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STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI (XII)

Posted by on Set 15, 2024

STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI (XII)

DICHIARAZIONI DEL PADRE GIACOMO A ROMA

(Pubblicato TU settembre 1861).

La Civiltà Cattolica nel suo quaderno del 1° settembre 1861 reca la genuina esposizione dell’udienza data dal Santo Padre a P. Giacomo:

Non appena fu giunto in Roma (dice l’ottimo periodico romano), dove era stato chiamato da lettera dei superiori del suo Ordine, il P. Giacomo da Poirino fu ricevuto in udienza dal Santo Padre. Sua Santità gli rivolse subito la parola in questa sentenza: ?Sappiamo che a quanti vi domandano informazione sopra l’accadutovi nella morte del conte di Cavour, voi solete rispondere: trattasi di suggello sacramentale di confessione, e però io non posso dir nulla. Per non essere esposti a ricevere da voi una simile risposta, che, fatta a Noi, sarebbe un vero insulto, Noi vi dichiariamo che il suggello di confessione è cosa sì inviolabile, che voi avete il dovere di mantenerlo al cospetto di qualsivoglia autorità, fosse anche la più eccelsa, fosse anche la Nostra. Ma alla morte del Cavour vi furono alti esterni e visibili a tutti: gli fu amministralo il Viatico, e gli fu data l’Estrema Unzione. Quest’alto esterno dell’amministrazione dei Sacramenti richiedeva necessariamente un altro atto esterno, la ritrattazione, senza la quale voi, suo parroco, non potevate consentire ad amministrargli i Sacramenti della Chiesa. Del modo come questi atti esterni seguirono, Noi, custodi della santa disciplina della Chiesa vogliamo udire da voi medesimo la relazione?. A queste sì gravi parole il dello Padre rispose, raccontando ciò che era già noto a tutti, che la ritrattazione non vi era stata, perché egli non avea allora creduto di esigerla. La quale relazione confermò poscia per iscritto, esponendo la serie dei falli avvenuti in quella dolorosa circostanza; e senza confessare esplicitamente, conforme al desiderio dell’autorità ecclesiastica, di avere egli mancato al proprio dovere, forse per la confusione di quei momenti sì difficili, dichiarò solo per le generali, che, se avesse in qualche modo mancato, ne dimandava perdono. Ottenutosi così, sebbene non interamente, lo scopo del suo viaggio, fu lasciato partire, inibendogli solamente di più oltre amministrare i Sacramenti, perché chi non seppe o non volle, in quel caso sì evidente, compiere il dovere proprio d’un ministro della Chiesa, non poteva senza danno delle anime esercitare un sì geloso ufficio?.

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CINQUE LETTERE DEL CONTE DI CAVOUR

AL CONTE DI PER8ANO

(Pubblicate il 28 maggio 1863).

I giornali pubblicano nuovi documenti del conte di Cavour messi in luce dal signor Nicomede Bianchi. Ne leviamo queste cinque lettere, che meritano, di venir conservate per la storia. Esse sono dirette al Conte di Persano.

Signor Ammiraglio,

Torino, 11 luglio 1860.

Approvo senza riserva il suo contegno con il governo siciliano. Ella seppe dimostrarsi col generale Garibaldi ad un tempo fermo e conciliante., ed ha quindi acquistato sol medesimo una salutare influenza. Continui ad adoperarla per impedire che il generale non si lasci traviare dai pochi disonesti che lo circondano, è cammini per la via che deve condurre la nave d’Italia a salvamento. Può assicurare il generale Garibaldi che non meno di lui sono deciso a compiere la grande impresa; ma che per riuscire è indispensabile l’operare di concerto, adoperando tuttavia metodi diversi.

CAVOUR

Allo stesso.

Signor Ammiraglio,

Torino, 15 luglio.

Ricevo in questo momento le sue lettere, di cui la ringrazio. Dichiari formalmente in nome mio al generale Garibaldi essere una solenne menzogna che esistano altri trattati segreti, e che i rumori di cessione di Genova e della Sardegna sono sparsi ad arte dai nostri comuni nemici.

Le rinvio gli atti della mia distinta considerazione.

CAVOUR

Allo stesso.

