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STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI (IX)

Posted by on Set 8, 2024

STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI (IX)

NAPOLEONE III E IL REGNO D’ITALIA DOCUMENTI DIPLOMATICI

Dispaccio indirizzalo dal signor Thouvenel

all’incaricato d’affari di Francia a Torino

Parigi, 15 giugno 1861.

Signore,

Il Re Vittorio Emanuele ha indirizzato all’Imperatore una lettera che ha per oggetto di domandare a sua Maestà che lo riconosca come Re d’Italia. L’imperatore accolse questa comunicazione coi sentimenti di benevolenza che l’animano verso l’Italia, e Sua Maestà è tanto più disposta a darne nuovo saggio coll’accedere ai voti del Re, inquantochè nelle attuali circostanze la nostra astensione potrebbe far nascere delle erronee congetturo, ed essere considerata come l’indice d’una politica che non è quella del governo imperiale. Ma se tanto c’interessa a non lasciar dubbi in proposito sulle nostre intenzioni, tuttavia sonvi necessità che non possiamo perdere di vista, e dobbiamo prenderci cura che questo riconoscimento non venga interpretato in Italia od in Europa in un modo inesatto.

Il governo di Sua Maestà non ascose in alcuna circostanza la propria opinione sugli avvenimenti che l’anno scorso scoppiarono nella Penisola.

Dunque il riconoscimento dello stato di cose che ne è risultato non potrebbe esserne la garanzia, come non potrebbe implicare la retrospettiva approvazione d’una politica, sulla quale ci siamo costantemente riservati intiera libertà d’apprezzamento.

Ancor meno l’Italia avrebbe ragione a trovarvi un incoraggiamento ad imprese di natura da compromettere la pace generale. La nostra maniera di vedere non ha punto cangiato dopo il convegno di Varsavia, ove avremo occasione di farla conoscere all’Europa come al Gabinetto di Torino.

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Dichiarando allora che consideravamo il principio del non intervento come regola di condotta per tutte le Potenze, noi avevamo soggiunto che un’aggressione da parte degl’Italiani, qualunque ne potessero essere le conseguenze, non otterrebbe l’approvazione del governo dell’Imperatore. Noi siamo rimasti nei medesimi sentimenti e decliniamo anticipatamente qualunque solidarietà in progetti, dei quali il governo italiano solo dovrebbe correre i pericoli e subire le conseguenze.

Il Gabinetto di Torino, dal canto suo, saprà tenere calcolo dei doveri che ci sono imposti dalla nostra posizione verso la S. Sede, ed io crederei cosa superflua l’aggiungere che nello stringere le relazioni ufficiali col Governo italiano, noi non vogliamo in alcun modo indebolire il valore delle proteste fatte dalla Corte di Roma contro l’invasione di parecchie provincie degli Stati Pontifici. Il Governo di Vittorio Emanuele non potrebbe contestare, come non lo potremmo noi stessi, la potenza delle considerazioni di ogni genere che si collegano colla quistione romana e che devono necessariamente avere un’azione sulle nostre determinazioni, ed intenderà, che’nell’atto in cui riconosciamo il regno d’Italia, noi dobbiamo continuare ad occupare Roma fino a tanto che gli interessi, i quali ci hanno condotti in quella città, non saranno tutelati da sufficienti guarentigie.

Il Governo dell’Imperatore ha stimato necessario di spiegarsi, in questo momento, colla massima schiettezza verso il Gabinetto di Torino. Noi abbiamo la fiducia che esso saprà comprendere l’indole e Io scopo.

Vogliate, signore, dar lettura di questo dispaccio al barone Ricasoli, e lasciarne copia.

Aggradite ecc.

Firmato Trouvenel.

Al signor conte Gropello, incaricato d’affari di S. M. il Re Vittorio Emanuele II in Parigi.

Torino, 21 giugno 1861.

Signor Conte,

L’incaricato d’affari di Francia venne a comunicarmi il dispaccio, di cui qui unita troverete una copia.

