SM Ferdinando IV, Re di Napoli e Sicilia, Ferdinando I, Re delle Due Sicilie
Come abbiamo visto nella voce dedicata a Carlo di Borbone, quando nel 1759 questi lascia il Trono di Napoli per quello di Madrid – sancendo di fatto la definitiva separazione delle due Corone – lascia come erede a Napoli il suo terzo figlio, Ferdinando, allora bambino di otto anni, e lo affida ad un Consiglio di Reggenza di otto membri, fra cui emergevano le figure del Primo Ministro Tanucci e dello zio di Ferdinando il principe di San Nicandro. Il primo ebbe il compito preciso di guidare politicamente il Regno, il secondo quello di educare il fanciullo.
Nato a Napoli il 12 gennaio 1751 dal Re Carlo di Borbone e da Maria Amalia Walburga di Sassonia, morirà sempre a Napoli il 4 gennaio 1825. Il suo è uno dei più lunghi regni della storia, se si considera la datazione a partire dal 1759 (66 anni di regno).Dal principe di San Nicandro ricevette un’educazione mirata soprattutto alla cura della robustezza del corpo e di marca abbastanza popolare (i suoi tratti e il suo parlare in dialetto gli valsero il soprannome – nient’affatto dispregiativo – di “Re Lazzarone” [Col termine “Lazzari” o “Lazzaroni” erano indicati i popolani di Napoli che si batterono strenuamente ed eroicamente contro i soldati napoleonici e i giacobini repubblicani nel 1799 in difesa e a nome di Ferdinando, della monarchia e della Chiesa. Cfr. la voce apposita in questo sito sul sanfedismo e le insorgenze]).
Finché fu in età minorile, il Regno fu retto a tutti gli effetti dal Tanucci, che proseguí senza indugi la politica riformista di Carlo di Borbone, di stretta intesa con il Trono di Madrid. Sono questi i decenni del celebre riformismo borbonico, comunque poi proseguito anche da Ferdinando fino agli anni della tempesta rivoluzionaria.
Nel 1768 sposò Maria Carolina d’Austria, figlia dell’Imperatrice del Sacro Romano Impero Maria Teresa d’Asburgo, sorella quindi degli Imperatori Giuseppe II e Leopoldo II e della Regina di Francia Maria Antonietta. Ferdinando ebbe da lei 18 figli, ed erede al Trono fu Francesco, a causa della morte prematura del principino Carlo Tito.
Delle figlie femmine, la primogenita Maria Teresa sposò l’Imperatore del Sacro Romano Impero Giuseppe II, la secondogenita Maria Luisa il Granduca di Toscana Ferdinando III, Maria Cristina il Re di Sardegna Carlo Felice, Maria Amelia il Re dei Francesi Luigi Filippo, Maria Antonietta il Re di Spagna Ferdinando VII.
Nel 1775 Maria Carolina entrò a far parte ufficialmente del Consiglio di Stato; Tanucci dapprima dovette acconsentire a vedersi molto ridotto il suo raggio d’azione, quindi dovette rassegnarsi ad uscire di scena nel 1777.
Maria Carolina, giunta a Napoli appena sedicenne, acquistò subito un grande peso per le scelte politiche di Ferdinando, specie dopo la nascita di Francesco. Lo scontro con il Tanucci era inevitabile, ed inevitabile fu pertanto la progressiva rottura con Madrid, in cui la Regina riuscí a coinvolgere anche Ferdinando (ragione di profondo dolore fu questo per l’ormai anziano Re di Spagna, che si vedeva in un certo senso sfuggire non solo e non tanto il controllo politico, quanto in certo qual modo anche la persona stessa del figlio Ferdinando).
Il suo posto fu preso due anni dopo dal ministro inglese il principe John Acton, che nel corso degli anni godette della totale fiducia dei Reali, ciò che gli permise di far gravitare il Regno dall’influenza spagnola sotto quella britannica (confermata, negli anni cruciali delle guerre napoleoniche, dalla presenza a Corte di Horatio Nelson, e di varie altre figure inglesi che grande influenza avevano sulle decisioni di Maria Carolina).
Ma l’uscita di scena del Tanucci non interruppe affatto il processo riformistico. Del resto, i genitori di entrambi i monarchi (Carlo di Borbone e Maria Teresa d’Asburgo) erano stati entrambi sovrani riformatori, ed avevano plasmato in tal senso la mentalità dei figli (come Giuseppe II a Vienna dimostrava con eccessivo zelo!).
La politica di riforme dovette però essere interrotta per il gravare della tempesta rivoluzionaria negli anni Novanta. Gli eventi di Francia, dapprima preoccupanti ma poi tragicamente sconvolgenti (la caduta della Monarchia, la Repubblica giacobina, l’assassinio del Re e poi della Regina e del loro figlioletto, la guerra civile, il Terrore, la dittatura robespierriana, centinaia di migliaia di morti, ecc.), fecero naturalmente mutare l’animo ingenuamente e a volte acriticamente aperto alle innovazioni politiche dei due sovrani napoletani.
Specie dopo il 1794, sia per i fatti francesi, sia per la scoperta di una congiura repubblicana a Napoli. Ferdinando e Maria Carolina iniziarono a intuire il vero volto che si nascondeva dietro i riformatori [Come sempre accade in certi contesti storici o di vita vissuta, i futuri traditori si nascondono sempre fra i più vicini e costanti osannatori.
