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RICCARDO MUTI, NAPOLI E FIRENZE

Posted by on Giu 8, 2024

RICCARDO MUTI, NAPOLI E FIRENZE

Fra i tanti filoni in cui, in oltre mezzo secolo di attività, l’arte di Riccardo Muti si è dispiegata, quello relativo alla scuola napoletana è particolarmente caro al Maestro, che nel capoluogo campano è nato e nel Conservatorio di San Pietro a Majella ha studiato; in più, la prima opera in assoluto che ha diretto è stata – nel 1967, al Teatro dell’Arte di Milano, L’osteria di Marechiaro di Paisiello, con un’orchestra formata da studenti e professori di quel Conservatorio di Milano, dove si era appena diplomato (e nel cast, tra l’altro, figurava, nei panni di Lesbina, colei che sarebbe diventata sua moglie, Cristina Mazzavillani).

Non stupisce, quindi, che nei cinque anni (2007-2011) di direzione artistica del salisburghese Festival di Pentecoste, il focus musicale sia stato proprio la riscoperta di titoli poco o punto noti della scuola napoletana, partendo da Il ritorno di Don Calandrino di Cimarosa per finire con I due Figaro di Mercadante, passando per Paisiello e Jommelli, esplorando sia la produzione sacra che quella teatrale. Coprodotti con Ravenna Festival, alcuni di quegli spettacoli hanno avuto una riproposizione in Romagna, e da essi, grazie alla Riccardo Muti Music, sono ora stati tratti tre DVD, raccolti in cofanetto, dedicati alle due versioni della metastasiana Betulia liberata, quella di Jommelli (realizzata in forma di concerto) e quella di Mozart (allestita con scene e costumi), nonchè alla sorprendente Missa defunctorum di Paisiello. Ecco quindi che l’incontro con il Maestro, svoltosi all’inizio di gennaio dopo il successo del Concerto di Capodanno viennese (« ho scoperto molte cose sulle varie tradizioni di suonare la Zither », mi confida), verte essenzialmente su questo argomento; pur non trascurando di parlare di un’altra importante iniziativa editoriale, Maggio Live, cui abbiamo già dedicato ampie anticipazioni nel numero scorso, e che debutta ora con la prima pubblicazione, I Puritani di Bellini, tratta dalle mitiche recite fiorentine del dicembre 1970.

Ma cosa si intende per scuola napoletana? Che ambiti temporali possiamo stabilire?
Generalmente con questa espressione ci si riferisce al Settecento e ai quattro grandi collegi musicali operanti in città e risalenti al ’500 (Santa Maria di Loreto, la Pietà dei Turchini, i Poveri di Gesù Cristo e Sant’Onofrio a Capuana), che nel 1808 confluiscono nel Conservatorio di San Pietro a Majella; al loro interno operavano insegnanti come Durante e Porpora, in un fiorire di musicisti che è passato per Cimarosa, Paisiello, Traetta, Pergolesi, Piccinni e tanti altri fino a Mercadante. Questo grande gruppo di operisti e autori di musica strumentale (non dimentichiamo che strumenti come l’oboe e il fagotto hanno ricevuto un forte sviluppo tecnico grazie a musicisti di quell’epoca) rappresenta ciò che si intende come « scuola napoletana ». Quindi il ‘700: ma prima c’era stato il « padre » della musica europea (quanto Bach, se non di più ), ossia Alessandro Scarlatti, che ha allargato la propria influenza su tutta l’Europa. Questa scuola era così prestigiosa anche all’estero che Mozart, quando fece il suo primo viaggio in Italia, ebbe come obiettivo essere riconosciuto a Napoli come un grande talento. E a Napoli conobbe Jommelli, per la cui Didone scrisse alcune arie.

