SICILIA: GARIBALDI L’ATTESO MESSIA?
Nella primavera del 1860, dopo la vittoria franco-piemontese della II guerra d’indipendenza, Francesco Crispi inviò in Sicilia due esuli siciliani fuggiti dopo la fallita rivoluzione del 1848, Rosalino Pilo e Giovanni Corrao, allo scopo di organizzare un’insurrezione che sarebbe servita da pretesto per l’invio di una spedizione condotta da Giuseppe Garibaldi.
Lo sbarco dei Mille si realizzò a Marsala l’11 maggio 1860. I siciliani attendevano l’Eroe dei due mondi con trepidazione? Leggiamo cosa scrissero i narratori garibaldini.
Giuseppe Bandi, toscano, ufficiale d’ordinanza di Garibaldi, tra i più efficaci memorialisti garibaldini, espresse subito la cattiva impressione sull’accoglienza dei siciliani.
Appena fui entrato in città, qualche curioso mi si fe’ incontro, che udendomi gridare: «Viva l’Italia!» ed acclamare Vittorio Emanuele, spalancò tanto d’occhi e tanto di bocca, e poi tirò di lungo. Le strade eran quasi deserte; finestre ed usci cominciavano a serrarsi in gran fretta, come suole nei momenti di scompiglio, quando la gente perde la tramontana. Tre o quattro poveracci mi si accostarono stendendo la mano, e chiamandomi eccellenza, non altrimenti che io fossi giunto in città per mio diporto ed avessi la borsa piena per le opere di misericordia. Si sarebbe detto che quella gente còlta così per sorpresa, non avesse capito un’acca del grande avvenimento che si compiva in quel giorno.
Contrariato dalla fredda accoglienza dei marsalesi, Bandi se la prese col siciliano Giuseppe La Masa, rivoluzionario e ufficiale palermitano, che aveva millantato un appoggio generale dei siciliani:
E vedendo vicino a me il La Masa, non seppi fare a meno di dirgli: – Caro amico, il generale si vuol mettere di buzzo buono al lavoro, ma se i tuoi siciliani ci faranno dappertutto il viso che ci han fatto qui in Marsala, non ci resta se non pregare il Signore, che ci scampi e liberi.
La mattina del 12 maggio i Mille si misero in marcia verso Salemi. Solo pochissimi marsalesi si aggregarono:
Verso le sei, cominciarono i preparativi per mettersi in marcia; si pigliò per forza o per amore qualche cavallo, si levò dalle rimesse dei signori qualche carrozza, e si caricò sui barrocci un po’ di pane. Altre vettovaglie non poterono aversi perché le botteghe erano tutte chiuse e la gente non si faceva vedere, ed eravamo, su per giù, in una città abbandonata dagli abitanti, come se vi fosse sceso Dragutte o Barbarossa. Ora è da notarsi come in quella città non restasse vestigio alcuno del nostro passaggio, perché il generale, ben sapendo che, appena partiti noi, ci sarebbero rientrati i napoletani, non solo non vi stabilì governo di sorta, ma volle che si lasciassero intatti persino gli stemmi del Borbone, e nulla si facesse che tornasse poi a danno di quei poveri cittadini. Dei quali, soltanto tre o quattro, oltre i quattordici da noi liberati dalle carceri, chiesero armi e facoltà di seguirci. Quei quattordici valentuomini, che a sentir discorrere, pareva avessero in corpo il diavolo, fatte appena poche miglia, sparirono dalle nostre fila, rubandoci i fucili, ciascun dei quali era per noi più prezioso di un violino di Cremona.
Bandi espresse la sua delusione anche a Garibaldi:
E così, avvicinatomi a lui con un pretesto, gli dissi: – O dove sono, generale, que’ magni insorti che promettevano Roma e Toma? Mi pare che la gente ci guardi e passi, ed abbia una voglia matta di starsene allegramente a vedere quel che accadrà.
Nel pomeriggio del 12 maggio, durante la sosta a Rampingallo, si videro i primi rivoltosi siciliani, i cosiddetti Picciotti.
Gli sconosciuti si fermarono anch’essi, ed uno di loro, che mi parve il caporione, scese subito da cavallo, e mi si fece incontro, gridando: «Viva l’Italia! viva Garibaldi!». Era uno dei baroni Sant’Anna di Alcamo, patriota ardentissimo e grande odiatore dei Borboni. Ci stringemmo la mano, e lo invitai a far venire innanzi i compagni; che ad un suo cenno, accorsero di galoppo, e mi furono intorno, assordandomi con le loro grida di «Viva Cicilia! viva la Taglia!» (Viva Sicilia, viva l’Italia). Finalmente, si vedevano gl’insorti! Erano compagni di Rosalino Pilo, che dalle montagne aveano udito il rumore dei cannoni della squadra borbonica, e, mandati esploratori verso Marsala, aveano avuto notizia del nostro sbarco.