In questo dispaccio S. E. il Ministro degli affari esteri dell’Imperatore dichiara che S. M. I. è pronta a darci un nuovo pegno dei suoi sensi di benevolenza riconoscendo il regno d’Italia. Tuttavia soggiunge che quest’atto avrebbe sopratutto lo scopo di impedire erronee congetture, e che non implicherebbe l’approvazione retrospettiva di una politica, riguardo alla quale il Governo di S. M. I. si è costantemente riservata intera libertà di giudizio. Ancor meno saremmo noi tenuti a vedere in questo dispaccio un incoraggiamento ad intraprese tali da compromettere la pace generale. Richiamando le dichiarazioni del Governo francese al momento del colloquio di Varsavia, il sig. Thouvenel ripete che esso continua a guardare il principio del non intervento come una regola di condotta per tutte le Potenze, ma dichiara che il Gabinetto delle Tuileries declinerebbe anticipatamente ogni risponsabilità in progetti d’aggressione, dei quali noi dovremmo assumere i pericoli e subire le conseguenze.

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Passando in seguito a spiegare la posizione della Francia rispetto alla Corte di Roma, il sig. Thouvenel ricorda che potenti considerazioni obbligano il Governo imperiale a continuare l’occupazione di Roma, sinché sufficienti guarentigie non copriranno gli interessi religiosi che l’Imperatore ha giustamente a cuore di proteggere, ed esprime la confidenza che il Governo del Re saprà apprezzare il carattere e l’oggetto di queste franche spiegazioni.

Prima di farvi conoscere il mio modo di vedere sulle considerazioni svolte nel dispaccio del signor Thouvenel, devo pregarvi, sig. Conte, di esprimere al sig. Ministro degli affari esteri la mia viva e profonda gratitudine per la preziosa prova di simpatia che l’Imperatore è disposto a dare alla nostra causa nazionale riconoscendo il regno d’Italia.

Quest’atto riveste nelle circostanze presenti un valore del tutto particolare, e gli Italiani saranno profondamente commossi, vedendo che S. M. I., benché non abbia modificato il suo giudizio sugli avvenimenti che si successero l’anno passato nella Penisola, è disposto a dare all’Italia, tuttora mesta per un grave lutto nazionale, una prova così splendida della sua alta e generosa benevolenza.

Pregandovi di essere l’interprete di questi sentimenti presso il Governo dell’Imperatore, io non faccio altra cosa se non seguire l’esempio di un gran cittadino, del quale noi piangiamo la morte. Al pari di lui io apprezzo secondo il suo valore la schiettezza con cui il Governo imperiale volle farci conoscere in qual maniera esso giudichi gli avvenimenti che potrebbero sorgere in Italia. Io non saprei in miglior modo rispondere a quella prova di confidenza se non coll’esprimere con una uguale schiettezza e senza alcuna reticenza il mio pensiero.

Chiamato dalla fiducia del Re a succedere al conte di Cavour nella presidenza del Consiglio e nella direzione della politica estera, io ho trovato il mio programma già tracciato nei voti recenti che le due Camere del Parlamento ebbero occasione di pronunciare sulle quistioni più importanti per l’avvenire dell’Italia. Dopo lunghe e memorabili discussioni, il Parlamento, Dell’affermare in modo solenne il diritto della nazione a costituirsi nella completa unità, ha manifestato la speranza che i progressi che la causa d’Italia va facendo ogni giorno nella coscienza pubblica, condurrebbero a poco a poco e senza scosse alla soluzione tanto ardentemente desiderata dagli Italiani.

Questa fiducia nella giustizia della nostra causa, nella saggezza dei governi europei, come pure nell’appoggio ogni giorno più potente della pubblica opinione che il conte di Cavour manifestava con tanta eloquenza poco tempo prima della sua morte, si trasfuse pienissima nella amministrazione, alla quale io ho l’onore di presiedere. Il Re ed i suoi ministri sono sempre convinti che, coll’odiare le forze del paese e col dare all’Europa l’esempio di un progresso saggio e regolare, noi riusciremo a tutelare i nostri diritti senza esporre l’Italia a sterili agitazioni e l’Europa a complicazioni pericolose.

Voi potete dunque, signor Conte, rassicurare pienamente il Governo dell’Imperatore, rispetto alle nostre intenzioni circa alla politica esterna.