E possiamo spingerci fino a Rossini, Donizetti e Bellini nel primo ’800…
Sicuramente: il San Carlo, definito da Stendhal il più bel teatro del mondo, aveva un’orchestra considerata tra le più virtuose d’Europa. Rossini ne fu direttore artistico dal 1815 al 1822, e Donizetti nei 16 anni successivi: un grande patrimonio che, da solo, costituisce una cassaforte che il teatro dovrebbe valorizzare per sottolinearne la sua gloriosa storia. I rapporti tra Napoli e Vienna erano strettissimi, non solo per la presenza di Maria Carolina, moglie del re di Napoli e figlia di Maria Teresa, che diede grande impulso alle arti a Napoli: Porpora, attivo a Vienna, veniva considerato da Haydn il suo insegnante più importante e il suo Salve Regina (da me diretto persino nella Cappella Sistina con Angelika Kirchschlager) prefigura la « melodia infinita» belliniana. Nell’800 a Napoli opera una figura-chiave come Thalberg, la cui scuola
produrrà Sigismondo Cesi e Giuseppe Martucci, che per primo diresse in città (grazie ad un mecenate che rese possibile la formazione dell’orchestra) le Sinfonie di Brahms e Beethoven.

Sul versante sacro, la musica settecentesca italiana aveva come due poli principali gli stilemi di derivazione operistica oppure le formule contrappuntistiche più severe di stampo palestriniano, tanto che perfino Papa Benedetto XIV intervenne in merito; nella Missa defunctorum di Paisiello, però, vediamo una certa difformità dallo stile canonico, con responsori in forma di mottetto, unoscarso uso del contrappunto. Qual è, secondo lei, la posizione stilistica del repertorio sacro napoletano?
Si tratta di una partitura – quella di Paisiello – molto originale anche a livello strumentale, con doppio coro e doppia orchestra, e che non possiede quel colore cupo e tragico che appartiene alle Messe d’oltralpe, proprio come accade nella pittura: i quadri napoletani del ’700 hanno, anche nel dolore, una specie di lieve sorriso, quasi una tenerezza estranea, invece, all’arte tedesca. C’è un approccio mediterraneo verso la morte: essa viene quasi personificata, attiva, dialogante, per cui le parole assumono un senso drammatico, tragico e non hanno bisogno di un supporto contrappuntistico, ma di una liricità che non va intesa come operaticità (anche Rossini e Verdi furono fraintesi per questo) ma come abbandono al canto puro, che ne esalti il senso profondo, partendo dagli elementi più semplici: cum parvis componere magna.

Quali scelte filologiche ed organologiche ha compiuto per questo repertorio, all’atto esecutivo?
Per farle capire come intendo il Barocco, praticamente, la invito a riascoltare la mia incisione della Musica sull’acqua di Handel, che realizzai oltre trent’anni fa con i Berliner Philharmoniker: se c’è un’orchestra che può sembrare all’opposto del mondo barocco è proprio quella, eppure credo si tratti di un buon risultato. Avevo studiato libri di prassi esecutiva dell’epoca, e avevo applicato a strumenti di oggi un modo di suonare adatto a quel repertorio, cercando di ricreare un mondo sonoro che comunque non esiste più e di cui non abbiamo evidenze concrete. Possiamo informarci tramite documenti, l’iconografia: ma non si può resuscitare un cadavere. Non è vero che applicando determinate regole – dal non vibrato alle corde di budello, dall’archetto diverso agli accenti esasperati – si ricrei un mondo finito e scomparso. La conseguenza negativa è che le grandi orchestre sinfoniche oggi tendono a tenersi lontano da questo repertorio. Non è neppure una questione di numero di musicisti. A una delle prime esecuzioni della Creazione di Haydn diretta da Salierigli esecutori furono 1000, come si rileva dai documenti di pagamento conservati all’archivio del Musikverein. Sta tutto nel modo, non nella quantità o nel tipo di strumenti.