Bandi, riferito ai rivoltosi siciliani, iniziò a usare quegli epiteti non proprio rispettosi che nei decenni successivi gli italiani del nord usarono abitualmente verso gli abitanti dell’ex Regno delleDue Sicilia:
Condussi il barone e suoi arabi dal generale, che li accolse con gran segni d’affetto, e si ristrinse con essi a parlamento, insieme a Sirtori e a Türr. Quando Garibaldi ebbe saputo ciò che gli premea sapere, trasse la sua colonna
fuori della strada maestra, e l’avviò per un sentiero che scendeva con lunghi giri in una valle verdeggiante, in fondo alla quale sorgea un colle, piuttosto alto, sormontato da un edifizio, molto simile a un castellaccio antico.
Chi erano quei giovani siciliani che andavano ad arruolarsi agli ordini di Garibaldi? Molti erano gabellotti e campieri di quei baroni che, subodorando il cambio di vento, aderirono al programma unitario “Italia e Vittorio Emanuele”. Nelle campagne persisteva ancora una mentalità feudale che spingeva braccianti e campieri ad una rigida obbedienza al latifondista. Cosa cercavano questi giovani arruolandosi con i Mille? Continuiamo a leggere Bandi:
Avendomi il generale ordinato d’andare innanzi co’ miei esploratori, ai quali aggiunse uno degli uomini del barone Sant’Anna, precedei di buon passo la colonna, interrogando con infinita curiosità il mio nuovo compagno, dal quale seppi come la rivoluzione fosse stata doma per tutta l’isola, e Pilo e Corrao errassero su pei monti con pochissima gente. Quando ebbi saputo da lui ciò che mi premeva sapere, e’ cominciò ad interrogarmi, dimandandomi se Garibaldi era proprio Garibaldi, e se dietro Garibaldi c’era un re, e se dietro a quel re c’era una buona cassa. A cui risposi: – Fratello, Garibaldi è Garibaldi in carne e in ossa; dopo Garibaldi verrà, se occorre, anche un re! ma la cassa che tu cerchi, non ce l’abbiamo. L’arabo si turbò, e mi disse: – La cassa c’è a Palermo. – Bravo! – risposi – e quella cassa la piglieremo noi, e staremo allegri come tanti papi. Però non dimenticarti che le casse son sempre difese molto bene, e ci sarà mestieri combattere accanitamente se vogliam giungere a bomba.
Un altro memorialista garibaldino dalla penna pregevole fu il ligure Giuseppe Cesare Abba, semplice milite tra i Mille. Anch’egli si espresse sui rivoltosi siciliani:
Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistole. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota.
Lo stesso Giuseppe La Masa, tra i principali organizzatori della spedizione, nei suoi scritti sostenne di aver arruolato “da solo” oltre 6 mila uomini, per la sola prima fase dell’operazione dei Mille, attraverso i contatti presi nell’aprile. Ammise che noti “galantuomini” come i capibanda Scordato e Miceli (prima e dopo i Mille conosciuti da tutti per la loro ferocia) furono determinanti per il successo dei Mille in Sicilia, e –com’è ovvio- i capibanda non si muovevano senza l’impulso dei Baroni.
Entrato a Salemi il 13 maggio, Bandi espresse un altro giudizio sui rivoltosi locali, addestrati da un sottufficiale garibaldino:
Torniamo adesso a Salemi. Trovandomi in mezzo a quei beduini, che il Marchelli e gli altri stavano scozzonando, m’accorsi che guardavano con vogliosissimi occhioni il revolver che luccicava al mio fianco, libero dalla fodera, ché essendosi sdrucita, l’avevo data a un ciabattino, perché me la accomodasse.
I Mille erano diretti verso Calatafimi, e il cozzo con le truppe napolitane era ormai imminente. Molti garibaldini erano perplessi sulle possibilità di sconfiggere un esercito ben armato ed equipaggiato come quello borbonico, soprattutto in assenza di una sollevazione di massa dei siciliani. Così si espresse l’ufficiale marchigiano Augusto Elia, il quale, durante il combattimento di Calatafimi, salvò la vita a Garibaldi, ponendosi come scudo e venendo colpito da una fucilata al volto:
Le bande dei Picciotti non erano ancora giunte nel numero che il generale avrebbe desiderato. Era dunque da pensare bene se con lo scarso numero di volontari male armati, fosse prudente attaccare posizioni fortissime, coperte ai fianchi ed alle spalle e difese da truppe regolari armate da buone carabine e da artiglieria.
Giuseppe Abba si crucciava del fatto che molti siciliani non aderivano con entusiasmo alla rivoluzione. Ma a cosa aspiravano quei braccianti che aderirono? Nel dialogo tra Abba e frate Carmelo di Parco si trova la risposta:
Mi son fatto un amico. Ha ventisette anni, ne mostra quaranta: è monaco e si chiama padre Carmelo. Sedevamo
a mezza costa del colle, che figura il Calvario colle tre croci, sopra questo borgo, presso il cimitero. Avevamo in faccia Monreale, sdraiata in quella sua lussuria di giardini; l’ora era mesta, e parlavamo della rivoluzione. L’anima di padre Carmelo strideva. Vorrebbe essere uno di noi, per lanciarsi nell’avventura col suo gran cuore, ma qualcosa lo trattiene dal farlo.