Pregiatissimo signor Ammiraglio

Torino, 28 luglio 1860

Ho ricevuto le sue lettere del 23 e del 24 andante. Son lieto della vittoria di Milazzo, che onora le armi italiane e contribuir deve a persuadere all’Europa che gl’Italiani ormai sono decisi a sacrificare la vita per riconquistare patria e libertà, lo la prego dì porgere te mie sincere e calde – congratulazioni al generale Garibaldi.

Dopo sì splendida ?vittoria, io non vedo come gli si potrebbe impedire di passare sul continente. Sarebbe stato meglio che i Napoletani compissero od almeno iniziassero l’opera rigeneratrice, ma poiché NON VOGLIONO o non possono muoversi, si LASCI FARE A GARIBALDI. L’impresa non può rimanere a metà.

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La bandiera nazionale inalberata in Sicilia deve risalire il regno, estendersi lungo le coste dell’Adriatico, finché ricopra la regina di quel mare.

Si prepari adunque a piantarla colle proprie mani, caro ammiraglio, bui bastioni di Malamocco e di S. Marco. Faccia pure i miei complimenti a Medici e a Malenchini, che si sono portati egregiamente.

CAVOUR

Allo stesso.

Signor Ammiraglio,

Torino, 7 settembre 1860.

Non ricevendo altri ordini dal telegrafo, ella farà levare l’ancora la sera dell’11 e si recherà per la via diretta ad Ancona. Ivi si porrà in comunicazione col generale Cialdini, mandando imbarcazioni a terra nel sito il più opportuno. Si concerteranno assieme per impadronirsi nel più breve spazio possibile della città e cittadella d’Ancona. Gl’indico io scopo da raggiungere, lasciando a lei la scelta dei mezzi. Sarà raggiunto a Messina dal Dora carico di cannoni d’assedio, ella terrà a disposizione del generale Cialdini.

Se Garibaldi é a Napoli, vada a vederlo, e gli comunichi le istruzioni ch’ella tiene. Gli manifesti da parte mia il sincero desiderio di andare pienamente intesi per ordinare l’Italia prima, e fare poscia l’impresa della Venezia. Lo preghi di non fare parola per pochi giorni della destinazione della flotta.

Addio, ammiraglio, Dio l’assista, e prima che il mese si chiuda, ella avrà associato il suo nome al primo gran fatto glorioso, che segnerà il risorgimento della marina italiana.

CAVOUR

Allo stesso.

Dispaccio telegrafico — 22 ottobre 1860.

II telegrafo annunzi a che l’Imperatore ha fatto larghe concessioni all’Ungheria, ed ha nominato comandante dell’armala d’Italia l’arciduca Alberto, e capo di stato maggiore il generale Benedek. Ciò é molto minacciante. Ella tenga la squadra pronta a partire per l’Adriatico. Faccia una leva forzata di marinai in cotesti porti. Se il Codice napoletano non punisce di morte i disertori in tempo di guerra, pubblichi un decreto a tale effetto, e ove ve ne siano, li faccia fucilare. Il tempo delle grandi misure è arrivato. Dica al generale Garibaldi da mia parte che se noi siamo attaccati, io l’invita in nome d’Italia ad imbarcarsi tosto con due delle Sue divisioni per venire a combattere sul Mincio.

CAVOUR

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IL CONTE DI CAVOUR IN VESTE DA CAMERA

(Pubblicato il 7 e 8 febbraio 1862).

I. Gli uomini vanno veduti in pianelle

e le donne in Cuffia (Proverbio Toscano).

Non è ancora giunto il momento da poter conoscere e giudicare liberamente e completamente il conte di Cavour, e ciò per tre ragioni principali; perché non si sentono ancora tutti gli effetti dell’opera sua, e si sentiranno a suo tempo; — perché non si possiedono ancora tutti i documenti che tardi o tosto per uno o per un altro motivo dovranno venire a gala; — perché finalmente se il conte di Cavour è morto, vivono e comandano molti de’ suoi amici e collaboratori.

Tuttavia noi riputiamo uffizio del giornalista conservatore tener d’occhio a tutte le pubblicazioni, e non lasciar passare nessuna rivelazione, nessun documento senza afferrarlo e raccoglierlo per la storia.