Quindi dirigerebbe le Passioni di Bach?
Certo; d’altronde ho già eseguito, tra l’altro, la Messa in si minore. Questa musica oggi è divenuta «proprietà» dei cosiddetti specialisti. Un processo nato come giusta reazione alle esagerazioni tardo-romantiche in stile Stokowski: non si può eseguire la Jupiter di Mozart con le sonorità della Quarta sinfonia di Bruckner. La consapevolezza stilistica è la base di una buona esecuzione: per esempio, in Jommelli ho scelto il falsettista Antonio Giovannini per ricreare una vocalità di contraltista oggi perduta, quella dei castrati, che erano anche musicisti completi e persino compositori. Farinelli e Caffarelli erano talmente importanti da avere addirittura poteri politici: quando quest’ultimo si ritirò e tornò a Napoli, costruì una casa principesca (oggi distrutta) nel quartiere della Pignasecca. Come racconta Benedetto Croce, per sottolineare
la sua dignità principesca Caffarelli fece scrivere su un muro « Amphion Thebas, ego domum », ossia Anfione costruì (cantando) Tebe, io (con la mia voce) questa casa. Un ego non da poco! E anni dopo una mano anonima – ma geniale – aggiunse «ille cum, tu sine»: ossia «lui con… gli attributi, tu senza». Questo per dire l’inventiva dei napoletani!

Veniamo ora alle due Betulie. L’atteggiamento di Leopold Mozart verso Jommelli sembra ambivalente, fortemente critico in Germania e più condiscendente quando si incontrano a Napoli: e anche Wolfgang non è tenero verso la musica dell’italiano, che definisce bella ma antiquata, prevedibile. Qual è secondo lei la differenza principale fra le due partiture? Cosa prende Mozart dalla scuola napoletana?
Mozart assorbe gli influssi più diversi e li tramuta in qualcosa di nuovo, originale, unico: pensi che, quando chiesero a Rossini chi fosse il più grande musicista, egli rispose Beethoven. All’obiezione dell’interlocutore («E Mozart?»), il Pesarese aggiunse «Mozart è al di sopra». La sua Betulia è l’opera di un ragazzo, ma straordinaria, con una teatralità di derivazione oratoriale eppure perfettamente compiuta, una caratterizzazione dei personaggi davvero raffinata: non farei un paragone con l’oratorio di Jommelli, che è molto ancorato al virtuosismo dei cantanti – tutte le arie vedono un’ampia presenza della coloratura, cui vanno aggiunte le variazioni estemporanee che venivano inserite, nonchè ampie introduzioni orchestrali. Jommelli non è Paisiello, non è Cimarosa: è più severo, più accademico. Mozart, invece, non è mai accademico, anche nei pezzi di maniera c’è il guizzo della genialità; in Jommelli invece c’è il mestiere, come accade anche in Mercadante, tanto che quando ho diretto I due Figaro –opera strepitosa – io che non amo amputarele partiture ho ritenuto necessario, in questo caso, alleggerire molti brani, ripetitivi fino a diventare ossessivi. Ho deciso di unire Paisiello, Jommelli e Mozart sotto lo stemma della scuola napoletana per enfatizzare l’importanza che essa ha avuto sul Salisburghese, che era spesso molto severo e acido verso gli altri compositori, ma che fin da ragazzo avvertì la necessità che la capitale europea della musica riconoscesse il suo genio. E anche Da Ponte, «compagno di viaggio» di Mozart, aveva grande rispetto di Paisiello e Cimarosa. Jommelli non ha la verve di quest’ultimo, o l’invenzione melodica del primo, ma ha un senso sinfonico – le già ricordate introduzioni alle arie – e un trattamento dell’orchestra che vanno ben oltre il suo tempo.

Chissà che Mozart non se ne sia ricordato più tardi, ad esempio nell’introduzione dell’aria di Konstanze…
Credo di sì, potrebbe essere un omaggio: anche gli oratori di Scarlatti vedono l’orchestra in primissimo piano, con uno spessore forte, che muterà in compositori come meno con Bellini e Donizetti. A questo punto le strade del sinfonismo europeo e dell’opera italiana divergeranno del tutto.

Forse saprà che negli ultimi mesi si è diffusa una tesi delirante che, riprendendo vecchie discussioni legate alla figura di Andrea Luchesi, negherebbe a Mozart la paternità di molte sue opere: la Betulia, in particolare, sarebbe di tal Calegari oppure di Myslivecˇek!
Non sono a conoscenza di queste tesi, ma non v’è dubbio che nella Betulia liberata si riconosca il genio precoce di Mozart. […]

Nicola Cattò, Musica, Febbraio 2018

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fonte

riccardomutimusic.com

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