Tutta la cosiddetta intellettualità partenopea, composta per lo più da aristocratici vicinissimi ai Reali e da beneficiati e onorati dagli stessi, non perdeva occasione per esaltare Maria Carolina come il faro del progresso e della civiltà in Napoli, e presentare Ferdinando come il “novello Tito”. Saranno proprio costoro a fondare la Repubblica Partenopea con l’appoggio delle armi dell’invasore napoleonico.], specie dietro gli intellettuali illuministi e massoni (da loro sempre finora appoggiati).
Peraltro, nonostante qualche tentativo di conciliazione con la neonata Repubblica Francese, di fatto Ferdinando aderí alle Coalizioni internazionali antirivoluzionarie ed antinapoleoniche, rimanendo in tal modo anche fedele al “Patto di Famiglia” borbonico ed alla alleanza con gli inglesi.
La duplice perdita e la duplice riconquista del Regno continentale
Come è noto, a partire dal 1796, il giovane Napoleone Buonaparte invade e conquista gradualmente la gran parte dei territori degli Stati italiani preunitari, incontrando ovunque, come unica e feroce resistenza, la spontanea rivolta armata delle popolazioni italiane – le insorgenze controrivoluzionarie – insorte in difesa della Chiesa e della religione cattolica e dei legittimi secolari sovrani e governi (in un concetto, contro l’aggressione rivoluzionaria in difesa della secolare civiltà, società e identità tradizionali).
Nel febbraio del 1798 gli eserciti rivoluzionari invadono lo Stato Pontificio, provocando la fuga di Pio VI e instaurando la giacobina Repubblica Romana. Nel mese di novembre, Ferdinando, consapevole che ormai ai napoleonici mancava solo il Regno di Napoli per completare la conquista d’Italia, decide di muovere guerra ai francesi, anche allo scopo di liberare Roma e permettere il ritorno del Pontefice nel proprio Stato. Il comando viene affidato al generale austriaco Mack, ma la scelta si rivela subito errata. Egli dapprima entra in Roma senza colpo ferire (peraltro i napoletani furono accolti in trionfo dai romani), ma poi, di fronte al contrattacco del generale napoleonico Championnet, il Mack fugge miserevolemente, e l’esercito borbonico si scioglie alla rinfusa. Naturalmente Championnet ora ha il pretesto per marciare su Napoli.Ferdinando l’8 dicembre 1798 emana un proclama a tutti i suoi sudditi, invitandoli ufficialmente a resistere in armi contro l’invasore. Mai proclama fu più seguito alla lettera. Migliaia, decine di migliaia di uomini, di ogni età e ceto, comprese donne ed anziani, presero le armi contro i francesi, combattendo per sei mesi strenuamente fino alla riconquista del Regno.
Infatti, i francesi a costo di gravi perdite riuscirono il 22 gennaio 1799 a conquistare Napoli (qui dovettero massacrare, prima di prendere effettivo possesso della città e di proclamare la “Repubblica Napoletana”, 10.000 “lazzari” insorti in nome di Ferdinando). Nel frattempo, già dal 22 dicembre 1798 la Corte si era spostata a Palermo, e Ferdinando aveva lasciato Napoli in mano ad un consiglio di aristocratici e al Vicario regio Pignatelli.
Instaurata a Napoli la Repubblica, i giacobini procedettero alla “repubblicanizzazione” delle provincie, ma con scarsi risultati effettivi. Infatti, ovunque era evidente il malcontento popolare e i sentimenti di fedeltà alla dinastia si palesavano ogni giorno in maniera sempre più evidente e “minacciosa”. Verso la fine di gennaio, il Cardinale Fabrizio Ruffo dei Principi di Scilla si presentò a Corte a Palermo con un audacissimo progetto: chiese al Re navi, uomini e soldi per attuare una spedizione militare di riconquista del Regno di Napoli con l’appoggio delle popolazioni che sicuramente non sarebbe mancato.
Il progetto era talmente audace da lasciare perplessi i Reali; alla fine, date le insistenze del Ruffo e visto che in effetti non v’era poi molto di meglio da fare, Ferdinando cedette e concesse al Cardinale una sola nave con sette uomini (in pratica nulla), ma il titolo ufficiale di Vicario del Re per il Regno di Napoli (in pratica, tutto!). Il Ruffo si accontentò, sicuro che le popolazioni continentali lo avrebbero seguito.
E il Ruffo aveva assolutamente ragione! Sbarcato nei suoi feudi in Calabria, bastò far girare la voce delle intenzioni e del suo nuovo potere effettivo, che in poche settimane si ritrovò un esercito di decine di migliaia di volontari giunti da ogni parte del Regno per la causa borbonica, pronti a morire per cacciare i repubblicani giacobini.
Il Ruffo fondò così la “Armata Cristiana e Reale” in nome di Ferdinando IV (si veda la voce dedicata alle insorgenze controrivoluzionarie e al sanfedismo), che nel giro di tre mesi giunse in trionfo a Napoli restaurando la monarchia borbonica il 13 giugno 1799, giorno di Sant’Antonio, protettore ufficiale dell’”Armata della Santa Fede”.
Ferdinando e Maria Carolina nel frattempo giunsero a Napoli via mare, preceduti dal Nelson, che aveva ordini di fare giustizia dei giacobini traditori rinchiusi in Castel S. Elmo, circondati dall’Armata sanfedista. Il Ruffo, consapevole che il Nelson li avrebbe massacrati tutti, offrì loro la possibilità della fuga via terra; ma costoro credettero opportuno fidarsi più di un protestante che di un cattolico, e si consegnarono all’ammiraglio inglese, il quale fece senz’altro impiccare 99 di loro, con l’approvazione di Maria Carolina più che di Ferdinando.
