dubbio che il loro protettore possa disimpegnarsi a dirigere con onore l’esercito, di fronte a quello che considerano un voltafaccia, non esitano ad ammutinarsi levandogli il comando ed affidandolo ad un santo forestiero.
In effetti, è difficile, oggi, stabilire se il Cardinale Capece Zurlo fu timoroso dei francesi e dei giacobini locali o se volle, con paterna premura, far cessare la carneficina dei napoletani. Dalla partenza del Re fino al 21 giugno, quando fu proclamata la Repubblica, l’arrivo dei francesi procedette di concerto con la rivolta dei “lazzari”. Si dice che ne scesero in campo 60.000, sempre meglio armati di ciò che catturavano in battaglia al nemico o semplicemente di ciò che gli rubavano durante le tregue: verso la fine della rivolta disponevano di una dozzina di cannoni di grosso calibro. Ne morirono almeno 10.000. Le fucilazioni senza processo furono innumerevoli. Nonostante la mancanza di preparazione militare e di capi addestrati, seppero organizzarsi, con mogli, figli e nonni a far da sussistenza, per contrastare passo passo l’avanzata in città delle truppe francesi, per tendergli trappole nei vicoli, per metterle più volte in ritirata, per assaltare il forte di Sant’Elmo dove si era appostato il comando francese e dove poi si barricò il governo repubblicano. Il generale Championnet doveva ammettere, in una sua relazione al Direttorio, che «I lazzaroni, questi uomini meravigliosi… sono degli eroi… sono comandati da capi intrepidi. Il forte di S. Elmo li fulmina, la terribile baionetta li atterra, essi ripiegano, in ordine, tornano alla carica».
Le versioni del fatto di San Gennaro sono diverse: secondo alcuni, Championnet, per ingraziarsi i napoletani, si recò in cattedrale per un Te Deum di ringraziamento e volle gli fossero mostrate le ampolle col sangue del martire che, fuori dei tempi previsti, si liquefece. C’è chi dice che, anzi, minacciò di morte l’Arcivescovo se il miracolo non fosse avvenuto, tenendogli una pistola puntata addosso per tutta le cerimonia. Altri dicono che il Cardinale Capece Zurlo, per far cessare la carneficina, posticipò la notizia della liquefazione al momento della tregua mentre essa era avvenuta il 22 gennaio, proprio al culmine trionfale dell’insurrezione popolare. Come che stiano veramente i fatti, i napoletani, per questo sgarbo del santo che con il prodigio sembrava avvallare il nuovo governo, si elessero protettore e Generale in capo un forestiero, Sant’Antonio. Il fatto, poi, che l’Armata della Santa Fede arrivasse in città proprio il 13 di giugno, festa del taumaturgo portoghesepadovano, sembrò confermare che la scelta era stata appropriata.
La Repubblica e l’emancipazione femminile
Se i nobili e i borghesi che avevano aderito alla rivoluzione erano i nemici giurati per i “lazzari”, anche il clero fu additato fra coloro che simpatizzavano per i giacobini. In effetti, nel Regno, il clero che aderì al nuovo regime dovette essere scarsissimo se si tien conto che, fra duecento vescovi, solo dieci furono poi accusati di aver tenuto il sacco ai rivoluzionari o di aver assunto un atteggiamento conciliante. Il basso clero e i religiosi, se v’è una ragionevole proporzione, non dovettero essere molti di più. Ma sicuramente, come succede anche oggi, i preti e i frati “progressisti” sono quelli che si mettono più in mostra, ed anche allora, in confronto a quelli che si tennero umilmente in disparte, ve ne furono di quelli che, entusiasticamente, “si aprirono al dialogo”. Basterebbe, per tutti, citare il Vescovo di Vico Equense, Michele Natale, autore, fra l’altro, con il titolo di «Cittadino Presidente della Municipalità di Vico», di un Catechismo repubblicano per l’istruzione del popolo e la rovina dei tiranni. Questo prelato, che fu poi ridotto allo stato laicale e giustiziato dalle Giunte volute da Nelson, si mise a capo del direttorio rivoluzionario della sua città e si distinse, dicono, per lo zelo fiolfrancese. Fra i giustiziati, del resto, di ecclesiastici, oltre al Natale, ve ne furono sedici, fra cui alcuni spretati e un seminarista. Nella capitale, comunque, la condiscendenza del clero verso i vincitori (dettata probabilmente dalla prudenza) e l’aperta adesione di molti tonsurati al verbo repubblicano, fu più alta che altrove e, del resto, i francesi, avvisati della grande devozione dei napoletani, cercavano di coniugare il meglio possibile religione e rivoluzione. Di fatto, nella Certosa di San Martino ed in altri monasteri e conventi (si spera su insistenza degli ospiti francesi) si tennero “balli repubblicani” mescolando le note della Carmagnola con quelle della Tarantella per affratellare i conquistatori con i conquistati e, va da se, soprattutto con le conquistate. In fondo, ogni rivoluzione, alti quanto si voglia gli ideali, parte dall’istinto alquanto basso di liberarsi dalle convenzioni della morale, prima di tutto “emancipando” le donne.
