STORIA DE’ RIVOLGIMENTI POLITICI DELLE DUE SICILIE DAL 1847 AL 1850 per l’Avv. Gio. Giuseppe Rossi
Se questo testo ha un difetto, per noi, è il periodo di tempo a cui e’ dedicato. Peccato che non tratti un periodo più lungo. Ci sono dei testi di parte borbonica che meritano di essere conosciuti e presi in considerazione nel ricostruire la storia del regno delle Due Sicilie.
Lo ribadiamo, i liberali non hanno il monopolio
della verità e bisogna leggere anche autori come Giuseppe Rossi – che ha il
proprio punto di vista, a favore della monarchia borbonica, ma non tralascia di
riportare integralmente i documenti di parte avversa.
Vi riportiamo uno stralcio dal testo per invogliarvi alla lettura.
“Nel seguente anno 1838 un incidente surse a compromettere la pace. Lo zolfo, di cui straordinariamente abbonda la Sicilia nelle sue miniere, e dalle quali la Francia, e più l’Inghilterra lo traggono in gran copia per le loro fabbriche e per altri usi, per un inconsiderato contratto stipulato con un negoziante francese era addivenuto l’oggetto di una di costui privilegiata speculazione. Il governo inglese, non ostante che per quel particolare contratto conchiuso con un francese, al modo stesso che si sarebbe effettuito con chiunque altro, non avesse avuto di che dolersi, se ne adontò, protestando contro la violazione di que’ trattati, pei quali la Gran Brettagna doveva nelle sue relazioni commerciali colle Due Sicilie esser considerata come la più favorita nazione. E cominciando pria dalle proteste, poi passando alle minacce, ove la seguita contrattazione non si fosse disciolta, giunse per ultimo a menare ad effetto per mezzo della squadra del mediterraneo un rigoroso blocco sulle coste del regno. Né il governo di Napoli d’altronde se ne rimase indifferente, poiché saputa la cattura di alcuni legni mercantili dello stato, immantinenti pose l’embargo su tutti legni inglesi di commercio che trovavansi ne’ porti del regno. Questo spediente, per quanto dignitoso, altrettanto energico valse non poco a far comporre la vertenza, al che pure, siccome cosa giusta, potentemente contribuì la mediazione del governo francese.”
Buona lettura e tornate a trovarci.
Zenone di Elea – Novembre 2019
Volume I
NAPOLI
STAMPERIA DEL FIBRENO
1851
PREFAZIONE
Gli avvenimenti politici, ai quali è andata soggetta in questi ultimi tempi l’Italia, ànno talmente agitato e sconvolto il reame delle due Sicilie, che sono la occasione opportuna di porgere salutari ammaestramenti a coloro, che con maturo discorso si facciano a considerarli. Inviluppati e confusi nella più parte, ignorate di alcune principali circostanze le cagioni, e di molte deliberazioni consigli, occorreva al certo, che taluno se ne fosse diligentemente occupato. È vero che de’ preclari ingegni si sono affaticati a spianare con lodevole industria sì fruttuosa materia, portando a notizia del pubblico taluni fatti, che con grande diligenza ànno raccolti ma sotterrati e nascosti sotto alle vaste ruine delle dissensioni civili più essenziali, poco coordinati alcuni altri, l’opera che, a dichiararli nella loro schiettezza ed a rammemorarli ordinatamente, si spende, dovrebbe tornare di un certo profitto. Ora di tanto mi son io, colle deboli mie forze occupato, e per formare l’assieme di questa istorica narrazione, mi è convenuto riandare in pochi periodi più rilevanti accaduti di un’epoca alquanto remota, da cui anno origine quegli de’ quali ora si tratta. Ho cercato di compiere il mio dovere colla purità della intenzione, senza farmene codardamente imporre da personali considerazioni. Se nel difficile lavoro annunziato la mia povera penna non avrà raggiunto lo scopo, sarà sempre notevole almeno il desiderio al quale prego il lettore di fare buon viso.
CAPITOLO I
Rapido cenno della condizione del regno al ritorno della famiglia Borbone per la caduta di Bonaparte, ed avvenimenti succeduti insino al 1830, in cui fu innalzato al trono l’augusto Sovrano regnante Ferdinando II.
Abbenché col cader del passato secolo il continente delle due Sicilie fosse andato soggetto a de’ politici rivolgimenti, e per alquanti anni del secolo che corre avesse anche sofferto straniero dominio, pure nel 1815, restituitosi al suo principe legittimo, e rientrata la pace in tutta Europa, le buone leggi, la diminuzione de’ balzelli e la rinvigorita industria, davano argomento a sperare un più lieto avvenire. Ma non passava un lustro in così dolce illusione, che novelle sciagure sopraggiungevano a l’intero reame.
Stava l’anno 1820 quasi a mezzo corso quando, imitando le spagnuole rivolture poco innanzi avvenute, alcuni distaccamenti di truppe disertavano dalle proprie ‘bandiere, ed ingrossati da parecchi borghesi, si spingevano alla ribellione, gridando altra forma di governo. Vero è che l’autorità sforzossi con le armi a comprimere quel movimento sedizioso, ma sia che fosse stata fellonia di coloro cui se n’era dato il comando, o defezione ispirata nelle milizie dalla setta venuta in moda de’ carbonari, certo il rivolgi mento avvenne e la costituzione di Spagna del 1812 fu anche in Napoli proclamata.
Un sì inatteso mutamento nella forma del governo ebbe immantinente a produrre una rivolta in Palermo, che indi a poco si estese anche a qualche altra provincia dell’isola, perciocché que’ popoli, non avendo mai spente le antiche rivalità co napoletani, per essersene sempre creduti dominati, Né dimenticate le pretensioni alla indipendenza dal continente, che rilevavano da vecchie pergamene, mostravansi alla più lieve occasione sempre pronti ad insorgere.
Seppesi di fatto come da principio la plebe avesse cominciato a sollevarsi e si fosse cimentata colla pubblica forza, e come indi a poco evasi tutti que detenuti dalle prigioni, ed unitisi anche agli altri popolani accorsi da’ luoghi vicini, la truppa fosse stata con tutt’i mezzi di furberia sopraffatta, e la città rimasta in balìa de’ sollevati.
Non tardò il governo di Napoli a prepararsi onde comprimere quella rivolta, e sebbene a tal uopo non avesse potuto adoperare mezzi corrispondenti, per la condizione in cui trovavasi ridotto, pure nel corso di pochi mesi e con un’armata che neppure agli ottomila uomini montava, giunse a ridurre nuovamente all’ubbidienza quella parte dell’isola ribellata.
Intanto potentati di Europa scorgendo negli avvenimenti di Spagna e di Napoli pericoli che intorno a’ troni si accrescevano, riunivansi in congresso a Laybach, e coll’intervento dei Re delle due Sicilie Ferdinando I, di pieno accordo risolvevano, che nuovi regimi proclamati, come incompatibili colla pace di Europa, indispensabilmente dovessero cessare. E perché siffatta irremovibile risoluzione il desiderato risultamento ottenesse, facevansi marciare alla volta di Napoli le truppe austriache stanziate in Lombardia, le quali, comeché accresciute da nuove soldatesche venute dalla Germania, componevano un esercito di cinquantamila combattenti.
Ne’ primi giorni di marzo del 1821 giungea l’esercito austriaco, diviso in due corpi, alla frontiera del regno. Quello di maggior forza vi penetrava dalla parte di Ceprano; l’altro da quella degli Abruzzi. Ma non ostante che le truppe napoletane destinate a resistere fossero state soverchie, pure, sia che la più parte di esse cominciato avesse a nauseare le novità succedute, sia che su’ corpi franchi e sulle milizie provinciali, che formavano in realtà il grosso dell’esercito, per la loro rilasciata disciplina si avesse avuto poco a contare, è indubitato che dopo l’errore commesso dal generale D. Guglielmo Pepe che teneva il comando del corpo d’esercito negli Abruzzi, di essersi spinto senz’alcuna probabilità di successo verso Rieti, trascurando sinanche quelle misure che nelle operazioni guerresche, e massime ne’ rovesci sogliono essere di conforto, cangiar fece bentosto la ritirata delle sue milizie in una fuga così disordinata e precipitosa, che l’altro corpo d’esercito che stava a’ confini di Terra di Lavorodové più ordinatamente però, fare altrettanto, lasciando per tal modo giungere l’armata austriaca nella capitale del regno senz’alcuna azione.
In questo mentre il Re Ferdinando da Laybach avea prescelto il suo novello consiglio, come quello che meglio convenisse a stabilire sistemi alquanto più rigidi, e del tutto peraltro conforme ai tempi ed alle circostanze; ma sia che pressanti bisogni dello stato avessero avuto d’uopo di spedienti, che il solo ministero sistente prima dell’avvenuto rivolgimento stimavasi capace di adottare; sia che questo istesso ministero godesse presso le straniere potenze di quella fiducia che il nuovo non aveva potuto ancora acquistarsi, dopo due anni all’incirca bisognò un’altra volta gli allontanati soggetti richiamare.
AI cominciar dell’anno 1825, per la improvvisa morte del Re Ferdinando, ascese al trono il maggior suo figlio Francesco, distinto per prudenza e saggezza mostrate nei sovvertimenti della sua casa, e nelle politiche commozioni del 1820. Scorse innanzi tutto questo prudente monarca, che ritenendo tuttavia nel regno l’armata austriaca, e trattata come truppa di occupazione sul piede di guerra, non potesse più oltre lo stato soffrire si straordinario peso, e che d’altronde ritornata la tranquillità nei suoi domini, compressa una insurrezione testé avvenuta nel Piemonte, e distrutta per l’intervento francese la costituzione nelle Spagne, non vi fosse sospetto di ulteriori disordini.
Per siffatte considerazioni adunque si otteneva lo sgombramento successivo de’ corpi di quell’armata, e giudiziosamente nel frattempo provvedevasi alla ricomposizione dell’esercito nazionale, che ad eccezione della guardia reale, della fanteria di marina, della gendarmeria, e de’ corpi facoltativi, era stato per deficienza di mezzi ed in pena delle provocate rivolture pienamente disciolto.
D’altronde il defunto Re Ferdinando, che nei primi anni del di lui regnare sperimentato aveva fra le sue truppe la disciplina di un corpo svizzero, sin dall’anno 1824 aveva proposto al governo di quei cantoni un trattato di arrollamento per quattro reggimenti di fanti di 1500 uomini ciascuno. Epperò il Re Francesco trovando ormai conchiuso quel trattato, il menava sollecitamente ad effetto pria che l’ultimo corpo dell’armata austriaca si fosse ritirato.
Sapendo che la religione e la giustizia sono le basi di ogni società durevole, tutti suoi costanti sforzi questo principe specialmente diresse a rassodare siffatti essenziali elementi della felicità e della prosperità del suo regno.
L’antichità vanta Gelone ed Augusto che volsero il pensiero a codici ed a precetti per l’ammegliamento dell’agricoltura: furono questi sterili sforzi in tempi d’ignoranza e di schiavitù. Il Re Francesco, non solo col suo ingegno, ma con una costanza del tutto ammirabile, giungeva ad ottenere in breve tempo quei felici successi, cui lunghi anni non erano bastati.
E volendo poi nonmeno promuovere le arti e l’industria, mandava all’estero de’ giovani alunni della direzione de’ ponti e strade, per osservare in Francia ed in Inghilterra quanto aveva rapporto alle costruzioni. Istituiva pure in Roma un secondo alunnato per le lingue orientali, per estendere le relazioni co’ paesi più lontani. Ordinava che merini s’introducessero tanto nelle provincie continentali, che nelle trasmarine; che le mute pel servizio della corte non si rinnovassero che con cavalli regnicoli; che le razze indigene si migliorassero co’ più belli stalloni; che la coltura del riso a secco venisse ovunque adottata, e tante altre simili cose.
Sotto un Re che non sapeasi definire, se più saggio o buono, ed a cui la posterità, sempre rigida ne’ suoi giudizi, non ha potuto negare migliori attributi, niente di rimarchevole avvenne che avesse per poco compromessa l’interna sicurezza dello stato, se non che verso il 1828 in alcuni villaggi del Vallo, ove tra per miseria, e tra per indole si abbonda di tristi, una insurrezione di qualche centinaio di armati, provocata per altro da una banda di malviventi, tentò di menare il disordine in quelle contrade; ma non appena giungevavi la forza pubblica, il subuglio spariva in un baleno, ed principali cospiratori pagavano colla vita tutte le conseguenze della mostrala audacia.
Nell’anno 1829 essendosi conchiuso il matrimonio della principessa Maria Cristina col sovrano di Spagna Ferdinando VII, il Re Francesco volle insieme alla moglie accompagnare la figliuola insino a Madrid per accrescere colla loro presenza la solennità di quella malaugurata unione. Ma sia che la sua salute avesse alquanti anni innanzi ricevuta una terribile scossa, cagionandogli in seguito mille acciacchi, sia che il clima di Spagna fosse stato nocivo alla sua rilasciata pinguedine, ritornato nei propri stati, il male talmente incrudelì, che agli 8 novembre del 1830, dopo un regno di cinque anni e dieci mesi, lasciava alla terra la corona che vi aveva tenuto, e raccoglieva per altro ne’ cieli quella più gloriosa che vi ottengono giusti.
Era intanto da pochi mesi in Francia, per opera dell’Inghilterra, ed a causa di alcune ordinanze refrenative della libertà della stampa, succeduto, dopo una sanguinosa lotta durata tre giorni fra la truppa ed il popolo, un positivo mutamento politico e l’espulsione del Re Carlo X, la di cui corona e lo scettro aveva raccolti, non già il legittimo successore, sibbene Luigi Filippo di Borbone, duca d’Orleans, del ramo cadetto. Questo Re novello, che non altrimenti era montato al trono che per mezzo d’un rivolgimento, in cui il partito radicale da lui sempre in apparenza accarezzato aveva ottenuto il trionfo, per necessità doveva mostrarsi fautore di que principi, su’ quali pretendessi la società ricostituire.
A tali accidenti di Francia vari pensieri sorgevano nelle menti degli uomini in altri paesi di Europa. Veramente de’ soggetti a bella posta scorrevano la Germania, l’Italia, Paesibassi, ove rimescolando lusinghevoli parole a rei disegni, insidiavano governi ed incitavano popoli a cose nuove; epperò si temeva che per le sfrenate dottrine tutti gli altri stati si disponessero alla ribellione.
La Russia sopratutto minacciava di trarre prontamente la spada; ma sia che l’Austria avesse preferito di temporeggiare, sia cheall’Inghilterra fosse meglio piaciuto di ravvicinarsi alla Francia, sia per ultimo che lo stesso Luigi Filippo si fosse ripromesso di guidare la rivoluzione per una via interamente opposta, il cerio si fu, che niuna potenza più si trattenne dal riconoscere quel novello ordine di cose.
CAPITOLO II
Determinazioni prese dal nuovo Re Ferdinando II: tristi casi avvenuti, specialmente in Sicilia per la invasione del colera: misure adottate a spegnere l’odiosità ne’ siciliani: mali umori coll’Inghilterra; tentativi d’insurrezione.
Per la morte di Re Francesco passava la corona al di lui primogenito Ferdinando, secondo di questo nome, che appena contava il quarto lustro di sua età. E come che a quell’epoca lo stato trovavasi sventuratamente gravato da nuovi balzelli, che imperiose circostanze aveano suggeriti, ma che peraltro una più diligente amministrazione avrebbe certamente evitati, cosi il giovine Monarca, dopo di aver prima rimosso il ministero stimato di ostacolo a’ suoi generosi pensieri, e dopo di aver pure dalla corte allontanati alcuni, che di poca onesta fama riputavansi, immantinente aboliva il dritto sulla macinatura, come quello che sconfortava la classe meno agiata, ma la più numerosa de cittadini; sopprimeva la ritenuta del doppio decimo su’ soldi degl’impiegati, causa di scontento, e forse anche di miseria persi estesa classe di uomini, ed al tempo stesso le più severe prescrizioni indicava, perché in tutti rami della pubblica amministrazione corrispondenti risparmi si recassero su quelle spese, che solo a profitto di pochi si volgevano. Anzi nel fine di meglio conseguire l’effetto di quelli aggiustati pensieri, con l’esempio suggeriva, che dalle spese della real casa principalmente la economia incominciasse, portando con ciò rilevante diminuzione allo assegno, che dalla tesoreria dello stato venivagli corrisposto.
Né per tal modo provvedimenti di necessità e di utilità si trascuravano, perciocché non solo sorgevano novelle scuole per ogni ceto, conservatori, case di rifugio e di ricovero, ospizi ed ospedali, stabilimenti di arti e mestieri, ma altresì più regolari strade ad agevolare il traffico siaprivano, antichi porti si ristoravano, de’ nuovi si costruivano, e pubblici maestosi edifici vcdeansi sorgere da per tutto.E come più rimarchevole fra mille noteremo il sempre crescente progresso della disciplina nell’armata, che quasi risorta a nuova vita, a giusto titolo ora tiene posto distinto tra le migliori che esistono in tutta Eu ropa.
Pago il popolo,benediceva il suo Re, il quale per le tante cure che davasi, e per la quiete che si godeva, riguardato veniva come il più bel dono che dalla Provvidenza del cielo potevasi sperare.
Nell’anno 1836, quel terribile morbo, il colera asiatico, dopo di aver flagellato presso che tutto il settentrione di Europa, minaccioso accostavasi anche alla volta d’Italia; enon ostante le più severe misure di preservazione adot tate,al principiar dell’ottobre disperatamente s’intese per laprima volta picchiare le porte di Napoli. E come altrove era presso a poco avvenuto, incominciossi, da’ volgari sopralutto, a sospettare, ed a’ quali per condotta accoppiavansi tristi, che quel morbo in realtà non esistesse, ma per lo invece delle procurate sostanze velenose a bella po stadisseminate ne fossero la cagione.
Serpeva intanto con lentezza il male, e la incredula plebe non si affaticava punto a preservarsene co’ modi prescritti dalla sanità: la maggior parte de’ mercadanti mostrava di nulla crederne per non interrompere suoi negozi, e non mancavano sbianche alquanti medici di ridersi delle previdenze adottate. Funesta incredulità, poiché appena l’autunno inoltrossi, e l’atmosfera da secca qual’era cominciò ad inumidirsi, che il male irruppe in tutta sua furia. Mutate allora le incredule beffe in disperata certezza, subentrato lo spavento alla calma, che in tutt’i mali suol’essere un rimedio e ne’ contagi un preservativo, molti cittadini, ed migliori fuggirono, credendo in tal modo sottrarsi da $i grave sciagura.
La ferocia del male, che tanto lutto lasciava, diminuiva dopo due mesi all’incirca, ed al toccar del decembre spariva col cader dell’anno.
Ma assai maggiori sventure ebbero a deplorarsi nella sospettosa Sicilia, ove il morbo più fiero moveva; perocché la plebaglia persuadendosi che sola causa ne fosse il veleno, sciolta da’ riguardi, trascorse in tanti eccessi verso qualche autorità e gli onesti cittadini, intenti a calmarla, che fatalmente molti fra essi rimasero vittime del suo cieco furore.
A questi tratti di barbarie, cui troppo chiaramente s’innestavano la rapina, la vendetta e la insurrezione, il governo prese un’attitudine giusta e severa; epperò speditovi il ministro della polizia con pieni poteri, in breve con esemplari castighi l’ordine in tutte quelle contrade fu rimesso.
Per siffatti avvenimenti, facili sempre a rinnovarsi alle più lievi occasioni, potè il governo accorgersi che tutte le blandizie usate i)cr calmare lo scontento ne’ siciliani per la loro dipendenza da Napoli, ad altro non eran valsi che aviemmaggiormente stimolarli.
Da che la corte di Napoli, al cominciar dell’anno 1806, er a si ritirata in Sicilia, affidandosi alla protezione della Gran Brettagna, per la invasione francese cui soggiacque la penisola italiana, venne ben tosto quell’isola occupata da milizie inglesi e custodita da vistosa flotta della stessa nazione, per impedire che così interessante punto del mediterraneo aggiunto fosse al colossale dominio della potenza di Bonaparte. E poiché al mantenimento di tante forze, straordinari mezzi occorrevano, cui solo il governo inglese poteva opportunamente sovvenire, così durante quel tempo di circa dieci anni tesori della Gran Brettagna si profusero per tutta quell’isola. Ma quando poi nel 1815, pel trattato di Vienna, la Sicilia tornava alla condizione di prima, mancate le circostanze eccezionali che per tanto tempo mantenuto vi avevano il lusso e la opulenza, e sparita pure quella costituzione,che interessi e speranze inglesi aveanvi introdotta, non potevasi al certo sperare che quei popoli dimenticate avessero le vecchie antipatie, e docili poi si fossero accomodati all’antico regime riprodotto.
Vero è che a far cessare tutti pretesti di malcontento, il governo erasi affrettato a largire alla Sicilia le sue carezze, sia col ridurre pubblici pesi appena alla metà di quelli che ne’ domini continentali sopportavansi, sia coll’accrescervi mezzi a meglio sviluppare la sua floridezza; ma tali sforzi di poco o niun profitto tornavano a fronte di quella illusoria indipendenza che per le suggestioni degl’inglesi, di null’altro curanti che di avvantaggiare loro negozi soltanto, veniva sempre vagheggia t a.
Sin dallo stesso anno 1815 nel provvedersi all’amministrazione dell’una e dell’altra parte del reame, erasi, nel fine di contentare popoli dell’isola, stabilito che non potessero mai napoletani, ad eccezione del servizio militare, ivi occupare alcuna carica, e cosi viceversa siciliani nel continente. Questa determinazione non aveva punto appagati siciliani; epperò si volse, nello stesso intendimento conciliativo, al l’ estremo opposto, nella ipotesi che comuni interessi e relazioni di amicizia e di parentela, fossero per attenuare quelle animosità, che per tradizione sussistevano. Da ciò la immaginata promiscuità nell’anno 1837, per la quale ne rimasero talmente avvantaggiati siciliani, che coloro fra essi che vennero destinati ad impieghi nel continente di gran lunga in proporzione superarono napoletani, che a simile oggetto s’inviarono nell’isola. Ma questo neanche valse a soddisfare siciliani, e l’avversione sempre viva si mantenne.
Nel seguente anno 1838 un incidente surse a compromettere la pace. Lo zolfo, di cui straordinariamente abbonda la Sicilia nelle sue miniere, e dalle quali la Francia, e più l’Inghilterra lo traggono in gran copia per le loro fabbriche e per altri usi, per un inconsiderato contratto stipulato con un negoziante francese era addivenuto l’oggetto di una di costui privilegiata speculazione. Il governo inglese, non ostante che per quel particolare contratto conchiuso con un francese, al modo stesso che si sarebbe effettuito con chiunque altro, non avesse avuto di che dolersi, se ne adontò, protestando contro la violazione di que’ trattati, pei quali la Gran Brettagna doveva nelle sue relazioni commerciali colle Due Sicilie esser considerata come la più favorita nazione . E cominciando pria dalle proteste, poi passando alle minacce, ove la seguita contrattazione non si fosse d isciolta, giunse per ultimo a menare ad effetto per mezzo della squadra del mediterraneo un rigoroso blocco sulle coste del regno. Né il governo di Napoli d’altronde se ne rimase indifferente, poiché saputa la cattura di alcuni legni mercantili dello stato, immantinenti pose l’embargo su tutti legni inglesi di commercio che trovavansi ne’ porti del regno. Questo sp e diente, per quanto dignitoso, altrettanto energico valse non poco a far comporre la vertenza, al che pure, siccome cosa giusta, potentemente contribuì la mediazione del governo francese .
In tutta Europa intanto viveasi nel seno di una pace generale, ma in Francia la così detta propaganda, composta nella più parte da tanti emigrati stranieri, non ostante la vigilanza che vi teneva quel governo, acquistava ognora più consistenza e desiava al di fuori, in quei stati precisamente ove gli agitatori politici in maggior numero si trovavano, delle apprensioni cosi serie da render sempre precaria la tranquillità.
De’ segreti agenti adunque di quella propaganda, animati ancor più dal favore che loro provveniva dalla caligine di Londra, eransi sparsi da per tutto; in Italia specialmente, ove per la prossimità alla Francia, centro di movimento, e forse anche per le trascurate misure di sicurezza, era stato più facile il penetrarvi.
Un primo saggio di ribellione si manifestò in Modena, nel quale abbenché si trovassero varie distinte famiglie e buon numero di cittadini compromessi, pure questa moltitudine trovò tale resistenza nella pubblica forza, che restò in poche ore all’intutto dissipa t a, perdendovi la vita principali fra’ cospiratori.
Un secondo tentativo di l à a non molto avvenne in Rimini, ove per momentanea scarsezza di forze repressive, la insurrezione ebbe alquanti giorni di vita soltanto.
Anche nel regno di Napoli si cercò di fare lo stesso. In Aquila, quando quella picciola guarnigione erasi allontanata per altre occorrenze, alquanti facinorosi vi uccidevano il comandante militare e vi sollecitavano una rivolta; ma appena la resistenza incontrata nella poca forza pubblica rimastavi, e la minaccia di altra forza prossima a sopraggiungere, loro fè certi del pericolò, immantinenti gittaronsi nelle vicine Marche dove, per nascondersi, mezzi ed aiuti avevano a sé stessi per contraria fortuna apparecchiati.
E poco appresso in Cosenza sedavasi simile minaccioso subuglio, e nel conflitto deploravasi tra le vittime dell’onore la perdita di un capitano di gendarmeria, che seguito da coraggiosi ed onesti cittadini affrontò impavido l’iniqua morte.