Si tratta dei famosi giacobini della Repubblica Partenopea, “vittime dei Borboni”, come tutta la storiografia nazionale ha sempre detto e ribadito. Non è questa la sede per aprire polemiche storiografiche e ideologiche. Un’unica serena ed evidente considerazione ci permettiamo di fare: sicuramente si sarebbe potuta usare, oltre la giustizia, anche maggiore clemenza. Ma gli storici hanno sempre voluto dimenticare l’esigenza imprescrittibile della giustizia, in una situazione i cui termini erano chiari: dei sudditi – molti dei quali vicini alla Corona – si erano macchiati di alto tradimento cacciando il Re e instaurando un repubblica rivoluzionaria non solo fondata sulle armi straniere dell’invasore della patria comune, quanto soprattutto priva di alcun concreto appoggio popolare, anzi, come la storia ha inequivocabilmente dimostrato, in palese e tragico scontro con la reale volontà delle popolazioni del Regno, fermamente fedeli ai Borbone.
I repubblicani napoletani (poche centinaia di individui in tutto) insomma non erano stati né votati né comunque ben accettati dalle milioni di persone che abitavano il Regno; anzi, furono combattuti ferocemente dalle popolazioni, e la loro forza risiedeva solo nelle armi straniere, senza alcun prestigio o consenso. Essi erano a tutti gli effetti “traditori della patria” asserviti allo straniero invasore ed erano responsabili di una violentissima guerra civile, anche se la storiografia filorisorgimentale li ha presentati come eroi e “martiri”: ma il loro atto, agli occhi del legittimo sovrano, non poteva passare impunito: il buon senso lo dimostra, e possiamo essere certi che altri sovrani – o Capi di Stato – a volte osannati non si sarebbero comportati in maniera molto differente in tali tragici frangenti.
Ferdinando e Carolina tornarono sul Trono di Napoli in trionfo e col pieno e completo consenso delle popolazioni che si erano battute spontaneamente per loro. Fino al 1805 regnarono in pace, ma poi la tempesta napoleonica si abbatté nuovamente su di loro.
Agli inizi del 1806 l’Imperatore dei Francesi conquistava il Regno di Napoli e poneva sul Trono il fratello Giuseppe. Ancora una volta i Reali e la corte si spostarono a Palermo, ed ancora una volta ricominciò la spontanea guerriglia sanfedista (anche se ora non vi fu più una nuova “Armata Cristiana e Reale”), che durò fino al 1810, ed in Calabria specialmente fino alla Restaurazione.Nel 1808 Napoleone disponeva da Parigi che Giuseppe doveva andare a Madrid, e poneva sul Trono di Napoli suo cognato Gioacchino Murat, che vi rimarrà fino al 1815, anno della Restaurazione europea. Per altro, il Murat nel 1815, disperato per la definitiva vittoria delle forze restauratrici, tentò il tutto e per tutto sbarcando in Calabria e invitando i contadini all’insurrezione armata contro i Borbone: sarà preso a fucilate dai contadini stessi, arrestato e quindi fucilato.
Gli ultimi anni del suo regno
Con la sconfitta definitiva di Napoleone e il Congresso di Vienna, l’intera Europa si avviava ad una nuova fase della sua storia, quella nota sotto il nome di Restaurazione.
Ferdinando preferì stavolta assumere ufficialmente il titolo di “Re delle Due Sicilie” [Durante il suo regno a Palermo, gli inglesi a Corte avevano favorito l’autonomismo siciliano, costringendolo a concedere la Costituzione del 1812 e a far partire Maria Carolina dall’isola, che poi morirà nel 1814 in esilio.] (divenne quindi “I” come numerazione) e volle attuare una politica di pacificazione nazionale, forse anche troppo generosa. Infatti, non solo lasciò sostanzialmente impuniti i collaboratori del Murat, ma spesso confermò loro le cariche, i ruoli e i privilegi acquisiti sotto il regime napoleonico; e questo specie con gli ufficiali militari, cosa di cui ebbe presto a pentirsi.
A Corte si svolgeva lo scontro fra il Ministro de’ Medici, filoliberale e massone, e il Ministro della Polizia Antonio Capece Minotolo, Principe di Canosa, cattolico intransigente, controrivoluzionario e fedelissimo dei Borbone, acerrimo nemico delle sette massoniche e di ogni tendenza rivoluzionaria. Ferdinando però fece prevalere il de’ Medici, e ciò comportò nel 1820 un’altra rivoluzione, di stampo costituzionalista, organizzata ed attuata dalla setta massonica della Carboneria.
Ferdinando dapprima accettò di concedere la costituzione; ma i tempi ormai erano cambiati, e ben sapeva che, per il principio di legittimità stabilito al Congresso di Vienna e per i patti della Santa Alleanza, Metternich sarebbe presto intervenuto contro i rivoluzionari. Ed infatti così avvenne. Vi fu un Congresso della Santa Alleanza a Lubiana, in cui si stabilì l’intervento contro Napoli. Il parlamento napoletano inviò proprio Ferdinando a Lubiana per perorare la causa costituzionalista; ma naturalmente Ferdinando giunto lì chiese al Metternich l’intervento contro i rivoluzionari napoletani, che puntualmente avvenne.