Due donne “emancipate”, peraltro, restano le eroine della Repubblica napoletana, Eleonora Fonseca Pimentel e Luisa Sanfelice, ambedue più sfortunate che colpevoli, entrambe vittime delle conseguenze di sentimenti frustrati e mal orientati, una reagendo “ideologicamente” alle sue disgrazie, l’altra facendosi sopraffare da un annichilente vittimismo.
Vi è un antico proverbio spagnolo che dice: «Guardati da nobile poverino e da donna che sa di latino». Cosa c’è di peggio, infatti, di uno spiantato rancoroso col destino che l’ha privato delle fortune avite? e di una saccente sempre pronta a metter bocca in ogni cosa? Nel caso di Eleonora Fonseca Pimentel, quei due tipi umani si incontrarono quando, giovanissima, romantica, inquieta divoratrice di letteratura, sposò un altrettanto giovane capitano del Reggimento “Sannio”, Pasquale Tria de Solis. Strettezze finanziarie, debiti del marito, furti sulla sua dote, oppressione d’un nugolo di cognate zitelle: il matrimonio presto naufragò fra litigi clamorosi, le percosse e la tristezza d’un figlio perso in gravidanza. Eleonora tornò alla casa paterna e si circondò di amici frequentando i salotti letterari, presto conobbe i più famosi maîtreàpenser e ne condivise le idee con la devozione di una catecumena. Di qui alla Corte il salto fu breve. Maria Carolina, intenerita e intrigata da questa giovine poetessa, la fece sua bibliotecaria. La carriera fu fulminea: Eleonora si trasformò in perfetta cortigiana assecondando la Regina tanto nelle sue fisime di cultura e di spregiudicatezza quanto nei suoi languorosi vezzi arcadici. Complice di frivolezze e atti d’imperio, d’aperture alle nuove idee e d’inquietudini per il futuro, ne divenne la più intima delle confidenti. Insomma, una perfetta dama da salotto di quei tempi, senza ritegni verso le suggestioni più azzardate e pronta a infervorarsi nell’adulazione più smaccata della monarchia e del Re a cui dedicava, ahimè, sdolcinati e retorici componimenti poetici. Le amicizie pericolose, mentre in Francia ruggiva la rivoluzione, la coinvolsero nei “club”, nelle congiure, fino a portarla alla sbarra, nel 1794, con gli altri sospetti di simpatie giacobine, e ad essere condannata come sovversiva. Liberata dal carcere dai francesi, fu subito cooptata dai vecchi amici per il Direttorio della nascente Repubblica e redasse uno dei tanti fogli che fecero la loro apparizione durante quei cinque mesi, Il Monitore, uno dei giornali più estremisti, che non si faceva scrupolo, in nome degli ideali della rivoluzione, di calunniare (secondo la scuola volteriana) e di propagare notizie false sull’andamento delle operazioni belliche. Gli stessi componenti della giunta rivoluzionaria dovevano calmare i bollenti spiriti di questa menade giacobina e dovettero bocciare, perché giudicata prematura e impopolare, la sua proposta di introdurre il divorzio nella redigenda Costituzione. Frustrata anche nel suo rigore politico, si sfogò nelle contumelie più atroci contro il Re che, come i costituenti parigini chiamava “Ferdinando Capeto”, ma soprattutto contro la Regina, sconfessata amica del cuore, che definì «Rediviva Poppea, Tribade impura, d’imbecille tiranno empia consorte» attribuendogli ogni sorta di sconcezze, amori saffici e soprattutto un rapporto equivoco con l’ultima confidente di lei, la vulcanica Lady Hamilton, “ninfa egeria”, per così dire, dell’Ammiraglio Nelson. I suoi feroci articoli sul Monitore hanno alimentato i pettegolezzi più sguaiati degli antiborbonici di ogni tempo. Nelson non ne ebbe pietà e la consegnò ai giudici delle Giunte civili e militari che la condannarono all’impiccagione.