Né passava lungo tempo che un più serio tentativo si ripetesse nelle Calabrie.
Nell’anno 1844 Giuseppe Mazzini, vagheggiando da Londra la sua giovane Italia, induceva un Niccola Ricciotti da Frosinone, stato altra volta maggiore in un reggimento spagnuolo durante l’ultima rivoluzione in quella penisola, a recarsi in Corfù, a fin di concertare una spedizione nelle Calabrie, per ritentarvi l’insurrezione. Piegavasi il Ricciotti, ed indi a pochi giorni del suo arrivo in quell’isola operava sì prontamente, che partitone la notte del 12 giugno con ventuno italiani, tra’ quali due fratelli Bandiera uffiziali della marina austriaca, giungeva sull’annottare del 16 alla spiaggia del Laganetto, a sei miglia da Cotrone. Guidati da un Giuseppe Melluso, fuorbandito di S. Giovanni in Fiore , inoltravansi nelle vicine campagne, d’onde dopo breve fermata prendevano la volta della Sila. Scoperti a tempo, ed inseguiti dalle guardie urbane e da pochi gendarmi, uno scontro nel folto delle tenebre sostenevano in prossimità di S.( a) Severina, e nel quale rimaneanvi uccisi due individui della pubblica forza. Sorpresi nel giorno appresso nella contrada Verdò, in t enimento di S. Giovanni in Fiore, quando dopo lunga e penosa marcia stavansi ri posati in un prato, cui sovrastava la pubblica strada, caddero tutti in potere della forza, rimanendovi uccisi il principe Miller da Milano col suo cameriere. Condotti immediatamente in Cosenza, giudicati da un consiglio di guerra subitaneo, nove lira essi subirono l’ultimo supplizio.
Anche in qualche altra provincia del regno preparavansi simili commozioni, e sé, come vuoisi, molti tra’ colpevoli sottoposti a giudizio non fossero stati da soverchia indulgenza assoluti, le insurrezioni non sarebbero in seguito così facilmente avvenute, Né in queste regioni meridionali d’Italia avrebbe forse germogliata un’esotica pianta, che solo à potuto appena vegetare sotto qualche più rigido cl ima di Europa.
CAPITOLO III
Progressi del liberalismo: mezzi usati a spargere il malcontento: tentativi d’insurrezione a Palermo: moti di Messina e di Reggio.
Nell’anno 1846 per la morte di Gregorio XVI era stato elevato al pontificato il cardinale Mastai Ferretti, col nome di Pio IX. D’indole dolcissima, facile ed aperto con tutti, saggio e penetrante nelle ricerche governative, nello esordire al papato tutte le cure rivolgeva, con vera carità cristiana, al miglioramento della condizione de suoi sudditi, correggendo difetti della pubblica amministrazione; e con paterna sollecitudine poi restituiva alle proprie famiglie coloro, che o dalla forza, o dal timore, per politiche imputazioni trovavansi in terre straniere allontanati. Secondato ne’ suoi moti generosi, specialmente da que’ soggetti, che pregevoli per elevatezza di mente, covavano d’altronde desideri ardentissimi per liberali riforme, appariva Egli, senza neppure avvedersene, agli occhi degli utopisti italiani quel sospirato Pontefice che con tanta smania era stato dal Gioberti nel suo primato vagheggiato.
Eransi istituiti da pochi anni in Italia congressi di scienziati, da’ quali grandissima utilità scienze, lettere ed arti attendevano. E sebbene più illustri per dottrina e per ingegno vi figurassero, pure molti tra essi, facendo servire di pretesto la scienza, ad altro non intendevano che a spargere con allettative parole fra popoli italiani principi diretti ad un viver più libero, e speranze a prossime desiderate mutazioni. Anzi quel che più contrista si è, che taluni uomini d’ingegno e generosi per indole, riputando dono inestimabile la libertà, e la gente di questa età degna di possederla, presi alle belle parole e dominati continuamente da una dolce illusione fantastica, aiutavano coi detti, colle scritture e co’ fatti quell’inganno, che la malizia altrui con deliberato proposito volgeva ad immense cupidigie. Vero è che taluni principi italiani si scossero finalmente al pericolo che si correva, ma una voce cupa e spaventevole a’ loro inutili sforzi rispondeva: è troppo tardi.
Questo nello assieme era lo stato delle cose in Italia quando sopraggiungevano nel regno delle due Sicilie gli avvenimenti che ci facciamo ora a narrare.
Aveva l’anno 1847 quasi a metà compilo il suo corso allorché per Napoli videsi occultamente spacciare la così detta protesta . Era questa un opuscolo, col quale non solo nel modo il più impudente prendevansi a criticare presso che tutti gli atti del governo, ma altresì nella più indecorosa maniera venivano a discredito pubblico taluni illustri personaggi tratteggiati.
Altro simile lavoro, di diverso conio però, apparve indi a poco, col quale fingendosi un lungo dialogo fra due siciliani, attribuivansi al governo tante prepotenze ed ingiustizie, che alla fine il voluto Lorenzo (tal era il finto nome di uno di que’ due) fervidi voti faceva, perché il principe, guardando ai mali che si soffrivano, e ad evitare le triste conseguenze che ne sarebbero da un giorno all’altro per lui derivate, fosse addivenuto a concedere libere guarentigie a’ suoi popoli, per renderli appagali una volta ne’ l oro sinceri ardenti desideri.
Èsuperfluo notare, che tutto ciò operavasi a solo f ine di accrescere mali umori de’ popoli contro al governo, ed a disporli sempre più ad insorgere alla prima occasione. Ma questa ferita era anche più grave, e più addentro penetrava nelle viscere dello stato, da che alcuni agenti stessi del governo, lungi dal vegliare a quanto era loro dovere di attendere, associavansi col tradimento agli agitatori, ed apertamente manifestavano che la smania di politiche riforme era febbre europea, alla quale niuna forza, od alcun rimedio potevano fare ostacolo ((1)).
Nel momento che tali cose accadevano, una segreta cospirazione veniva sventata in Palermo, nella quale trovavansi a’ siciliani implicati tre uffiziali , e tra essi quel Longo e quell’Orsini di artiglieria, che agevolati di poi in un momento da chi teneva obbligo di guardarli, corsero difilati e da felloni tra gl’insorti di Palermo. Menati intanto prigioni congiurali, e sottoposti a giudizio, non ostante che luminose pruove di reità si fossero raccolte a di loro carico, pure niuna condanna seguì per alcuno.
Da quel che succedeva, chiaramente appariva come il germe insurrezionale insinuato si fosse da per tutto, come mezzi e gli agitatori si fossero moltiplicati, e come in conseguenza la trepidezza di alcuni che stavano al potere si fosse vergognosamente accresciuta. Laonde quando anche più zelanti ed onesti funzionari fossero stati intraprendenti com’eroi, o devoti come martiri, non avevano altro a sperare, che di essere spesso abbandonali, od anche sacrificati da’ stessi loro superiori.
Nella spensieratezza adunque in cui si slava, un rilevante tentativo d insurrezione accadeva in Messina al l’settembre di quell’anno (1847).
Verso le due pomeridiane di detto giorno, allo sparo di tre mortaletti, mossero dalle adiacenti colline alla volta di Messina un centinaio d’armati, guidali da un tale Antonino Placanico commerciante di pelli. Per due vie quella banda cercò d’introdursi nella città: dalla parte de’ cappuccini passando il borgo S. Leone in maggior numero, e da quella del grande ospedale civico per porta legne la minor parte. Giunti alla strada del corso, gridando viva Pio IX, viva r indipendenza, trassero per la strada Ferdinando, ad oggetto di sorprendere nel grande albergo della vittoria il generale Landi comandante le armi in quella piazza, colla maggior parte degli uffiziali della guarnigione quivi riuniti dall’uso militare a convito. Ai primi colpi avvertili da lontano erasi di la spiccato il general Busacca per dare le analoghe istruzioni alla truppa di presidio nella cittadella; e sebbene al passare la largura del duomo uno tra diversi colpi da fuoco lo avesse ferito leggiermente, potè nondimeno, incitando cavalli della carrozza in cui stavasi, recarsi sollecitamente al suo destino. Gl’insorgenti avevano intanto, tra gli altri posti di guardia, assalito quello del banco pubblico, ma da per tutto essi erano stati respinti colla più vigorosa resistenza. Avevano assalita altresì una picciola pattuglia di quattro individui, che in quelle ore pomeridiane batteva a tutela dell’ordine la strada della marina, ma non perché due di questi vi fossero rimasti uccisi, due sopravviventi si sgomentarono; anzi con tale coraggio ed ostinazione si difesero, che non fu possibile agl’insorti di poterli sopraffare.
In questo frattempo il maresciallo Landi, che di già con tutti gli uffiziali erasi prontamente recalo al piano di Terranova d’innanzi alla cittadella, aveva fatto toccare di( 9) arme quella guarnigione, e ne spediva in città una parte. Una compagnia del 3° di linea comandata dal capitano Caldarelli, e varie partite di minor numero davano la caccia agl’insorgenti, epperò conflitti su vari punti; ma dopo due ore allo incirca, respinti vigorosamente cospiratori da tutti luoghi, ed incalzati da per ogni dove sempre con perdila, si ritrassero col favor delle tenebre nelle vicine campagne, rinunziando per allora a quel modo di attaccare, che solo poteva loro tornare a rilevantissimo danno.
In Reggio, ((2)) dove un’altra cospirazione tene vasi preparata di concerto con quella di Messina, seppesi al cader della sera quanto quivi era accaduto; ma sia che il risultato tuttavia s’ignorasse, sia che il preparato movimento non potesse andare più oltre differito senza grave rischio de compromessi, cominciossi a sviluppare tale fermento in su le piazze, ed a spacciare tante dicerie diverse sulla condizione della capitale specialmente, che voleasi in piena sommossa per ottenervi una costituzione, che null’altro restava per trascorrersi apertamente alla rivolta. Per mala ventura non trovavasi altra forza pubblica se non che una mezza compagnia di gendarmi a custodia sopratutto del carcere, e la quale non avrebbe giammai potuto con facil successo tutelare la tranquillità in qualche grave emergenza.
Scosse le autorità, si confusero; Né sapendo, Né volendo altrimenti risolversi, precipitosamente si ritrassero con picciola forza nel soprastante antico e disarmato castello, d’onde poi per frode, non compatiti, si affrettarono ad uscirne depressi.
Un governo provvisorio intanto proclamavano nella notte congiurati, e quanto di più urgente occorreva, a tutto provvedevano allo istante.
Al levarsi del sole le varie contrade formicolavano di centinaia di armati giunti nel corso della notte, sotto la condotta de’ fratelli Domenico e Giovannandrea Romeo, più compromessi nella cospirazione, dal vicino villaggio di S. Stefano, cui cittadini van riputati come più arditi e facinorosi della provincia; ed accresciutesi in tal maniera le forze degl’insorti, investivano sollecitamente la gendarmeria messa alla custodia delle prigioni, onde disarmata che fosse, e data la libertà ai detenuti, niun’altro ostacolo restasse, e la rivoluzione meglio si compisse. Ma non permettendo l’onor militare, che sebbene in poco numero quei gendarmi, e col capitano alla testa, fossero da vili disarmati, vi nacque ben tosto un conflitto, nel quale dopo di esservi rimasti uccisi da parte degli aggressori un giovane Romeo, e da parte degli aggrediti lo stesso capitano, la gendarmeria restò sopraffatta dal numero esorbitante degli insorti che, rendutisi perciò padroni della città, estrassero dal carcere tutt’i detenuti che v’erano.
Mentre queste cose accadevano, il telegrafo agitavasi per tenerne informato il governo della capitale, d’onde in tutta fretta salpava una squadra di varie fregate a vapore, comandata dal principe D. Luigi, con tremila uomini da sbarco, agli ordini del generale Nunziante.
La squadra nel mattino del 4 accennava al lido di Reggio, e scorgendo una bandiera tricoloresul menzionato castello, vi traeva alcuni colpi di cannone, non solo per menare la confusione e lo spavento tra sollevati, ma sopratutto per eluderli sul vero punto dello sbarco, che nella spiaggia di Pentimele con altri legni eseguivasi.
Allora tutti quegli armati a migliaia, che poco innanzi giuralo avevano di vincere o morire all’ombra del tricolore vessillo, appena scorto il pericolo da vicino, lungi dal l’ opporre alcuna resistenza, si ritrassero in tutto disordine nelle adiacenti campagne, abbandonando taluni nel corso della fuga sinanche le armi per ottenere un più facil ricovero, mentre gli altri credendosi anche mal sicuri, come che inseguiti a tutta possa dalla truppa, inerpicandosi su per quei monti, sì divisero in tante picciole bande, di cui alquante si raccozzarono alla meglio verso la costa del distretto di Gerace. Ma quivi neanche un giorno poterono prender lena, poiché incalzati da tutti lati, la più parte fu fatta prigione e tratta in Reggio per esservi giudicata, qualcuno rimase estinto ne’ parziali conflitti avvenuti, e pochi, anzi pochissimi, più fortunati fra tanti, riuscirono a sottrarsi alle ricerche della forza.
Così in sul nascere spariva il molo di Messina, ed in su la culla si soffogava quello di Reggio, non rimanendo di essi, che il solo sangue sparso, come d’ordinario avviene in tutte le insurrezioni.
Ma non ostante quell’esito toccato a’ due riferiti movimenti, non potevasi per questo argomentare che la tranquillità potesse durare lungamente. Lo stato romano, anzi Roma istessa era addivenuta il centro di ragunamento dei più arditi agitatori italiani e la fucina di tutt’i disordini. Nel Piemonte, e nella stessa pacifica Toscana le passioni politiche si erano accese a tal segno, che non sapeasi più prevedere a qual termine avrebbe menato cotanto sconvolgimento. Ed il fermento per ultimo che in Lombardia regnava, e che sempre più accrescevasi onde scuotere il giogo austriaco, abbenché le forze della dominante potenza vi si fossero aumentate quasi del doppio, anche le più serie apprensioni destava.
Affine adunque di antivenire qualche novello e forse più serio tentativo nel regno, ed anche per tenere le popolazioni in soggezione, nel giorno 13 settembre partiva da Napoli alla volta degli Abruzzi una colonna mobile di fanti e cavalli, con un corrispondente parco d’artiglieria, comandata dal generale Carrabba. Ed allo stesso intendimento, dopo cinque giorni spedivausi per la Capitanata, pel resto della Puglia e pel contado di Molise altri corpi di cavalleria e di fanteria alla dipendenza di altrettanti condottieri.
E sebbene a questo modo il governo si avesse voluto apparecchiare agli eventi, pure suoi agenti niuna pena si davano ad invigilare su quanto stavasi preparando dagli agitatori politici, quali nel cuore stesso della capitale a tutta possa a ff aticavansi allo sviluppo de’ concertati movimenti.
CAPITOLO IV
Movimenti di Napoli: provvedimenti a refrenarli immaginati dal governo mezzi conciliativi alla fine adottati.
Ad un’ora di notte all’incirca del 22 novembre, dopo un concerto preso tra loro, riunivansi ad un tratto presso al palazzo della nunziatura in via Toledo quantità di borghesi e popolani, e gridando a tutta gola a determinati intervalli; v i va Pio IX, viva l’ i ndipendenza italiana, avviavansi indi a poco in file quasi ordinate verso l’edificio delle reali finanze, ripetendo da tempo in tempo gli stessi evviva. Cercavasi in tal maniera non solo di applaudire a certe governative riforme che il Pontefice aveva di recente accordate a’ suoi sudditi, ma altresì a disporre gli animi de’ napoletani a desiderare altrettanto.
Vero è che vi accorse immantinente l’autorità di polizia, ma sia che quel subitaneo e non previsto moto l’avesse in certa guisa paralizzata, sia che la sua attitudine si fosse di alquanto attiepidita, o che forse non avesse a sufficienza interpe t ra t o l’obbi e tto di siffatta manifestazione, il certo si fu, che ad altro non limitossi, che a sciogliere pacificamente quel numeroso attruppamento.
In altri tempi un movimento di tal natura si sarebbe forseriguardato come una bizzarria giovanile, e giammai comeun mezzo a turbare l’ordine pubblico, ma nello stato incui gli animi si trovavano pe’ moti liberali che in Italia succedevano, e che in parecchi punti del regno avevansi procurate le simpatie di molti, doveva senza alcun dubbio farcomprendere al governo tutto il pericolo che correva quando non vi avesse a tempo riparato.
I ministri del Re non convenivano su’ provvedimenti da adottarsi nella bisogna. Quelli di più ardente e risoluta natura opinavano, che senza darsi più tempo agli agitatori diaccrescersi di numero, epperò di potenza, si dovessero subitousare mezzi violenti, come rimedio più spedito e sicuro.Gli altri al contrario proponevano moderate e dolci misure, nel riflesso che le opinioni spacciate da’ novatori essendosi insinuate quasi da per tutto, convenisse piutto storicorrere alla destrezza, anzi che oppugnarle colla violenza e col rigore. Questa ultima opinione prevalse, ma però niuno efficace spediente fu preso.
Erano alquanti giorni decorsi da quell’accaduto, quando in altra sera del sopraggiunto decembre, alla stessa ora e colle medesime circostanze una più rilevante manifestazione apparve, che per la sua imponenza viemaggiormente destò l’attenzione di tutti. Questa volta però, a dire il vero, essendovi accorsa con prontezza la pubblica forza in attitudine severa e minacciosa, non solo riusci a dissipare in un tratto la moltitudine, ma altresì ad impossessarsi della maggior parte di coloro, che alle apparenze sembravano più arditi condottieri di quella massa.
Dopo questo secondo avvenimento niun altro se ne riprodusse, ma sin d’allora tutti gli uomini di sano pensare giudicarono, che non si sarebbe fatta lungamente attendere qualche grave sciagura politica.
Era il Re di tutto cuore inclinato ad accomodar le cose a’ tempi per quanto la prudenza il comportasse, ma alcuni aristocratici sopratutto, stati per lo innanzi soverchiamente accarezzati, vollero farsi capi e guidatori del partito liberale, e delle novità che in conseguenza succedevano. In questo il pensier loro era di cattivarsi con allettative parole la benevolenza del popolo, e diminuire, con l’aumento della propria, l’autorità della corona.
Già qualche mese innanzi il Re aveva in parte cangiato il ministero, ed anche prima aveva pur disposto il ribasso di un terzo sul prezzo de’ sali. Né stimando all’intutto bastanti questi spedienti a soddisfare desideri mostrati, ai primi giorni di gennaio del 1848, con apposito decreto accresceva le attribuzioni de’ consigli provinciali e della consulta di stato. Anzi perché meglio la cosa procedesse, a quel supremo consesso non solo si destinavano alcuni novelli consultori più accetti pe’ tempi che correvano, ma vi si aggiungevano altresì a farne parte, come consultori straordinari, coloro che primi posti occupavano nell’ordine amministrativo e nel giudiziario della capitale.
Al tempo stesso alcune moderate larghezze accordavansi alla stampa, onde nell’atto che avesse meglio giovato alla cosa pubblica, non fosse addivenuta, come in seguito per maggior libertà sventuratamente mostrassi, il mezzo a palesare le più smodate passioni.
Intutt’altra circostanza novatori avrebbero senza alcun dubbio accolti con trasporti di gioia tutti questi atti del governo, ma a quell’epoca, rimasti essi abbagliati da’ passaggieri successi delle due seguite dimostrazioni, e fidando nell’ulteriore sviluppo degli avvenimenti, apertamente spacciarono, che que’ provvedimenti da sola necessità, e non mai da volontà fossero stati dettati; e come di cosa non rispondente ai tempi ed ai bisogni del popolo, se ne beffarono. Conobbe ciò il governo, Né volendo affatto rimuoversi da’ mezzi conciliativi, stimò che a calmare l’agitazione, che sempre più accrescevasi, si abbisognasse di qualche nuovo tratto di dolcezza. Fatale illusione, che a nulla mena, quando mali sono spinti agli estremi.
A 20 gennaio adunque il Re ordinava ai ministri della giustizia e della polizia di presentargli sollecitamente la lista de’ detenuti e condannati per cause politiche, nel fine di farli grazie, con adottarsi però quelle misure che si sarebbero stimate più conducenti alla pubblica tranquillità. Adempiasi in men di tre giorni al chiesto lavoro, e tantosto rendeasi la libertà a tutti, che quasi a mille giungevano, escludendosene soltanto il sacerdote Chr y mi, il canonico Pellicano, Giovannandrea e Stefano Romeo, Giuseppe Miranda, il sacerdote de Ninno, Vincenzo Mauro e Giuseppe Scala, tutti compromessi nelle insurrezioni di Messina e di Reggio, pei quali fu disposto, che per ragione di pubblica sicurezza dovessero per allora rimanere rilegati su di un’isola.
Tutte queste blandizie però invece di assopire il macchinato rivolgimento, ad altro non valsero che ad accelerarlo viemaggiormente; perciocché nelle commozioni politiche le concessioni de’ principi non si risolvono in altro che in tante conquiste per gli agitatori, quali considerano tali atti non già da spontanea volontà dettati, ma come l’effetto d’incusso timore.
Intanto rilevanti avvenimenti cominciavano a succedere in Palermo, ove non solo la più fatale letargia avea colpito chi vi tenea il potere, ma altresi per troppo mala ventura alcuni fra’ stessi principali funzionari trovavansi, siccome volle la fama, puranche essi immischiati nella cospirazione che si tramava da un certo tempo. Quale e quanta influenza avessero poi esercitata que’ successi della penisola alla sorte, si scorgerà a colpo d’occhio da ciò che saremo per dire.
CAPITOLO V
Mezzi usati in Palermo per determinare il popolo ad insorgere.
Ilprimo segnale dato da’ napoletani colla dimostrazione del 22 novembre era stato pe’ siciliani di fortissimo incitamento.
Già alquanto prima di quell’epoca, per rispondere ai moti di Messina e di Reggio, erasi appiccato il fuoco alle munizioni di artiglieria rinchiuse in un magazzino del forte Castellammare in Palermo, per modo che era in aria saltato con istrepitosa detonazione il tetto dello stesso magazzino. Parecchie macchine erano rimaste bruciate, altre fracassate dalla esplosione delle bombe e delle granate, e solo per la solerzia di alcuni uffiziali eransi salvate molte cose che stavano in gravissimo pericolo. Si compilò un processo a carico di un sergente soltanto per tenere forse in tal guisa meglio al coverto gli autori ed complici di quel misfatto, e come si era preveduto, non ostante che sufficienti indagini avessero potuto raccogliersi sulle circostanze essenziali dell’accaduto, pure, trascurate, il risultato menò al solito non costa.
A q uel tempo la stampa clandestina , divenuta più audace e libera, usava ogni arte e tentava ogni mezzo per disporre il popolo alla rivolta e la truppa al tradimento, e per quanto nel primo sempre più s’incarnavano quelle suggestioni, per altrettanto l’altra si rimaneva costante ai propri doveri.
La jattanza siciliana, precorsa qualche giorno prima, aveva di già eccitato il desiderio dell’universale per assistere ad una rappresentazione che nel teatro Carolino doveva prodursi nella sera del 27 novembre; epperò mentre il valore de’ biglietti straordinariamente aumentavasi, un autorevole prudente voce militare politica economica consigliava, o meglio vietava a’ militari, soliti a que’ passatempi, d’intervenirvi.
Affollato di spettatori oltre ogni dire lo spettacolo cominciava senza il menomo indizio d’imminente disordine, se non che il termine del primo alto giungeva segnale convenu t o per tutti, e tutti ad un tempo abbandonavansi ad immense sfrenatezze. Tutti levati in piedi gridavano; viva Pio IX; viva l’ Italia; viva l’indipendenza. Tutti fazzoletti, la maggior parte tricolori si agitavano da essi senza posa in segno di reciproco plauso: una quantità di carte a vari colori allusivi, contenenti esortazioni ad una prossima rivolta, cadevano giù dalle logge: la duchessa Gualtieri spiegava pomposa agli occhi del pubblico lunga e larga fascia a tre colori: molti montati su’ banchi arringavano; un nobile lanciava dalla platea de’ cuscini contro il presidente Franco, che non applaudiva dalla loggia in cui sfavasi; in altra un uffiziale nato in Sicilia rispondeva per vie di fatto ad un gentiluomo che obbligavalo ad applaudire, e che al rifiuto chiamava l o nemico della patria; e per ultimo un tal Miceli da Monreale compariva sul palco scenico, ed agitando una di quelle bandiere tricolori, alle di cui prestigie la incontentabile Sicilia ben tosto cader dovea nello abisso della miseria e del lutto, riscuoteva gli applausi universali.
Durava una buona mezz’ora tanto schiamazzio, e come se a niuna autorità fosse stato lecito il comprimerlo, appressavasi circospetto ed interdetto in abito pagano un alto funzionario di polizia militare alla porta di una loggia, e dopo di essersi quivi da un uffiziale informato dell’accaduto, pregavate perché le più criminose particolarità non fossero al luogotenente riferite, e tosto premurosamente si allontanava.
Il tutto passava intanto sotto gli occhi della polizia e della forza che suol tutelare il buon’ordine nei luoghi di pubblico convegno; e non ostante che sin dalle prime mosse ne fossero stati principali agenti del governo avvertiti, pur nondimeno, o che fosse stata colpevole trascuraggine, ovvero ignavia, non si curarono affatto di spiegare quella energia che il caso richiedeva.