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Ciononostante, le dichiarazioni del sig. Thouvenel, relativamente alla quistione romana, mi obbligano ad aggiungere alcune parole a questo riguardo.

Voi conoscete, signor Conte, in qual modo il Governo del Re consideri quella quistione. II nostro voto si è di restituire all’Italia la sua gloriosa capitale, ma è nostra intenzione di nulla togliere alla grandezza della Chiesa, alla indipendenza del Capo della religione cattolica. Noi vogliamo in conseguenza sperare che l’Imperatore potrà tra breve richiamare le sue truppe da Roma senza che quella risoluzione faccia provare ai cattolici sinceri timori, che noi saremmo i primi a deplorare. Gli stessi interessi della Francia, noi ne siamo convinti, condurranno il Governo francese a prendere questa determinazione. Lasciando all’alta saggezza dell’Imperatore il giudicare del momento in cui Roma potrà senza pericolo essere abbandonata a se stessa, noi considereremo sempre nostro dovere il facilitare quella soluzione, e speriamo che il Governo francese non ci rifiuterà il suo concorso per indurre la Corte di Roma ad accettare un accordo che sarebbe fecondo di liete conseguenze per l’avvenire della religione come per i destini d’Italia.

Vogliate leggere questo dispaccio e lasciarne copia a S. E. il ministro degli àffari esteri, ed aggradite, ecc.

Firmato: Ricasoli

APPROVAZIONE DEL PRESTITO

di 750 milioni

(Pubblicato il 3 luglio 1861).

Il 1° di luglio la Camera elettiva approvava il prestito di cinquecento milioni effettivi, che, secondo il Journal des Economistes di Parigi, non possono ottenersi se non contraendo un debito di 750 milioni.

I Deputati presenti alla votazione erano 256. Votarono a favore del prestito 242, e contro 14. Ognuna di quelle fave che gli onorevoli deponevano nell’urna in favore del prestito valeva più di tre milioni, e trovaronsi 242 fave di tanto valore!

Ora qui è da farsi una semplice osservazione. Noi abbiamo 443 Deputati, e alla votazione d’un prestito di 750 milioni non convennero che poco più della metà, cioè 256 I Il dep. Ferrari nella tornata del 26 di giugno già avvertiva come un fatto importantissimo queste assenze continue degli onorevoli. ?Noi siamo riuniti, diceva egli, ma ad ogni appello nominale mancano 120, 130, 180 Deputati? (Alti Uff. n. 223, pag. 849). Nella votazione del prestito ne mancarono ben 187!

Tutti sono stanchi, gli elettori di eleggere, e gli eletti di votare. In Torino, nel primo collegio della capitale del Regno d’Italia, il barone Ricasoli con tutto il suo potere, con tutta la sua caterva d’impiegati non potè radunare tanti elettori da riuscir Deputato alla prima votazione. Se la legge non passasse buono nel ballottaggio un qualunque numero di votanti, il Presidente del Consiglio non sarebbe ancora eletto oggidì.

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In pari tempo nella votazione d’un prestito di 750 milioni si trovano ben 187 Deputati che non si curano di dare il voto, e che restano indifferenti a questo nuovo e ingentissimo peso, che si aggrava sopra la povera Italia!

Ma il signor Bastogi non ci guarda tanto pel sottile. Egli voleva i milioni da dar la pappa al neonato, e li ha ottenuti. Che i votanti sieno stati 256, o 443 poco importa al Ministro, purchè i milioni entrino in cassa. Egli era nella massima costernazione, e dicono che, per andare innanzi, si facesse imprestare brevi manu un ottanta milioni, e che mangiasse una parte del suo grano in erba. Ora ha il cuore nello zucchero, perché il prestito venne approvato. Però quanto tempo staremo senza udir a parlare d’un nuovo prestito?