Ferdinando poté così restaurare l’assolutismo, e vivere in pace gli ultimissimi anni del suo lungo e travagliato regno.
Il re del riformismo italiano
Ferdinando può essere senz’altro considerato il Sovrano che per eccellenza in Italia incarnò i criteri del riformismo illuminato, proseguendo e compiendo ciò che il padre aveva cominciato.Non è qui possibile approfondire, neanche per sommi capi, un discorso di importanza storica fondamentale, e molto trattato dalla storiografia degli ultimi decenni. Ci limitiamo quindi ad elencare una dopo l’altra le più importanti riforme ed opere attuate per sua volontà o ispirazione.
Edilizia civile:
- il 4/IX/1762 iniziò la costruzione in Napoli del primo cimitero in Italia in Napoli; poi ne costruì uno a Palermo;
- fece costruire e ampliare strade di Napoli, come Foria;
- restaurò il Palazzo Reale di Napoli;
- nel 1779 innalzò la Fabbrica de’ Granili;
- nel 1780 iniziò la Villa Reale;
- costruì tre teatri: de’ Fiorentini, del Fondo e di San Ferdinando;
- edificò: l’Orto botanico a Palermo, la Villa inglese di Caserta, il Cantiere di Castellammare, il piccolo porto di Napoli, i lavori dell’Emissario di Claudio, Palazzo Reale di Cardito;
- costruì più di mille miglia di strade per congiungere Napoli con le province;
- restaurò ponti, ne costruì di nuovi, prosciugò maremme, arginò fiumi, ecc.; nel 1790 bonificò la Baia di Napoli;
- terminò le costruzioni iniziate dal padre (Regge di Caserta e Portici);
- ne iniziò di nuove: Favorita di Palermo, Chiesa di S. Francesco di Paola in Napoli, ecc.
Istituzioni ed iniziative culturali:
- nel 1768 stabilì una scuola gratuita per ogni Comune del Regno e per ambo i sessi, ordinando che nelle case religiose si facesse altrettanto; stabilì altresì un collegio per educare la gioventù in ogni provincia, il tutto senza tasse supplementari;
- nel 1779 trasformò la Casa dei Gesuiti di Napoli in un Collegio per nobili giovanetti, detto Ferdinandeo, e diede un Conservatorio per l’istruzione delle orfane povere;
- nel 1778 fu creata l’Università di Cattaneo, l’anno seguente quella di Palermo con teatro anatomico, laboratorio chimico e gabinetto fisico;
- istituì una sezione astronomica nel Palazzo Reale di Palermo, ove lavorò il Piazzi; un altro osservatorio fondò sulla Torre di San Gaudioso in Napoli;
- solo in Sicilia fondò 4 licei, 18 collegi e molte scuole normali;
- fondò in Palermo un seminario nautico per l’istruzione di marinai;
- istituì una deputazione per sorvegliare tutti i Collegi del Regno;
- nel 1778 istituì l’Accademia delle Scienze e delle Belle Arti a Napoli;
- aprì una biblioteca a Palermo;
- riordinò le tre Università del Regno, creando nuove cattedre: si vide per la prima volta negli ospedali quella di ostetricia e di osservazioni chirurgiche;
- onorò i geni dell’arte musicale, come Cimarosa e Paisiello, che eresse a maestro del Principe ereditario; inoltre somministrò i mezzi a molti giovani artisti per perfezionarsi a Roma;
- arricchì il Museo di Napoli e la Biblioteca;
- continuò gli scavi di Ercolano e Pompei.
Provvedimenti militari:
- Fondò parecchi collegi militari, un’accademia per le armi dotte, riordinò l’esercito;
- iordinò la marina, e quando nel 1790 andò a fuoco il vascello Ruggiero in costruzione a Castellammare, i sudditi spontaneamente offrirono al Sovrano una colletta di un milione di ducati per la ricostruzione del vascello;
- pubblicò il Codice Penale militare.
Provvedimenti economici:
- fondò la Borsa di Cambio, ed avviò molti nuovi commerci, come la pesca del corallo;
- cedette a canone e provvide di ottime leggi il Tavoliere della Puglia, facendo sorgere molte colonie, esentando per 40 anni da molte tasse gli agricoltori che avessero popolato, coltivato e incrementato quelle zone fin’allora abbandonate;
- fondò a tal proposito Monti frumentari;
- diminuì notevolmente le tasse ai cittadini (specie quelle da versare ai baroni), dirette e indirette, come quelle di grascina, degli allogati, del tabacco, de’ pedaggi, ed in alcune province quella della seta.
Provvedimenti civili, sociali e di carità:
- fondò la Cassa per gli orfani militari provvedendola di una rendita di 30.000 ducati annui, per educare i figli dei militari defunti e per la dote delle figlie;
- gli albanesi e i greci del Regno furono riuniti in colonie, e fondò seminari e scuole per loro, dando loro anche un luogo per il commercio in Brindisi; inoltre istituì un vescovado di rito greco cattolico;
- quando vi fu una colletta popolare in Napoli per il matrimonio del Principe ereditario egli ne accettò solo una piccola parte (70.000 ducati) che versò interamente ai poveri della città;
- fece la colonia di San Leucio per la lavorazione della seta seguendo criteri di uguaglianza sociale;
- prima della Rivoluzione Francese fu fermo nella difesa delle prerogative statali contro la Chiesa; dopo il 1815 fu più generoso, anche se mantenne sempre la scelta dei vescovi con il Concordato del 1818;
- nel 1818 salpò da Napoli la prima nave a vapore italiana, che attraversò il Mediterraneo;
- introdusse per magistrati l’obbligo di motivare le sentenze.