Nel gennaio del 1862 levò qualche rumore in Torino uno scritto del prof. Domenico Berti, intitolato: Lettere inedite del conte di Cavour, e pubblicato nel fascicolo XCVIII della Rivista Contemporanea, gennaio 1862. In quest’articolo si contengono molti brani di lettere famigliari scritte dal conte di Cavour, e che lo mostrerebbero non quale appariva nelle sue Note, nelle sue proteste, ne’ suoi discorsi, ma quale era nell’interno dell’animo suo; ossia come abbiamo scritto, in veste da camera.

Ma tra tutte le lettere citate non ve n’ò forse una che lo sia interamente; dappertutto puntini, reticenze, incognite, frasi staccate, periodi rotti a mezzo; ciò che dimostra non essere ancora giunto il tempo da poter apprezzare il conte di Cavour, e il prof. Berti aver voluto scrivere piuttosto un’apologia del Rattazzi vivente, che un panegirico dello statista defunto. Ad ogni modo raccogliamo quel poco che ci venne regalato, e leggiamo insieme coi nostri associati l’articolo della Rivista.

Esordisce con una raccolta d’epigrammi tolti dalle lettere o da’ suoi discorsi del conte di Cavour. Ecco il primo riferito colle parole del professore Berti: ?Mentre (il conte di Cavour) era al Congresso di Parigi, vennegli fatto dall’Imperatore il presente di un bellissimo vaso di porcellana di sévres: egli nel darne contezza al suo collega ministro sopra l’interno, aggiunge — Se X lo sa (ed era questo un deputato), poveretto me, mi accuserà d’aver venduto l’Italia?. Cotesto poteva essere un epigramma nel 1856, ma dopo la cessione della Savoia e della Contea di Nizza non lo pare più!

Ecco un altro epigramma del conte di Cavour raccolto in sull’esordio dal professore Berti: ?Dopo la presa di Sebastopoli esortava il suo collega a far cantare il Te Deum, se non altro per avere il piacere di far fare delle brutte smorfie a’ nostri amici i canonici? (Rivista, pag. 4). Ognun vede quanto frizzo ci fosse in queste parole, quanta-bontà, quanta religione, quanto rispetto per la Chiesa e pe’ sacerdoti!

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Almeno sappiamo, perché talvolta i ministri usano alle chiese e chiedono le funzioni religiose!

Raccoglieremo un terzo epigramma, che servirà d’indovinello ai nostri lettori. Il conte di Cavour annunziava: ?Scrivo una lettera studiatamente impertinente ad un nostro collega, per non avergli a dire in faccia: andatevene, siete incapace di fare il ministro?; e la scriveva, soggiunge il prof. Berti, senza frapporre indugio e scuse, e senza moderare la frase. Ai rimproveri, che gli venivano da altro suo collega su di ciò, rispondeva: ?Ho caricato un po’ troppo, me ne duole, gli riscriverò, non per ritenerlo, ma per placarlo? (Rivista, pag. 7). Ora indovinino i nostri lettori chi è questo ministro, che fu così gentilmente espulso dal ministero! Noi crediamo d’averlo indovinato. Il Berti nota che sono cinquanta e più i colleghi, che entrati con lui (Cavour) al ministero, o da lui si congedarono, o furono congedati (Rivista, pag. 8).

Celebrata la vena epigrammatica del conte di Cavour, il Berti passa a raccontare i tratti del suo coraggio: ?Un giorno nella Camera, quando ancora non aveva acquistato quella supremazia, per cui comandava il silenzio agli amici ed agli avversarii, le tribune lo interruppero coi fischi. ?Quanto a me i fischi non mi muovono punto: io li disprezzo altamente, e proseguo senza darmene cura. lo ho ascoltato religiosamente il deputato Brofferio, quantunque non professi le sue dottrine; ora ringrazio, non le tribune, di cui non mi curo, ma la Camera e la parte che mi siede a fronte della benigna attenzione, che ha prestato alle mie risposte?. Queste parole che servivano al conte di Cavour per disprezzare certi fischi delle tribune, serviranno per noi affine di giudicare egualmente certi applausi.