Noi ci troviamo nel caos così in materia di finanze come di politica. La cosa venne dimostrata ad evidenza dal deputato FerrArt. Leggetene le seguenti osservazioni tolte dagli Atti Ufficiali, a. 223, pag. 848:

?Nell’atto in cui io e moltissimi dei miei colleghi ci (sic) siamo sforzati di esaminare le cifre dei bilanci prodotti, e dei diversi quadri sinottici, nell’atto, dico, in cui ci siamo sforzati di fare il nostro dovere, d’altronde molto inclini a credere ai dati forniti, ci siamo abbattuti in tali sconcordanze da farci concludere la incontestabile inesattezza o almeno l’inesplicabile oscurità dell’amministrazione.

?Noi abbiamo sott’occhi tre lavori, due del ministro delle finanze ed uno del direttore generale del debito pubblico.

?Ora, confrontato l’elenco. 1 del progetto di legge per l’unificazione del debito pubblico, la prima tabella del rendiconto suddetto, intitolata; Situazione del debito pubblico al 1° giugno 1861, ed il capo I del bilancio passivo per l’anno 1860 del Ministero delle finanze, troveremo per ogni partita del debito pubblico cifre discordanti.

?E questa discordanza delle cifre non si toglie neppure colla valutazione o meno dei fondi assegnati all’estinzione annua della parte redimibile dei varii debiti.

?Diamo un esempio.

?Il debito redimibile della creazione 12 e 16 giugno 1849 è inscritto per l’importo di assegnazione annua, nel suddetto elenco A, di I. . 45, 607, 611 91; nel rendiconto Troglia, per l’importo di L. 54, 859, 934 29; nel bilancio passivo del 1861 (finanze) nell’importo di L. 49, 467, 361.

a Ammesso che si voglia parlare semplicemente della rendita vigente, senza calcolare gli ammortamenti, è ben vero che l’elenco A e il rendiconto esprimerebbero concordi la somma di L. 45, 607, 611 91.

?Ma, domandiamo allora, come mai, calcolato il fondo di assegnazione annua, il rendiconto esprima una cifra di 50 milioni, ed il bilancio passivo quella di 49.

?Così per il debito redimibile del 24 dicembre 1819, troviamo nell’elenco A dello schema la rendita di 1,041, 268 74.

?Nel rendiconto Troglia la rendita vigente di 1, 047, 221 74.

?Nel medesimo rendiconto la rendita col fondo di ammortamento nell’importazione per quest’anno di 2, 862, 327 17 e nel bilancio passivo delle finanze nella somma di 2, 867, 327 17.

?Come mai dunque la rendita vigente presenta una differenza di 6000 fr.?

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?Terzo esempio: la rendita vigente del 26 giugno e 22 luglio 1851 è inscritta nell’elenco A per l’importo di 4, 572, 375.

?Nel rendiconto Troglia, per 4, 500, 000, nell’importazione, compreso l’ammortamento, per l’importo di 3, 400, 000; e nel bilancio passivo delle finanze per 5, 416, 250.

?Chi, di grazia, ci spiegherà questa differenza?

?E se tali inesattezze emergono riguardo ai debiti delle antiche provincie, che diremo delle provincie annesse?

?Direte voi che questi non sono sbagli, ma oscurità? Ne accagionerete voi la mia poca abilità nel seguirvi?

?Havvi un fatto incontestabile: l’altro giorno incontrando un mio amico portato nel bilancio della guerra per una somma come ufficiale superiore in disponibilità, mi dichiarò, stupefatto, che aveva rinunziato a tutto e per motivi politici e da lungo tempo e con rinunzia accettata dal ministro Fanti.

n lo sono pronto a dirvi il nome di questo ufficiale, a trasmetterlo al ministro della guerra od al presidente del Consiglio, non lo dico in pubblico solo perché non serve, e resta il fatto del disordine amministrativo?.

Che ne dite di sì della amministrazione?-Clic giudizio portate dei Deputati che approvarono il prestito così al buio, in mezzo a tante contraddizioni? Che bella guarentigia pei danari del popolo è il voto di costoro! Dove riuscirà la povera Italia governata di questa maniera? Dove riuscirà? Lo disse il conte di Cavour fin dal 1850, cioè undici anni fa, il primo luglio, il giorno istesso in cui approvavasi testò il nuovo prestito. ?lo so quant’altri, diceva il conte di Cavour, che, continuando nella via che abbiamo seguita da due anni (la via dei prestiti), noi andremo difilati al fallimento?. Capite, dove c’incamminiamo a grandi passi? Al fallimento!