La storia di Luisa Sanfelice, tramandata da Dumas figlio, immaginifico e ben ricompensato cronista della fine del Regno, al seguito di Garibaldi, è solo un epico romanzo d’appendice ad uso dei patrioti liberali e delle patriote sentimentali. Del resto a quali fonti aveva potuto attingere per una storia accaduta sessant’anni prima? Tutt’oggi vi sono varie versioni delle vicende di quella poveretta. Tutte concordi però nel sottolineare la sua criminale leggerezza e la fine miseranda.
Di nobile famiglia, sposata ad un cugino, Luisa, che da ragazza faceva De Molines, nel ’99 aveva 35 anni e doveva essere alquanto piacente e del tutto spensierata se, incurante del marito, poteva tener salotto insieme a progressisti e reazionari mentre nelle strade si scannavano lazzari e francesi e un gruppo di lealisti preparava una congiura contro gli occupanti. Uno dei congiurati, Gerardo Baccher, innamorato della bella signora, le rivelò quel che stava lì lì per accadere e galantemente la fornì d’un salvacondotto. Ma Luisa, a sua volta, se ne vantò con un altro amante di fede giacobina che denunciò subito il complotto. Gerardo e i suoi due fratelli (uno di 14 anni) ed altri cospiratori furono fucilati. All’arrivo di Nelson, il padre dei Baccher denunciò la Sanfelice che fu prontamente condannata a morte. Destinata a diventare suo malgrado “madre della patria” per i giacobini d’ogni tempo, Luisa Sanfelice non accettò il ruolo di eroina e, con la compiacenza dei medici, non trovò di meglio che fingersi incinta. La nuora del Re se ne impietosì e Ferdinando le assegnò un sussidio in carcere fingendo di dimenticarsene. Ma dopo un anno il Baccher padre chiese conto di una gravidanza che ormai aveva una durata surreale, pretese fosse adempiuta la giustizia e Luisa dovette salire al patibolo.
Una storia disgraziata ed oscura con molte dimenticanze volute, compresa quella del compilatore della biografia della sventurata nell’ Enciclopedia italiana, “illustre” storico del Mezzogiorno che, dei fratelli Baccher e degli altri cospiratori, ci rammenta solo che «furono arrestati», come se il resto fosse irrilevante.
Del resto, la storia della Repubblica napoletana, che non ebbe un giorno di pace e che, solo a stare ai morti “ufficiali”, dovette essere un’interminabile massacro, viene raccontata solo come un’aurora di speranza il cui “sol dell’avvenire”, fermato inopinatamente dalla brutalità della plebaglia e della reazione, sarebbe finalmente risorto nel 1860. Nelle rivoluzioni ci sono sempre morit da dimenticare e morti da ricordare: le migliaia di esecuzioni “militari” non sono arrivate a noi né sono arrivate le innumerevoli esecuzioni “civili” ordinate dalla Repubblica. Il responsabile del tribunale repubblicano, il Capitano Antonio Velasco, dopo aver reso piena confessione del suo operato, non ebbe il coraggio di sottostare al giudizio e, mentre veniva tradotto di fronte alla Giunta, si suicidò lanciandosi da una finestra. L’unica numerazione, variabile a seconda della commozione patriottica del contabile di turno, è quella che riguarda, appunto, i “patrioti”, cioè i capi repubblicani condannati, per lo più, per lesa Maestà e tradimento, per reati da codice penale e, per quel che riguarda i militari, anche per diserzione, spionaggio e razzia.