Un altro tratto di coraggio del conte di Cavour è questo: ?Gli era venuto per lettera da Ginevra che la polizia di quella città avea denunziato al nostro console essersi in una congrega colà tenuta divisato il suo assassinio. Egli senza punto turbarsi scrive al suo amico: ?Mi rido della notizia che mi vien data, giacchè se morissi sotto i colpi di un sicario, morirei forse nel punto il più opportuno della mia carriera politica?. E se la notizia è vera, prova, che l’assassinio del conte di Cavour non si divisava a Roma ma a Ginevra, ed è una circostanza da tenersene conto.

Il professore Berti a pag. 10 avverte che fin dal 1846 il conte di Cavour scriveva contro la Giovine Italia, scriveva in francese e chiamava le sue dottrine les doctrines subversives de la Jeune Italie, ed aggiungeva non esservi in Italia ?qu’un très-petit nombre de personnes sérieusement disposées? a metterne in pratica gli esaltati principii. E chi avrebbe pensato che tra questo piccolissimo numero sarebbesi trovata di poi lo stesso conte di Cavour! Imperocché quanto oggi vediamo avvenire in Italia è proprio alla lettera ciò che insegnava e divisava Giuseppe Mazzini.

Siccome spesso il conte di Cavour parlava contro i clericali, così è utile sapere che cosa intendesse sotto questo nome. Cel dirà il prof. Berti: — Un giorno che nella Camera l’avv. Brofferio discorrendo contro la parte clericale asseriva che non volevasi quella confondere colla Chiesa, rispondeva il conte di Cavour le seguenti parole:

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Se il partito clericale consta di tutti i sacerdoti che sono racchiusi nei chiostri e frequentano le sacristie, dove avremo noi da cercare quei pochi, quegli eletti che rappresentano quella morale cristiana, di cui ha così eloquentemente parlato l’onorevole oratore? lo veramente non saprei dove trovarli, ameno che egli volesse indicarci quei pochi sacerdoti che, disertali i templi ed abbandonati gli ufficii del pio ministero, credettero campo più opportuno per esercitare il loro nuovo apostolato i circoli politici ed i convegni sulle piazze (Rumori ed agitazione a sinistra}, o che egli volesse indicare come nuovi modelli e di questo spirito evangelico, di questa carità cristiana quei pochi che seco lui associarono i loro sforzi per mantenere costantemente un centro di agitazione nella città di Torino (Bisbiglio alla sinistra). Se ciò fosse, io dichiarerei senza esitazione all’onorevole deputato Brofferio, che i miei amici politici ed io intendiamo ben altrimenti lo spirito di religione e di morale cristiana?.

Le quali parole contraddette poi da altre parole e da molti fatti, noi vogliamo dedicate a quei pochi sacerdoti, che danno tanto scandalo in Italia, ed anche a colui che forse fu comperato a danari contanti dallo stesso conte di Cavour.

Giunto a questo punto il professore Berti viene a dirci che il conte di Cavour avea due avversari da combattere, il Papa e l’Austria. è la formola del Mazzini che dichiarava guerra al Papa ed all’Imperatore! Il Cavour in un brano di lettera confidenziale diceva: ?So noi ci mettiamo in relazione diretta con Roma roviniamo da capo a fondo l’edificio politico che da otto anni duriamo tanta fatica ad innalzare. Non è possibile il conservare la nostra influenza in Italia, se veniamo a patti col Pontefice (1)?. Ed in un’altra lettera soggiungeva: ?Se l’attuale nostra politica liberale italiana riuscisse pericolosa e sterile, in allora il Re potrà, mutando ministri, avvicinarsi al Papa ed all’Austria, ma fintantoché facciamo Memorandum e Note sul mal governo degli Stati del Pontefice, non è possibile il negoziare con lui con probabilità di buon successo?. Ed un giorno il conte di Cavour diceva, come attesta il prof. Berti: ?L’Austria è d’uopo combatterla così in Venezia ed in Milano, come in Bologna ed in Roma (2)?.

Le quali cose furono svolte dal conte di Cavour nel suo Memorandum alla Prussia ed all’Inghilterra, in cui diceva che gli Italiani volevano combattere l’Austria, perché aveva riconosciuto i diritti della Chiesa col Concordato; e mostrava che la guerra divisata da lui e da’ suoi era principalmente contro il Papa. Imperocché l’influenza austriaca in Roma non esisteva menomamente e 6e qualche cosa poteva imputarsi al governo pontificio, era forse d’essere stato troppo arrendevole all’influenza francese.