IL REGNO D’ITALIA

ALLA CONQUISTA DELLA CORSICA E DI MALTA

(Pubblicato il 10 luglio 1861).

?Corsica e Malta, queste due isole sono tutte e due nostre; ma fino a tanto che stanno in mano altrui, bisogna pur considerarle come paesi stranieri… Malta è il miglior nostro porto dell’avvenire?. Così parlava alla Camera elettiva il deputato Nino Rixio nella tornata del 15 di giugno, e le citate parole leggonsi negli Atti Ufficiati, N. 195, pag. 739, col. 2a.

Prima che il Regno d’Italia stia in pace dovrà passare gran tempo. Bettino Ricasoli vuol pigliare Roma e ricuperare Venezia; Lorenzo Valerio ha proclamato in Ancona che Trieste era nostra; un ex-deputato pubblicò un libro in Milano per dimostrare che il Trentino tocca all’Italia; italiano è il Canton Ticino, e deve annettersi al Regno, Corsica e Malta sono tutte due nostre, come dichiara il generale Bixio, e la nazione cercherà di riscattarsi del sacrificio di Nizza, come annunziava l’Opinione dell’8 di luglio.

Noi vorremmo che s’incominciasse dalle isole di Corsica e di Malta, essendo più facile il conquistarle.

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Esse obbediscono per ora alla Francia ed all’Inghilterra, due nazioni che ci sono amiche, che hanno aiutato col senno e colla mano l’opera del nostro risorgimento, che ammettono il principio di nazionalità, che riconoscono il Regno d’Italia.

Francia ed Inghilterra nutrono tanto affetto per noi che senza armi, con semplici rimostranze e preghiere potremo ottenere da loro la cessione di Corsica e di Malta. Coll’Austria ci vuoi la guerra e con Roma bisogna mettere in rivoluzione l’universo; laonde ci torna a conto di pigliar le mosse dalle cose più agevoli per venir poi di mano in mano alle più difficili.

Bene fu che un Deputato Genovese levasse la voce nella nostra Camera in favore della Corsica. Quest’isola, scrisse Vincenzo Gioberti ?è sempre appartenuta moralmente e geograficamente all’Italia, e politicamente, ch’io mi sappia, non ha mai fatto parte della Francia dal diluvio insino ai tempi, in cui nacque Napoleone? (Introduzione allo studio della filosofia, voi. 1, pag. 298, Capolago, ls. il?.

I primi abitanti della Corsica erano Liguri; gli Etruschi vi fondarono città commerciali; i Romani la tolsero ai Cartaginesi. Più tardi se ne impossessarono i Barbari, e quindi cadde in potere dei Saraceni. ?I Pontefici, scrisse l’avvocato Giuseppe Michele Canale, cui stava a cuore la Conservazione Della Fede E L’italica Libertà, esortavano Genovesi e Pisani a discacciarli?. Storia civile, commerciale e letteraria dei Genovesi, volume 1, pag. 86, Genova, i 844).

II Papa Benedetto nel 1015 concesse il dominio delle due Isole di Sardegna e di Corsica a chi prima ne avesse cacciato i Saraceni. e i Genovesi nel 1017 conquistarono la Corsica colle sole proprie armi. 1 Pisani la vollero essi pure, e ne nacquero guerre lunghe e micidiali, che pacificò S. Bernardo, il quale chiamava Genova e i Genovesi: popolo divoto, onorevole gente, illustre città. Genovesi e Pisani collegati in pace aiutarono Papa Innocenze li a conquistare la signoria di Roma contro i ribelli.

Sarebbe troppo lungo e fuor di luogo discorrere della dominazione de’ Genovesi in Corsica. I Corsi non ne furono sempre contenti, e parecchie volte si rivoltarono. Fermiamoci sull’ultima insurrezione che a poco a poco tolse la Corsica all’Italia. Essa incominciò nel 1729 quando i Corsi impugnarono le armi contro Genova ?e Inghilterra e Francia mandavano celatamente soccorsi agli insorgenti?. (Cantù, Storia degl’Italiani, voi. iv, pag. 136, Torino 1858).