Da ciò gli arditi doveansi rinvigorire, dubbiosi persuadere, timidi incoraggiare; epperò in quella notte, appena terminava Io spettacolo, la moltitudine soffermavasi nel piano d’innanzi al palazzo pretorio, e stabilitovi il da farsi al nuovo sole, tranquillamente discioglievasi.
L’indomani, giornata di domenica, affollavasi oltre l’usato nella villa Giulia della gente. Dame e cavalieri, galantuomini e gentildonne, dottori e mercadanti, curiosi e sfacendati affluivano da ogni parte, e quando già la moltitudine trovavasi strabocchevolmente accresciuta, si scorse che la marmorea statua di Palermoavea sul capo una corona di fiori, al petto un cartello sedizioso ed intorno al corpo de’ nastri tricolori.
Quanto nel teatro la sera innanzi erasi praticato, venne a tal vista con maggiore ardimento ripetuto. Gli affollati applaudirono oltre ogni credere, gli evviva echeggiarono per tutti quei colli, ed intanto al pari della sera, niuna autorità si mosse a refrenare questo secondo tratto di audacia. Anzi se vuoisi credere a quanto se ne disse, che per darsi cioè maggiore comodità al subuglio si fosse cercato distrarre gli uffiziali del 1° granatieri della guardia con un pranzo dato a bella posta ai colli nella casina del barone Bordonaro, dovrebbesi con fondamento ritenere, che il disordine formava il desiderio di qualcuno che più di ogni altro poteva adoperarsi a comprimerlo.
Noi ritraendo indignati lo sguardo da individui di simil fatta, nella pia speranza che il tempo, a disinganno de’ presenti ed a norma degli a venire finalmente ne adombri il quadro mostruoso ed infame, noteremo soltanto, che quello era desiderio inglese, che opportunamente raccozzava benemeriti suoi scaltri ed antichi spioni, li poneva in una misteriosa corrispondenza co’ settari della giovane Italia, e faceva così risognare ai popoli di quell’isola la sospirata indipendenza, che tutta a dipendenza inglese volgeva .
Nella notte del dì seguente all’accaduto nella villa una moltitudine riunivasi nella largura del duomo, prossima alla reggia, ove dopo lunga perorazione fatta da un prete, tutti giuravano appiè della statua di S. Rosalia, proteggitrice della città, di riacquistare la indipendenza, ponendo nelle mani della santa, che profanavano,la bandiera tricolore spiegata dal Miceli al teatro. Avvertitone in questo mentre il generale Pronio, con quella intrepidezza che lo à sempre distinto ne’ maggiori pericoli, senza a f fatto curarsi di altro, all’istante vi accorreva con una compagnia del 1° granatieri soltanto, e bastava l’approssimarsi di questo drappello per fare ad un tratto sparire quel numeroso stuolo di agitatori. Assaliti a colpi di fuoco nella fuga verso la piazza del capo dalla guardia del commessariato S. Isidoro, quella bandiera, poco innanzi servita ai loro indegni giuramenti, cadde con alquanti di essi in potere della forza.
Altro fatto, non meno rilevante per le circostanze che l’accompagnavano, succedeva al giorno appresso. Il cavaliere Ruggiero Settimo, retroammiraglio ritirato della realmarina, tenuto in molto pregio da’ popolani, non ostante lasua mezzana intelligenza, recavasi col pretore marchese Spedalotti, col maggior numero de’ senatori e con parecchi notabili presso del luogotenente, a presentargli una petizione contenente migliaia di sottoscrizioni raccolte nella resina de’ negozianti alla piazza villetta, facendosi a pretendere, tra le altre riforme governative dell’isola, il sollecito ordinamento di una guardia nazionale. Ma non tornavano loro gradite le risposte del luogotenente, perciocché le insinuazioni a tempo destramente fatte da taluni uffiziali , avendole regolate, esse furono, quali dovevano essere, negative, dignitose e minaccevoli. Quest’altitudine severa spaurì siffattamente coloro, che una gran parte credendosi perduta, ricalcò nel giorno appresso le stesse orme, implorando perdono.
La fiaccola della discordia sfavasi da certo tempo talmente accesa tra il luogotenente ed il maresciallo Vial, comandante della piazza di Palermo, ed incaricato pure della polizia, che a quei giorni per novelle cagioni sopraggiunte eransi accresciuti a tal segno disgusti, che non poteansi piùoltre tenere celati; e gli agitatori che in gran parte li avevano con destrezza fomentati, cercavano di profittarne consuccesso. Ad evitare adunque che il male, che per necessità doveva derivarne, più oltre procedesse, il governo erasi affrettato a nominare il prefetto di polizia in Palermo, le cui funzioni erano state insino allora esercita t e da un commessario. La scelta del soggetto in persona del giudice D. Carmelo Mar t orano non poteva essere migliore, avendo egli dato argomenti Né dubbi, Né brevi d’intelligenza e rettitudine nel ministerio che lasciava. Ma tali e tante difficoltà incontrò egli nella corruzione de’ subalterni, che per quante regolari ed energiche fossero state le sue mosse, non fa possibile di venire a capo di alcun successo.
Da Napoli erasi pure raccomandato al governo di Palermo la custodia di quel banco pubblico, o la conservazione altrove del danaro che vi esisteva. Un uffiziale dello stato maggiore aveva presentato al luogotenente un ragionato progetto di difesa per quel vasto edificio, e quantunque esso non avesse avuto d’uopo che di brevissimo tempo per esser menato ad effetto, era stato nondimeno con indifferenza da lui ricevuto, e con disprezzo trascurato da chi chiamato da non meno diretta responsabilità doveva senza esitazione adottarlo.
Intanto l’ occulta protezione inglesenon mancava di svelarsi apertamente per soccorrere coloro, che agitati dal timore, aggiravansi irrequieti sulla dubbiezza degli eventi, la quale tanto più cresceva, quanto più riflettevasi alla scarsezza de’ mezzi, al ristretto numero de’ congiurati ed alla instabilità della moltitudine. Quindi all’uopo appariva un piroscafo inglese denominato Porcupine , e disbarcatone per alquante ore quel capitano, dopo una conferenza tenuta con Ruggiero Settimo, col principe di Scordia e con un tal Mariano Stabile, principali agenti della tramata cospirazione, sollecitamente si allontanava dal lido, ed altrove si recava.
Effetti di queste conferenze, quando in apparenza sembrava l’ordine pubblico ristabilito in Palermo, furono pratiche sediziose riprodotte in altri punti della provincia.
Nella casina di un nobile di Corleone riunivansi a banchetto molte persone ; facevano brindisi alla salute de’ principali agenti della preparata rivoluzione; assicuravano essere sotto la protezione della forza inglese; indicavano vicini mari ove le flotte all’uopo ancoravano, ed in ultimo terminavano quella riunione con fuochi di gioia sparando mortaletti.
Nel comune di Carini altro fatto accadeva. Molti popolani armati, riuniti nel corso della notte, correvano il paese eccitando il popolo alla rivolta: la gendarmeria locale comprimeva quel movimento, e menava in carcere quanti ne poteva raggiungere.
In altri paesi, e sopratutto in Termini, Cefalù, Misilmeri eBagheria affiggevansi in pieno meriggio cartelli sediziosi; e poiché tutte queste novità rivoltuose manifestavansi senza riguardo, così la direzione centrale di gendarmeria, affidata ad un capitano, ne faceva sollecito e circonstanziato rapporto a’ superiori.
Ma la cosa anche più oltre procedeva. Numerosi cartelli ed avvisi a stampa apertamente distribuivansi in Palermo nei giorni 9 e 10 gennaio, co’ quali mentre annunziavasi certa la insurrezione pel giorno 12, invocavasi l’aiuto universale de’ figli dell’isola per sottrarsi colla forza da quel giogo; che come dicevano, iniquamente avevano insino allora sopportato. Basta leggere il seguente fra tanti, per iscorgere fin dove quel deplorabile stato di cose fosse giunto.
«Siciliani.»
« Il tempo delle preghiere inutilmente passò inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni Ferdinando tutto ha sprezzato. E noi popolo nato libero, ridotto fra catene e nella miseria tarderemo ancora a riconquistare legittimi diritti? All’armi figli della Sicilia!.»
«La forza di tutti è onnipossente: l’unirsi de’ popoli è la caduta de’ re».
« Il giorno 12 gennaio 1848 all’alba segnerà l’epoca gloriosa della universale rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quanti siciliani armati si presenteranno al sostegno della causa comune, a stabilire riforme ed istituzioni analoghe al progresso del secolo, volute dall’Europa, dall’Italia, da Pio IX».
«Unione, ordine, subordinazione a’ capi».
«Rispetto a tutte le proprietà, e che il furto si dichiari tradimento alla causa della patria, e come tale punito».
«Chi sarà manchevole di mezzi, ne sarà provveduto».
«Con giusti principi il cielo seconderà la giustissima impresa».
«Siciliani all’armi».
Quali intanto sarebbero stati provvedimenti indispensabili in tale bisogna per troncare le fila di quella orditura già troppo vasta, e farne abortire il proponimento, non è dello storico il mostrarlo. Solo egli osserva, che principali agenti del governo eransi così fattamente illusi che a grandissimi stenti determinaronsi all’arresto di soli undici de’ capi cospiratori, quali rinchiusi nelle prigioni di Castellammare vi rimasero insino allo scioglimento del tragico dramma che ora ci facciamo a narrare.
CAPITOLO VI
Insurrezione scoppiata in Palermo: truppe speditevi da Napoli per comprimerla.
L’alba del giorno 12 avvicinavasi foriera di politiche calamità.
Di già qualche ora innanzi quattro distaccamenti del 1° granatieri della guardia erano stati spediti, per altrettante direzioni diverse, a girare la città nel fine di osservare se il buon ordine vi si serbasse; e per la calma scorta da per tutto, comandanti aveano convenientemente riferito.
Fatto più tardi, le botteghe lungi dall’aprirsi come al solito, vedevansi chiuse nella più parte: in su le vie e le piazze gli uomini, in maggior numero dell’ordinario, sembravano predominati da un pensiero comune;. si riunivano in cerchi, in brigate, quasi senz’avvedersene, ed ogni discorso accresceva la loro passione: fra tanti notavansi alcuni forse di sangue più freddo, che stavano osservando con molto diletto come l’acqua s’andasse intorbidando, e s’ingegnavano d’agitarla più e più con quei ragionamenti e con quelle novelle che furbi sanno comporre, e che gli animi alterati sanno credere. Verso fiera vecchia e via la t terini soltanto scorgeasi qualche gruppo di cittadini armati, cui stavano riuniti moltissimi inermi disposti a seguirli da per tutto.
Erano presso le otto quando presentavasi alla borghese al luogotenente il colonnello della gendarmeria, che interrogato sullo stato morale della città, con molta franchezza rispondeva; esser tutto tranquillo, due sue ordinanze esser da poco a lui tornate, ed avergli pure la stessa cosa riferito.
Non ostante queste esplicite dichiarazioni, il generale Pronio, che teneasi più vigile, e che più circostanziati ragguagli si procurava, attesa la sempre crescente agitazione, sollecitamente ne informava il luogotenente ed il maresciallo Vial, ed istava perché all’occorrente si provvedesse.
Nel fine adunque di conoscere il vero aspetto delle cose, spedivasi il tenente Armeni o dello stato maggiore, con due ordinanze a cavallo, a girare sollecitamente la città, osservarne lo stato e minutamente il tutto riferire.
Moveva l’Armenio pel toledo, perveniva a quattro cantoni, e molta gente ravvisava alle finestre delle case ed alla casina de’ negozianti in tanta attenzione, come se rilevanti novità stassero per succedere. Spingendosi per la via macqueda verso porta S. Antonino onde far rientrare due picciole guardie, l’una di quattro uomini alla posta, l’altra di sette al palazzo di città, trovava que’ posti già abbandonali, senza poterne conoscere la cagione; e meravigliato all’intuito restava allo scorgere sul loggiato della casa municipale precisamente il pretore marchese Sp e dalotti, con molti gentiluomini, che battendo le mani, al pari di tanti altri che nella strada trovavansi, allo appressarsi ch’ e i faceva, mostravano di applaudire alla di lui franchezza. Proseguendo il cammino verso il palazzo della intendenza, imbattevasi in uno stuolo di tre a quattrocento individui, coi nastri tricolori al petto , quali, collo sventolare di bianchi fazzoletti, indicavano d’invitarlo ad accostarsi. Senza punto esitare, rispondendo collo stesso atteggiamento, vi si avvicinava, presentando una doppia fila di armati la moltitudine inerme. Chiesto di che si trattasse, sentiva da colui che se ne addimostrava il condottiere, e che dall’aspetto e dal modo sembrava un gentiluomo, che il popolo voleva quelle concessioni da lungo tempo invano sperate, e che pel bene comune desideravasi che la truppa a lui si riunisse. Con quella prudenza, che alla circostanza convengasi, l’uffiziale rispondeva, che si fosse calmala l’agitazione, che avrebbe tutto al luogotenente riferito. Accomiatatosi dignitosamente per far ritorno a palazzo per la stessa via tenuta, trovava a’ quattro cantoni un distaccamento del 9° di linea al di cui comandante espressamente raccomandava, che impedisse al popolo di accostarsi, e che lo respingesse, ove necessità il volesse, anche a colpi di moschetto.
Il luogotenente intanto, che per opera de’ mediatori, per la difficile posizione in cui stavasi e per lo stringente bisogno di aiuto e consiglio erasi di alquanto rappaciato col generale Vial, cercò d’allora di non mai più dipartirselo da vicino, per tenerlo compagno e guida nel pericoloso cammino che vedevasi obbligato a percorrere. Insieme fra le mura della reggia, insieme al timone del governo, soffrirono le stesse privazioni insieme, finché insieme, come saremo per dire, dopo tredici giorni ed altrettante notti allo incirca, in mezzo ad un fuoco micidiale abbandonavano quell’isola, non come Scipione, che partendo dall’Africa, salutava le pianure di Zama.
Per le nuove riferite dal tenente Armenio, e per l’agi tazione di un sergente del 3° dragoni, che per superiore disposizione recavasi per la strada delle mura da palazzo ai quattroventi, e che allo giungere verso il bastione del monte vi restava ucciso da’ popolari, apertamente rivelava che quel giorno sarebbe stato pregno di più gravi avvenimenti.
Nel fine adunque di prevenire che il disordine vieppiù si accrescesse, davansi le seguenti disposizioni per le milizie.
Degli avamposti si stabilirono per mantenere in soggezione tutti gli sbocchi: al piano di S. Teresa e borgognoni si postò il reggimento dragoni, distaccandosene un plutone soltanto a perlustrare il lungo stradone che mena a Monreale: al piano del palazzo reale si piazzarono il 1° granatiere della guardia ed il 1° di linea: un distaccamento inviossi ad occupare l’ampio locale dell’ ospedale civico; alcune compagnie al papireto; una picciola guardia rimase al quartiere di S. Giacomo, ed un’altra alquanto più numerosa a quello del noviziato: l’artiglieria si tenne a guernire le batterie di palazzo, e due pezzi da campagna si situarono sotto al seminario per mantenere in suggezione il toledo: al locale delle finanze , alla solita guardia si aggiunse un forte distaccamento del 2° di linea; nel forte di Castellammare la guarnigione si aumentò a tre compagnie della guardia, e due del 2° di linea, col corrispondente numero di artiglieri: a’ quattroventi si piazzarono due battaglioni del 10° di linea ed un battaglione del 9°, prelevandosene due distaccamenti per la custodia della vicaria e pel forte castell ucci o del molo [(*)] ; e per ultimo due batterie da montagna si piazzarono in battaglia nel piano della consolazione , per trasportarsi ove il bisogno richiedevalo.
In tutto il resto di quel giorno, nel mentre che nobili e gl’intelligenti affaticavansi a stabilire un governo provvisorio ed a formare de’ comitali per attendere a’ diversi bisogni, quei pochi insorti in arme che stavansi in Palermo riducevansi ad occupare le finestre di varie case di rincontro al quartiere del noviziato, donde, senza grave rischio, si avesse potuto con successo molestare la truppa che vi stanziava.
Nel dì seguente (14), attesa l’inerzia in cui continuavasi a stare dalle autorità, le difficoltà a vincere l’insurrezione eransi di soverchio aumentate, e l’aspetto delle cose di mollo cangiato; perciocché non solo erano penetrati in città quantità di villici armati de’ paesi vicini, insorti ancora essi, ma altresì per la ricomparsa del porcupine , armi e munizioni erano stati pure a sufficienza distribuite . Aggiungevasi p oi a tutto questo, che il famigerato Miceli aveva con numeroso stuolo de’ suoi seguaci sorpresa e fatta prigione una compagnia di fanti distaccata a Monreale; che un tal Giuseppe Scordato con una banda d’insorti aveta vinto, in seguito di un breve conflitto, un’altra compagnia alla Bagheria; e che entrambi minacciavano di entrare in Palermo alla testa di tanti sollevati.
Il quartiere del noviziato, che come si è detto, era divenuto il bersaglio delle offese, racchiudeva le donne del 1° di linea. Per torle di rischio, si pensò in quel giorno (14) di farle scortare da una compagnia a palazzo; e quando già dall’uno all’altro luogo tramutavansi, facendosi popolani a trarre a tutta furia su quello stuolo, il più affliggente spettacolo si offerse.
Non potendo quindi più sopportarsi quello stato di cose, il luogotenente alla fine ordinava al comandante del forte Castellammare, che facesse lanciare delle bombe sulla città, a fine di menare lo scoraggimento tra’ sollevati, e di arrestare anche per tal verso il progresso della insurrezione.
Cominciava, sebbene con lentezza, il bombardamento, e di qualche ora soltanto nera la durata, perciocché recatisi sollecitamente consoli di Francia e d’Inghilterra a protestarsene presso del luogotenente, riuscirono ad ottenerne la sospensione per 24 ore almeno.
In questo frattempo, per la segnalazione telegrafica giunta in Napoli sulla scoppiata insurrezione, aveva fatto speditamente il Re allestire una squadra di nove tra fregate e corvette a vapore , sulla quale si erano imbarcati nove battaglioni di fanteria e due batterie da campo, sotto il comando del maresciallo Desauget. A questi esplicitamente si prescriveva; che lo sbarco della truppa seguisse fra Termini e Palermo; che il maresciallo, appena posto il piè nell’isola, assumesse il comando generale delle armi, colle più ampie facoltà; che si fortificasse Termini per servir di base alle operazioni; che il maresciallo impiegasse con tutta energia dieciotto battaglioni che si sarebbero riuniti sotto suoi ordini, il 3° dragoni e le trentadue bocche da fuoco a comprimere la insurrezione; che frenata la stessa a Palermo, immantinenti spedisse delle colonne mobili per reprimerla anche in quelli altri luoghi dell’isola che avessero per avventura seguito l’esempio della capitale; e che per ultimo in tutto il corso delle operazioni spiegasse la dovuta protezione verso de’ buoni ed onesti cittadini, come al contrario con severi castighi punisse colpevoli.
Salpata il giorno 14 dal porto di Napoli , compariva la squadra nelle ore pomeridiane del 15 innanzi Palermo. Succedeva tranquillamente lo sbarco della truppa sulla banchina del molo, e nel mattino seguente tutta la soldatesca di spedizione unita a quella de’ qua tt roven t i trovavasi già pronta a’ cenni del novello generale in capo.
Alla semplice vista della squadra pareva già come per incantesimo sedata la ribellione; principali compromessi, co’ loro dipendenti si nascondevano; molti, ed più facoltosi, rifuggiavansi su’ legni francesi ed inglesi ancorati nel porto; altri, stretti dal tempo e dalla scarsezza de’ mezzi, spaventati si gittavano nelle circostanti campagne e guadagnavano le gole delle prossime alture. piani di attacco e di difesa delle due parti ostili sparivano. La nudità de’ monti invitava il general Desauget ed il general Maio a godere del magnifico spettacolo che offrivano fuggitivi a torme, distinguibili ad occhio nudo in tutte le direzioni per piani e per balze. Quanto più inoltravasi il giorno, più lo spavento sbalordiva le masse de’ popolani, quali gittavano pubblicamente per le vie di Palermo le proprie armi, e sparivano.
Questo inatteso effetto dello sbarco di Desauget effettuito a quattroven t i, e non già fra Termini e Palermo, avrebbe dichiarato gloriosa la di lui disubbidienza nello appartarsi dalle istruzioni ricevute nel cominciamento della campagna, ed il suo nome avrebbe goduto di quel prestigio che sulla immensa fiducia dell’esercito la guerra gli apparecchiava, se da quel momento egli avesse saputo profittare de’ favori dell’amica fortuna. Disgraziatamente però la cosa andò ben altrimenti, e le concepite speranze di un felice successo sparirono ad un tratto.
CAPITOLO VII
La insurrezione in Palermo si accresce: la truppa di guarnigione se ne sta sulla difensiva, Né il corpo d’armata del generale Desauget s’impegna in alcun’azione: il luogotenente si sforza a delle trattative, ma le richieste vengono da’ siciliani rigettate: inaspettatamente, tutta l’armata abbandona l’isola, e si ritira in Napoli.
Prima dell’arrivo del generale. Desauget nemici, accortisi dell’attitudine difensiva presa dalle truppe, avevano occupate tutte le case, dalle quali potessero bersagliarle senza esser veduti. Così venivano molestati difensori delle finanze e dell’attiguo quartiere della gendarmeria a piedi, quelli del quartiere noviziato, e tutti distaccamenti che nello scopo di tutelare il palazzo reale sorvegliavano a petto scoverto sbocchi delle strade e de’ vicoli, che nell’ampio suo giro si o f frono.
L’espugnazione delle finanze e del quartiere di gendarmeria, per impadronirsi del tesoro, non che quella del noviziato, per sottomettere più agevolmente il quartiere di S. Giacomo prossimo a palazzo, formava il principale desiderio degl’insorti, quali inutilmente fino allora avevano tentalo ogni mezzo per riuscirvi. Le loro ostinate aggressioni erano state vigorosamente respinte dal valore di tutte le truppe ridotte per una cieca ubbidienza a disperata difesa. E l’eroica resistenza poi della gendarmeria a piedi, la quale adempiva senza pari al doppio impegno affidatole, di conservare il proprio quartiere e respingere con sempre crescente coraggio migliaia di armali, che avidi del danaro riposto nel tesoro delle finanze, senza posa si avventavano per impadronirsene, dovrà sempre esser con lode ricordata.
In tale stato di cose, le comunicazioni tra palazzo ed il qu artier e del noviziato, tra Castellammare e le finanze col quartiere di gendarmeria erano divenute difficilissime, mentre che quella tra palazzo ed qua t troventi, per l’ abbandono del quartiere di S. Francesco di Paola (caserma della gendarmeria a cavallo) rimaneva intieramente in potere dei rivoltosi. Riputando indispensabile il generale Desauget di aprirsi innanzi tutto quest’ultima comunicazione, spediva nel giorno 16 il generale Nicoletti con cinque battaglioni di fanti, una sezione di artiglieria da montagna ed un’altra da campagna, e lo incaricava di stabilire prima un battaglione alla villa filippini, continuare subito la sua marcia insino a palazzo, conferire sull’occorrente col luogotenente, e quindi riedere co’ rimanenti battaglioni e colla stessa artiglieria al quartiere generale de’ quattroventi.
Riuscito, dopo alcuni piccioli scontri superati, tale spediente, bisognava il giorno appresso, col rinforzo di truppe e di artiglieria chiesto dal luogotenente, inviare a palazzo anche il brigadiere del Giudice per ripigliarvi il comando della propria brigata. Già stavano verso la mezza notte del 16 al 17 sulle mosse a tal’uopo nel piano della consolazione tre battaglioni di cacciatori, mezza batteria da montagna ed un plutone di cavalleria, allorché uditosi a molla distanza un trarre continuo di fucilate, credè Desauget, che il battaglione lasciato il giorno innanzi a filippini, di già fosse stato attaccato da’ rivoltosi. Invano Nicoletti assicuravalo, che nella forte posizione in cui egli avealo stabilito, vi si sarebbe sostenuto con vantaggio contro qualunque aggressione, perciocché continuando il maresciallo nella sua mostrata apprensione, ordinava esplicitamente a del Giudice di ritirare via facendo quel battaglione, e condurlo colla sua truppa a rinforzare le milizie di palazzo.
Sollecitamente moveva del Giudice, senza peraltro trovare alcun ostacolo: quel battaglione stavasene del tutto tranquillo, per non avere alcuna molestia sofferto; gli ordini però a rimuoverlo da quel luogo eran precisi, Né dovevano ammettere alcun ritardo; la posizione fu dunque abbandonata, e l’aperta comunicazione tra palazzo ed quattroventi, durata appena quattordici ore, venne per tal modo totalmente a cessare.
Perl’ abbandono della villa filippini stimando i ri voltosi che il generale Desauget poco si curasse di porre le sue forze in relazione con quelle di Maio, con maggiore audacia si disposero ad agire. Tutti fuggitivi, poco innanzi scorati, fatti ora più arditi, ritornarono all’opera , e gli attacchi contro le truppe di palazzo, e contro presidi del noviziato, delle finanze e del quartiere di gendarmeria si rinnovarono con maggior vigore.