Ma di ciò parleremo in un secondo articolo, dove vedremo il conte di Cavour in viaggio per l’Europa, in conversazione coi diplomatici, alla mensa del principe Napoleone prima che sposasse la principessa Clotilde, e plenipotenziario sardo al Congresso di Parigi.

(1) Rivista Contemporanea, pag. 12.

(2) Rivista Contemporanea, pag. 13.

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II

Il conte di Cavour era stato clericale fino all’agosto del 1850. In uno dei nostri scritti, mandato alle stampe nel 48-49, lo levavamo al cielo, essendo proprio contenti di lui, ed egli viceversa non era scontento dell’armonia, e ci onorava di qualche visita, e considerava i nostri associati come i suoi fedelissimi amici. Anzi ci ricorda, che dovendosi in quel turno eleggere i Deputati, il parroco dell’Annunziata, che era Monsignor Fantini, poi Vescovo di Fossano, raccomandava la candidatura del conte di Cavour con queste parole: è un Deputato che fa la sua Pasqua. E realmente nella Pasqua del 1849 il conte di Cavour erasi accostato pubblicamente alla Mensa Eucaristica con grande compostezza ed edificazione.

Ma sullo scorcio del 1850 si dichiarò ben diverso da quello che parea. Essendo morto il conte di Santa Rosa, ministro d’agricoltura e commercio, e la morte sua avendo suscitato gravissimi disordini e scandali, il conte di Cavour scrisse e pubblicò una lettera, in cui approvava le misure extralegali adoperate contro l’Arcivescovo di Torino, gittato allora in cittadella, e poi esule a Lione, dove trovasi tuttavia, affranto più dai patimenti che dagli anni. E quella dichiarazione del conte di Cavour lo mise nelle grazie de’ rivoluzionari, e gli aperse le porte del ministero, nel quale potè avere appena un cantuccio come ministro d’agricoltura e commercio.

Uscì dal ministero presieduto da Massimo d’Azeglio, nel maggio del 1852, ed andò viaggiando per la Francia, per l’Inghilterra e per la Scozia. Il prof. Berti a pag. 17 della Rivista contemporanea ci reca una lettera, che il conte di Cavour scriveva al conte Ponza di San Martino sotto la data del 15 di agosto 1852. Risulta da questa lettera, che il conte di Cavour voleva rovesciare il d’Azeglio, e s’era inteso cogli Inglesi. ?Cosa strana, scriveva, in Inghilterra i whig sono più teneri di Azeglio che non i tory. Palmerston mi pare averlo più a cuore che non Malmesbury…………

I tory invece conoscono poco Azeglio e giudicano le cose dal lato intrinseco. La [questione romana sta loro molto a cuore, desiderano di vederci proseguire nella via che battiamo, temono la fiacchezza di d’Azeglio e desiderebbero che il ministero si fortificasse. Malmesbury me lo disse nel modo il più esplicito. Mi dichiarò senza frasi che il governo inglese desiderava il mio ritorno agli affari; avendo a ciò risposto: Mais je ne puis rentrer seul, je reprèsente un parti que j’ai travaillè à constituer et que certe je ne suis pus dispose a abbandoner. Egli soggiunse: C’est tout naturel, vovs ne pouves a rentrer aux affaires qu’avec vos amis. Queste parole vi danno un’idea esatta dell’opinione del gabinetto?.

Dalle quali parole tre cose risultano: cioè come il Cavour andasse a provocare egli stesso direttamente l’influenza inglese in Piemonte; — come s’accordasse coi tory, che sono protestanti sfegatati, per combattere il Papa nella questione romana — come iniziasse a Londra quella serie di trattati e di misure economiche che tanto favorirono l’Inghilterra.

E poco appresso ebbe in Parigi un abboccamento con Urbano Rattazzi,

(1) Leggi il Panorama politico, ossia la Camera Subalpina in venti sedute.

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o non si sa né che cosa facessero, né chi vedessero, essendo stato incaricato il Rat tazzi di riferire al conte di San Martino quel che abbiam fatine quei che abbiam visto a Parigi, come appare dalla seguente lettera riferita dal prof. Berti, a pag. 18 della Rivista.