I Corsi ribellati a Genova s’erano offerti alla Spagna, ma questa ?non trovava decoroso dar mano ai ribelli? (Cantù, ibid. , pag. 147). Fecero da sé, e proclamarono una legge del regno e della repubblica di Corsica, e Rossi e Neri, due famiglie numerose, potenti e nimicissime, si strinsero le destre sull’ara repubblicana (Arma, Delle cose di Corsica dal 1750 al 68).

Nel 1736 un Garibaldi di que’ tempi, il barone Teodoro di Neuhof di Westfalia, sbarcò in Corsica, vi fu acclamato Re, e s’intitolava ?Teodoro I per la grazia della SS. Trinità e per l’elezione dei varii e gloriosissimi liberatori e padri della patria Re di Corsica?. Così, osserva Carlo Augusto Varnhagen d’Ense, nel 1736 un Westfaliano fu Re in Corsica, e settantatré anni dopo un Corso era Re in Westfalia!

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I Genovesi invocarono allora gli aiuti di Francia, e gli ottennero, ma non si riuscì a pacificare la Corsica. Dopo quarant’anni d’inutili sforzi, Genova cedette i suoi diritti alla Francia col trattato di Compagne, 15 maggio 1768, come l’Austria col trattato di Villafranca cedeva a Napoleone II I i suoi dritti sulla Lombardia.

Ma i Corsi sdegnarono il giogo francese, e Pasquale Paoli, il primo capitano d’Europa, come chiamavalo Federico di Prussia, e i Saliceti, e gli Abbattucci, e i Buonaparte (allora avevano l’u, che rinnegarono di poi!) facevano guerra allo straniero, e gli Inglesi meeting e sottoscrizioni a pro dei Corsi. Diecimila vite e ottanta milioni costò alla Francia la conquista di Corsica, e i Corsi si vendicarono dei conquistatori con questi due versi:

Gallia vicisti, profuso turpiter auro,

Armis pauca, dolo plurima, ture nihil.

Rousseau imprecava alla conquista della Corsica, e Voltaire se ne consolava col pensiero che essa dava principio alla preponderanza francese in Italia. Nel 1769 Voltaire scriveva al sig. Bargemont: ?II se peut que la Corse devienne ?nécessaire dans les dissentions qui surviendront en Italie?. (Lettere inedite di Voltaire pubblicate dal Cayrol nel 1856).

L’Assemblea Nazionale francese il 30 di novembre 1789 decretava la Corsica parte della Francia, e veniva divisa negli spartimenti di Golo e di Liamone. Essa mandò i suoi Deputati alla Convenzione, e Paoli potò rientrare nella sua patria. Ma sotto il Terrore chiamato a Parigi per rendere ragione della propria condotta, presago della sorte che l’aspettava, invitò i propri concittadini a dar di piglio alle armi e sottrarsi alla tirannia francese. Col soccorso d’un corpo ausiliario inglese sbarcato in Corsica il 18 di febbraio del 1794 s’impadronì di Bastia il 22 di maggio, il 24 agosto di Calvi, e il 18 di giugno un’Assemblea Nazionale riunita a Corte metteva la Corsica sotto la sovranità dell’Inghilterra. Questo solo proverebbe che la Corsica è italiana, essa che, come la madre, fu condannata a servir sempre o vincitrice o vinta!?.

L’Isola venne costituita in Regno indipendente con uno Statuto modellato sul britannico, un Parlamento particolare a somiglianza dell’irlandese, e un Viceré. Ma la maggioranza dei Corsi odiavano gli Inglesi, echi parteggiava per Francia, e chi per la Gran Bretagna. Nell’ottobre del 1796 i Francesi partiti da Livorno sbarcarono in Corsica, ed alla fine di quell’anno gli Inglesi furono obbligati a sloggiare dall’Isola, che da lì in poi restò sempre in potere della Francia, salvo una breve dimora che vi fecero gli Inglesi nel 18H.