Questo è il Re che la “vulgata” storiografica nazionale ha sempre presentato come volgare, ignorante, fanatico e reazionario. Un Re “Lazzarone”, “popolano”; ed infatti il popolo vero fu sempre con lui.
Il Cardinale Ruffo e le insorgenze filoborboniche
Nella pagina dedicata a Ferdinando IV abbiamo accennato alla momentanea perdita del Regno a causa dell’invasione degli eserciti francesi e alla riconquista attuata dal Cardinale Ruffo coadiuvato da decine di migliaia di insorgenti che volontariamente presero le armi in difesa della Chiesa e della Monarchia borbonica legittima contro il repubblicanesimo giacobino e l’invasore napoleonico.
È una pagina di storia italiana di valore eccezionale, che per decenni È stata occultata dalla storiografia nazionale, e che solo in questi ultimi anni comincia ad essere conosciuta da parte del grande pubblico, grazie al contributo di tanti storici che, mossi da spirito di verità, hanno pubblicato studi e organizzato convegni in occasione del bicentenario di tali eventi.
In realtà, la storia delle rivolte popolari che gli italiani attuarono contro l’invasore napoleonico e i suoi alleati italiani, i giacobini repubblicani, non riguarda solo il Regno di Napoli; questo infatti fu l’ultimo ad essere invaso in ordine di tempo, solo nel dicembre del 1798. Ma già nei tre anni precedenti decine di migliaia di italiani di tutte le classi ed età avevano preso le armi contro i rivoluzionari in difesa della Chiesa aggredita e dei legittimi sovrani e governi spodestati. Oggi esistono decine di studi che descrivono con correttezza e relativa completezza tali tragici ed allo stesso tempo eroici eventi, e ad essi rimandiamo per l’approfondimento di tale pagina di importanza capitale per la storia delle popolazioni italiane (si veda a riguardo la voce dedicata ai Libri consigliati).
In tale sede ci limiteremo ad accennare in maniera succinta ma chiara al risvolto più glorioso e trionfale della storia della Insorgenza controrivoluzionaria italiana, vale a dire ciò che accadde nel Regno di Napoli nel 1799 e tra il 1806 e il 1810.
Un popolo in rivolta in nome di Ferdinando IV
Napoleone Buonaparte invase l’Italia nel 1796 entrando dal Piemonte e marciando verso la Lombardia e il Veneto. Come È noto, la conquista fu fulminea, ma ciò che meno si conosce È il fatto che ovunque arrivassero francesi e si istituissero repubbliche giacobine le popolazioni insorgevano in massa contro i rivoluzionari in difesa della civiltà tradizionale italiana. Così fu nel 1796-’97 nel Nord Italia, così nel 1798 nei territori dello Stato Pontificio invaso nel febbraio dai francesi; così sarà nel 1799 nel Regno di Napoli e nel resto d’Italia, che sarà appunto liberata completamente nell’ottobre di quello stesso anno tramite una controrivoluzione generale del popolo italiano (dalla Alpi alla Calabria) in nome della religione cattolica e dei rispettivi legittimi sovrani e governi.
Ma veniamo ai fatti del Regno di Napoli. Dal febbraio 1798 lo Stato Pontificio non esisteva più, e al suo posto era nata la giacobina Repubblica Romana: ma per tutti i mesi successivi decine di migliaia di persone erano insorte in armi contro i repubblicani in nome di Pio VI, che era stato costretto a lasciare Roma. Nel novembre del 1798 Ferdinando IV decise di attaccare la Repubblica Romana per riportare il sovrano Pontefice sul suo legittimo Trono e cacciare il giacobinismo e l’invasore napoleonico dall’intera Penisola.
Attaccato da Sud, il generale napoleonico Championnet dapprima si ritirò, permettendo a Re Ferdinando IV di entrare da trionfatore in Roma (la popolazione lo accolse in un tripudio di gioia generale); poi però contrattaccò; a questo punto l’esercito napoletano non fu capace di resistere, e si ritirò precipitosamente verso Napoli, evitando sempre di combattere, e consegnando, senza colpo ferire, ai francesi tutte le fortezze dei territori settentrionali del Regno, compresa quella inespugnabile di Gaeta.
Ferdinando IV l’8 dicembre 1798 emanò da L’Aquila un proclama ufficiale col quale invita tutti i sudditi a difendere in armi il Regno e la Religione contro l’invasore rivoluzionario. Mai proclama fu più preso alla lettera. Championnet mentre marciava tranquillo verso Napoli con tre diversi eserciti, trovò sulla sua strada l’inattesa e ferocissima resistenza degli insorgenti abruzzesi e del basso Lazio. Furono proprio costoro, decine di migliaia di persone pronte ai più grandi atti di eroismo, che ritardarono di settimane l’arrivo dei francesi nella capitale. Un nome valga per tutti, ed È quello di Michele Pezza di Itri, detto Fra Diavolo, il più celebre e coraggioso di tutti i capimassa insorgenti di quegli anni, che combattÉ senza tregua il giacobinismo fin dai primi giorni dell’invasione francese e darà la sua vita al servizio della causa cattolica e borbonica. In ogni caso, il 22 dicembre il Re Ferdinando con tutta la Corte lasciava Napoli via mare per Palermo, in quanto, come egli stesso ebbe a rispondere alle suppliche di chi voleva convincerlo a restare, si metteva per mare in quanto vedevasi tradito per terra (si riferiva all’evidente tradimento perpetrato dalle più alte gerarchie dell’esercito, a partire dallo stesso Mack, che avevano, come detto, abbandonato il Regno all’invasore senza combattere).