Ma gl’insorti non si limitavano a queste operazioni soltanto, perciocché occupato contemporaneamente il locale de’ benedettini bianchi, sollevando indi a poco le tegole dalla covertura, e praticatevi sollecitamente delle invisibili feritoie, un vivo fuoco facevano sugli avamposti di porta di castro e sugli artiglieri del bastione a destra di palazzo. Né potendo costoro più oltre mantenervisi senza correre gravissimo rischio, abbisognò che le milizie assalissero quel convento. Penetratavi una compagnia di cacciatori quasi di sorpresa, un conflitto ne successe con tutti quelli che vi si trovavano, e che non avevano, come tanti altri, avuto il tempo di fuggire dalla parte del giardino. Caduti tutti in potere della forza, riuscito il disegno, anche l’ingegno il più triviale avrebbe suggerito la necessità di stabilire in quel convento un sufficiente distaccamento per garantire da novelle offese le posizioni state insino allora minacciate; ma trascuratosi come al solito quest’altro spediente, ordinossi, che bentosto le milizie co fatti prigionieri sgombrata avessero quella posizione. Esciti adunque tutti dal convento, fatalità volle, che dopo pochi passi, bersagliata la milizia da una grandine di fucilate tratte dagli insorti appostati nelle case circostanti, ed assalita a furia da’ popolani, quei prigionieri avessero nel meglio della mischia tentato di fuggire; epperò soldati, di già esasperati per la morte di alcuni compagni allora caduti nel conflitto, rivolte le armi contro di essi, li fucilavano tutti.
Laonde volgendo sempre più in peggio le cose pel governo, non ostante l’arrivo del corpo d’armata di Desauget, il luogotenenteaffrettavasi di scrivere al pretore cosi:
«Lo spargimento del sangue de’ cittadini è ben doloroso, se potete venir da me, servendovi del modo di ieri, potrei proporvi qualche mezzo, onde evitare il male per quanto è possibile. Comprese il pretore l’agitazione in cui sfavasi dagli agenti del governo, e dopo di essersi sollecitamente consigliato co’ principali attori della insurrezione, rispose nei termini seguenti:
«La città bombardata da due giorni, incendiata in un luogo che interessa la povera gente, mentre io assalito a fucilate allorché con una bandiera parlamentaria mi ritirava, consoli esteri ricevuti a colpi di fucile, quando preceduti da due bandiere bianche si dirigevano al palazzo reale, monaci inermi assassinati nel loro convento da’ soldati,mentre il popolo rispetta, nutre e riguarda da fratelli tutti soldati presi prigionieri; questo è lo stato del paese. Un comitato generale di pubblica difesa e sicurezza esiste: vostra eccellenza se vuole potrà dirigere allo stesso le sue operazioni».
Ridotto il duca di Maio a pregare onde in qualunque modo quello stato di cose cessasse, spediva nella notte del 18 a’ quattroventi un uffiziale dello stato maggiore, con un mezzo squadrone di cavalli, il quale dopo aver esposto a Desauget il pericolo, che per la stanchezza e per la penuria de’ viveri e delle munizioni, le truppe di palazzo e del noviziato correvano, e la probabilità di un assalto decisivo e fatale alle finanze ed al quartiere di gendarmeria, la necessità mostravagli di concertare per segni telegrafici (esistendo tuttavia il telegrafo di monte Pellegrino che poneva in relazione quelli di palazzo e del castelluccio del molo ) sollecitamente le mosse fra le truppe di palazzo e quelle di quattroventi, che escite che fossero di botto dalle rispettive posizioni, e presa la offensiva da per ogni dove, un vantaggioso risultato non si sarebbe fatto per lungo tempo attendere.
Desauget, a cui la natura aveva prodigato il più ferace ingegno , non ebbe nulla ad opporre a quell’esposto, se non che stimando soltanto che inopportuno per allora ne fosse il tempo, rispose, che vi avrebbe ponderatamente meditato, e che intanto si fosse atteso quanto avrebbe sull’occorrente risoluto.
Ma nell’atto che in quello stato di dubbiezza continuava, un altro fatto avvenne, che puranche addimostra quanto fossero state trascurate le più interessanti misure. Iltelegrafo di monte pellegrino, cotanto necessario alle comunicazioni fra le truppe di Maio e quelle di Desauget, che nel punto isolato in cui stavasi avrebbe dovuto essere custodito da un competente distaccamento di truppe, e soccorso in caso di bisogno dalle milizie accampate a quattroventi, spariva durante quello stato d’inerzia; in guisa che cessando all’intutto il mezzo di corrispondersi a vicenda, venivano in conseguenza a perdersi que’ calcoli su’ quali molto si contava. E se poi a tutto questo vuoisi aggiungere, che facilissimo pure sarebbe addivenuto co mezzi, che l’arsenale ed legni da guerra offrivano, di rimettere in poche ore la macchina abbattuta, ciò che si volle pure trascurare, viemaggiormente si scorgerà come gli errori commessi in quella occorrenza si rendessero all’intutto imperdonabili.
Cresciute in questo frattempo le apprensioni del luogotenente per quella fatale ed inesplicabile inerzia del generale Desauget, facevasi a scrivere al pretore quest’altro ufficio.
«Eccellenza – Per terminare al più presto le ostilità, è necessario che Sua Maestà sappia quello che il popolo di Palermo desidera, senza di che non si può venire ad alcuna trattativa. Per parte mia non mancherò di spedire in Napoli il vapore, e potrò cooperarmi di sommettere alla Maestà Sua il mio sentimento, sperando che le domande siano moderate. Io vi prego darmi una pronta risposta; intanto io non tirerò un sol colpo di moschetto, purché dalla parte del popolo si agisca egualmente: aspetteremo la risposta di Sua Maestà, non potendo da parte mia nulla decidere, non avendo altra facoltà che quella di sacrificarmi pel servizio del Re. Spero che vostra eccellenza voglia a«cogliere questa mia preghiera, la quale tende alla pace alla prosperità de’ cittadini».
Ma il pretore che sempre più scorgeva in questi atti, ne’ fatti che succedevano quanto la causa popolare aves s e progredito, faceasi a rispondere cori:
«Ieri ebbi l’attenzione di far conoscere a vostra ecce l lenza, che le proposizioni dovevano esser dirette al comitato generale: ho comunicato subito a questi signori la le t tera, che ora mi ha scritta, e questi signori non posson ch’esprimere l’universale pensiero. Il popolo coraggiosamente insorto non poserà le armi, se non quando la Sicilia riunita in general parlamento adatterà a’ tempi quell asua costituzione, che giurata da’ suoi Re, riconosciuta d tutte le potenze, non si è mai osato di togliere apertame n te a questa isola. Senza di ciò qualunque trattativa è inutile».
Ma sia che al luogotenente convenisse di guadagna tempo per attendere novelle istruzioni da Napoli, sia che l’inazione del generale Desauget, ed il maggiore sviluppo preso dalla rivoluzione il facessero disperare di qualunque felice successo, al giorno 20 replicava quest’altro uffici al pretore.
«Eccellentissimo signor marchese – Ho ricevuto sua lettera di oggi, e son contento di riconoscere alla fin quali sieno le intenzioni del popolo siciliano.»
«Di riscontro ho l’onore di manifestarle che vado subito a sottometterle a Sua Maestà per quelle determinazioni che crederà di emettere nella sua alta saggezza.»
Ed il pretore, con quell’alterezza che il progresso dell’insurrezione suggerivagli, faceasi così laconicamente a rispondere:
«Ho ricevuto la risposta di V. E. e l’ho comunicata al comitato, il quale insiste nelle idee già a V. E. manifestate.»
Intanto le segnalazioni telegrafiche tra’ il real palazzo ed quat t roventi facevansi dopo la loro interruzione maggiormente desiderare, da che per l’abbandono della villa filippini niuna comunicazione più esisteva tra due corpi di armata, ed erasi perciò obbligato a spedire un battaglione per la via delle mura ogni qual volta occorreva a Maio di mettersi momentaneamente in relazione con Desauget.
Per tale circostanza, dopo molte pericolose ricerche, riusci alla fine per la solerzia di un capitano dello stato maggiore e di un uffiziale del genio di rinvenire sul loggiato coperto di portanova un punto adatto per situarvi un telegrafo provvisorio ad un’ala soltanto, da poter comunicare con quello del castell ucci o del molo ; ciò che fu prontamente eseguito.
Ripigliatasi adunque per tal modo la interrotta comunicazione, cercò novellamente il duca di Maio di sollecitare il generale Desauget ad agire prontamente di concerto; ma tornati anche questa volta infruttuosi tali desideri, fatti più ardenti per avere gl’insorti con maggior vigoria ripetuti gli attacchi di palazzo reale, delle finanzee del quartiere di gendarmeria,bisognò alla fine persuadersi che invano si sarebbe più oltre sperato di risolvere dignitosamente quello stato di cose col mezzo delle armi.
Un’occasione rilevante in questo tempo presentavasi per un accomodamento, perciocché essendo in allora da Napoli pervenuti alcuni decreti per delle concessioni fatte dal Re, tra le quali notavansi per la Sicilia l’amnistia, l’abolizione della promiscuità e la scelta del principe D. Luigi a luogotenente, si credeva che ribelli, ad evitare l’ulteriore effusione del sangue e nella incertezza di un felice successo per essi quando la lotta si fosse continuata, volessero rinunziare ad ogni altra pretensione.
Nella quasi certezza di una pacificazione, resi prima liberi (pianti prigioni aveva fatta la truppa nel corso della insurrezione, cercossi per mezzo loro di divulgare da per tutto quelle sovrane determinazioni, già messe a stampa. Parve da principio che tutti si scotessero, come che più del desiderato si fosse ottenuto. Tutti ritenevano per certo la pace: pace, pace si cominciò a gridare da per tutto, e molti puranche recavansi al comitato per essere primi ad intendere le voci di pacificazione, di cui niuno più dubitava. Ma oh quanto s’ingannava ognuno, perciocché mentre il comitato rispondeva; non voler altro che la costituzione del 1812, e che a niun’altra concessione popoli della Sicilia si sarebbero mai piegati, molti soldati, che per mancata vigilanza dell’avamposto di palazzo situato alla imboccatura del toledo erano passati in città, perché invitativi da’ popolani colle loro seducenti cortesie, vi rimasero prigioni.
Deluso il duca di Maio nelle concepite speranze, confuso il generale Desauget nella stessa sua irremovibile passività, si pensò da quest’ultimo di proporre al comitatouna conferenza a bordo del gladiatore ((3)), onde aprire, se l’opportunità il mostrasse, delle trattative che menar potessero a comporre diffinitivamente la vertenza. Ma che potevasi mai sperare dopo tutto quello che sì sventuratamente era insino allora accaduto? I l comitato rispose, che le ostilità cesserebbero, purché dal comandante delle truppe regie si cedessero al popolo le posizioni militari da loro occupate, riserbando poi l’ulteriore destino della Sicilia alla decisione del suo generale parlamento da collocarsi in Palermo.
Dopo tutti questi sperimenti tornati a vuoto, e dietro tante inutili insistenze sempre respinte con disprezzo dagli insorti, la forza di 12000 combattenti forse non bastava a sottometterli? Eppure anche questa volta si volle fatalmente perdere colui, che più di ogni altro sapea vedere ne’ propri mezzi la certezza della vittoria.
Volendo gl’insorti ad ogni conto impossessarsi del real palazzo, e sapendo che non per altro verso avrebbesi potuto riuscirvi, che espugnando prima due quartieri del noviziato e di S. Giacomo, così a tutta possa si diedero nel giorno 23 a ricominciare l’attacco del primo, investendolo da tutti lati. E come che quel locale, destinato un tempo a novizi della compagnia di Gesù comunica ancora colla chiesa attigua, si cercò da’ popolani di penetrarvi per questa, bruciandone l’uscio. Ma la truppa che desiderava di combattere, e che a qualunque sacrificio era disposta, opponendo una vigorosa resistenza, specialmente per le granate a mano scagliate senza interruzione, disordinò talmente la moltitudine degli aggressori, che li obbligò, dopo il più accanito conflitto, con rilevanti perdile a ritirarsi.
Nel dì vegnente (24) il pondo dell’assalto fu diretto dai popolani alle medesime posizioni con più furore del giorno, innanzi, ed anche questa volta ne riportarono le stesse triste conseguenze. Però gli sforzi della truppa non essendo più bastanti a mantenersi ulteriormente nella posizione del noviziato, anche perché le munizioni ed viveri erano presso che tutte esaurite, fu deliberato di abbandonarlo, come in effetti si eseguì nel corso della notte sotto una dirottissima pioggia.
La dimane (25) non sospettando affatto gl’insorti che il noviziato fosse stato sgombrato dalla truppa, cominciarono come al solito a trarvi mille colpi, e ad assalirlo. Né ve dendosi affatto risposti, stimarono da principio che ciò fosse un aguato; ed accortisi di poi che niuno più vi era, v’irruppero con tanta furia uomini e donne, che tutto ad un tratto quel luogo venne devastato. Compito quest’atto vandalico, si diedero popolani a bersagliare senza posa tanto dalle più alte finestre di quel locale, quanto dalle altre dell’attiguo palazzo Guccia, il quartiere di S. Giacomo, il papireto ed il palazzo reale; ma così fatte molestie cessarono dopo alquanti colpi, co’ quali l’artiglieria di montagna da fuori porta nova e dal papireto vi rispose.
Tal essendo Io stato a cui ornai eran ridotte le cose del governo e la condizione delle truppe di Maio, alle prime ore della sera del 25 volse egli il pensiero di chiamare a consiglio generali per deliberare ciò che meglio convenisse in quella bisogna. Seguita in effetti indi a poco la radunanza, ed essendosi fatto il luogotenente succintamente ad esporre duri casi succeduti, la penuria che notavasi ne’ viveri e nelle munizioni, l’aumentarsi continuo degl’insorti, vistosi soccorsi che ricevevano da’ stranieri, tanti disagi sofferti con rassegnazione dalle milizie, le difficoltà a sostenere de’ maggiori ed indispensabili sacrifici, e per ultimo la inerzia del generale Desauget e la perduta speranza di riceverne alcun soccorso, conchiudeva, esser suo divisamente di doversi in quell’istessa notte abbandonare le posizioni di palazzo reale e de’ circostanti quartieri, e di ridursi con tutte le milizie presso lo stesso Desauget a quattroventi.
Si comprendeva da tutti che le difficoltà esposte non fossero alla fine tanto gravi per quanto se n’era riferito, e non ostante che qualcuno avesse suggerito de’ mezzi a superarle, parve che a tutti sembrasse migliore spediente l’effettuire il proposte sgombramente.
Preso adunque questo partito con la maggiore circospe zi one, verso la mezza notte, inchiodate prima le artiglierie di posizione, rimasti tutti feriti inadatti a marciare, la maggior parte delle famiglie de’ militari, ed un picciolo distaccamento di fanteria agli ordini dell’onorato maggiore Ascenzo, (siciliano) colle più ampie facoltà a capitolare, l’esercito con l’artiglieria mobile mosse pe’ quat t roventi.
Giunto a ll’oli vuzza l’avanguardo della colonna, s’intese lo scoppio di qualche fucilata: erano alquanti popolani in aguato, ed in attenzione del passaggio di un battaglione, che da tanto in tanto col favore delle tenebre recava viveri a palazzo. Il gran numero de’ soldati, lungi dall’avvilire gli appostati, l’incoraggiò maggiormente, considerando che, un bersaglio più vasto a’l oro colpi, li avrebbe fatto meglio riuscire nella vagheggiata distruzione. Epperò cominciando a trarre a tutta furia su quella immensa moltitudine, che lentamente movevasi, una strage così rilevante ne avvenne, ed uno scompiglio sì serio vi successe, a causa specialmente de’ gridi delle donne, de’ gemiti de’ fanciulli, de’ lamenti de’ feriti, che una vera scena di orrore e di raccapriccio apparve quella notte.
Né tralasceremo di censurare in tal rincontro la condotta de’ comandanti delle milizie, che non pensarono neanche ad impadronirsi delle poche case dell’ olivuzza nel toccare quel pericoloso passaggio. Ove tanto si fosse praticato, come appunto la necessità richiedeva, non solo non si sarebbero altre nuove vittime deplorate, ma altresì gl’insorti avrebbero almen questa volta saggiati quei mali, che dentro Palermo per loro buona sorte era riuscito di schivare.
Continuando la soldatesca quel viaggio cotanto disagiato di circa quattro miglia, per vie rotte dalle piogge ed infangate, giunse finalmente prima dell’alba alla posizione dei quattro venti, ove il luogotenente, rassegna t o subito il comando delle armi a Desauget, imbarcavasi su di un piroscafo della squadra, rimanendovi spettatore, mentre il generale Vial partiva su di un altro sollecitamente per Napoli.
Intanto gl’insorti nulla sospettando dell’abbandono del real palazzo, cercarono all’apparire del giorno 26 di attaccarlo con efficacia per ridurlo in loro potere. Circospetti da prima, più arditi procedendo dappoi, allo scorgere che ninna resistenza incontravano, e che lo stesso comandante Ascenzo l’invitava ad accostarsi onde patteggiarne la resa, v’irruppero ad un tratto in tanta furia, che mettendo ogni cosa a sacco ed a rubba, risparmiando le persone soltanto, in men che si creda tutto scomparve.
Acquistato in tal modo palazzo, gl’insorti immantinenti si rivolsero al locale delle finanze, ch’era pur quello del banco, che più di tutto sollecitava loro desideri. Intimatane la resa al comandante della milizia che vi stava, fu risposto che dipendente quel posto dagli ordini di colui che teneva il comando del forte di Castellammare, si abbisognasse prima informamelo, come in effetti si fece, ed indi convenientemente risolvere. Cessato per tal modo il fuoco da ambe le parti, dal canto delle milizie del tutto si trascurò quella sorveglianza cotanto necessaria anche nel tempo in cui le ostilità si sospendono, in guisa che avvicinatisi popolani con tutta destrezza ed a poco alla volta, senza che la truppa di nulla sospettasse, in un attimo le porte si occuparono, il locale invaso, e. la guarnigione senza neppure avvedersene fu disarmata e fatta prigioniera.
Non rimanevano adunque alle truppe regie al cadere del giorno 26 che Castellammare e la posizion e de’ quattroventi. Al 27, nel mentre che gli avamposti delle milizie venivano violentemente, ma senz’alcun successo attaccate dagl’insorti, un ordine del generale Desauget annunziò che nel dìseguente si sarebbero tutte imbarcate. In effetti in que ll ’istesso giorno il comandante del vascello inglese, interessato a tal uopo da Desauget, presentavasi al comitato dicendo, che il maresciallo non avrebbe più tormentato la città ove gli fosse stato lecito d’imbarcare le sue truppe senza molestia.
Ma il comitato sia che sospettasse di qualche versuzia, sia che volesse anche questa volta umiliare vieppiù suoi abbattuti avversari, rispondeva, che la causa della città di Palermo era quella della Sicilia tutta e del regno di Napoli, la cui libertà intendeasi difendere; che le truppe imbarcate una volta, sarebbero andate senza alcun dubbio a flagellare quelle altre città ove per avventura fosse sventolata una tricolorata bandiera; che del resto quando anche si avesse voluto condiscendere alla richiesta, bisognava: 1° che il generale de’ regi avesse fatto consegnare quelli undici individui che nel giorno 10 gennaio erano stati incarcerati dalla polizia sopra semplici sospetti: 2°che si dasse subito la custodia delle prigioni a’ cittadini, onde restituirsi a poco alla volta la libertà a’ detenuti, persuasi che la maggior parte erano vittima della legge del sospetto e de giudizi arbitrari: 3° e che per ultimo si rendesse Castellammare pria di eseguirne cittadini la espugnazione.
Comunicata questa risposta al generale Desauget, rilevò che tra per la esorbitanza di quelle condizioni, tra per non trovarsi autorizzato a tanto, non poteva, Né doveva affatto accettarle. Epperò avendo prima ordinato la distruzione del materiale di artiglieria sistente nel castel lu ccio del molo e nella batteria lanterna, e fatto indi a poco assembrare in massa l’esercito nel piano della consolazione, verso le ore sei di quella notte (27) cominciava a marciare nel massimo silenzio per la via che da S. Polo e valle di Balda mena al villaggio di Bocca di falco. Giunto quivi al far dell’alba, ed accortisi villici, già insorti, di tal passaggio, che guadagnati in breve tempo gioghi più alti di un monte che sta a cavaliere alla strada, cercarono con un vivo fuoco di bersagliare in tal modo l’esercito sottostante, colto così alla sprovvista, che non potè la marcia progredire più oltre senza andar soggetta a rilevante scompiglio.
In ciò evidentemente mostravasi quella stessa fatalità che insino allora aveva colpito l’esercito, perciocché se a tempo si fosse cercato, come era indispensabile a farsi, di assicurare con poche compagnie di cacciatori quei luoghi, non sarebbe al certo accaduto alcun sinistro.
Attraversate adunque quelle termopoli in poco buon ordine, guadagnata indi a poco una pianura verso porrazzi, superati più tardi quei monti che le fan corona, sull’annottare si giunse a Villa Abate, sempre molestati dagli insorti. Per mala ventura, credendo cittadini, che le milizie pe’ disagi sofferti, e per l’avvilimento in cui stavano non si fidassero di attraversare il paese quando una resistenza v’incontrassero, cercarono colle armi in mano di opporsi al loro ingresso. Tanto bastò a risvegliare quella rabbia che insino allora la truppa aveva soverchiamente compressa: molti cittadini, senza distinzione di sesso e di età, vi rimasero uccisi,eia più parte delle case restò preda delle fiamme.
Il dì vegnente (29) l’esercito abbandonò Villa Abate, dirigendosi pe’ monti, sempre tra le molestie degl’insorti, per Altavilla alla marina di Solanto, ove di già ancorava la flotta napoletana. Qualch’ora innanzi vi era pure arrivato un piroscafo con ordini espressi a Desauget di non continuare la campagna e di ritornarsene in Napoli con tutto il suo esercito. Prese adunque le necessarie misure, assicurati luoghi più o meno esposti, dopo di essersi ammazzati alquanti animali, ed abbandonati a loro stessi tutti gli altri, in quella medesima notte ne incominciò l’imbarco, che non ostante il mare tranquillo, durò insino a tutto il giorno appresso.
Una fregata a vapore andò pure a rilevare un grosso distaccamento delle milizie stanziate a Termini, e nel mattino dell’ultimo giorno di gennaio, riunitasi tutta la squadra, scioglieva le ancore per trasportare in Napoli quel tanto disavventurato corpo d’esercito.
Così fu abbandonato Palermo,tranne il forte di Castellammare, del quale parleremo tra poco, e così fu perduta in un tratto la Sicilia per una rivoluzione che dovevasi prevedere , che potevasi ne’ suoi primordi comprimere, e che anche nel suo maggiore sviluppo avrebbe potuto essere con faciltà schiacciata.
CAPITOLO VIII
Scompigli in Napoli: insurrezione del Vallo: deputazione che si presenta al Re, chiedendo una costituzione: alcuni ministri esteri ne lo dissuadono: gli agitatori raddoppiano loro sforzi; il Sovrano viene tradito da chi meno si attende: cadono gli antichi ministri; un novello ministero si crea conforme alle occorrenze, che come unico mezzo di salvezza propone una costituzione, la quale per la necessità in cui il Sovrano si trova, vien concessa.
L’infelice risultato della spedizione di Palermo, l’insurrezione estesasi presso che in tutta la Sicilia, ed casi d’Italia complicatisi al maggior segno avevano siffattamente animati coloro, che in Napoli alle novità intendevano, che in una segreta radunanza tenutasi fra più influenti agitatori politici fu stabilito di non doversi più oltre differire lo sviluppo del preparato movimento.
La mattina di un sabato (22 gennaio) al tocco del mezzodì uno strano e significante spettacolo colpi gli occhi e le menti de’ cittadini di Napoli. In ogni parte si videro le picciole carrozze da nolo fuggire di tutto corso per tante direzioni, come se un generale subuglio fosse avvenuto; gli usci e le botteghe si chiusero ad un tratto; la gente in su le vie stentò a poter rinvenire un ricovero; la città insomma ne fu tutta sossopra. Durò la cosa in tal modo per un’ora all’incirca, e quando ognuno si avvide che nulla di sinistro era occorso, gli uscì e le botteghe si riaprirono, e le faccende furono un’altra volta ripigliate. Si fecero interrogatori, esami ed altre cose simili, Né fu possibile sapersi come fosse andato l’accaduto.
Al lunedì vegnente (24) sia che fosse stata una vaghezza ribalda di vedere un più clamoroso e più generale spaurimento, o che fosse un più reo disegno di aumentare la pubblica confusione per l’avvenuto del sabato, si volle alla stessa ora ripetere quella medesima scena, e sebbene questa volta l’effetto ne fosse stato presso a poco lo stesso, lo sbalordimento però ed il disordine furono assai meno del precedente.
Mentre il governo adoperavasi ad investigare le cause de’ due seguiti avvenimenti, e rimaneva perplesso su’ provvedimenti a prendere, chiaramente appariva che una cospirazione, fatta pur troppo estesa, stasse sul punto di palesarsi per ottenere una riforma governativa più libera. Già de’ segreti agenti percorrendo le provincie niun mezzo più trasandavano per disporle alla rivolta, e da per tutto apertamente spacciavasi, che il Re costretto dalla necessità, dovesse concedere una costituzione.