Ciò che contribuì potentemente a consolidare in Corsica la signoria francese fu che i Corsi da conquistati divennero conquistatori. Imperocchè, il Corso Napoleone I, conquistò letteralmente i Francesi, li imbrigliò, li condusse dove volle, e stabilì una dinastia di Corsi, che continuano a rendere beata e gloriosa la grande nazione, condannata a trovar padroni dove pensava di acquistare schiavi.

Vuoisi notare però un fatto singolarissimo, ed è questo, che Napoleone I non ammise mai la Corsica a mandare Deputati al Corpo Legislativo. Un arguto francese scrisse che ?il grande uomo amava troppo i propri concittadini per consentire che alcun di loro andasse a perdere il suo tempo in quell’Assemblea di muti?.

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Da questi pochi cenni risulta che la Corsica è italiana per diritto geografico, come sono italiane la Sardegna e la Sicilia; e per diritto storico, giacchè per lo più gli Italiani governarono sempre quell’isola. è italiana anche per genio, per abitudine, per costumi, per alletti e per lingua, sebbene sia delitto capitale pei Corsi addetti a qualche offizio il parlare italiano. Dunque noi siamo perfettamente d’accordo col deputato Bixio che la Corsica è nostra, che il regno italiano deve ricuperarla, che la Francia è obbligata a cedercela se ama davvero l’Italia, se riconosce seriamente la nostra nazionalità, e se desidera che l’Austria seguendo il buon esempio, a suo tempo ci ceda la Venezia.

Passiamo a Malta. Anche questa è nostra, e come disse il deputato Bixio è il migliore nostro porto dell’avvenire. Essa non è che un appendice della Sicilia! I Normanni l’unirono a lei sotto il titolo di marchesato particolare, e seguì sempre le sorti di questo regno fino al 1530. Allora fu data ai cavalieri dell’ordine di S. Giovanni di Gerusalemme, che presero il nome di cavalieri dell’ordine di Malta. Bonaparte nella sua spedizione d’Egitto la tolse per tradimento e senza alcuna resistenza al gran mastro de Hompeseh, ma nel 1800 il presidio francese ch’egli vi avea lasciato fu costretto di arrendersi agli Inglesi. Nella pace di Amiens si decise che Malta verrebbe restituita l’Ordine e posta sotto la guarentigia dei neutri. Ma l’Inghilterra nel 1803 non volle abbandonarla e il trattato di Parigi la lasciò definitivamente agli Inglesi.

Ma Malta è nostra, e gli Inglesi ci stanno di traforo. Nell’isola non si parla né inglese, né francese, si parla italiano. E se domani si facesse un plebiscito, tutti i Maltesi risponderebbero che vogliono appartenere all’Italia. Dunque l’Inghilterra che mostra tanto affetto per noi ce la renda, e provi che non è né per calcolo, né per egoismo, né per basse ragioni ch’essa ci mostra affetto, e c’incoraggia nelle nostre imprese.

Bettino Ricasoli ha detto alla Camera: vogliamo Roma, vogliamo Venezia. E noi diciamo sul nostro giornale: vogliamo Matta, vogliamo la Corsica. Fuori gli stranieri da queste due isole italiane! E se non vorranno abbandonarle eli buon grado, a suo tempo le abbandoneranno per forza. Abbiamo bisogno di Malta: ?Malta disse il deputato Bixio, è il miglior nostro porto dell’avvenire; non è un porto di commercio, ma un porto di guerra? e ci è necessario per prepararci alla difesa. Via gli Inglesi da Malta! Via i Francesi dalla Corsica!

è vero che la Corsica è la culla della dinastia napoleonica. Ma anche la Savoia era la culla della dinastia dei Re d’Italia. E se noi abbiamo ceduto i Savoini perché parlavano francese, la Francia negherà di cederci i Corsi che parlano italiano? Orsù, generosità per generosità, culla per culla. 1 Francesi ci diano la Corsica per la Savoia, e gli inglesi, che sottoscrivono ai nostri monumenti, si mostrino giusti rendendoci Malta.

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fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa/vol_01_01_margotti_memorie_per_la_storia_dei_nostri_tempi_1865.html#nuova

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