Napoli rimase in mano al Vicario Pignatelli Strongoli, che fu poi di fatto esautorato dal Corpo degli Eletti, un antico organismo aristocratico, ove spiccava la figura del giovane Antonio Capece Minutolo principe di Canosa, strenuo difensore della legittimità borbonica (lo sarà per tutta la vita); ma di fatto, durante i giorni di gennaio, l’anarchia si affermò nella capitale, specie man mano che i francesi si avvicinavano. Alla notizia che anche la fortezza di Capua si era consegnata ai napoleonici senza combattere, i lazzari, decine di migliaia di popolani napoletani, presero il controllo della città, pronti a combattere fino alla fine contro i francesi ed i giacobini locali in difesa del Trono e della religione.
La rivolta dei lazzari iniziò appunto il giorno 13 gennaio 1799, e costrinse i democratici partenopei a rinchiudersi nelle fortezze della capitale. Quando Championnet decise di attaccare Napoli, i lazzari iniziarono un’eroica quanto impossibile resistenza, che durò fino al giorno 23, e costò 10.000 morti più 1.000 francesi. Il giorno 21, mentre l’intera città combatteva e moriva contro i francesi, poche decine di giacobini rinchiusi in Castel S.Elmo avevano proclamato la nascita ufficiale della Repubblica Partenopea. ufficiale della Repubblica Partenopea. Alla fine Championnet prese la città (occorsero, per venire a capo della resistenza popolare, tre eserciti francesi e si dovette ricorrere alla mostruosità di dare fuoco alle case del popolo per far venire fuori la gente e fucilarla sul colpo) [Riguardo ai lazzari, sempre descritti come barbari fanatici ed incivili da tutta la storiografia nazionale di questo secolo, a partire da Benedetto Croce in poi, mi limito a riportare il giudizio di chi li conobbe veramente e li combatté e sconfisse, vale a dire i generali Championnet e Bonnamy; giudizio più imparziale e più “al di sopra di ogni sospetto” di questo non è quindi possibile fornire. Scrive Championnet in un suo dispaccio al Direttorio: “Mai combattimento fu più tenace: mai quadro più spaventoso. I Lazzaroni, questi uomini stupendi (…) sono degli eroi rinchiusi in Napoli. Ci si batte in tutte le vie; si contende il terreno palmo a palmo. I Lazzaroni sono comandati da capi intrepidi. Il Forte S. Elmo li fulmina; la terribile baionetta li atterra; essi ripiegano in ordine, ritornano alla carica, avanzano con audacia, guadagnano spesso del terreno…”. Fa altrettanto il Bonnamy: “I Lazzaroni, questi uomini meravigliosi, si difendono come dei leoni.
Sono respinti, sono vincitori. Nonostante perdano del terreno, dell’artiglieria, si conquistino varie strade, siano alle strette, non sono domati. Sopraggiunge la notte, il fuoco continua (…) Appare il giorno: l’accanimento dei combattenti raddoppia. Si fanno da entrambe le parti prodigi di valore”. Questi i giudizi dei generali napoleonici sui lazzari.].
Nei giorni seguenti la presa di Napoli e l’istituzione della Repubblica giacobina, un Cardinale della Chiesa, principe ed appartenente ad una delle più antiche famiglie del Regno, Fabrizio Ruffo dei duchi di Baranello e Bagnara, al tempo direttore della Colonia di S. Leucio, di sua iniziativa si diresse a Palermo per domandare al Re uomini e navi per riconquistare il Regno.
Cosa fu a spingere il Ruffo a fare ciò, e cosa egli esattamente avesse in mente, non lo sapremo mai. Egli non era un generale, era solo un prete nobile, come tanti a quei tempi. Quel che è certo è che, giunto a Palermo e parlato con i sovrani, ottenne il titolo di Vicario plenipotenziario del Re, una nave e sette uomini. Probabilmente, chiunque altro avrebbe rinunciato alla folle idea. Non il Ruffo. Egli veramente partì con quel che aveva, e sbarcò il 7 febbraio 1799 in Calabria nei pressi di Pizzo, vicino ai feudi della sua famiglia. Erano otto persone. Quattro mesi dopo, l’esercito dei volontari della Santa Fede (il Ruffo chiamò il suo esercito “Armata della Santa Fede” o “Armata Cristiana e Reale”), o sanfedisti, era composto di decine di migliaia di persone, ed entrava in Napoli da trionfatore, restaurando la monarchia borbonica. Si tratta senz’altro della pagina più eroica di tutta la storia della Controrivoluzione italiana, probabilmente di una delle più coinvolgenti di tutta la storia. Per tali ragioni, di fronte a tali eventi non si poteva rimanere indifferenti: o si celebravano come conveniva, o si diffamavano e smitizzavano: la storiografia italiana di questi due secoli, e specie quella di questo secolo, ha scelto la seconda via. Non è certo possibile narrare i fatti storici della spedizione. Ci limitiamo a ricordare solo che, mentre nelle provincie settentrionali del Regno erano già insorte in armi spontaneamente migliaia di persone non appena Ferdinando l’8 dicembre 1798 aveva emanato il proclama di difesa generale del Regno, il Cardinale Ruffo da parte sua iniziò la riconquista della Calabria verso il mese di aprile, e solo in maggio mosse verso il nord, passando attraverso Matera, quindi Altamura, per dirigere poi verso Manfredonia ed Ariano, ove giunse il 5 giugno, e si preparò a marciare sulla capitale, che conquistò, come è noto, non senza una tragica battaglia che rivide i lazzari napoletani nuovamente in azione, il 13 giugno, neanche a farlo apposta il giorno di Sant’Antonio, protettore ufficiale della “Armata Cristiana e Reale”.
