Risorgimento come rivoluzione borghese
Il Risorgimento come rivoluzione
(mancata, riuscita,
fallita o riuscita a metà) ebbe un concreto carattere borghese
e capitalistico
riscontrabile dalla soppressione delle barriere doganali
e la costruzione di una rete ferroviaria capillare
per consentire lungo tutta la penisola la circolazione delle merci.
E’ molto interessante notare come nel corso dei fatti del Risorgimento l’abbattimento delle dogane seguì con prontezza l’annessione politica. L’8 ottobre 1859 avvenne la fusione doganale tra Toscana, Romagna e Modena, il 10 dello stesso mese quella fra Piemonte, Lombardia, Piacenza e Parma, l’anno seguente si unirono al territorio doganale l’Umbria, il 22 settembre, le Marche, il 5 ottobre, le Due Sicilie, il 30 ottobre.
Queste annotazioni sono interessanti perché sono rivelatrici del carattere rivoluzionario borghese che assunse l’unificazione italiana. La borghesia, che nei vecchi stati preunitari si era vista soffocare, repressa e schiacciata nei diritti politici ed in quelli economici, si trovò ora alla guida politica e finanziaria della costruzione di un nuovo stato. Ricordiamo infatti che nel 1860 tutti gli stati d’Europa erano ormai monarchie costituzionali con parlamenti attivi, mentre in Italia i vari stati preunitari – unica eccezione non casuale il Regno di Sardegna che aveva lo Statuto Albertino ed un Parlamento dal 1848 – avevano soppresso con violenza assemblee e statuti, protetti dagli Asburgo di Vienna (che accettarono una riforma costituzionale nel loro impero solo nel 1866).
Come prima cosa la borghesia italiana dettò l’unificazione del mercato con l’abbattimento delle barriere doganali, ma non si fermò qui. Il Paese andava modernizzato nelle infrastrutture e si lanciò senza indugi nella costruzione di una rete ferroviaria capace di unire l’intera penisola. Agli inizi del 1859, le linee ferroviarie avevano uno sviluppo totale di 1707 chilometri, di cui 850 nel Regno di Sardegna, 483 nel Lombardo-Veneto e 255 in Toscana, la restante piccola parte era costituita dalle ferrovie del Napoletano e di Roma, ma già un anno dopo, nonostante i sommovimenti militari, le concessioni divenivano il perno di ogni governo provvisorio. Nel 1862 si contarono ben 2939 chilometri, nel 1870 si arrivò ad uno sviluppo di 6074 chilometri (di cui 2565 al Nord, 1732 al Centro e 1777 nel Sud). La ferrovia apriva così i mercati, rendeva possibile il traporto di merci ed il continuo flusso degli scambi. Prodotti che prima, per il loro peso ed il loro volume, erano difficilmente trasportabili e quindi destinati ad un consumo sul posto, ora venivano proiettati in un mercato globale.
A dimostrazione di quanto fosse potente l’impulso che la borghesia italiana profuse in queste politiche, si calcola che nel 1870 l’Italia contasse una perdita annua di più di 115 milioni per supportare lo sviluppo ferroviario.
Tale onere permise di allargare ed unificare i mercati regionali creando un unico mercato nazionale, coi prodotti manifatturieri del Nord che potevano arrivare facilmente al Sud, oli, vini e lane del Sud che potevano ora arrivare facilmente nei mercati del Nord, ma ebbe ovviamente i suoi risvolti negativi, anzitutto sul bilancio statale, ma ancor più sul Mezzogiorno dove si assistette alla rovina delle deboli manifatture, ancora a carattere domiciliare, fiorite all’ombra del rigido protezionismo borbonico, da sempre prive del sostegno di un forte sistema creditizio e destinate ad un mercato di consumo meramente locale (E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne).
Autore articolo: Angelo D’Ambra