SCIASCIA NARRA LE RIVOLUZIONI DEL 1848 E DEL 1860
Leonardo Sciascia, autore neorealista dell’entroterra agrigentino, aveva una penna ironica e pungente. Era uomo di sinistra, quindi avrebbe dovuto simpatizzare per le rivoluzioni democratiche del 1848 e del 1860 che ebbero nella Sicilia fulcro fondamentale.
Nell’estate del 1957 gli fu donato un libro di un autore locale di inizio Novecento, Sebastiano Nicastro, il quale aveva ricostruito la cronaca degli avvenimenti del paese di Mazara del Vallo dal 1848 al 1860, partendo dalla struttura socio-economica e narrando le ambiguità della classe dirigente nei momenti di rivolgimento: nobili, galantuomini e clero, senza particolari prove di eroismo e di coraggio, erano transitati nel partito vincente, quello unitario-savoiardo. La lungimirante scelta non solo salvò la loro vita e il loro patrimonio, ma aumentò il loro potere dopo l’eliminazione della monarchia assoluta borbonica.
Dopo appena quindici giorni dalla lettura del libro, Sciascia scrisse il racconto Il Quarantotto, pubblicato l’anno dopo nella raccolta Gli zii di Sicilia. Sulla scia del pessimismo di Verga, De Roberto, Pirandello e Tomasi di Lampedusa, Sciascia narra un Risorgimento che in Sicilia non cambia nulla, dove i Cappelli fanno presto a scegliere la parte “giusta” che è sempre quella vincente, per cui sono costretti a ondeggiare tra una fazione e l’altra, cercando di capire in tempo chi prevarrà. Lo vediamo nei galantuomini verghiani di Bronte, negli Uzeda di De Roberto che divennero liberali e parlamentari, nel Tancredi di Tomasi.
Sciascia narra l’equivoco di un Risorgimento nel quale alla rivoluzione si abbrancano personaggi del potere che vogliono sopravvivere al cambio di regime, che agitano bandiere e recitano discorsi che servono a mascherare una realtà molto più meschina, dove il denaro e la conservazione della casta assumono un peso nettamente più decisivo degli ideali di libertà e di riscatto sociale.
Emerge sorprendentemente come figura sinceramente rivoluzionaria quella di un prete (simile al fra’ Carmelo di Giuseppe Cesare Abba). Eccolo descritto attraverso le parole del figlio del giardiniere del barone Garziano, narratore del racconto:
[Don Paolo Vitale] abitava due camerette nude, piccole come celle di convento, a lato della sua parrocchia, la più povera e fuori mano che ci fosse nel paese; appunto a lui l’avevano data in punizione della spregiudicatezza e libertà che mostrava, inviso ai superiori e ai colleghi, in fama di liberale per i rapporti che manteneva con gli esuli e con gli inglesi di Marsala, dai quali riceveva gazzette che dicevano delle cose del mondo e delle nostre: e queste notizie lui traduceva per gli amici di Castro. Ma liberale veramente non era: l’amore alla libertà gli nasceva dalla sofferenza del popolo, la libertà del popolo era il pane, lottare per leggere dei libri e aprire delle scuole gli pareva cosa assurda, a quelli che si riunivano in farmacia diceva – voi volete far mangiare al popolo carta stampata, e quello invece vuol pane – e i liberali con compatimento lo ascoltavano. […] E mi parlava anche della rivoluzione vera, quella che stavano facendo gli pareva un modo di sostituire l’organista senza cambiare né strumento né musica: e a tirare il mantice dell’organo restavano i poveri.
Durante la rivoluzione del 1848-49 erano quei notabili che già gestivano i comuni, insieme al clero e a quella parte di aristocrazia “rigenerata” dal nuovo credo liberale come il barone Garziano. Era soddisfatto il popolino di quella rivoluzione? Sciascia ci dice che
Gli usurpi delle terre demaniali e comunali erano arrivati al massimo […] I prezzi dei generi alimentari vertiginosamente crescevano; la sicurezza della vita e dei beni, nel paese e nella campagna, completamente mancava; l’istruzione pubblica, nonostante il Consiglio dichiarasse di averla a cuore, rimase quella che era.
[…] Dopo un triste inverno di fame e di morti ammazzati, venne gracile primavera. La campagna, rimasta abbandonata dopo la semina, prometteva malannata. […] il popolo cominciava a odiare i liberali, la domenica affollava le chiese per sentire le prediche contro quelli che, senza timor di Dio, erano artecifi della sofferenza del popolo e del disordine; nell’avvento del vecchio ordine quasi tutti a Castro speravano.
E il vecchio ordine tornò con l’armata del generale Filangieri, vittorioso sui rivoluzionari. E il barone Garziano tornò velocemente ad essere borbonico e a lodare il nome di Sua Maestà Ferdinando II.
Al contrario di Giovanni Verga che fotografa una realtà crudele e immutabile (e che loda la repressione crispiana dei Fasci Siciliani dei Lavoratori) senza auspicare cambiamenti sociali ed economici, Sciascia vuole denunciare la verità partendo da un profondo desiderio di giustizia e riscatto sociale del proletariato sfruttato dai galantuomini.
La figura che rimane fissa nella mente e che amareggia il narratore (ma anche il lettore), divenuto nel frattempo acceso garibaldino, è la figura del tronfio barone Garziano, nel 1860 sorridente e “incoccardato” di fronte al generale Garibaldi. Figura che anticipa il trasformismo parlamentare che nacque poco dopo e che caratterizzò la vita politica del nuovo Regno d’Italia dei Savoia, magistralmente narrato da Federico De Roberto e da Luigi Pirandello.
19 febbraio 2024
Domenico Anfora