In quei giorni, durante l’assedio di Napoli, il Ruffo avrebbe voluto salvare i giacobini rinchiusi in Castel S. Elmo, e offrì loro la fuga via terra; ma questi preferirono affidarsi al Nelson, che assediava Napoli da parte di mare; il Nelson ne fece impiccare 99, e da questo atto è nato il mito dei “martiri della Repubblica Partenopea”, di cui sempre si incolpano i Borbone. Ma, come abbiamo già spiegato nella voce dedicata a Ferdinando IV, anche se forse il Re avrebbe potuto concedere qualche grazia in più, ben difficilmente avrebbe potuto non punire con la morte chi si era macchiato di altro tradimento, chi aveva cospirato con un’invasore rivoluzionario e aveva di fatto provocato la caduta della monarchia e la caduta del Regno in mano al nemico; il tutto per altro senza il minimo appoggio popolare, anzi, contro la volontà del popolo (e non solo di quello della capitale), come i mesi precedenti avevano dimostrato inequivocabilmente.
Se si vuole essere realmente imparziali nel giudizio storico, occorre tener presente fino in fondo la reale gravità del tradimento dei giacobini, sia verso i legittimi sovrani che verso il popolo del Regno; gravità peggiorata dal fatto che si consegnò lo Stato in mano ad un nemico invasore, e, soprattutto, agli occhi dei Sovrani, dal fatto che i traditori erano per lo più nobili e spesso amici della coppia reale e da loro beneficiati.
Se si potesse avere un colpo d’occhio istantaneo e generale del Regno di Napoli nel primo semestre 1799, si vedrebbero decine di migliaia di persone dall’Abruzzo e basso Lazio fino alla Puglia ed alla Calabria insorgere in armi volontariamente e combattere fino alla morte contro la Repubblica giacobina e l’invasore napoleonico in nome della Chiesa e dei Borbone delle Due Sicilie. Volendo solo nominare qualcuno fra i più famosi capi dell’insorgenza filoborbonica, occorre citare, oltre Fra Diavolo, G.B. Rodio, Giuseppe Pronio, Vito Nunziante [Nunziante a sue spese nel ’99 mise su un reggimento per combattere contro i francesi; era talmente stimato da Ferdinando che negli anni della Restaurazione fu nominato Viceré di Sicilia.] , Sciarpa, Panedigrano, ecc.
Da ricordare è poi anche la grande guerra sostenuta dai francesi con l’instaurazione prima di Giuseppe Bonaparte poi di Gioacchino Murat sul Trono di Napoli, contro il cosiddetto “brigantaggio” meridionale filoborbonico, dal 1806 al 1810. È una storia tragica, caratterizzata da stragi ferocissime, rappresaglie senza scrupoli, scene drammatiche ed incivili.
Insorsero la Puglia, la Basilicata, ma soprattutto tutte le Calabrie, creando un vero e proprio stato di guerra permanente. Gli insorgenti – a capo dei quali vi erano alcuni eroi del ’99 (di nuovo Michele Pezza [Ricordiamo che Ferdinando diede al Pezza il titolo di duca e una lauta pensione per i suoi meriti; ma nel 180 questi lasciò titolo, pensione ed anche moglie e figli per tornare a combattere i francesi, e trovare eroicamente la morte, dopo aver rifiutato l’allettante proposta fattagli da Giuseppe Bonaparte di passare al suo servizio con salva la vita e le cariche più altre nuove e prestigiose.] , Sciabolone, De Donatis, G.B. Rodio [Il Rodio era molto caro alla Regina, che lo nominò marchese, per la sua abnegazione alla causa, per la quale diede anch’egli la vita come Fra Diavolo nel 1806.] , Sciarpa, Panedigrano, i protagonisti della Santa Fede che dopo sette anni non esitarono ad abbandonare nuovamente famiglia e lavoro, più tutti i loro privilegi acquisiti, per andare incontro alla morte in una guerra disperata al fine di servire la stessa causa di sette anni prima, lo stesso Re contro lo stesso nemico), più altri nuovi esponenti controrivoluzionari, fra cui ricordo solo, fra tutti gli altri, Carmine Caligiuri, Rodolfo Mirabelli, Alessandro Mandarini e vari altri, sostenuti dagli inglesi via mare – per anni affrontarono gli eserciti franco-partenopei, sostenendo anche vere e proprie battaglie “in grande stile”, come quella vittoriosa di Maida.
Alla fine furono sì sconfitti, ma non per questo Murat ottenne mai la pace e l’appoggio dei suoi sudditi: come già ricordato nella voce dedicata a Ferdinando IV, quando tentò la riconquista del Regno nel 1815 sbarcando a Pizzo, fu preso a fucilate dai contadini del luogo, quindi arrestato, processato e condannato a morte.