Parigi, 25 settembre 1852.

Carissimo,

Ho ricevuto con molto piacere la vostra del 21 andante. Sono lieto di vedere confermato dalla bocca stessa di d’Azeglio le notizie che altri mi aveva trasmesse sulle sue intenzioni. Credo in verità che la determinazione che egli ha presa, sia la migliore per lui, per noi, e ciò che più monta pel paese. Non vi dico altro, giacche un giorno dopo questa mia, Rattazzi giungerà a Torino, ed a voce vi parteciperà quel che abbiam fatto, quel che abbiam visto a Parigi. Io gli terrò dietro fra pochi giorni, ma avendo in mente di fermarmi una settimana a Ginevra, non giungerò a Torino prima del 15 ottobre. Spero che non sarete ancora partito per Dronero, e che ci abboccheremo immediatamente.

Vi saluto affettuosamente, C. Cavour.

Il conte di Cavour collegato con Rattazzi era lungi le mille miglia dal credere che Napoleone III li avrebbe aiutati amendue ne’ loro divisamenti. E nel 1854 diceva alla Camera dei deputati: ?Finché in Francia durò il reggime repubblicano, finché le sorti di quel paese pendevano incerte avanti i risultati dell’elezione presidenziale nel 1852, fintantochè lo spettro della rivoluzione sorgeva dietro l’immagine di quell’anno, io avea la certezza che fra noi il partito reazionario nulla avrebbe tentato contro le nostre istituzioni, nulla avrebbe fatto per impedire lo sviluppo regolare dello Statuto; ma quando, pel fatto del 2 dicembre, l’ordine non corse più nessun pericolo in Francia, quando e lo spettro del 1852 spariva interamente, io in allora pensai che, da un Iato, la fazione rivoluzionaria non era più da temere, e dall’altro, che il partito reazionario, od almeno quello che voleva arrestare il progressivo ed il regolare sviluppo dei principii dello Statuto, da quel giorno diventava pericoloso?.

Laonde non è vero che il conte di Cavour traesse a sé Napoleone III, ma questi invece si prevalse per le sue idee del conte di Cavour, e le vere idee, i sinceri divisamenti dell’Imperatore de’ Francesi non sono ancora conosciuti!

Dopo la spedizione di Crimea il re Vittorio Emanuele II recossi a Parigi ed a Londra, e il conte di Cavour l’accompagnò. Il prof. Berti a pag. 29 della Rivista riferisce una lettera del Cavour, in cui racconta le belle accoglienze che i Sai Di ni fecero al loro Re. Eccola:

Caro collega,

Martedì 5 mattina.

Due righe per dirgli essere stata l’accoglienza del Re veramente splendida e calorosa quanto mai. In tutta la linea percorsa, autorità, guardie nazionali, popolazioni festeggianti: qui una folla immensa più da capitale che da città di provincia. Ovunque grida frenetiche di Viva il Re! ed anche non poche (ad onta dell’eccessiva mia modestia debbo confessarlo) di Viva Cavour!

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molti sindaci nelle loro ovazioni fecero il panegirico di Magenta, diventato, grazie alle sciocchezze del clericali, l’eroe dei liberali.

Il principe Napoleone, venuto all’incontro del Re sino a Modane, fu gentilissimo, non si burlò di nessuno, né di nulla, lodò il paese e la popolazione. Riparte quest’oggi per Parigi dove M. Du Plessis l’aspetta per andare ai Pirenei. Ritornerà in Torino in novembre. è pieno di speranze per l’Italia…………. Ebbi con lui una lunghissima conversazione…………. gliela racconterò al mio ritorno…………. Saluti Lamarmora, e gli dica che le truppe erano bellissime. Non so se Castelborgo sia un gran generale; ma certo si è che gli è un gran buon diavolo. Mi ha ceduto il suo alloggio, ed è andato a dormire nella camera della sua ordinanza. Mi creda

Suo affezionatissimo

C. Cavour.

E pensare che pochi anni dopo questa Savoia generosa, festeggiante, riconoscente, affezionatissima, dovea essere ceduta alla Francia, e il trattato di cessione dovea portare sottoscritto il nome del conte di Cavour!