La «furia sanguinaria e vendicativa» dei Borboni traditi, dopo l’entrata dell’Armata della Santa Fede a Napoli, fece un’«ecatombe di vittime innocenti», mise a morte «i più dotti e generosi uomini»: «tutta Vélite culturale del meridione d’Italia, una strage da cui il Mezzogiorno non s’è più ripreso moralmente e socialmente». Due lapidi sul Municipio di Napoli ricordano ancora le vittime, un po’ troppe: almeno diciotto in più. Lo stesso Giustino Fortunato, tessendo l’apologia dei repubblicani, riconosce che sedici di quei nomi appartengono a gente che non ha nulla a che vedere con le condanne delle giunte: uno è addirittura di un suicida.
Le condanne eseguite furono novantotto, una di meno se si considera Francesco Caracciolo, già capo della Regia Armata di mare che, tornato da Palermo dove aveva accompagnato il Re e dopo aver chiesto licenza «per affari personali», si diede ai francesi e divenne Direttore della marina repubblicana. Catturato da Nelson, fu immediatamente impiccato al pennone dell’ammiraglia.
Certamente i giustiziati, anche se molti di meno di quelli dei repubblicani, non furon pochi e Nelson, che ne pretese la morte, più che fare giustizia al Regno tradito, volle dimostrare la fermezza britannica: un chiaro messaggio alla Francia e a Napoleone che, indomito, dopo Abukir, scorrazzava spavaldamente per il Mediterraneo nonostante la batosta di Nelson.
Quando Fabrizio Ruffo entrò a Napoli, dopo aver trattato lungamente la capitolazione del Forte di Sant’Elmo, da cui francesi e repubblicani continuavano a mitragliare la folla, dichiarò di non voler fare vendetta delle scelleratezze commesse in quei cinque mesi e promise di comminare l’esilio a tutti quelli che avevano avuto parte nella rivoluzione e che si fossero arresi. Nelson arrivato nel golfo due giorni dopo, con tutta la sua temibile flotta e, nonostante le proteste del Cardinale, revocò l’amnistia e formò le Giunte di giustizia militari e civili con membri da lui scelti fra intransigenti magistrati siciliani e generali austriaci.
Tutta la potenza britannica, decisa come non mai a farla finita con questi esaltati del continente che, con le loro rivoluzioni, disturbavano i traffici mercantili, era sotto gli occhi degli alleati russi, austriaci e turchi. Ferdinando non fu nemmeno interpellato e dovette accettare le decisioni di Nelson. Gli inglesi, del resto, avevano un metodo infallibile di persuasione: i cannoni delle loro fregate. Puntati sulla città, erano un argomento che più eloquente non si può e che, senza il minimo di fairplay, fu usato puntualmente fino a che Napoli, l’Italia e l’Europa intera misero testa a partito e diventarono come piaceva a loro.
In quanto al Re, come si dimostrò dalla grande amnistia che, due anni dopo, mise in libertà tutti i detenuti (222 condannati a vita e 355 a pene temporanee, oltre quel che abbiamo detto sull'”oblio” della guerra fratricida) e riammise nel Regno tutti gli esiliati, la sua opinione, tirata poi a destra e a manca, era, nonostante i tentennamenti, gli scrupoli, i risentimenti e le richieste di giustizia del popolo napoletano, la stessa del Cardinale Ruffo: clemenza e perdono ove possibile per ristabilire presto la pace. Lo apprendiamo da una lettera di Maria Carolina che, evidentemente, rispecchia il pensiero del Re e che, forse per una svista, pubblicò il Fortunato. «Per i rei di Stato, scriveva la Regina al porporato, il metodo preso è intieramente contro il mio parere. Io volevo una Giustizia sollecita, subitanea, pronta, per incutere timore; e veramente i capi sono troppo noti per aver bisogno d’altro: indi, con tutti i mezzi d’imbarco nel porto, prendere tutti gli scrittori municipalisti, organizzatori, capi della capitale, e depositarli in Francia; e agli altri perdono».