In mezzo a tante incertezze, e nello sbalordimento in cui stavasi dagli onesti e pacifici cittadini, più centinaia di armati nel distretto di Vallo, assembrati a’ cenni di un tal Costabile Carducci da Capaccio, che la natura non aveva adatto largito d’alcun dono, dopo di aver distrutta la scafa sul se l e per ritardare l’arrivo della pubblica forza, movevansi e per piani e per monti, gridando la rivolta, e commettendo eccessi da per tutto. Il barone Marasca di Ascea nel modo il più barbaro vi restò ucciso per solo odio privato a causa di atti remoti di giustizia seguita nell’altra insurrezione avvenuta in quelle contrade nell’anno 1828; e molti ed onesti cittadini, precisamente coloro che più stimavansi avversi alla rivoluzione, ebbero a sopportare per simiglianti motivi enormità ed amarezze.
Vero è che il governo vi spedì in tutta fretta circa a settecento uomini di truppa comandati dal colonnello Lahalle , e quando già a Laurino nel 30 gennaio una completa rotta era toccata agli insorti, che precipitandosi per quelle balze incontrarono con più certezza la morte, per le novità succedute nella capitale, e che ci facciamo ora a descrivere, bisognò che quelle milizie desistessero dal procedere più oltre.
Per Napoli frattanto, dopo quel subuglio del lunedì, spargevasi la nuova, che molti distinti cittadini si fossero risoluti di ottenere un cangiamento nella forma politica del governo; che ne avrebbero interessato il Sovrano con una pacifica, ma al tempo stesso energica dimostrazione; e che ove tanto si fosse loro negato, si sarebbe agito a viva forza.
In effetti alle prime ore del mattino del 27 gennaio riunivansi lungo la strada fori a un mille e forse più cittadini, fra’ quali molti popolani a bella posta prezzolati : tutti apparivano inermi, ma ognuno era munito di armi occulte. Accresciutosene indi a poco il numero per de’ nuovi sopraggiunti, s’incamminarono tutti alla volta di toledo.
Precedevano più audaci, e qualcuno con rami di ulivi, qual simbolo di pace, per tenere in tal guisa vieppiù nello inganno la gente credula; ed il singolare di quella scena appariva da un uomo di un sessant’anni all’incirca, che per un testone a guisa di gabbia, con due gotone cascanti e tarmate, e con una bocca sì sconcia e si nera, che pareva una pesca riarsa sull’albero, di tratto in tratto dava colla sua voce il segnale alla moltitudine gridando: vivai Italia; viva Pio IX; viva la costituzione; viva il Re.
Passati gli studi, allo sbocco del mercatello, non pochi di quanti vi si trovavano individui del posto centrale della guardia di sicurezza, al modo stesso praticato da alcune guardie d’onore dell’attiguo quartiere alle fosse del grano, corsero difilati a congiungersi alla moltitudine degli agitatori.
Giunti a toledo, dove già qualche ora prima se nera divulgata la nuova, il più strepitoso schiamazzìo vi successe. Molti, sia per passione, sia per accreditarsi in quella occorrenza, si spinsero insino a gittare del danaro sul popolo, che nulla comprendendo di uno spettacolo cotanto strano, se ne compiacque sol perché scorgeva in quello scompiglio un mezzo facile a guadagnare. In tal maniera la lunga schiera procedendo toccò l’angolo della strada di S. Brigida, Né più oltre si spinse, per non cimentarsi colla numerosa soldatesca raccolta innanzi alla reggia.
Ma nel mentre che tutto questo accadeva, un colpo di cannone s’intese, e tosto sul castello di S. Elmo, che domina la capitale, una bandiera rossa apparve. Si credè sulle prime che ciò indicasse una costituzione concessa, ed a delle grida di gioia di già disponevasi la moltitudine, quando uditosi un secondo e poi un terzo colpo tratto dal cannone di quel castello, ed accortosi ognuno che quello fosse il segnale di allarme, gli agitatori scomparvero ad un tratto, e la scena cangiossi tutta in ridicolo.
A questo punto si sarebbe senza dubbio arrestato il corso della rivoluzione se alcune autorità avessero almen questa volta proceduto con più lealtà ed energia, mentre appariva chiaramente, che quantunque cospiratori si fossero soverchiamente aumentati, di coraggio e di fermezza però di gran lunga tuttavia abbisognavano.
Intanto il Re, cui riferito si era che il pericolo fosse assai più grave di quello che in realtà mostravasi, dopo di aver riuniti in consiglio suoi ministri, e scorto che le esigenze ben altri soggetti richiedevano, chiamato prima alla reggia il duca di Serracapriola, già ambasciadore a Parigi, e di poi il principe di Torcila, che per le relazioni di famiglia poteva aver molta influenza in quella bisogna, determinavasi alla seguente composizione ministeriale: duca di Serracapriola alla presidenza ed affari esteri: barone Bonanni a grazia e giustizia, ed affari ecclesiastici: D. Carlo Cianciulli all’interno ((4)) : principe Dentice alle finanze: principe di Torcila lavori pubblici: commendatore Scovazzi agricoltura e commercio, e pubblica istruzione: maresciallo Garzia alla guerra e marina, ed il principe di Cassero alla presidenza della consulta.
Composto in tal guisa il nuovo ministero, il Re immantinen t i il convocava per consigliarsi su quanto era d’uopo in quella occorrenza. casi eran divenuti assai gravi, poiché gli associati cresciuti a dismisura, deposto ogni riguardo pel governo, sinanche per le vie e nei caffè si radunavano, ed apertamente statuivano intorno alla scelta de’ mezzi necessari a’ loro disegni.
In questo stesso tempo si presentavano alla reggia alcuni ministri esteri, esortando il Sovrano a tenersi guardato da chiunque il volesse consigliare per una costituzione; poiché, dicevano, per la divozione soverchia che mostrava l’esercito, si sarebbe senza alcun dubbio qualunque difficoltà superata; che quando anche, aggiungevano, si fosse corso qualche rischio, le potenze del settentrione, e forse la stessa Francia, non avrebbero al certo ritardato un momento ad intervenire; che il popolo, ottenuta una costituzione, si sarebbe spinto tant’oltre, che nulla sarebbe più valso a reprimerne le esigenze, e ciò tanto più che il resto d’Italia, già predisposto, avrebbe immantinenti seguito l’esempio istesso, gittando per tal guisa l’Europa intera nel più fatale disordine.
Il Re conveniva su queste verità, ma al tempo stesso rilevava; che colla poca truppa disponibile, e collo spirito pubblico apparentemente non molto favorevole, non sarebbe stato sì facile di vincere tutte le difficoltà che presentavansi; promessi soccorsi poi poter divenire incerti, quando pure non fossero stati tardivi ed inopportuni. Accommiatava dunque quei diplomatici; li ringraziava di tanti buoni uffizi, ed assicuravali che avrebbe ponderatamente risoluto ciò che meglio avesse potuto convenirgli.
Per maggior fatalità giungevano in quel giorno da Palermo su di un piroscafo 153 feriti delle milizie, perlocché gli esaltati scorgendo in essi il trionfo della insurrezione, vieppiù s’infiammarono ne’ loro desideri.
In sì agitata condizione di cose, chiedevano del Re alcuni de’ principali associati, che qualificandosi deputati del popolo e devoti al Sovrano, facevansi a supplicarlo, perché si degnasse concedere una costituzione a simiglianza di quella di Francia, onde per tal modo immedesimandosi vieppiù suoi interessi a quelli del popolo, ne avrebbe ricevuto in ricambio benedizioni ed ossequio. Rispondeva il Re, nulla più interessarlo che il bene de’ suoi popoli; a questo intendimento aver sempre vegliato, e che ora sopratutto che le circostanze lo esigevano, avrebbe sollecitamente menato ad effetto quel che meglio sarebbe tornato a vantaggio dello stato.
Ma non si erano ancora dalla reggia allontanati quei soggetti che vi giungeva, sia per caso, sia per concerto un militare di alto grado, il quale dopo di aver ricordato al Sovrano suoi antichi sentimenti d’inalterabile devozione (formolario di uso in simili occasioni) facevasi ad esporre; essersi le cose gravemente complicate, il popolo pronto ad insorgere, gl’inglesi mostrarsi disposti a secondarlo, le Calabrie in piena rivolta, la truppa scorata, la catastrofe imminente, nulla quindi rimanere di speranza per contenere ulteriormente l’impeto di quelle esigenze.
Questo fu il più terribile colpo vibrato, poiché accortosi il Re che alcuni suoi fidi di già vacillavano, che non pochi tentativi facevansi per indurre a defezione l’esercito, e che la capitale sarebbe stata involta nella più deplorabile sciagura ove l’evento si fosse affidato alle armi, esplicitamente dichiarava nella notte del 28 gennaio al novello ministero già riunito nella reggia, esser egli disposto a concedere una costituzione, che gliene avessero presentate le basi, perché le avrebbe senz’altre difficoltà in quella istessa notte sottoscritte ((5)).
CAPITOLO IX
l Re concede la costituzione, conseguenze che ne derivano: la Sicilia è iute ramane ribellata: mezzi usati dal governo per pacificarla, e che restano tutti privi di effetto.
Tratto il dado, un’era novella sopraggiungeva.
Alle prime ore del di 29, abbenché molti avessero di già penetrato, che fosse il Re condisceso ad accordare a’ suoi sudditi una costituzione, pure gl’irrequieti, curiosi e gli sfaccendati, che ad ogni istante per le vie accrescevansi, con un chiedersi a vicenda su quel che fosse, e su ciò che sarebbe, e collo spacciare le più assurde e contradittorie dicerie, destavano da per tutto la più grande agitazione. In mezzo a cosiffatte incertezze, apparve ad un tratto il seguente regio manifesto:
«Avendo inteso il voto generale de’ nostri amatissimi sudditi per avere delle guarentigie e delle istituzioni conformi all’attuale incivilimento, dichiariamo di essere nostra volontà di condiscendere a’ desideri manifestatici, concedendo una costituzione, e perciò abbiamo incaricato il nostro nuovo ministero di stato di presentarci non più tardi di dieci giorni un progetto per essere da Noi approvato sulle seguenti basi»
«Il potere legislativo sarà esercitato da Noi e da due camere, cioè l’una di pari, e l’altra di deputati: la prima sarà composta d’individui da Noi nominati; la seconda lo sarà di deputati da scegliersi dagli elettori sulle basi di un censo che verrà fissato.»
«L’unica religione dominante dello stato sarà la cattolica, apostolica, romana, e non vi sarà tolleranza di altri culti.»
«La persona del Re sarà sempre sacra ed inviolabile, e non soggetta a responsabilità.»
«I ministri saranno sempre responsabili di tutti gli atti del governo.»
«Le forze di terra e di mare saranno sempre dipendenti dal Re.»
«La guardia nazionale sarà organizzata in modo uniforme in tutto il regno, analogamente a quella della capitale.»
«La stampa sarà libera, e soggetta solo ad una legge repressiva per tutto ciò che può offendere la religione, la morale, l’ordine pubblico, il Re, la famiglia reale, sovrani esteri e le loro famiglie, non che l’onore e gl’interessi de’ particolari.»
Frattanto scorgessi per la via toledo uno straordinario passar di gente, un fitto schiamazzare. più veterani e valenti liberali erano già comparsi primi co’ nastri tricolori al petto, menando grida di gioia da per tutto, e traendosi appresso lungo codazzo di tristi e di proletari pronti sempre ne’ subugli, perché nulla ànno ad arrischiare, e molto meno a perdere. Ed il meraviglioso sopratutto di quella scena era poi l’osservare, come molti deprimi, stimati per lo addietro uomini di prudenza e di moderazione, e come (ante gentildonne di varia fama, da’ veroni di toledo e dalle carrozze io cui stavano a bella posta, cercassero di vieppiù incitare la moltitudine a quelli alti smodati.
Il Re esci indi a poco a cavallo dalla reggia circondato da’ suoi germani, e seguilo da molti generali, dallo stato maggiore, dalle guardie del corpo, dalle guardie d’onore e da uno squadrone di usseri. Pel toledo, ove trovavansi in si gran numero gli agitatori, gli applausi al Sovrano furono eccedenti, e forse anche simulali; ma dagli studi in poi, largo delle pigne, porta S. Gennaro, S. Giovanni in porta, forcella, lavinaio, marina e piazza del castello, un riverente silenzio addimostrò apertamente, quanto la più parte della popolazione disapprovasse quelle inintelligibili novità. La sera il Re riapparve al teatro S. Carlo, ed anche quivi gli agitatori chiassarono al maggior segno.
In tal guisa festeggiavasi la voluta costituzione, rimanendone liberali sodisfatti. Così fu felice il principio; il seguito non corrispose: nacque tostamente la peste de’ governi liberi, la influenza popolare: questa sempre intemperante ne’ suoi desideri, principiò a non serbar più modo verso le autorità, contro le quali con parole e con fatti imperversò.
Essendosi intrusi, come ausiliari, nella guardia cittadina (che insino allora sotto il nome d’ interna sicurezza avea prestati più onorati servigi) molti di quelli esaltati, che tutto il merito dell’accaduto rivolgimento attribuivansi, non tenendo più freno, Né sopportando alcuna cosa che conforme a’ loro divisamenti non fosse, di già con degli eccessi lasciavano ravvisare le enormità che sarebbero stati capaci di commettere un giorno. In effetti molti tra essi spacciando che nella città si covasse un partito regio per rovesciare la costituzione, procedevano immantinenti all’arresto di un centinaio di onesti cittadini, sol perché poca nanche della vita ove avesse continuato a rimanere al suposto. A de’ venerandi prelati fu gridato a dd osso dagli stese loro dipendenti ecclesiastici per aver essi adempitocoscienziosamente a’ sacri doveri pastorali, mentre a molti altr i anche più spettabili toccò di abbandonare finanche leproprie diocesi per non esporre più oltre le loro vite. In parecch ie circondari colle solite grida di abbasso molti giudici avviliti e depressi dovettero la loro salvezza a precipitosa fuga In molti comuni gli agenti municipali furono bersaglio degli abbasso, ed in vari altri la cosa andò tant’oltre, che sinanche la guardia cittadina, che l’ordine principalmente doveva tutelare, non poche molestie cagionò con quelli abbasso sempre che ne conobbe il bisogno. A dirla in breve dalle migliori città a’ più umili villaggi per mezzo degli abbasso fu menato il disordine da per tutto.
Per siffatte enormità, le sventure sociali si accrebbero a dismisura. Il commercio cadde nel più desolante languore, ed il corso di presso che tutte le faccende si arrestò ad un tratto. Il magistrato più non sapeva se conservasse la sua toga, il militare la sua divisa, l’impiegato il suo officio, ed in mezzo alla fosca luce in cui era involto l’avvenire, il napoletano non sapeva in quale abisso lo stato sarebbe precipitato.
Da quel tempo adunque, insino a che la provvidenza volle che tutt’altra fosse la sorte di questo sventurato paese, casi avvenuti nel regno delle due Sicilie non offrono che una lotta continua tra gli accorti agitatori ed modesti cittadini, e l’esempio il più manifesto, come con l’industria e coll’ardimento si fossero taluni uomini innalzati sul più alto della ruota, quando non avevano pur l’animo di sperare un luogo nel fondo.
Ma nel mentre che tale era lo stato delle cose nel regno di Napoli, e press’a poco lo stesso in tutto il resto di Italia, gli esaltati in Francia eran divenuti siffattamente arditi, che niun mezzo più trascuravano per abbatterne il governo, il quale per quanto aveva potuto erasi sempre sforzato a schiacciare l’idra della rivolta. Il primo ministro (Guizot) che non si può mai tanto lodare che non ineriti molto più, era divenuto già il punto d’attacco sul quale tutte le forze della demagogia si scagliavano. Un giorno montato alla tribuna della camera de’ deputati, perché obbligato da que’ della sinistra a delle spiegazioni sugli affari d’Italia, e sopratutto di Roma, ove le moderne utopie miravano tutte a danno del potere temporale del Papa, facessi a dire così:
«Che cosa fanno radicali? Come prima si scorge in qualche parte una probabilità di rivoluzione, l’ingrandiscono e l’aggravano: essi vogliono mettere tutto in questione, tutto ricomporre da capo. Si può ben ristabilire l’ordine e la luce del mondo, ma non però conviene dal diffondervi il caos.»
«Nel 1831 in questa medesima camera, in mezzo allo scrollamento prodotto dalla rivoluzione di luglio al nostro paesenon solo, ma a tutta l’Europa, nel 1831, dico, noi nonvolemmo, voi non voleste impicciarvi dell’ordinamento territoriale d’Europa.»
«Voi potete richiedere al papato di riconciliarsi colle idee moderne, ma non potete pretendere da esso di sacrificar se medesimo, che anzi per lo meglio dell’opra stessa che sta effettuando, conviene che ei conservi tutta quanta lasua grandezza, tutta quanta la sua dignità.»
«Or bene il santo padre oggi sottoposto all’azione di due forze esterne, vuol farsi di lui uno strumento di guer ra e di espellimento contro l’Austria, ed in pari tempo pretendesi che egli nel progettato riordinamento delle società italiane, divenga lo strumento, non dirò già radicale, ma che non conviene a cosiffatte società: cercasi insomma da lui che provochi un ordinamento presso che repubblicano degli stati.
«Vi à veramente un tal g r ado di confusione in certe idee ed in certi termini, che è impossibile di far distinzione. Oggidì non trattasi punto di costituzioni: fra tant’anni potrà essere di ciò quistione; allora vedremo. Per adesso non è discorso di questo.»
liberali italiani derisero queste dichiarazioni del ministro francese, poiché quel ch’era insino allora avvenuto dava secondo essi la più solenne mentita a’ di lui vaticini. Ma il fatto à poi mostrato se l’uomo della politica si fosse punto ingannato.
Ritornando ora alle nostre cose, dopo la infelice ritirata delle truppe da Palermo, il forte di Castellammare comandato dal colonnello Gross si manteneva saldamente abbenché il commodoro inglese Lushington, che col suo vascello ancorava d’innanzi a quel porto, somministrasse tutt’i mezzi di soccorso agli insorti. Un cannoneggiamento continuo avveniva tra quel forte e le batterie de’ rivoltosi, e quando già il fuoco stava nel suo meglio, ed replicati attacchi de’ siciliani erano sempre tornati con rilevanti loro perdite, il colonnello riceveva ordine dal Re col mezzo di un capitano dello stato maggiore, di abbandonare il castello con una onorata capitolazione, che effettuivasi nel giorno 5 febbraio, e nella quale puranche si comprese la restituzione dei prigionieri e delle famiglie militari che desideravano far ritorno nel continente.
Già prima di questo tempo sin dal 29 gennaio Messina era insorta egualmente, ma la cittadella con altre fortificazioni distaccate, continuando ad essere occupate dalle regie milizie, la condizione della città, per il prossimo sviluppo di operazioni ostili, e pel soverchio accanimento che mostravasi da ambe le parti, rendevasi deplorabile.
Rimasta adunque la Sicilia tutta, ad eccezione della cittadella di Messina, e di Siracusa (quest’ultima abbandonata pure per ordine indi a poco dalle regie truppe) in balia di se stessa, ed addivenuti gli arbitri del potere più esaltati nelle opinioni, ed più compromessi nella rivoluzione, non potevasi al certo sperare un conducente accomodamento colla parte del continente. E sebbene il governo di Napoli avesse tentati tutt’i mezzi conciliativi col vantaggio della Sicilia, ed interessato pur ne avesse lo stesso lord Minto, ministro del suggello privato nella Gran Brettagna, che in allora trovavasi a Roma, e la cui presenza in Italia, per quanto ne accennò la fama, aveva non poco contribuito alle novità succedutevi, pure per le esorbitanti pretensioni mosse da quei medesimi che nella Sicilia tenevano il governo non era stato affatto possibile di venirne a capo.
Laonde il ministero di Napoli, tra per gli accagionamenti continui che dagli esaltati provvenivangli, tra per le umiliazioni che soffriva dalla stampa e dagli abbasso , e tra per la difficile posizione in cui trovavasi a riguardo della Sicilia specialmente, al l°di marzo presentava al Re la sua dimissione, preceduta dalla seguente interessante dichiarazione.
«Sire: Le gravi cure di stato, che Vostra Maestà degnava di affidarci, esigevano sforzi, cui gli umani poteri non bastano, quando son chiamati a lottare simultaneamente col delirio delle passioni, colla vivacità dell’impazienza e colle intemperanti sollecitazioni, che negl’istantanei rivolgimenti politici si sbrigliano da ogni parte. Ciò malgrado in mezzo a commozioni sì tempestose ed a lavori di ogni genere cui abbiam dovuto consacrarci, per non lasciar colpire da paralisi la macchina dello stato, Vostra Maestà sanzionava sui nostri progetti, oltre all’atto Sovrano del 29 gennaio del corrente anno, pria quella costituzione che resterà sempre a monumento della Vostra gloria e della grandezza del Vostro animo, indi quella legge provvisoria elettorale, che ci aprì l’adito alle pronte convocazioni delle camere legislative pel di 1° del vegnente mese di maggio.»
«Ed in servizio e della corona, e della patria, ormai divenute inseparabili ed identiche, noi avremmo continuato a reggere con ogni sacrificio in questa difficile situazione, se le quistioni già insorte intorno alle deplorabili vicende de’ Vostri Reali domini di la dal faro, non ci avessero presentato il resistente ostacolo, sul quale osiamo richiamare per poco la Vostra Sovrana attenzione.»
«Tumultuavano que’ popoli per impetrare dalla Maestà Vostra un formale cangiamento negli ordini politici dello stato; ma rimaneva incomprensibile che non però cessassero tumulti quando Vostra Maestà concedea la costituzione con sì magnanima sollecitudine, assicurando coll’articolo 87 della medesima, che oltre a quel che in essa vi era di comun vantaggio e di stabile garentia per le due parli del reame, altro avrebbe ancor fatto per provvedere a’ bisogni ed alle speciali condizioni di que’ Vostri amatissimi sudditi. Si cercò d’indagare le cagioni di un tal fenomeno, e per uscir dal vago in cui queste si mostravano involte per la mancanza di comunicazioni ufficiali e dirette, si profittò de’ buoni uffizi, onde un onorevole personaggio fè sperare di adoperarsi come organo efficace a determinarne il senso, e così ristabilire ivi la calma e la prosperità civile.»
«I desideri de’ siciliani erano svariati e molti pii ci: noi ci rivolgemmo unanimi al cuor generoso della Maestà Vostra, che si mostrò ancor più di noi sollecita in cercar modo di appagarli. Si consentì che ne’ Vostri Reali domini di la dal faro, a rannodamento e continuazione delle istituzioni parlamentari, che ivi altra volta erano state in vigore, vi fosse un separato parlamento composto di due camere, e coi medesimi identici poteri stabiliti nella costituzione per quello de’ Vostri Reali domini di quà dal faro, affinché potesse vegliar più direttamente a tutte le parli dell’amministrazione interna; che vi fosse altresì un separato ministero ed un distinto consiglio di Stato, composto tuttodi cittadini siciliani; che a’ cittadini siciliani si sarebbero esclusivamente conferiti gl’impieghi civili, benefici ecclesiastici ed gradi di regia elezione della guar dianazionale, che vi si sarebbe immediatamente organizzata; cheall’incarico di luogotenente Vostra Maestà non avreb bedelegato, che o un Principe della real famiglia, o un cittadino siciliano, benché dapprima ci fosse sembrata odiosaed inconveniente questa limitazione della preroga tivaReale nella scelta de’ suoi rappresentanti e che secondo si era praticato per lo innanzi, gl’impieghi diplomatici, e gradi nell’esercito di terra e nell’armata di mare si sarebbero conferiti a’ cittadini siciliani promiscuamente coi cittadini napolitani.»
«Era inevitabile intanto che si ragionasse in qual modo sisarebbero decise le quistioni di comune interesse alle dueparti del regno, come son quelle che a cagion di esem piosi riferiscono alla lista civile, alle relazioni diplomati che,al contingente dell’esercito di terra e dell’armata di mare, ai trattati di alleanza di ogni specie, a quelli di commercio e loro corrispondenti tariffe e c c. Si pensò dapprima che delle commissioni tratte da’ due separati parlamenti, e riunite in un parlamento misto, in compendio vi avrebbero provveduto: ma formando le proporzioni sotto il prestigio di pompose parole, si voleva che queste si componessero di un egual numero di siciliani e di napoletani: al che fu risposto non avere noi poterà per darvi consenso, ignorando quel che avesse potuto giudicarne questa parte del regno per l’organo della sua legai rappresentanza, onde non restasse offeso il principio diplomaticamente riconosciuto della unità del reame. Fra gli altri espedienti fu tocco e suggerito quello di rimettere questa special quistione al giudizio degli stessi due separati ‘parlamenti, quali si sarebbero posti di accordo Ira loro per trovar modo a risolverla; e noi per amor di concordia non vi ci opponemmo, benché convinti che ciò avrebbe protratte, ma non risolute le gare, le quali probabilmente si sarebbero più tardi rianimate con maggior violenza.»
«Rimane un’ultima quistione, ma la più vitale.»