Dalla Savoia andò a Parigi, e vide molte persone, ed anche il conte di Montalembert. In una lettera riferita dalla Rivista, a pag. 30, 31, Cavour scrive: ?Ieri sera mi son trovato con Montalembert; malgrado la poca reciproca simpatia, fu forza il darci ima stretta di mano. Ilo visto il Nunzio, acuì dissi quanto da noi si desidererebbe l’accordo sulle basi del sistema francese. Fece mostra di non capire. Di politica non le parlo. Mi ristringo a dirgli che quanto gli mandano col telegrafo rispetto all’Austria, si conferma?.

Il conte di Cavour tornò a Parigi per la conclusione del trattato di pace colla Russia. E qui le sue lettere incominciano ad insinuare ciò che abbiam visto di poi. Il terzo o quarto giorno che era in Parigi, cioè il 20 febbraio, scriveva: ?Ho reso conto in un dispaccio riservato delle conversazioni che ho avuto ieri coll’Imperatore. Non ho molto da aggiungere a quanto in esso ho detto: solo posso assicurarla che realmente l’Imperatore avrebbe volontà di fare qualche cosa per noi. Se possiamo assicurare l’appoggio della Russia, otterremo qualche cosa di reale, altrimenti bisognerà contentarsi di una furia di proteste amichevoli e di parole affettuose. Se non riesco non sarà per difetto di zelo; visito, pranzo, vo in società, scrivo biglietti, faccio quanto so?.

In un’altra lettera scritta in quel turno diceva del futuro sposo della principessa Clotilde: ?II principe Napoleone fu meco amabilissimo e manifestò opinioni a noi favorevolissime. Vedrò oggi il re Gerolamo che è pure un caldo nostro amico?.

In una terza lettera del 9 di aprile 1856 il Cavour scriveva: In un lunghissimo dispaccio diretto a Cibrario riferisco minutamente la seduta del Congresso di ieri, in cui si trattò la questione d’Italia. Poco ho da aggiungere al mio racconto ufficiale… Walewski fu molto esplicito rispetto a Napoli, ne parlò con parole di aspra censura. Andò tropp’oltre forse, perché. impedì ai Russi di unirsi alle sue proposte. Clarendon fu energico quanto mai, sia rispetto al Papa sia rispetto al Re di Napoli; qualificò il primo di quei governi siccome il peggiore che avesse mai esistito, ed in quanto al secondo lo qualificò come avrebbe fatto Massari.

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?Credo che convinto di non poter arrivare ad un risultato pratico, giudicò dovere adoperare un linguaggio extra parlamentare. Avremo ancora una seduta animata quando si tratterà dell’approvazione del protocollo.

?Clarendon mi disse riservare la sua replica per quella circostanza. Nell’uscire gli dissi: Milord, Ella vede che non vi è nulla da sperare dalla diplomazia, sarebbe tempo di adoperare altri mezzi, almeno per ciò che riflette il Re di Napoli, e Mi rispose, il faut s’occuper de Naples et bientot?. Lo lasciai dicendogli; J’en irai causer avec vous. Credo poter parlargli di gettare in ariail B

Qualche cosa bisogna fare. L’Italia non può rimanere nelle condizioni attuali. Napoleone ne è convinto, e se la diplomazia fu impotente, ricorriamo a mezzi extra legali. Moderato d’opinioni, sono piuttosto favorevole a mezzi estremi ed audaci. In questo secolo ritengo essere soventi l’audacia la miglior politica. Giovò a Napoleone, potrebbe giovare anche a noi?.

Credo poter parlargli di gettare in aria il B………… e Cavour scriveva intera la parola, e voleva dire il Re di Napoli. Ora la storia dee tener conto di questo, che un italiano siasi recato presso lord Clarendon in Parigi per parlargli dì gettare in aria un Re italiano; la storia dee dire che costui, il quale volea far gettare in aria dagl’Inglesi il Re di Napoli, chiamavasi conte Camillo Benso di Cavour, e protestava nelle sue note solenne amicizia al Re che volea gettare in aria, e nella Camera dei Deputati poco dopo chiamava tre volte insensati i rivoluzionari.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa/vol_01_01_margotti_memorie_per_la_storia_dei_nostri_tempi_1865.html#nuova

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