L’insorgenza fu un’occasione eccezionale per molti popolani e umili per dimostrare la propria fedeltà eroica ai sovrani, così come fu occasione per altri (nobili e signori) per dimostrare il proprio tradimento ai loro benefattori e sovrani.
Alcune considerazioni
Ciò che non si vuole ammettere di tutta questa storia (e per tal ragione si tende a sottolineare sempre solo l’aspetto delle violenze, quelle vere e quelle inventate), è la motivazione reale che spinse la stragrande maggioranza della popolazione del Regno ad aderire – in via diretta o indiretta – al sanfedismo: vale a dire, emplicemente, il netto ed anche violento rifiuto del giacobinismo e dei suoi ideali rivoluzionari: e quindi la fedeltà alla causa cattolica e borbonica. Questo è il vero cuore della questione, ciò che più brucia, ancora oggi, a duecento anni di distanza. I repubblicani partenopei saranno stati anche disinteressati (qualcuno), qualcuno anche coraggioso, molti fecero poi la fine tragica che conosciamo, pagando con la vita le proprie idee; questo nessuno lo può e lo vuole negare.
Ma perché, di contro, si continua a negare che tutto il Regno era antigiacobino? Che era fedele ad una concezione tradizionale della Fede e della Monarchia?
Solo per fornire qualche minimale esempio, mi limito a riportare alcuni allucinanti dati di truci rappresaglie commesse dalle truppe franco-giacobine contro popolazioni inermi di civili (oltre ai già ricordati 10.000 morti napoletani nella sola settimana della rivolta dei lazzari): nel basso Lazio avvennero le prime feroci stragi di civili: 1300 persone furono scannate a Isola Liri e dintorni; Itri e Castelforte, furono devastate; 1200 persone uccise a Minturno in gennaio, più altre 800 in aprile; gli abitanti della cittadina di Castellonorato furono tutti massacrati; 1500 furono le persone passate a fil di spada nella sola Isernia, 700 nella zona di Rieti, 700 a Guardiagrele, 4.000 ad Andria, 2000 a Trani, 3.000 a S. Severo, 800 a Carbonara, tutta la popolazione a Ceglie, ecc.; ancora negli anni 1806-’10, nella guerra di Calabria, ricordiamo 2.200 vittime ad Amantea, 300 a Longobardi, ecc.
Come è noto, lo stesso generale francese Thiéboult [Così testimonia il Gen. P. THIÉBOULT nei suoi Mémoires (Paris, 1894, II, p. 325): “senza contare le perdite che ebbero nei combattimenti, più di sessantamila di loro furono passati a fil di spada sulle rovine delle loro città o sulle ceneri delle loro capanne”. In: N. RODOLICO, Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale (1798-1801), Le Monnier, Firenze 1926, pp. XIII-XIV.] assomma a 60.000 i civili, si badi, i soli civili, massacrati dai franco-giacobini nei soli cinque mesi della Repubblica!
Per concludere, la verità storica dimostra che le popolazioni italiane, ed in particolare quelle meridionali, rifiutarono la Rivoluzione Francese in nome della fedeltà alla civiltà tradizionale ed ai governi legittimi. Ecco spiegata l’epopea della Santa Fede. Il popolo era contro i giacobini, ed era fedele alla monarchia borbonica.
Se non è possibile soffermarsi nel racconto dei fatti, può essere però opportuno svolgere qualche breve considerazione di carattere generale. Mentre per tutti gli altri episodi eroici e tragici dell’Insorgenza italiana avvenuti ovunque nella Penisola nell’arco dei 25 anni in questione è prevalsa, da parte della storiografia italiana, la tendenza a “occultare”, per quanto riguarda la spedizione del Ruffo e il sanfedismo, non essendo possibile ciò date le dimensioni epocali del fenomeno, è invalsa la tendenza a calunniare: quelle del Ruffo erano solo bande di delinquenti ed assassini assetati di sangue e di ricchezze facili; e il Ruffo ne era il degno capo.
Naturalmente, non si può negare che aderirono anche delinquenti e briganti veri; tant’è vero che lo stesso Cardinale ne era fortemente contrariato, e adottò sovente misure severissime per reprimere gli atti delinquenziali; fece sempre e comunque tutto il possibile anche per salvare i giacobini stessi dalla furia dei suoi uomini, tanto che accadde non di rado che gli stessi repubblicani si consegnassero a lui in persona al fine di sfuggire alla vendetta dei anfedisti.
Ma cosa ci si poteva aspettare di diverso? Il 7 febbraio il cardinale disponeva di 7 uomini; due mesi dopo erano decine di migliaia di volontari accorsi da ogni parte del Regno: è chiaro che fra essi vi fossero anche elementi non raccomandabili. Ma non erano “il nerbo” dell’Armata della Santa Fede! Questo era composto da nobili, contadini, borghesi, ufficiali, finanche preti, pronti ad abbandonare famiglia, ricchezze, lavoro, case, chiese, per andare a combattere il giacobinismo al seguito di un cardinale.
fonte
Le popolazioni Napolitane avevano capito prima di tutte le altre che nulla di buono poteva loro derivare dalla Rivoluzione francese. Rivoluzione voluta dai massoni in favore dell’alta borghesia, ma completamente estranea al popolo minuto!