«È scritto nella costituzione, che al Re solo appartiene, come indispensabile prerogativa il comandar tutte le forze di terra e di mare , ed il disporne a suo giudizio per sostenere la integrità del reame contro ogni attentato di nemico esterno. Intanto si vuole interdetto al Re di tenere altro che truppe siciliane in Sicilia; interdetto che possa mai inviarvi truppe napoletane, le quali con odioso ed improvvido consiglio vengono così assimilate ad ogni altra specie di straniera truppa. Noi vediamo in questa pretensione un inconveniente di ben’altro più grave genere, il quale disordina in sul suo nascere quella generale tendenza degli spiriti a ricomporre in guisa le varie parti della gran famiglia italiana da prestarsi a vicenda tra loro un potente, generoso ed amichevole sostegno. Poiché non potendo somministrare la Sicilia se non un picciolo contingente di forza pubblica proporzionato all’attuale sua popolazione di circa due milioni di abitanti, nulla di più facile ad un ambizioso nemico quanto invaderla, organizzarsi ed indi prorompere in sul vicino continente e portare la conflagrazione non solo nel resto del reame, ma in tutta la cara nostra bella Italia, di cui la Sicilia e sopratutto Messina sostenuta da valido braccio, è riguardata come. integrale al continente, e la propria e natura l cittadella, senza che il Re fosse libero di opporvi alcuna efficace resistenza pel preesistente divieto di mandare in quella isola soccorso di truppe napoletane, e in altri termini, senza che possa mai attendere al sublime incarico di mantener sempre inviolata laintegrità del territorio.»
Sire: la nostra coscienza si solleva innanzi a questo concepimento; Né aderendo alla pretensione possiamo noi lasciargravitare sul nostro capo una sì tremenda respon sabilità.Essendoci d’altro canto impossibile di escogitare nuovi mezzi a risolvere una quistione di tanta importanza, che può gravemente compromettere la pace, la sicurezza e lo stato di legai progresso, in cui oggi si trovano tutte le parti dell’Italia, noi le dimandiamo la grazia in complesso di poterci ritirar tutti dalle cure dello stato. Un al troministero potrà suggerirle forse modi più acconci ad armonizzare fra loro interessi e desideri si diametralmente opposti, e gravissimi d’inevitabili pericoli. Voglia dunque la Maestà Vostra degnarsi di accordarci, con la giustizia e la benevolenza che l’è propria, la dimissione che osiamo chiederle per questo unico obbietto. Liberi cittadini al potere, noi saremo sudditi obbedienti e fedelissimi nel ritorno alla nostra vita privata, e con l’intimo sentimento di non aver nulla trascurato per adempiere in sì breve intervallo a tutti nostri doveri di sudditi e di cittadi n i, terre mo a gloria di andar sempre testimoniando della franca lealtà, onde la Maestà Vostra si mostra sollecita in consolidare nuovi ordini politici, che à ben voluto stabilire in questo reame.»
Accettava il Re la dimissione del ministero, il quale per le esigenze de’ tempi, a 6 marzo veniva così ricostituito: Serracapriola alla presidenza: Il principe di Cariati agli affari esteri: Bozzelli all’interno: Aurelio Saliceti (stato i n sino al rivolgimento politico appena vice presidente di tribunale civile) a grazia e giustizia: Dentice alle finanze: Bonanni all’ecclesiastico: Il colonnello del genio degli liberti alla guerra e marina: Torella agricoltura e commercio: Poerio (nominalo da avvocato direttore di polizia al 29 gennaio) all’istruzione pubblica; e per ultimo il prefetto di polizia D. Giacomo Tofano promosso a direttore.
In questo tempo giungevano nuove da Parigi, che sin dal 23 febbraio eravi scoppiata una rivoluzione, per la quale il popolo battevasi colla truppa così accanitamente da far temere il pi ù atroce sterminio, e che nel giorno 24 poi, avendo il popolo ottenuto de’ vantaggi per la defezione della maggior parte della guardia nazionale, Luigi Filippo, con tutta la sua famiglia, erasi veduto costretto a fuggire al tempo stesso che proclamavasi in quella capitale un governo provvisorio, onde stabilire la repubblica in tutta la Francia. Ciò viemaggiormente sbrigliò in Napoli il freno agli esaltati, ed furbi sopratutto stimando che alla loro cupidigia niun’altro ostacolo più vi fosse, cercarono con molta destrezza di profittarne.
Il primo pensiero del novello ministero fu la Sicilia, per la quale stimò di prendere seguenti provvedimenti: che rimanendo ferma la dipendenza da unico Re per la integrità della monarchia, si dovesse convocare in Palermo pel giorno 25 di quel mese (marzo) un generale parlamento, per adattare a’ tempi ed alle politiche convenienze la costituzione del 1812, e provvedere a tutt bisogni della isola: che si procedesse sollecitamente alla scelta de’ deputati: che nella Sicilia dovesse esservi un luogotenente da scegliersi o tra principi della real famiglia, o tra distinti personaggi dell’isola, dovendo presso di sé tenere tre ministri segretari di stato, che sotto la di lui presidenza componessero il consiglio de’ ministri. Al tempo stesso nominavansi; a luogotenente Ruggiero Settimo; a ministro di grazia e giustizia ed affari ecclesiastici l’avvocato D. Pasquale Calvi, all’interno il principe di Scordia, alle finanze il marchese Fardella, ed a segretario del consiglio de’ ministri D. Mariano Stabile.
Ad oggetto poi che tutte queste larghe concessioni non incontrassero alcun ostacolo presso siciliani, partiva nel giorno 7 marzo da Napoli alla volta di Palermo lo stesso Lord M into; ed a far pure cessare le ostilità incominciate da alquanti giorni in Messina tra le regie milizie di presidio nella cittadella ed in altri forti, e gl’insorti, vi si spediva un incaricato del medesimo Lord, con un capitano dello stato maggiore dell’esercito napoletano.
Ma il sedicente governo di Sicilia credendo già, che tra pe’ successi di gennaio, e tra per la protezione di straniere potenze quell’isola fosse divenuta invulnerabile, come indecorose ed inaccettabili respinse quelle concessioni, che il sol o interesse alla pace aveva fatto con tanta liberalità accordare. Per tal modo la ruota dello stato continuò a spingersi verso il precipizio.
CAPITOLO X
Insulti menati a’ gesuiti, e loro espulsione dal regno: conseguenze che ne derivarono: ostilità in Messina tra le masse e le milizie della cittadella: smodate pretese del governo provvisorio di Palermo: formale protesta del Re.
Nello stato di disordine in cui si era, un dispiacevole fatto avvenne nella capitale che apertamente mostrò sino a qual punto fosse giunta l’audacia degli agitatori politici.
La sera del 9 marzo nella strada di S. Sebastiano, ove precisamente sbocca uno de’ principali laterali della casa de’ gesuiti, s’intesero molti gridare: viva l’Italia, viva Gioberti, abbasso, fuori gesuiti. È superfluo descrivere come que’ religiosi ne rimanessero sbalorditi, tanto più che ciò loro accadeva appunto nel momento di una discussione che il padre provinciale teneva con altri padri su provvedimenti a prendersi per le nuove di fresco ricevute della cacciata de’ gesuiti da Genova. Intanto coll’inoltrarsi della notte, crescendo le sediziose voci, e per conseguenza pericoli di un maggior disordine, avvertitosene il vicino posto della guardia nazionale, quel comandante volse colla sua gente a dissipare gli attruppati, e l’ottenne.
Tra le apprensioni destate con quell’alto a’ religiosi nel corso della notte, sorgeva il nuovo sole, e quando già tutti tranquillamente attendevano al loro proprio ufficio , si ebbe l’ avviso, che la scena della sera innanzi sarebbe stata con maggiore strepito e spavento verso le undici ripetuta. Sembrò indispensabile a’ superiori avvertirne sollecitamente le autorità, inviando all’uopo due padri al direttore della, polizia; ma sia che questo funzionario non fosse stato reperibile in quel momento, sia che occupazioni di maggior pondo lo avessero inibito ad accordare udienza a chicche, sia, due messi senz’altro indugio si recarono presso del ministro dell’interno a cui, esposto l’accaduto della sera innanzi e le apprensioni di quel giorno, chiesero tutela e consiglio. Confortanti furono le risposte del ministro: non si desser pensiero, ei disse, degli strilli fatti tante volte, eziandio contro di lui sotto le sue finestre; aver essi dritto, come ogni altro cittadino, alla inviolabilità delle persone, della fama e del domicilio; andrebbe tosto al ministero, e darebbe gli ordini opportuni.
Così rincorati tornarono due padri alla loro casa religiosa, ma lungi dall’esser di sollievo a’ compagni per le risposte ottenute dal ministro, parteciparono della desolazione in cui trovarono la comunità immersa pe’ reiterati avvisi in quel breve tempo pervenuti, che inevitabile ed imminente assicuravano l’arrivo de’ sediziosi. Il sospetto fa tosto raggiunto dalla realtà, perciocché al tocco delle undici nel largo del mercatello, di rincontro all’ingresso del convitto, cominciaronsi da un centinaio di giovani quivi raccolti a mandar fuori ripetutamente le stesse grida della sera precedente: abbasso, fuori gesuiti, morte a gesuiti. Numeroso distaccamento dal posto centrale della guardia nazionale, alle fosse del grano, mosse sollecitamente, a quella volta, ma invece di disperdere la sfrenata moltitudine, ad altro non li mitossi che ad impedirne l’entrata nel cortile, come pretendea.
Or nel mentre che tanto accadeva a ll a porteria dei convitto, di già per varie cantonate della città rileggeva; che tutti coloro che avessero figli nel collegio de’ gesuiti, c ercas s en di ritira rn eli prontamente, onde sottrarre la loro innocenza il giusto furore popolare. Né per altro fine siffatto mezzo praticava s i che a meglio riuscire nella minacciata espulsione, come di fatti spaventatisi a tale annunzio genitori ed congiunti di quel gran numero di giovanetti che correndo precipitosamente al convitto, senza neanche curarsi d elle suppellettili, cercarono solo di assicurarsi di tanti e teneri oggetti delle loro affettuosissime cure. Laonde aumentatosi il disordine in quella casa, il pericolo pe’ re ligiosi viemaggiormente s i accrebbe.
Verso mezzogiorno gli agitatori, cresciuti di numero, inviarono al rettore del convitto un foglio col quale imponevano: sgombrassero tosto gesuiti la loro casa, questa essere volontà del popolo, diversamente succederebbe sangue e fuoco. A tale intimazione niuna risposta fu data, tra perché non sapeasi a chi dirigerla, non essendo quel foglio sottoscritto da alcuno, e tra perché non conoseeasi con ch i trattare.
Scorrendo così inutilmente il tempo, gli assembrati, con sempre crescente baldanza, chiesero parlare a’superiori del luogo; e poiché non volevasi dare la più lieve occasione di risentimento a que’ forsennati, imme d iatamente il provinciale, il rettore del convitto ed un altro padre si appressarono alla porteria, ove pure giungendo indi a poco cinque de’ principali agitatori, cosi questi presero a dire: il popolo fremere, infuriare, non volerne sapere più de’ gesuiti; al popolo non potersi resistere, si che parti sser o, sgombrassero tutti, ed incontanente, in altro caso si terrebbe a scene luttuose. Dal padre provinciale si rispose: fucila rappresentanza non avere alcuna legalità; gesuiti essere un ordine religioso, riconosciuto ed approvato fella chiesa; essi esser tenuti in Napoli sotto la tutela del governo; si rivolgessero a chi di dritto, indicassero loro richiami, e qualora ad essi venisse imposto partire, partireb b ero. In questo mentre vi arrivavano della guardia nazionale un uffiziale e due individui, quali sia per secondare pi destramente il modo di quegli assembrati, sia che realmente così la sentissero, facendosi a rilevare da un lato la possibilità di sperarsi alcun soccorso dalla pubblica for za , e dall’altro l’ostinazione del popolo a voler espellereassoluta mente que’ religiosi, conchiudevano che il miglior partito per la comunità sarebbe quello di cedere alla violenza delle incomposte pretensioni, anziché oppugnarle. Comprese il padre provinciale il significato di ta l i riflessioni, e senza punto esitare promise, che all’indomani prima d el mezzogiorno sarebbero tutti usciti dalla casa.
Rientrati quei religiosi presso la comunità, senza che l’attruppamento, aumentatosi a più del doppio, avesse abbandonato il sito occupato, sollecitamente se ne scrisse al ministro dell’interno, per tenerlo non solo informato dell’accaduto, ma per esortarlo a destinare persona, cui poter legalmente consegnare quanto nella casa vi era, ove si avesse dovuto abbandonarla. Ciò fatto, il provinciale dispose che tutti della comunità si recassero in un salone, come fu tosto eseguito; e dopo di avervi tutti orato per alquanti mi nu ti, cosi loro disse: volerli il Signore separati; fosse pien a ed intera la rassegnatone; pensasse ognuno di provveder e a se stesso , ai vecchi, agl’infermi, ai forestieri penserebbe l’a morosa provvidenza divina. Diè pure a ciascuno la patente della compagnia, e fe’ che il procuratore distribuisse quel poco di danaro che riteneva. Stavasi al termine di questa operazione, quando giungendo in tutta fretta un domestico della casa, riferì, essere il locale già tutto ingombro di armati, aggirarsi pe’ corridoi numerose pattuglie, chiuderà con sentinelle tutti passi, spingersi le guardie da per ogni dove. Né aveva ancora terminato di dire, che apertasi di botto la porta del salone, le guardie nazionali v’irruppero in grandissimo numero.
Intanto tra per la importanza del fatto, e tra per le serie conseguenze che ne potevano accadere, immantinenti n riunirono in consiglio ministri per statuirà l’occorrente in quella grave emergenza. Lunga ed anche animata fo la discussione che vi successe, perciocché Saliceti, il solo che insisteva sulla necessità della espulsione di quella religiosa famiglia, sempre conchiudeva, non sapere indicare altro mezzo di salvezza, che o una determinazione per la cacciata de’ gesuiti, o una rivoluzione per conservarli.
Verso le quattro pomeridiane di quel giorno, quando già stavasi tutto sossopra, apparve il direttore della polizia, il quale, chiamato sollecitamente a se d’intorno la più parte di que’ religiosi, in questi termini si espresse: venire dal consiglio di stato costituitosi in permanenza per quel sì tristo accaduto; significare il suo rammarico e quello del consiglio per la illegale, arbitraria, e soverchiatrice maniera usata; il governo non aver propriamente nulla contro essi religiosi, anzi aver la città molto a lodarsi delle loro azioni; non potere il governo in quella guisa discioglierli; doversene avere intelligenza con Roma, trattandosi di un corpo religioso; ma che poter fare in momenti sì trepidi, in una società convulsa, dove il governo o non uvea forza, o non potea farla valere? essere suggerimento del consiglio che si appartassero, uscendo dal regno , e che attendessero miglior tempo a far valere la propria ragione; nel retto essere essi padroni a risolvere, o che rimanessero, o che andassero; lui non recare ordini, ma insin uazioni e consigli.»
Non appena il direttore avea terminato questo discorso, che un religioso, che forse più di ogni altro non sapea persuadersi come potesse succedere tutto quello, col franco parlare che sta nel mezzo tra il coraggio e la rassegnazione , senza mancare al rispetto dovuto, né diminuire per altro la dignità di chi sente la propria ragione, espose; quello e si lio cui eran dannati tanti religiosi, senza pur l’ombra non che di colpa, ma d’imputazioni, esser cosa aliena da ogni umanità, da ogni giustizia; se il voto di un branco di faziosi dovea venir soddisfatto, perché farsi più di quello che essi stessi pretendeano, ed obbligarli ad eseguir più di quello che per la forza soltanto era stato promesso? essersi stabilito che all’indomani sarebbe stata la casa sgombrata, ciò adempirsi scrupolosamente; ma perché volersi dal consiglio insinuare ad escir dalla patria, impedendo per tal modo a chi ’l volesse di rientrare sinanche nella propria famiglia, e mandarsi in bando non per altra colpa, che per essersi consacrati a Dio? non esser poi possibile escir da Napoli in sìbreve tempo tante persone, massime per trovarvisi alcuni vecchi impotenti, e degl’infermi gravissimi; che si sarebbe escito, ciascuno avrebbe a se pensato, e quando ciò fosse avvenuto, stasse ognuno certissimo, che pochi fanatici non avrebbero ardito di porre ad alcuno le mani addosso.
Parvero al direttore giustissime le osservazioni del ge suita;riprotestò non essere quello un bando, ma un sem plicesuggerimento; ad ogni modo riferirebbe tosto al con sigliode’ ministri le ragioni esposte, e fra mezz’ora sarebbe collarisposta ritornato.
Quel vasto locale intanto trovavasi al di fuori circondato da immense milizie nel solo fine d’impedire le violenze degli esaltati, ed al di dentro occupato da circa natte guardie nazionali comandate dal colonnello de Piccolettis, che colla più rigorosa consegna aveva messe dette scolte da per tutto.
Ad un’ora di notte ritornò il direttore di polizia , dicendo; esser libero a ciascuno di ricoverarsi ove meglio credesse, purché ciò con prudenza facessesi, affili di schivare pericoli; recasse seco ognuno ciò che volesse; gli archivi, gabinetti, la biblioteca venissero suggellati; restassero in casa vecchi ed gravemente infermi, e da tre a quattro padri alla custodia della chiesa, della casa e per l’amministrazione economica, stante che non essendo legalmente sciolta la compagnia, dovessero le rendite tuttavia riputarsi di appartenerle. Ordinava poi che si togliessero via da’ corridoi e dalle stanze posti e le scolte, di era il monastero formicolava; che solo restassero tre forti guardie alle porte principali, e che un commessario di polizia, che già seco trovavasi, cominciasse ad apporre suggelli prescritti. Aggiungeva, che si permettesse di entrare a’ parenti, massime de’ giovani, le cui famiglie erano straziate dalla incertezza delle loro sorti. E per ultimo disponeva il modo come a poco alla volta avessero dovuto escire dal locale gesuiti per non rendersi zimbello degli assembrati.
Stabilita così la cosa, era di già riuscito a pochi la sortita, quando una scolta, riconosciuto un religioso, che come gli altri travestito ne usciva, e chiamato all’armi, se ne menò tanto rumore, che poco mancò che non ne avvenisse qualche cosa di tragico. Al tempo stesso recatisi dal direttore di polizia, che trattenevasi alla porteria del convitto, più influenti tra quegli armati, colla stessa insolenza colla quale avevano proceduto, sostennero che tutt’i gesuiti, senz’eccezione, e senza nulla portar seco, dovessero spatriare. Parve al direttore non solo inumana e soverchiatrice quella pretensione, ma di troppo ignominiosa pel governo; e per quanto si fosse affaticato a mostrare come a quel modo si andasse tra non molto del tutto all’anarchia, fu giocoforza il cedere ed il soddisfare alle insaziabili voglie A que’ veri oppressori de ll’ uman genere. Per colmo poi d etta misura, sparito quel fonzionario, per essersi la sua presenta quivi renduta ben’inutile, que’ religiosi, abbandonati un’altra volta alla sfrenatezza di tanti armati, ebbero a passare il resto della notte in mezzo alle più dure vessazioni.
Al far del giorno da un padre fa celebrata la messa nell’oratorio privato per consumarvi gli azzimi consacrati; e tutti si disposero al destino che il volere supremo decretava. Per alquante ore ninna novità avvenne, se non che verso mezzogiorno, essendo stati tutti chiamati a prend erequalche ristoro, perché di giuni da 48 ore all’incirca, dovettero avviarsi si refettorio in mezzo alle guardie na zionali . Vi rimasero lungo tempo, ma all’inf u ori di un pane e di un pezzo di formaggio, null’ altro ottennero, perché gli ausiliari specialmente continuando, come avevano fatto rasino allora, a menar le mani su tutte le provvisioni, anche quel poco ch’era stato preparato in c uc ina, avevano già divorato.
Era da poco terminata quella refezione, allorché giunse ungenerale, che direttori al provinciale gli disse; essere tatto al l’ ordine, le vetture pronte al trasporto, non si temesse di nulla, essersi a tutto pensato. Senza nulla replicare e pieni di rassegnazione, dispostisi tutti que’ bersagliati religiosi a partire, trassero verso di un corridoio di quella loro casa, ove arrivalo indi a poco il ministro Bozzelli, a voce alta così parlò: quello non essere un bando, ma momenti di transizione e circostanze trepidissime; doversi ubbidire alla necessità, voler rispettare il governo loro dritti; questo far e soltanto per sicurezza e custodia, si andasse frattanto al porto, ove montati su di un piroscafo, avrebbero inteso in mare le ulteriori determinazioni.»
Un bravo Bozzelli, viva Bozzelli, furono le sole voci che da quella incomposta guardia cittadina si pronunziarono. E s ebbene il provinciale tra’ singhiozzi e le lagrime avesse potuto appena replicare qualche cosa sulla immanità della serbata condotta, che non si sarebbe neanche usata co’ delinquenti, neppure un accento s’intese da quella moltitudine che avesse almeno indicato un sentimento qualunque di carità cristiana.
Non rimanendo adunque a far altro, tutti que’ religiosi, tra’ quali un vecchio padre (la Calle) che per ima cronaca e lunga infermità non poteva affatto sorreggersi, montati in venticinque carrozze, di già preparate nella gran piazza del mercatello, occupata da presso a 4000 uomini di truppa di ordinanza, a vv iaronsi lentamente in mezzo a numerosi distaccamenti di guardie nazionali, di guardie d’onore e di truppe di ordinanza verso il porto, fra gli scherni e gl’insulti degli esaltati. Giunti presso alla lanterna, smontati dalle vetture, immantinenti passarono su di un approntato piroscafo, senza potersi neanche quivi sottrarre dagli ultimi insulti de’ più disperati faziosi. Illegno trasse indi a poco per Baia, ove rimasto tre giorni, l’opportunità si ebbe di farne disbarcare da travestiti soli religiosi napoletani che il vollero, mentre restanti furono tutti condotti a Malta.
Tanto avveniva sotto la politica rigenerazione del 1848!!!
Per l’accaduto a gesuiti, e per gl’insulti fatti anche indi a poco alla casa de’ padri del Redentore in Napoli, sotto il pretesto che vi si stasse celato monsignor Cocle già confessore del Re, il sentimento religioso generalmente si sollevò. Contribuì viemaggiormente a questo l’ essersi al tempo stesso divulgato per la città, che gli esaltati volessero pure attentare alla esistenza di altri chiostri, ed a cose anche più rilevanti della chiesa.
Erasi di fatto in alcuni circoli accennato, che ove non si fossero a poco alla volta e con destrezza espulsi dallo stato tutt’i religiosi che v’erano, avrebbe avuto sempre a temere dalle loro massime e da’ loro consigli quel novello ordine di cose; e tanto si era insistito su questo argomento che sembravano ornai prossime novelle sciagure. Penetratosi adunque questo progetto, armatisi nel 14 marzo di pietre e bastoni alcuni popolani, la più parte del quartiere mercato, preceduti da un’immagine della Vergine, avviaronsi verso la reggia, gridando viva la Madonna. Giunti presso il castelnuovo, trovaronvi da un cento e forse più esaltati e guardie nazionali, che con fucili ed armi bianche volgevansi ad impedire quella dimostrazione. Una zuffa accanita era incominciata; popolani coraggiosamente battevansi, e già minacciavasi la guerra civile per causa religiosa. La troppa sollecitamente vi accorse, e col suo contegno riuscì a far cessare la pugna. Per tal modo nemici del novello ordinamento politico assai più si accrebbero: rilevante argomento, che nelle umane pretensioni gli eccessi non conducono mai a positivi risultamene per la società.
La fama accennò, che il ministro Saliceti fosse la causa di quelle sovverture, dal perché volendo egli abbattere, come di già aveva incominciato a fare, tutti vecchi sistemi, che a suo dire sentivano di dispotismo, ed a sostituire agli antichi ed onesti impiegati, uomini oscuri e giovani esaltati tutti suoi proseliti, apertamente mostrava che ogni suo sforzo tendeva a far crollare la monarchia per addivenire egli poi, novello Cromwell , il despota ed il tiranno del popolo. Il certo però si fu, che non convenendo per lo ardente carattere spiegato da quel ministro, ed anche pe’ sospetti che spargeva a danno de’ suoi stessi colleghi, che rimanesse più lungo nel potere, tolta la occasione di non aver egli voluto intervenire ad un consiglio tenutosi alla presenza del Sovrano, vedevasi dopo quindici giorni dalla sua nomina congedato dal suo posto, è surrogato dal presidente della gran corte criminale D. Giuseppe Maccarelli.
Ma nell’atto che in Napoli tali cose avvenivano, il governo provvisorio in Sicilia avendo da prima prescelto un Ignazio Ribo tt i ad ispettor generale ed organizzatore di quello esercito nazionale, dipoi lo incaricava a dirigere le operazioni per la espugnazione della cittadella di Messina, inviandovi a tal’effetto una forza di 400 armati e 100 cannonieri agli ordini del colonnello Pasquale Miloro.
Era il Ribo t ti un piemontese, che nell’anno 1831 sottoposto a giudizio per imputazioni politiche, veniva da una commissione militare condannato nel capo. Temporeggiatasene la esecuzione, dopo alquanti mesi quella pena commutavasi in un perpetuo esilio. Ridotto in terre straniere a trovarvi ventura, fermavasi in Portogallo; parteggiava per D. Pedro nella guerra di successione che vi ardeva, e si acquistava il grado di capitano. Recatosi indi a poco in Ispagna, combatté sotto il comando del generale B orso di Carminati, che militava per la regina Cristina. Asceso al grado di tenente colonnello, cogli onori di colonnello, vi rimase insino a che in quella sventurata terra andò a cessare la guerra civile, che per vari anni l’aveva travaglia t a. Ricondottosi verso il 1843 un’altra volta in Italia per associarsi a quanti vi preparavano la insurrezione, veleggiò per Messina e Palermo per concertare co’ principali agitatori della Sicilia mezzi a prendere per una prossima rivolta. Corse in Napoli, e da inosservato per circa un mese vi si trattenne. Traversò la Romagna e la Toscana, senza alcuno ostacolo. Ripartito per la Spagna, per assoldarvi proseliti, ritornò in Italia a suscitarvi tumulti. Fallito nei suoi disegni, riuscì a sottrarsi dalle ricerche della forza, tramutandosi nuovamente in Ispagna. Passato indi a non molto in Francia sotto mentito nome, vi rimase per tal causa incarcerato per un anno. Ritentata da lui in Italia la rivolta, ma senz’alcun’efletto, di nuovo si sottrasse da’ pericoli che il minacciavano. Ricomparsovi poi ne’ primordi dà rivolgimenti politici, corse sollecitamente in Palermo, e vi ottenne quel posto che abbiamo indicato.
