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RICORDI E APPUNTI DI ANIELLO GIANNI MORRA (XIII)

Posted by on Ago 3, 2023

RICORDI E APPUNTI DI ANIELLO GIANNI MORRA (XIII)

Il cibo e la nostra tradizione

Oggi sarebbe sempre più auspicabile seguire le nostre antiche abitudini alimentari, soprattutto dopo l’avvento dei grandi supermercati, che spingono all’acquisto di cibi industriali e conservati. 

Il sommo Ippocrate (460 a.C., medico dell’antica Grecia, in   nome del quale i giovani medici giurano di seguirne le orme) a proposito del cibo diceva: “Fà che il Cibo sia la tu a Medicina e che la Medicina sia il tuo Cibo”.

Da questa affermazione si deduce che il cibo deve essere un nutrimento utile a mantenere l’individuo in buona salute. Oggi, spesso se ne fa abuso, portando le persone in sovrappeso o addirittura all’obesità. “In medio stat virtus”.

La nostra dieta mediterranea è stata dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità, ed è stata presa come esempio per un’alimentazione giusta e genuina.

Sulla scia dell’EXPO 2015, agli esami di maturità dell’anno scolastico 2014-2015 è stata data la traccia: “Noi siamo quello che mangiamo”. Scelta ottima per invogliare le nuove generazioni a riflettere sul tema del consumo alimentare.

 I giovani in questo mondo globalizzato, sono portati a mettere da parte i cibi tradizionali, per consumare quelli pubblicizzati dalle TV, con elevato apporto calorico e ridotto valore nutrizionale.

La merendina per i bambini fino agli anni ‘70, era una fetta di pane con un filo d’olio di oliva e un pizzico di sale.”  Invogliamo figli e nipoti a riprendere questa sana abitudine, evitando loro di portarsi sulla via dell’obesità.

La nostra tradizione alimentare è vastissima, ma per non essere troppo lunghi, ci limitiamo a descrivere solo qualche prodotto che ha cambiato radicalmente le nostre vecchie abitudini, o perché poco conosciute o dimenticate.

La pasta.

I Borbone vista la forte tendenza nella crescita della popolazione, il cui cibo di maggior consumo era dato dalle verdure, si preoccuparono d’avviare studi agronomici, per trovare una soluzione al problema delle carenze stagionali e migliorare le condizioni alimentari nel regno. Le ricerche portarono a un manufatto a base di cereali (grano duro), adatto alla conservazione anche per mesi, per superare i periodi di scarsità degli ortaggi.

La pasta frutto di un impasto di farina e acqua, essiccata dopo il passaggio nelle trafile di bronzo. I primi pastifici di produzione si diffusero a Torre Annunziata ma subito dopo anche a Gragnano e Napoli nella zona portuale di S. Giovanni a Teduccio.    

 Era necessario che gli impianti fossero nelle vicinanze dei porti, per agevolare il trasporto del grano che arrivava via mare. La materia prima era lavorata per dare luogo a diverse manifatture di pasta: “gli spaghetti incontrarono subito il favore della popolazione e si vendevano già cotti anche per strada su adeguati carrettini. Erano consumati da un piatto, nel quale sui fumanti vermicelli si versava salsa di pomodoro non condita e si mangiavano con le mani. Il nome del piatto era “o’ doie“ perché costava solo due soldi.

Anche i regnanti apprezzarono la novità e nei menù di corte entrò prepotentemente il piatto di spaghetti che re Ferdinando mangiava volentieri con le mani a imitazione dei suoi lazzaroni.

Ciò creò qualche problema etico ed estetico nei pranzi reali, ma il rimedio fu trovato dalla regina Carolina, che già presso la corte Asburgica della famiglia di provenienza, nei pranzi usava un “arnese” per non toccare il cibo con le mani. Carolina, donna intelligente, per valorizzare questo nuovo cibo, fece costruire utensili adatti agli spaghetti: le “forchette”, utilizzate poi per tutte le pietanze.