In ogni caso, è opportuno precisare qual era l’«élite culturale» che fu mandata a morte «spegnendo per sempre ogni possibilità di elevazione culturale e sociale del Mezzogiorno». Gli ecclesiastici giustiziati, dopo essere stati ridotti allo stato laicale, furono diciassette. Di loro, secondo Fortunato, quattro erano docenti universitari ed uno dell’Accademia di Marina. Del sacerdote Domenico Vincenzo Troisi si conosce qualche trascorso: “Moderatore” della “Sala dell’istruzione repubblicana”, aveva, tra l’altro, sostenuto «potersi dai preti contrarre matrimonio e non vi è bisogno della benedizione del Parroco, che egli caratterizzava come una semplice accessione al contratto». I nobili, senza altra qualifica, furono dieci, fra i quali la Pimentel e la Sanfelice. Fra di loro meritano attenzione il Conte di Ruvo Ettore Carafa e Don Gennaro Serra dei Duchi di Cassano.
Inviato con le truppe francesi a ridurre alla ragione le città lealiste della Puglia, ecco cosa dice l’insospettabile Cuoco di Ettore Carafa: «ma egli abusò della sua forza. Prese settemila ducati che trasportava il corriere pubblico e che avrebbero dovuti esser sagri; e quando gliene fu chiesto conto, non potette dimostrare che fossero degl’insorgenti. Il troppo zelo di punir questi forse lo ingannò! Non seppe distinguere gli amici dagl’inimici ed, ove si trattava d’imposizioni, la condizione dei primi non fu migliore di quella dei secondi. Bari, in una provincia tutta insorta, avea fatti prodigi per difendersi. Quando egli vi giunse, dovette liberarla da un assedio strettissimo, che sosteneva da quarantacinque giorni: vi entra e, come se fosse una città nemica, le impone una contribuzione di quarantamila ducati. La stessa condotta tenne in Conversano cui, ad onta di esser stata assediata dagl’insorgenti, impose la contribuzione di ottomila ducati. Nella provincia di Bari non vi restò un paio di fibbie d’argento. Tutto fu dato per pagar le contribuzioni imposte». Precedentemente il Carafa aveva distrutto «la formidabile insorgenza di Sansevero» e, prima di mettere a ferro e fuoco Trani, prese Andria, feudo della sua famiglia. Qui, fra l’altro, saccheggiò la cattedrale e diede alle fiamme l’intero archivio vescovile distruggendo per sempre la memoria storica di quella città. Ad Ettore Carafa, dopo una piazza, l’amministrazione comunale di Andria ha intitolato recentemente anche una scuola.
Gennaro Serra, di 27 anni, era il rampollo di una antichissima casata calabrese. Pieno d’ardore giovanile, seguì le truppe francesi. Morì, senza capire perché il popolo applaudisse al Re invece che a lui «che ne aveva voluto il bene», gettando nello sconforto la madre che, lasciato per sempre il palazzo napoletano, se ne tornò in Calabria. Lì, il capo della famiglia, ignaro delle gesta di Gennaro, al passaggio della Santa Fede, aveva allestito un ospedale nel suo palazzo di Cassano assistendo oltre duecento feriti. Il portone di Palazzo dei Duchi Serra di Cassano, restato da allora sempre chiuso (ma solo perché la famiglia non tornò più a Napoli e lo vendette), divenne un simbolo per ogni nostalgico rivoluzionario.
I militari, tutti ufficiali, fra cui l’Ammiraglio Caracciolo e due famigerati generali, Federici e Matera, furono diciotto, tutti accusati di alto tradimento, diserzione e passaggio al nemico. I magistrati tre, i docenti universitari sei, fra i quali Mario Pagano e Domenico Cirillo, noti framassoni ma più noti per aver redatto la costituzione repubblicana. Fra i ventisei professionisti, naturalmente, spiccavano venti avvocati, la categoria più numerosa, poi due notai e quattro medici. Cinque erano gli impiegati e cinque gli uomini d’affari e i commercianti, un orologiaio, un maestro di scherma, due studenti di medicina, due giovanotti senza mestiere e due «letterati», Ignazio Ciaja e Giacomo Antonio Gualzetti (quest’ultimo «poeta») dei quali, però, non si conosce opera alcuna.
fonte
https://www.eleaml.org/sud/storia/storia_del_sud_vista_dal_sud.html#NATO