Recatosi adunque il Ribotti a Messina, dopo vari e sem preinutili tentativi per la espugnazione della cittadella, (la cui difesa per quanto debole in su le prime, altrettanto efficace ed energica di poi, quando precisamente il generale Pronio ne prendeva il comando) abbisognando di mezzi più efficaci ad agire, stimò sospendere per qualche tempo le ostilità inoltrate. Né volendo d’altronde destare alle regie milizie alcun sospetto sul vero stato delle sue deboli forze, fatto interporre il comandante di una fregata inglese che stanziava in quel porto, giunse ad ottenere la treguadesiderata.
A questo tempo il comitato che reggeva in Palermo le sorti della Sicilia facevasi sulle nuove proposte conciliative ricevute da Napoli a pretendere: 1° che il re dovesse denominarsi Re delle due Sicilie , e non già del regno delledueSicilie: 2° che il di lui rappresentante in Sicilia doves s e essere o un membro della real famiglia, od un siciliano; e che chiunque si fosse, dovesse portare il titolo di viceré : 3° che questa carica fosse rivestita di un perfetto alter ego , fornito di tutte le facoltà concesse dalla costituzione al potere esecutivo: 4° che si conservassero gl’impieghi e gli atti dati o fatti da’ diversi comitati , o che potessero dare o fare in tutto il corso delle loro funzioni: 5° che le fortezze occupate tuttavia dalla truppa, venissero evacuate fra otto giorni dalla conclusione dello accordo: 6° che potessero essere demoliti tutti que’ forti quali da’ comitati locali, o delle commissioni da scegliersi si stimassero nocivi alle città: 7° che la Sicilia potessebatter monete nel modo da indicarsi dal parlamento: 8° che si conservasse la coccarda tricolore : 9° che si consegnasse alla Sicilia la quarta parte della flotta , delle armi e de’ materiali da guerra posseduti dal regno intero: 10° e che danni di ogni natura cagionati al porto franco di Messina, dal tesoro napoletano si risarcissero.
La enormità di siffatte pretensioni, rendendole inaccettabili, il Re nel 22 marzo pubblicava la seguente solenne protesta:
«Dichiariamo di protestare, e col presente atto solennemente protestiamo contro qualunque atto che potesse aver luogo nell’isola di Sicilia, che non sia pienamente io conformità ed esecuzione de’ nostri precedenti decreti, ai statuti fondamentali ed alla costituzione della monarchia, dichiarando da ora e per sempre illegale, irrito e nullo qualunque atto in contrario .»
A tale stato eran ridotte le cose di Napoli e di Sicilia verso la metà del marzo del 1848, allorché giungevano successivamente le nuove della pubblicazione dello statuto costituzionale concesso dal Pontefice a’ romani, della pros sima insurrezione da scoppiare a Milano, e della lolla durata due giorni a Vienna t ra liberali e gl’imperiali, col trionfo de’ primi, e coll’aggiunta delle seguenti circostanze; che il ministro Mettermeli se ne fosse fuggito, e che l’imperatore guardato a vista nella sua residenza avesse fatto proclamare la libertà della stampa, la formazione della guardia nazionale, e finalmente che avesse concesso a’ suoi popoli una costituzione. Laonde mostrassi apertamente in tal modo che un vero cataclisma politico fosse da per tutto succeduto ((6)).
CAPITOLO XI
Il Re del Piemonte manda un corpo d’esercito in soccorso de’ lombardi veneti ribellati dall’impero austriaco: dallo stato romano e dalla Toscana muovono truppe allo stesso intendimento: in Napoli gli esaltati esigono altrettanto: cangiamento del ministero: spedizione di truppe in Lombardia:generale Pepe: comunismo: raggiri usati nella elezione de’ deputati: malcontento.
Scosso l’austriaco impero per tante novità succedute, vedevasi nella impossibilità di conservare l’antico suo dominio su le provincie italiane in piena rivolta, e quindi affret t avasi a concentrare le sue truppe di Lombardia. D’altra parte il re Carlo Alberto di Sardegna, sia che facile reputasse di aggiungere ai suoi stati la ribellata Lombardia, e di acquistare per tal guisa un predominio in Italia, sia che volesse apparentemente seguire l’impulso de’ tempi, per aver meglio il destro di regolarli a suo piacimento in appresso, dopo di aver radunato un corpo d’esercito di trentamila piemontesi, con 40 bocche da fuoco, agli ordini del generale Sonnaz, onde varcare prontamente il Ticino ed occupare Pavia, pubblicava il manifesto seguente:
«Popoli della Lombardia e della Venezia.»
«I destini d’Italia si maturano: sorti più felici arridono agl’intrepidi difensori di conculcati dritti.»
«Per amore di stirpe, per intelligenza di tempi, per comunanza di voti, noi ci associammo primi a quella unanime ammirazione che vi tributa l’Italia.»
«Popoli della Lombardia e della Venezia: le nostre armi che già si concentravano sulla vostra frontiera quando voi anticipaste la liberazione della gloriosa Milano, vengono ora a porgervi nelle ulteriori pruove quell’aiuto, che il fratello aspetta dal fratello, dall’amico, l’amico.»
«Seconderemo vostri giusti desideri, fidando nell’aiuto di quel Dio ch’è visibilmente con noi, che à dato all’Italia Pio IX, di quel Dio, che con sì meravigliosi impulsi pose l’Italia in grado di fare da se.»
«E per viemeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell’unione italiana, vogliamo che le nostre truppe entrando sul territorio della Lombardia e della Venezia portino lo scudo della Savoia, soprapposto alla bandiera tricolore italiana.»
«Torino 23 marzo 184 8 Carlo Alberto».
Intanto da Roma cominciavano a partire alla volta di Bologna le truppe pontificie comandate dal generale Durando, e presso che la maggior parte della gioventù, in seguito di una numerosa radunanza tenutasi nell’antico anfiteatro Flavio, ove avean perorato assai caldamente il generale Ferrari, un Masi ed il padre Gavazzi, disponevàsi a correre alla frontiera per passare in Lombardia.
Nell’istessa pacifica Toscana l’effervescenza portavasi al suo colmo, giacché nel mentre da pertutto gridavasi la croce addosso al tedesco, circa a seimila u omini fra truppe di ordinanza e volontari militi con tutta la sollecitudine apparecchiavansi per l’oggetto medesimo.
Ed in Napoli per ultimo, dove la gioventù, e co’scritti, e colle parole era viemaggiormente concitata, cercavasi non solo di fare altrettanto, ma di spingere altresì il go verno, onde a quell’opera, che per santa spacciavas i , concorresse. Nei circoli politici la Lombardia formava il principale argomento delle discussioni che vi succedevano ognuno indicava a suo modo mezzi ad accorrere, e che più, chi meno sforzavasi con lunghe perorazioni a sostenere la necessità e la urgenza di una spedizione di truppe napoletane per le alte regioni d’Italia.
Correva il 1° di aprile quando un tal Pezzillo, stato issino allora maestro di scuola, ed uno de’ più accesi fra tanti esalta t i, fac e vasi a presentare al Re un indirizzo, sponendo: avere lombardi, veneti, modanesi, parmensi scosso il giogo straniero; la stessa Vienna essere a novella vita risorta; Genova, Livorno, Pisa, Firenze, Bologna parteggiare al glorioso conquisto della libertà italiana; Roma mandare la sua bandiera benedetta da Pio IX; la sola Napoli restare per opera di un ministero alla guizo tt iana, non solamente disgiunta da tanto moto, ma ridotta ad uno stato d’incertezza vicino a prorompere in aperta guerra civile. Epp e rò conchiudeva, che si spedissero sollecitamente dal regno (ruppe a difesa della Italia alla, onde lo straniero venisse cacciato da per tutto. Anzi perché quell’espos te una forma imponente indicasse, ed il suo pieno effetto conseguisse, nel mattino della seguente domenica una moltitudine di giovani di varia condizione, ed a’ quali si eran puri mischiate alcune guardie nazionali napoletane e toscane guidati tutti da un Saverio Barbarisi commissario di poli zia, indi deputato al parlamento, con una bandiera tricolore portata da un dipintore straniero, percorrendo il toled o fermavasi innanzi la regia, chiedendo la immediata par t enza della truppa.
Era pure a que’ giorni in Napoli arrivata la principess a di Be l gioioso milanese, calda per eccellenza della caus a della libertà, e per la quale erasi messa solennemente a bandire una crociata agli austriaci. Secondata in questa impresa da molte notabilità di que’ te mpi, potè radunare sotto b condotta di un tal Bellini, contabile alla trattoria corona di ferro, circa a 200 giovanotti di non dispregevoli famiglie napoletane, che sedotti da quella voluta eroina, sollecitamente equipaggiati di lutto punto, partivano su di un piroscafo alla volta di Livorno, per cong iu ngersi lungo il cammino con altri corpi franchi dello stato romano, che sotto gli ordini del generale F e rrari movevano per Modena.
Comprendevano gli agitatori, che insino a quando gli austriaci avessero conservati loro domini in Italia, non avrebbero potuto mai venire a capo di alcun disegno; epperò adoperandosi con tutti loro sforzi a radunare uomi nied a preparare mezzi onde alimentare la guerra in Lombardia, formavano in Napoli, ad imitazione degli altri statiitaliani, sotto la presidenza del principe di L e quile, un comitato di sussidi, col quale riuscivano a racc o rr e somme non lievi, e ad approntare diversi battaglioni di volontari.
Intanto; sia che repubblicani, toltisi la visiera avessero principiata ad agire con più audacia; sia che medesimi si fossero da per ogni dove cinti di armati e di bravi; sia che lespade ed pugnali da una parte, e le lettere anonime dall’altra avessero destato lo spavento da per tutto; sia che io stesso ministero, già divenuto il ludibrio degli agitatori, non avesse potuto più sorreggersi in mezzo a tanto disordine, a 3 aprile il Restretto dalle circostanze, segnava laseguen telista ministeriale: D. Carlo Troia alla presidenza: il marchese Dragonettiagli affari esteri : D. Giovanni Vignale a grana e giustizia: il conte Ferretti alle finanze: il colon nellodegli liberti a’ lavori pubblici, ed il brigadiere del Giudice alla guerra e marina. Rimase a provvedersi la interessante carica di ministro dell’interno, che l’ottenne dopo due giorni l’avvocato D. Giovanni Avossa, il quale avendovi rinunziato, un altro avvocato, D. Raffaele Conforti, di recente nominato procurator generale, vi successe. E fu pure allora che si prescelsero, il professore D. Antoni o Scialoia pel ministero di agricoltura e commercio, l’avvocato D. Francesco Paolo Ruggiero per quello degli affari ecclesiastici, e l’avvocato D. Paolo Emilio Imbriani per l’altro della pubblica istruzione.
Quando ne’ governi costituzionali rilevanti circostanze producono il cangiamento di un ministero, sogliono novelli ministri innanzi tutto mostrare quali siano principi governativi che intendono di seguire. Or tanto per l’appunto praticava il nuovo ministero, il quale segnava la sua condotta col seguente programma.
1° Determinare il giorno delle elezioni de’ deputati al più presto possibile, secondo la esistente legge provvisoria elettorale, ma coll’allargamento che si potessero eleggere deputati gli uomini forniti di capacità, e ciò indipendentemente dal censo da provarsi da ogni altro deputato: 2° elezioni circondariali dirette di deputati pel numero totale di ciascuna provincia, e spoglio de’ voti presso la commissione centrale di scrutinio nel capoluogo della provincia: 3° intendersi per capacità l’esercizio lodevole delle professioni facoltative, del commercio, delle scienze, lettere e belle arti, e della industria: 4° per allora solamente potere collegi elettorali indicare nomi di coloro che si fossero stimati più degni della camera de’ pari, onde scegliersi anche per allora su dette note cinquanta pari: 5° aperto che fosse il parlamento, facoltate le due camere d’accordo col Re, di svolgere lo statuto , massimamente in riguardo alla camera de’ pari: 6° istantanea spedizione di agenti diplomatici per is t ringersi francamente in lega cogli altri stati d’Italia: 7° mettersi a disposizione della lega ita lianaun grosso contingente di truppa, sollecitamente inviarlo per la frontiera, ed intanto spedire subito un reggimento per la via di mare: 8° circondarsi le bandiere reali di colori italiani: 9° affrettarsi l’armamento delle guardie nazionali in tutto il regno: 10° inviarsi delegati organizza torinelle provincie, muniti d’istruzioni del ministro del l’ interno.
Segnata con queste norme la sua politica, il nuovo ministero prima fecesi ad ingrossare la guardia nazionale in tutt’i punti del regno, ammettendovi a preferenza soggetti di perduta opinione che più tardi gittarono il paese nella guerra civile, e poi rivolse le sue cure alla spedizione delle truppeper la guerra in Lombardia, onde avere il destro nonsolo di abbattere in concorso degli altri stati d’Italia il potente avversario della demagogia, ma nel fine sopra tuttodi privare il Re delle principali sue forze, ed esporlo intal guisa a tutte le esigenze degli esaltati.
Stante dunque le cose in tal modo, affrettossi il mini steroa spedire per la volta di Livorno in Lombardia un battaglione del 10° di linea, con molti volontari chiamati c ro ci ati, per una croce di lana rossa fermata sulla parte sinistra del petto, dandosi a questa spedizione il nome di avanguardia dell’esercito napoletano destinato alla guerra dellaitaliana indipendenza.
Il Re intanto per le imperiose circostanze de tempi non si opponeva a cotali esorbitanti pretensioni, e guidato dalla sua prudenza, recavasi col ministro della guerra e col capo dello stato maggiore pria a Caserta, indi a Capua, e per ultimo a Nocera a rivistare quelle truppe che formar dov e ano la maggior parie del corpo di armata di spedizione; dava poi ordini perché fossero sollecitamente provvedute de ll’ occorrente, e sopratutto loro raccomandava la disciplina, come unico mezzo a conservare l’onore.
Dopo pochi giorni cominciarono le milizie a muoversi in due divisioni pel loro destino, ed una squadra di legni da guerra era già pronta per secondarne il movimento. Otto battaglioni di fanteria, una batteria da campo, due compagnie di zappatori, ed un corrispondente servizio di ambulanze formavano la prima divisione comandata dal tenente generale conte D. Giovanni Statella, la quale marciò alla volta degli Abruzzi. Sette battaglioni, una batteria da campo ed una compagnia di zappatori componevano la seconda divisione agli ordini del brigadiere Nicoletti, che imbarcata sulla preparata squadra di cinque fregate a vapore, di due a vela e di una corvetta, comandata dal retroammiraglio de Cosa, recar si doveva nelle acque di Venezia. E per ultimo la cavalleria, come riserva, composta da un reggimento di lancieri e da due di dragoni, tenendo per condo t tiere il colonnello D. Marcantonio Colonna, prese anch’essa la stessa volta degli Abruzzi.
L’amnistia avea favorito il ritorno del tenente generale D. Guglielmo Pepe, stato insino allora proscritto come principale autore de’ rivolgimenti politici del 1820. Inoltrato nella sua età, senza averne ancora acquistato il senno, sordo alle oneste insinuazioni dell’onorato suo germano tenente generale D. Florestano, insensibile alle generose distinzioni prodigategli dal Sovrano, non ammaestralo dalla meditazione di ventisette anni su’ propri mancamenti e sulle privazioni sofferte per sì lungo tempo, credè purgare le sue passate colpe ricomparendo, novello Anteo, sulla scena della rivoluzione. Idolatrato per questo da tutti gli esaltali, divenne egli tosto centro di movimento, anziché ostacolo a’ disordini.
Spinto non pertanto il Re dalla necessità di ravvisare le intenzioni del generale D. Guglielmo Pepe per regolamento del suo governo, invitavalo poco innanzi al 3 aprile a formare sotto la di lui presidenza un novello ministero; mala lista de’ soggetti e le condizioni ch’egli presentava, non lasciando alcun dubbio, che la distruzione del trono fosse l’unico scopo cui stoltamente tendeva, bisognò per allora e per sempre rinunziare alla scelta che agitati momenti avevano fatta vagheggiare.
Sia dunque che quella impolitica spedizione richiedesse un condottiere corrispondente, sia che la presenza di un uomo di quella fatta, con la estesa c li entela de’ principali a gi tato r i raggranellati intorno a lui, fosse stata di rilevante pericolo per la quiete dello stato, il generale D. Guglielmo Pepe veniva prescelto per duce supremo di quel corpo di annata destinato alla guerra di Lombardia. E per la formazione poi del piano della campagna si creava al tempo stesso una commissione di generali, composta dal ministro della guerra, dal medesimo generale Pepe, dal maresciallo Labrano, e da’ brigadieri Zizzi e Scala.
Intanto le notizie che provvenivano dal teatro della guerra di Lombardia indicavano; che il generale Durando erasi fermato a Bologna ad attendervi il grosso del suo esercito, onde passare il Po; che l’armata piemontese conservava la destra linea del Mincio; che Carlo Alberto trovavasi col suo quartier generale a Volta; che alcune colonne di già penetrale nel Tirolo italiano erano quasi che prossime a Trento; che a Valeggio gli austriaci avevano invano tentalo di sloggiare piemontesi da una forteposizione che vi occupavano, e che per ultimo intorno Peschiera si combatteva vivissimamente da ambe le parti, e già ri t eneasi come prossima la sua dedizione a’ piemontesi.
Ma non ostante le sue intestine discordie, l’Austria potentemente si appressava contro moti di Lombardia, inviando senza interruzione disciplinale e poderose armate in Italia. Anzi perché al di fuori non si fosse prestato orecchio alle tante esagerazioni spacciate sulla forza degli eserciti italiani collegati, il generale Welden (austriaco) che in allora trovavasi ad Inspruk, in un manifesto alla sua armata diretta alla volta d’Italia, faceasi tra l’altro a dire così:
«Anche nell’interno dell’Italia le opinioni son divise: la riproclamata repubblica di S. Marco non va d’accordo con quella nuovamente stabilitasi in Lombardia, Né di opinioni, né d’interessi; e la così detta spada d’Italia, questo re del Piemonte, alle cui spalle già si forma la repubblica di Genova, come potrà in mezzo a tali opinioni e a tali interessi andar di accordo colla repubblica lombarda? Deh, che quest’interessi de’ nostri nemici, affatto divisi e tra loro ripugnanti valgono a viemeglio spingerci all’unione ed a ligarci ben più strettamente, come gli stati e loro capi».
Mentre tanto avveniva nell’Italia superiore, in molti luoghi di questo regno le popolazioni, profittando della prostrazione della forza governativa, erano trascorse, sotto il pretesto d’immoderate usurpazioni commesse, sia da’ particolari cittadini, sia da’ corpi morali, sulle proprietà demaniali, ad appropriarsi a mano armata quel che non po t evasi distruggere; e così fatte ribalderie eransi spinte tant’oltre, che non vi era più alcuna proprietà che potesse credersi sicura. A frenare adunque tali improntitudini, il ministro dell’interno dirigeva una circolare agl’intendenti, colla quale sebbene mostrasse di disapprovare que’ trascorsi, pure pel linguaggio che serbava, scaltri popolani interpetrandola a lorofavore, viemaggiormente si accrebbe quel male, al quale intendessi di portare un rimedio.
Diceva tra l’altro il ministro: esser venuto a sua noti zia,che le popolazioni di alcuni comuni, concitate al cospetto della povertà a cui trovavansi dannate più dalla cu pidigiadi poche famiglie, che dalla sterilità della terra e dallamalvagità de’ tempi, si fossero mosse a revindicare loro dritti su’ fondi di che, stati già demaniali o patrimoniali, eran poi diventati preda di particolari cittadini, e caduti nel dominio di un feudalismo tanto più duro, in quanto che impunemente trionfava a causa di amministra torideboli, infingardi o corrotti; non aver mai la sventura avuto campo a dolersi con voce più potente, ma quando ogni uomo italiano scuotevasi dal lungo servaggio, e sen tivaincarnarsi nell’anima quella libertà di vita e di pen sieriche il rialzava in quello stato in cui la natura l’aveva collocato, bisognava adoperare de’ mezzi, perché le popolazioni riguadagnassero loro dritti, e riuscissero sotto l’e gidadel governo a vincere qualunque prepotenza o raggiro.
Scorgevasi adunque apertamente da tutto questo, che a queitempi, lungi dal volersi una egualità in quanto alla giustizia ed a carichi dello stato, pretendeasi per lo invece una egualità di tutto ed anche di beni, e che a bella posta da chi stava al potere si dettavano alcune sentenze, onde infiammare popoli, e spingerli per tal verso alla guerra civile.
Né a queste cose soltanto riducevasi il tristo di quei empi, perciocché essendo ormai incominciate le operazio nidelle giunte elettorali onde procedersi alla scelta de’ deputati, la fazione esaltata talmente agitossi in quella lotta politicaa discapito della parte moderata, che quasi da per tutto vi ottenne la vittoria. circoli segnavano le liste 1ecandidati, la stampa li preconizzava e gli agitatori tutti uniformandosi alle norme tracciate, ne procuravano la e le zione.
I buoni e gli onesti cittadini, sebbene di gran lunga s u perassero agli esaltati, accortisi a tempo di tutti que’ raggiri, dignitosamente non pertanto abbandonarono collegi elettorali e di trentacinquemila elettori all’incirca, quanti per l’appunto Napoli offriva, appena millesettecento si presentarono alla votazione. Le elezioni seguirono, e tutti suffragi si ottennero da’ principali attori della rivoluzione.
Vero è che pochi uomini distinti per ingegno e per prudenza pure figurarono in quella scelta, ma il di loro tenue numero e la rilevante sproporzione delle forze, avverti sin d’allora non potersene sperare vantaggioso successo.
Così la libertà diveniva strumento d’insidie nella mente degli uomini che se ne spacciavano pro t ettori, e perdeva in un momento tutto quel prestigio col quale erasi a’ popoli annunziata.
CAPITOLO XII
Il parlamento di Palermo dichiara la decadenza del Re e della sua dinastia dal trono di Sicilia: rilevantissima novità; il Papa protesta di non volere affatto muovere la guerra all’Austria: gravi subugli a Roma: le cose vanno a ruina nel regno di Napoli.
Più nel continente il disordine cresceva, più nella Sici liaimperversava l’anarchia. Mariano Stabile, uno de’ principali motori di quella rivoluzione, avea acquistalo colla sua audacia tanto potere nell’isola, che n’era addivenuto all’intutto il dominatore. Figlio di un maestro di casa del principe di Cassero, esercitòl’uffizio di segretario partico larepresso del suo padrone nominato ambasciadore a Madrid, sino a che dallo stesso dopo poco tempo, in odio delle esaltateopinioni di lui, fu discacciato. Ritornato a Palermo, visse co’ proventi di un impiego procuratosi nell’amministrazione della società industriale de’ zolfi, e contribuì con raffinata destrezza allo sviluppo della rivoluzione di gennaio 1848. Messosi alla testa del partito tumultuoso, e fattolo cieco strumento de’ suoi voleri, lo spinse con tanta malvagità, che alla fine il condusse a quell’atto sovver sivo e nefando, che aveva allo sviluppo della rivoluzione macchinato.
Apertosi il parlamento nel giorno 13 aprile, il presidente della camera de’ deputati, levatosi dal suo seggio, a alta voce fecesi a leggere il seguente atto:
«A nome del parlamento siciliano. Ferdinando di Bo r bone e la sua dinastia sono per sempre decaduti dal tron o della Sicilia; essa sarà costituzionalmente governata, ed a p pena che avrà riformato il suo statuto, chiamerà al tron o un principe italiano.»
A questa breve lettura seguirono lunghe e frenetiche acclamazioni. Scene da casotto! Cosi veniva corrispostoquel principe, che per tanti anni tutte le sue più tener cure al ben’essere della Sicilia avea rivolte.