— Venite con noi, vi vorranno tutti bene.
— Non posso.
— Forse perché siete frate? Ce n’abbiamo già uno. Eppoi altri monaci hanno combattuto in nostra compagnia, senza paura del sangue.
— Verrei, se sapessi che farete qualche cosa di grande davvero: ma ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete unire l’Italia.
— Certo; per farne un grande e solo popolo.
— Un solo territorio…! In quanto al popolo, solo o diviso, se soffre, soffre; ed io non so che vogliate farlo felice.
— Felice! Il popolo avrà libertà e scuole.
— E nient’altro! — interruppe il frate: — perché la libertà non è pane, e la scuola nemmeno. Queste cose basteranno
forse per voi Piemontesi: per noi qui no.
— Dunque che ci vorrebbe per voi?
— Una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città, in ogni villa.
— Allora anche contro di voi frati, che avete conventi e terre dovunque sono case e campagne!
— Anche contro di noi; anzi prima che contro d’ogni altro! Ma col Vangelo in mano e colla croce. Allora verrei.
Così è troppo poco. Se io fossi Garibaldi, non mi troverei a quest’ora, quasi ancora con voi soli.
— Ma le squadre?
— E chi vi dice che non aspettino qualche cosa di più?
Non seppi più che rispondere e mi alzai. Egli mi abbracciò, mi volle baciare, e tenendomi strette le mani, mi disse che non ridessi, che mi raccomandava a Dio, e che domani mattina dirà la messa per me. Mi sentiva una gran passione nel cuore, e avrei voluto restare ancora con lui. Ma egli si mosse, salì il colle, si volse ancora a guardarmi di lassù, poi disparve.
La storia ci narra che i nuovi oppressori, piemontesi o galantuomini meridionali come i Sedara, furono peggiori dei vecchi. Così l’ex Regno delle Due Sicilie precipitò in una guerriglia decennale, subì una bestiale repressione di tipo coloniale e cadde in un abisso di miseria che sotto i Borbone di Napoli mai aveva patito.
Esistono molte memorie di garibaldini e liberali, c’è anche qualche memoria di borbonici. Non si conosce invece il pensiero della gente comune, quei popolani che subirono la guerra e le prepotenze. Una testimonianza rarissima è riportata nel Numero Unico Calatafimi in camicia rossa del 15 maggio 1860, in occasione del centenario della battaglia. Era un nonno di Calatafimi che narrava quella storia ai nipoti:
Un’altra sera abbiamo chiesto al nonno: era meglio stare sotto i Borboni che sotto l’Italia?
— Era meglio ed era peggio. Era meglio perché vi era più ordine e disciplina ed il re era un padre per il popolo; ma non vi era libertà. Maniscalco, il capo degli sbirri, terrorizzava tutti. Figuratevi che uno non poteva portare la barba come voleva, perché gli sbirri gliela tagliavano anche in piazza e nessuno poteva parlare. Dopo il ’60 il paese fu in mano ai ladri e non ci poteva nessuno. Si cominciò a disprezzare la Chiesa e poi furono chiusi i conventi, che davano a mangiare il popolo. Voglio raccontarvi un fattarello, che ha creato un proverbio, che certo avrete sentito. In piazza, mentre tutti gridavano «Viva l’Italia», il giorno 16 uno scemetto, al quale la mattina avevano rubato un porcello, arrabbiato per il fatto si mise pure a gridare dicendo però: «Viva l’Italia; ma lu porcu si lu pigghiaru».
L’Italia, rettamente amministrata, poteva essere un paradiso; ma se l’hanno mangiata e d’allora è stata sempre povera!
BIBLIOGRAFIA
Abba Giuseppe Cesare, Da Quarto al Volturno: noterelle di uno dei Mille, Mursia, Milano 1967
Bandi Giuseppe, I Mille: da Genova a Capua, Garzanti, Milano 1977.
Catalafimi in camicia rossa, Numero unico edito per la commemorazione del 1° centenario della battaglia di Pianto Romano a cura del Comitato Cittadino, Calatafimi 15 maggio 1860.
Domenico Anfora
Bello il racconto, e molto verosimile… chi viene da fuori, viene solo per depredare!.. La Sicilia, strategica nel Mediterraneo, prima sede dei Borbone, ambita da tutti sempre, massoneria inglese in testa, e non come oggi dagli scafisti… fragile e stupenda, anche se la sede di comando dei Borbone da Palermo si trasferì a Napoli, più centrale per il regno, che comunque si chiamò “delle due Sicilie” benché comprendesse mazzo stivale… Chissà se il prossimo fatidico ponte la riporterà in auge…e non ovviamente per la mafia come oggi! caterina