Ci piace in questa occasione ricordare il piatto più apprezzato dai napoletani, perché arricchito con carne.  Il ragù costituisce per lo più il pranzo domenicale. È un piatto con salsa molto elaborata, che richiede lunghi tempi di cottura, per cui si consuma solo nelle occasioni particolari.

Le mamme di un passato non lontanissimo dedicavano alla pietanza l’intera mattinata della domenica. Non è il caso di ricordare la ricetta perché tutti la conoscono, è utile invece ricordare che alcune volte il ragù viene fatto con le braciole riempite con uva passa, pinoli. Il termine associato alla salsa in cottura lenta per più ore “adda pippià”. Per non dimenticare questo piatto tra i più apprezzati, potrebbe essere simpatico e originale dedicare almeno un pranzo domenicale al ragù delle nostre nonne.

Per le intolleranze alimentari a Olevano sul Tusciano nei pressi di Battipaglia (SA), una piccola azienda familiare, produce una pasta con un miscuglio di farine a prevalenza di mais e riso con un sapore molto simile alla vera pasta, per non privare celiaci e familiari di una pietanza alla quale si è molto affezionati.

A difesa della buona salute, auspichiamo un ritorno a un’agricoltura di qualità a garanzia dei consumatori.

Il pomodoro      

Il pomodoro, poco dopo il 1500 arriva in Spagna portato dai territori Aztechi.  Ma la sua origine è nelle regioni del sud America.

Ha impiegato molti secoli per imporsi nelle nostre cucine, e solo più tardi, alla fine del 1600, si incominciò a coltivarlo nel sud Italia, dove il clima era più simile a quello delle terre di provenienza.

Fu solo alla fine del 700 che il lungimirante re Borbone Ferdinando IV fece avviare la coltivazione nella zona del nocerino-sarnese, terra fertilissima anche per l’abbondante presenza di acqua del fiume Sarno, necessaria alle copiose irrigazioni che la pianta richiedeva.

In quelle zone, dopo una serie d’incroci, il pomodoro sudamericano venne migliorato, creando la varietà San Marzano, che ha anche avuto la denominazione d’origine protetta DOP.

Il pomodoro non impiegò molto ad imporsi nei piatti napoletani.

L’incontro più felice fu con la pasta e con la pizza.

Già a inizio ‘700 si facevano pizze bianche sulle quali  veniva spuzzato formaggio pecorino, ma fu a metà ‘800 che la pizza diventò rossa per l’arrivo del S. Marzano e fu chiamata margherita in omaggio alla regina Margherita di Savoia, molto amata dai napoletani. O anche a “pizza ca pummarol”. Come si capisce, l’amore dei napoletani per questo squisito frutto della terra, lo trasformò in femminile e divenne a pummarol.

Dopo l’Unità d’Italia, il piemontese Cirio, esperto nella conservazione di alimenti, per produrre pomodori, comprò molti terreni abbandonati dagli agricoltori che emigravano all’estero e, nel 1900, aprì alcuni stabilimenti a S. Giovanni a Teduccio, per la lavorazione e conservazione di pomodori, che venivano esportati in tutto il mondo.

Qualche ricordo personale: all’inizio degli anni ’50 nei negozi alimentari si vendeva un concentrato di salsa di pomodori che si prendeva da un contenitore di latta chiamato “o buatton”. Se ne comprava qualche etto per volta.

In quell’epoca c’era l’usanza di farsi le conserve per tutto l’inverno e il sistema più diffuso erano le bottiglie di pomodori riempite di spaccatelle di San Marzano con una foglia di basilico e bollite per la sterilizzazione.

In molti quartieri c’era l’usanza di aiutarsi vicendevolmente in questi lavori, con una sorta di simpatica convivialità. Oggi, spesso non si conoscono nemmeno le persone che abitano nella propria scala.

Aniello Gianni Morra

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