Intanto a traverso del fitto buio che ingombrava l’orizzonte politico d’Italia videsi sorgere inaspettatamente momentanea sfolgorante luce dal vaticano; perciocché il Santo Padre nel fine di mostrare apertamente quali fossero stat e le sue leali intenzioni nella politica adottata, in un solenn e concistoro tenuto nel dì 29 aprile faceasi a profferire quest’allocuzione:
«Non è la prima volta venerabili fratelli, che nel vostro consesso abbiamo detestata l’audacia di taluni, che Noi ed a questa apostolica sede non dubitarono di gettar tale ingiuria, da sostenere che Noi avevamo deviate dall e santissime istituzioni de’ predecessori Nostri, e della stess a dottrina della chiesa. Però neanche oggi mancano di col o ro che di Noi così parlano, quasi fossimo gli autori precipui delle pubbliche commozioni che negli ultimi tempi non solo negli altri luoghi di Europa, ma ancora in Itali avvennero. Abbiamo saputo sopratutto dalle austriache regioni della Germania, spargersi colà fra il volgo, che il romano Pontefice, e con esploratori inviati , e con altre ari adoperate, abbia eccitati popoli italiani ad indurre nove! cangiamenti nelle cose pubbliche. Abbiamo saputo del pari M che alcuni nemici della cattolica religione prendono quindi occasione ad infiammare gli animi de’ germani col bollore della vendetta, ed alienarli dalla unità di questa santa sede. Ma sebbene non abbiamo al tutto alcun dubbio che le genti cattoliche della Germania e gli spettabili pastori che ad esse presedono siino abbonenti adatto dalla costoro malvagità, pure sappiamo essere Nostro oficio riparare allo scandalo che alquanti incauti e semplici uomini ne possono ricevere, e ribattere la calunnia, che non solo ridonda in contumelia della Nostra umile persona, ma ancora del supremo apostolato di cui siamo investiti, e di questa santa sede. E poiché questi stessi nostri detrattori non potendo produrre alcun documento delle macchinazioni che c i appongono, si sforzano d’indurre in sospezione le cose che da Noi furono operate nell’imprendere il governo temporale dello stato pontificio, perciò onde togliere ad essi questo pretesto di calunnia, Ci è venuto in pensiero di spiegare oggi nel vostro consesso chiaro ed apertamente tutta la cagione di queste cose .»
«A voi non è ignoto, venerabili fratelli, che già fin dagli ultimi tempi di Pio VII, Nostro predecessore, principali principi di Europa aveano curalo d’insinuare alla sede apostolica che adoperasse alcun modo più facile e rispondente a’ desideri di lei nell’amministrazione delle cose civili. Di poi nell’anno 1831 questi loro consigli e vo t i più solennemente spiccarono per quel celebre memorandum, che gli imperatori di Austria e di Russia, e re de francesi, d’Inghilterra e di Prussia stimarono di mandare a Roma permezzo de’ loro legati. In questo scritto tra le altre cose trattò del consiglio di consultori da convocarsi in Roma da tutto lo stato pontificio, del ristaurare o ampliare la costituzione de’ municipi, dell’istituire consigli provinciali, dell’introdurre queste stesse ad altre istituzioni in tutte le provincie per comune utilità, e del darsi adito a’ laici a tutti gli o f ici che riguardassero tanto la pubblica amministrazione, quanto l’ordine giudiziale.»
«E specialmente questi due ultimi capi si proponevano come principi vitali di governare. Negli altri scritti ancora si trattò di un più ampio perdono da accordarsi a tutti, o quasi tutti coloro quali aveano mancato di fedeltà verso il principe nel dominio pontificio.»
«Niuno quindi ignora che alcune di queste cose sono state condotte a fine da Gregorio XVI Nostro antecessore, ed alcune altre inoltre promesse negli editti promulgati nell’istesso anno 1831 per di lui ordine. Ma questi benefici del Nostro predecessore eran sembrati non corrispondere a’ voti de’ principi, Né esser bastanti a confermare la tranquillità ed il benessere in tutto lo stato temporale della santa sede.»
«Laonde Noi, appena per imprescrutabile giudizio di Dio fummo surrogati in sua vece, sulle prime non eccitati al certo dall’esortanza o dal consiglio di veruno, ma commossi dal Nostro singolare amore verso il popolo sottomesso al Nostro temporale ecclesiastico dominio impartimmo venia più ampia a coloro quali aveano aberrato dalla fedeltà dovuta al governo pontificio, e quindi ci affrettammo a stabilire alcune norme, le quali avevamo giudicato essere per giovare alla prosperità dello stesso popolo. E tutte quelle cose che operammo nell’esordire istesso del Nostro pontificato, interamente son congruenti con quelle che grandemente principi di Europa bramavano.»
«Ma dopo che Nostri consigli coll’aiuto di Dio furon condotti a fine, si Nostri, che limitrofi popoli fur visti per letizia esultare e con pubblici attestati di congratula zione e di ossequio talmente a Noi rivolgersi, che ci fu necessario sforzarci in questa stessa alma città di chiamare alla norma del dovere popolari clamori, plausi, radunamenti con soverchio impeto prorompenti.»
«Sono inoltre a tutti note, venerabili fratelli, le parole dell’allocuzione Nostra a voi fatta nel concistoro tenuto il di4 ottobre dello scorso anno, parole colle quali commendammo la paterna benignità ed un amore più efficace dei principi verso popoli loro soggetti, ed esortammo di nuovo popoli stessi alla fede ed obbedienza da loro a’ principi dovuta. Né poscia intralasciammo di ammonire ed esortare tutti a nostro potere, che aderendo forte alla cattolica dottrina ed osservando precetti di Dio e della chiesa, intendessero alla scambievole concordia, alla tranquillità ed alla carità verso tutti.»
«Ed oh alle paterne Nostre voci ed esortazioni avesse corrisposto l’effetto bramato! Ma sono a tutti note le pubbliche sovraccennate commozioni de popoli italiani, non m en che gli altri avvenimenti che fuori e dentro Italia accaddero poscia, ed eran prima accaduti. Se alcuno poi sostener voglia che ad eventi di tal fatta avesse aperta qualche via ciò che ne’ primordi del nostro sacro principato da Noi benevolmente fu fatto, costui certamente in niun contopotrà ciò ascrivere all’opera Nostra, non avendo Noi f atto altro, se non quel che, per la prosperità del Nostro stato,non pure a Noi, ma ancora ai principi mentovati parveopportuno. Del resto, per ciò che concerne a coloro chein questa Nostra signoria abusato ànno de’ Nostri bene ficistessi, Noi imitando l’esempio del divino Principe dei pastori,loro perdoniamo di cuore ed amorevolmente li richiamiamo a più saggi consigli, chiedendo umilmente a Dio padre delle misericordie, che per sua clemenza allontani dal loro capo castighi che toccano agli uomini ingrati.»
«Oltre a ciò non possono essere con Noi irati popoli mentovati della Germania, se non fu a Noi possibile ra ff renar l’ardore di coloro che dalla Nostra temporale signoria applaudir vollero a’ fatti contro di essi intrapresi nell’Italia superiore, e come altri infiammati di amore verso la propria nazione accomunarono la loro opera co rimanenti popoli d’Italia. Imperciocché molti altri principi di Europa, avendo eserciti di gran lunga più numerosi che Noi, non poterono del pari resistere a’ commovimenti de’ loro popoli in questo tempo stesso.»
«Nel quale stato di cose Noi per altro non volemmo che soldati spediti a’ confini dello stato pontificio avessero altro mandato, tranne quello di tutelarne la integrità e la sicurezza.»
«Ma desiderando ora alcuni, che Noi pure intraprendessimo la guerra contro tedeschi con gli altri popoli è principi italiani, credemmo essere finalmente Nostro dovere dichiarare apertamente in questo vostro consesso, essere ciò alienissimo da’ Nostri consigli, perciocché Noi quantunque indegno, in terra teniamo le veci di colui che è autor della pace ed amator della carità, e secondo l’ufficio del Nostro apostolato, abbracciamo con pari amor paterno tutte le genti e tutt’i popoli, e le nazioni. Che se ciò non ostante taluni de’ Nostri soggetti sono rapiti dall’esempio degli altri italiani, come potrem Noi infrenare il loro ardore?.»
«Ma qui non possiamo non ripudiare nel cospetto di tutte le nazioni fraudolenti consigli manifestati per mezzo de’ pubblici giornali e di vari opuscoli da coloro che vorrebbero che il romano Pontefice fosse capo di non sappiamo qual novella repubblica da costituirsi da tutt’i popoli italiani.Anzi in questa occasione sommamente ammoniamo edesortiamo gli stessi popoli d’Italia, per la carità che ab b iam per essi, che con ogni cura si guardino da consigli sì r astati, ed all’Italia stessa dannosi, e che si tengano forte stretti a’ propri principi, de’ quali àn pure sperimentato la benevolenza, Né soffrano essere mai strappati all’ossequio loro dovuto. Perciocché altrimenti comportandosi, non solo mancherebbero al proprio dovere, ma soggiacerebbero al pericolo che l’Italia si scindesse in parti per effetto di sempre crescenti discordie ed interne fazioni.»
«Quanto a Noi dichiariamo di nuovo, che il romano Pontefice rivolge tutt’i suoi pensieri, le cure, lo zelo al q uotidiano incremento del regno di Cristo, cioè della chie sa,non perché si allarghino principi di quel principato civilecui la Divina provvidenza donar volle a questa santa chiesaa tutela della sua dignità, ed al libero esercizio dell’apostolato supremo. Sono adunque in grande errore co loroche credono poter l’animo Nostro essere adescato da ambizione di più ampio dominio temporale, in guisa da gittar Noi stessi in mezzo a’ tumulti delle armi. Sarebbe invece giocondissimo al Nostro cuore paterno, se con l’opera, eo n le cure e con lo zelo Nostro ci fosse dato estinguere il fomite delle discordie, conciliare fra loro gli animi de’ bel! Iteranti e rimenare tra loro la pace.»
Non appena per Roma si seppe il contenuto di questa allocuzione, che gli agitatori cominciarono talmente a tumultuare, che un grande sovvertimento parve imminente. Allacasina de’ commercianti si radunò subito l’assemblea & vari circoli, ove animosamente agitossi la discussione mi quel che doveasi operare. Molta parte vi presero, fra glialtri, un Pierangelo Fiorentino (napoletano), un Cesare d’Agostino, il professore Orioli e Pietro Sterbini. Il popolo intanto fremeva al di fuori gridando; abbatto ministri cardinali ; vogliamo un ministero completamente laicale; viva ministero Mamiani; via l’ambasciadore d’Austria.
A calmare l’agitazione che da due dì regnava, nel gioì no 2 maggio il Pontefice pubblicava un breve mostrand o la rettitudine delle sue intenzioni, e la determinata volon tà di operare nel solo fine di avvantaggiare la cosa pubblica. Inutili furono cosi fatte spiegazioni, mentre sorgendo oratori per le vie e le piazze, vieppiù si fomentarono le passioni degli agitatori.
Nella impossibilità adunque di ogni mezzo conciliative il Pontefice, chiamato a se il conte Mamiani, sollecita mente prescelse un nuovo ministero tutto laicale, che col suo programma avendo preso a trattare principalmen te della convenienza della guerra per liberare l’Italia dall a dominazione austriaca, l’agitazione che regnava, ed il pericolo di un prossimo sovvertimento vennero a cessare.
Intanto disordini di Roma avevano vieppiù infiammato i faziosi del regno di Napoli. circoli politici vagheggiavi no il generale sovvertimento, e le società segrete spargeva no da per tutto il terrore. Napoli, riboccante di provincia che in arnesi guerreschi e minaccevoli vi giungevano ogni giorno, in preda agli agitatori che armavansi in tutt a fretta, ed al giornalismo che vomitava le sue bestemmie era già per cadere tosto in repubblica.
In si deplorabile condizione, e per colmo della misura facevasi girare con qualche segretezza il seguente – P R O CLAMA della suprema magistratura centrale del regno.
«Cittadini – La libertà è un frutto squisito che non coglie fra le spine che l’accerchiano, senza far sacrificio, cruente sacrificio. Approntatevi armati ed unitevi immediatamente alla sacra legione del riscatto appena compari r per le vostre contrade. L’ora di farci giustizia rivendicando nostri sacri ed imperscrittibili dritti è per sonare. Tutti buoni si pronunziino subito, ed a viso svelato: col loro equipaggio di guerra, si mettano tra le fila dei prodi che capitaneranno la sacra legione. militari di qualunque arma, gl’impiegati di ogni ramo di amministrazione saranno immediatamente fucilati, se ardissero mostrare od insinuare la benché minima resistenza: se poi concorreranno co’ mezzi tutti che sono già. in loro potere al gran riscatto, sarà tenuta generosa e giusta considerazione de’ loro servizi.»
«Le nostre fila sono rannodate pertutto il regno, la nostra corrispondenza con tutti patriotti d’Italia, di Spagna, d’Inghilterra ed altri luoghi si è ricambiata, ed è in accordo universale: noi a momenti ci solleveremo, e col ferro vendicatore sguainato atterreremo per sempre il dispotismo. Il grande architetto dell’universo non fu sordo alle lagrime di tanti oppressi, ci riconcesse la luce smarrita, e noi ci riconosciamo e c’intendiamo nel piano e nel l’ indirizzo delle nostre operazioni: uno il nostro grido di allarme, perché uguale in tutti è il dritto che rivendichiamo: la costituzione del 1820!!! All’armi, all’armi: il cielo è stanco di vedere sovrani e ministri spergiuri: alle armi!! E perché ogni governo provvisorio di ciascun luogo possa comportarsi con norma generale e comune di giustizia per tutto il regno, finché il parlamento nazionale costituente non avrà emesso le sanzioni opportune, ecco lenorme che sono state accettate e sanzionate universalmente:
«1° Sarà severamente punito chiunque profittando dell’insurrezione profanasse la nostra religione cattolica.»
«2° Sarà dichiarato pubblico nemico, e come tale fucilato qualunque ecclesiastico che abusando del suo sacra ministerio eccitasse popoli al servaggio in qualunque modo dissuadendoli dal prendere le armi per rivendicare la costituzione del t820 solennemente giurata dal Re, dai vescovi, dall’armata e da tutta la nazione, e che ci è stata repressa dalle armi tedesche per tradimento usato dal Re spergiuro, e da pochi deputati e generali infami.»
«3° Parimenti sarà dichiarato pubblico nemico, e come tale fucilato ogni capitano, ufficiale subalterno, sotto ufficiale e qualunque persona tiene comando di armi, che non si rivolga a sostenere la sacra legione e non evita lo spargimento del sangue cittadino.»
«4° Qualunque cittadino concorre liberamente a somministrare vettovaglie, ed ogni altro mezzo di sussistenza alla sacra legione, e riscuoterà il corrispondente ricevo, ne sarà indennizzato e premiato come merita dal governo a misura che se ne avrà la opportunità.»
«5° Chiunque comandante della sacra legione non dar e esatto conto de’ mezzi e de’ sussidi ricevuti a chi sarà di dritto, sarà come pubblico ladro condannato a’ ferri pe r sette anni, suoi beni saranno confiscati a pro de’ cittadini che dovranno essere indennizzati e premiati. Se poi per aver rivolto a suo particolare profitto alcuna cosa fosse accaduto che la truppa si sbandasse per languore, sarà fucilato.»
«6° Chiunque profittando dell’insurrezione si rivolgesse a private vendette con omicidio, attentasse all’onore delle famiglie, violasse le altrui proprietà, come promotore di guerra civile, schifosa e nefanda, sarà immediatamente fucilato.»
«7° Tutti militari e tutti gl’impiegati che per la causa del 1820 sono stati destituiti, imprigionati, esiliati, se prontamente si cooperino alla rivindica di quella giurata costituzione, saranno reintegrati e promossi ne’ loro impieghi convenientemente all’antichità di servizio senza interruzione e saranno dal tesoro nazionale indennizzati equamente per danni sofferti sotto la tirannia.»
«8° Tutti gl’impieghi, civili, militari, amministrativi, giudiziari, ed benefici ecclesiastici saranno dati esclusivamente a coloro che concorrono co’ loro mezzi alla sacra revindica della nostra perturbata costituzione del 1820, proporzionatamente alla loro capacità.»
«9° La guardia nazionale è sacra, perché rappresenta la sovranità del popolo, ma perché gl’intrighi del governo vi àn fatto intrudere parecchi birbanti, così tutti buoni e voi guardie nazionali vestiti della loro sacra divisa si faranno il dovere di pronunziarsi coraggiosamente per la sacra legione, come parte integrale della stessa, ed profani qualora non deponessero le armi immediatamente, saranno fucilati.»
«10° La sacra legione non è che una colonna mobile della guardia nazionale, che ristabilita la memorabile costituzione ritornerà al suo posto.»
«Fratelli scuotetevi e mantenete il vostro sacro giuramento! cittadini alle armi, disperdiamo nostri nemici, ed una volta per sempre sorgiamo liberi. Viva Pio IX. Viva h costituzione del 1820. Mora il mal governo.»
«Dato dalla suprema magistratura centrale del regno il 1 ° maggio 1848.»
Ma questo non era il solo mezzo a suscitar la rivolta, perciocché a furia delle più impudenti menzogne erasi da tempo innanzi costretta la moltitudine a disperato travolgimento. Un telegrafo singolare inventato dalle società sec r ete, che congiurati chiamavano il cor ri er bianco , consisteva in tanti fogli bianchi che successivamente facevansi pervenire in Napoli o altrove pie gati a forme di lettere, con soprascritte e indirizzi segnati dal marchio della posta, donde partivano, e di quello dell’offizio che ricevevali. In essi cospiratori scrivevano, e poi facevano circolare tutte le notizie che la furberia sapeva inventare per accender gli animi de’ popoli, ingannati e sedotti dalle perfide lor mene. E nello stesso intendimento non cessavano di moltiplicare affissi alle cantonate di Napoli a modo di esortazioni e di proteste, tendenti sempre a promuovere lo sconvolgimento generale, a gittar destramente le milizie nella incertezza ponendole in reciproca diffidenza, e ad apportare all’animo del Re nuovi argomenti di costernazione e di disgusto. Una velenosa manifestazione di questo genere fu il famoso avviso importante relativo alla protesta degli uffiziali delle artiglierie, vedutosi affisso per la città a grossi caratteri da stampa il 31 marzo, e divulgato in Capua lo stesso dì, per lo quale la tacita unione delle milizie si scuoteva, e le speranze di tranquillità svanivano da per tutto. Riportiamolo per disteso.
«Avviso importante.»
«Siamo assicurati che ieri tutti gli ufficiali del reggimento Re artiglieria e brigata pontonieri, si sono protestati co’ loro colonnelli che giammai avrebbero fatto fuoco contro al popolo; che essi facendo parte della nazione, avrebbero coadiuvato con essa a sostenere suoi diritti, e che nel solo caso che la guardia nazionale, vera espressione del paese, avesse creduto di dover far uso delle armi, l’avrebbero secondata; e che in tutt’i casi essi intendevano di servire il loro paese come artiglieri e non mai come fantaccini.»
«Onore all’artiglieria ed a’ pontonieri! possa il loro esempio essere imitato da tutto l’esercito, che rinchiude nelle sue fila tanti nostri fratelli.»
«Napoli 31 marzo .»
Nel maggiore scompiglio in cui stavasi, dopo si minaccevole protesta, ogn’indugio era fatale. Conveniva dunque immediatamente smentirla, smascherare pochi felloni autori della stessa, che dal seno della onorata corporazione degli uffiziali delle artiglierie sorgevano tra le vergogne della ribellione, colpevoli, impudenti ed ingrati; e bisognava che il sentimento vero delle artiglierie, devoto al Re, sacro all’onore, tuonasse forte alle orecchie degl’illusi e de’ traditori. Tutto questo fa in un baleno adempito. Una voce rimbombò, tra lo spavento degli agitatori, la rianimata fiducia nelle truppe ed il ristoro de’ buoni, colla seguente formale contro protesta, scritta co’ medesimi caratteri, e divulgata prontamente la susseguente sera del 1° aprile.
«Napoli 1° aprile 1848.»
«Gli uffiziali tutti di artiglieria residente nella capitale, profondamente rammaricati per essersi ieri messo a stam pa ed affisso un cartello nel quale senza loro intelligenza, eper conseguenza senza il menomo loro consenso, non si sa chisiasi fatto lecito in loro nome, ed in certo modo quale loromandatario, manifestare sensi ed opinioni che potrebbero far sorgere dubbi sulla loro lealtà, sulla loro devo zioneal Re ed alla costituzione giurata. Essi sentono il vivoe spontaneo bisogno di solennemente dichiarare che comesudditi, e come cittadini sono più che mai pronti a versaretutto il loro sangue per difendere la costituzione giuratae l’augusto loro Sovrano, che quella concesse ai suoipopoli.»
« I doveri che l’onor militare impone sono sacri a tutti coloro che del corpo reale di artiglieria fan parte e saj mai sempre quello il fedele indicatore delle orme che in tendono calcare.»
Nondimeno continuava sempre nelle stesse improntitudini. Un nuovo cartello dichiarava al pubblico, che Giovan Andrea Romeo, il più esaltato agitatore, tenessi vigile sostenitore della costituzione proclamata, e che si sarebbe a tutt’uomo sforzato a comprimere con tutt’i suoi qualunque tentativo diretto a distruggerla.
Avendo adunque le cose dello stato presa così fatta piega, anche perché da molte provincie quantità di cittad ini armati e di guardie nazionali disponevansi sollecitamente a partire per la capitale, non v’era certamente alcuno tanto poco avveduto, il quale non si accorgesse che l’animosità spiegata dalla fazione repubblicana si dovesse finalmente terminare colle armi, e che altro non bisognasse a fare iscoppiare l’impeto di questo nembo, se non la congiuntemi qualche accomodata occasione.
CAPITOLO XIII
Circa 90 deputati si radunano nel giorno 14 maggio nella sala municipale di Montoliveto, onde essere di accordo su talune determinazioni a prendere: animala discussione che ne nasce: turbamenti che nella capitale ne succedano: insurrezione che si prepara, ed attitudine che prende il governo.
Nell’agitazione fra il timore di soggiacerea più gravi bordini, ed il desiderio di riacquistare la perduta tranquillità , avvicinavasi il giorno 15 maggio stabilito a so l ennizzare l’apertura del parlamento, ossia delle camere legislative. Divenuto a grado a grado questo giorno segnale di allarme per consumarvi la rivolta, avevano gli agitatori poste in armi, con illimitato arrollamento di guardie nazionali, tutte le provincie del regno; e le più vicine alla capitale specialmente erano state già disposte a far marciare quelle masse sotto lo specioso pretesto di tutelare la sicurezza dei loro rappresentanti nel difficile mandato cui dovevano adempire.
Ilgoverno avea pubblicato un programma, col quale indi c avasi tra l’altro, che all’apertura delle camere, tanto i pari, quanto deputati dovessero prestare il giuramento a ll o statuto costituzionale del 10 febbraio, cioè a dire, co loroquali erano chiamati all’alto ufficio del potere legislativo doveano promettere con solenne giuramento di soddisfare alla propria missione secondo le norme stabilite dallo statuto medesimo.
Erasi già, come si è alquanto innanzi rilevato, allo statuto del 10 febbraio aggiunto per imperiose circostanze un’altra condizione mercé il programma ministeriale del 3 aprile, col quale nell’articolo 5 dichiaravasi, che aperto che fosse il parlamento, cioè le due camere, queste di accordo col Re potessero svolgere lo statuto, specialmente in riguardo alla camera de’ pari. Epperò volendo rigorosamente comprendere questa condizione nel giuramento a prestarsi dà pari e deputati, doveasi da’ medesimi dichiarare tutt’al pi ù , di voler seguire le norme stabilite dallo statuto, salvo lo svolgimento di esso da effettuirsi da ambe le camere di accordo col Re. Il concetto era tanto semplice, quanto comune a tutte le intelligenze. Ma come sperare atti conformi alla ragione ed alla giustizia da una violenta fazione, quale per l’appunto si era la maggioranza de’ deputati prescelti dalle masse turbolenti, pronta a rompere tutti riguardi, ed a rovesciare ogni ordine di cose per impadronirsi del potere? Stanti adunque così nella più parte disposti, circa 90 deputati di già presenti in Napoli nel 14 maggio accoglievano un concertato avviso a stampa, che loro invitava a riunirsi al cader del sole nel palazzo di città a Montoliveto, ad oggetto di discutere in una preparatoria seduta le( ) convenienze da adottarsi dalla camera nella sua prossima apertura. Questo arbitrario procedere consumato da quei deputati colla loro unione puntualmente seguita seconde l’avviso, offri la strana pretensione di far derivare dalla sediziosa illegalità primi atti governativi, che come preludi dell’avvenire richiamavano l’attenzione universale.
Aprivasi la sessione co’ più tristi auspici, perciocché rotto gli occhi de’ principali agitatori il maggior numero de’ deputati preparavasi a smaltire le più esaltate opinioni, ed a servire licenziosamente la propria passione. Sceltosi quindi dapprima l’abate Cagnazzi, come più anziano, per presidente, e D. Vincenzo Lanza dottore in medicina per sostituirlo al bisogno, si stabili com’essenziale dovere di quell’assemblea il definire anzi tutto la sostanza del giuramento, che in sostegno de’ dritti del popolo essi avrebbero pronunziato nella formale apertura della camera il di seguente. Epperò introdottasi la discussione, gli esaltati, fra’ quali Ricciardi, Petruccelli ,Zuppetta e qualche altro sostenevano, che non si dovesse dalla camera adottare quel giuramento puro e semplice che il Re aveva già pronunziato il 24 febbraio, attesoché il programma ministeriale d el 3 aprile avendo accordato al parlamento il dritto di svolgere lo statuto, non convenisse affatto pria di averlo svolto, e forse anche riformato, di giurarne la osservanza.
Pel contrario rilevavasi dalla parte moderata de’ deputati, nella quale appena venticinque se ne contavano, ch’essendo stati eletti sulle norme del programma de’ 3 aprile, sconvenevole fosse di appartarsi da ciò che il programma istesso statuiva.
Rimasti, dopo lunga disputa, già pel numero vittoriosi gli esaltati, presentavano essi la seguente formola di giuramento che toccava l’estremo opposto.
«Giuro di professare la religione cattolica, apostolica romana – Giuro di osservare e mantenere lo statuto politico della nazione, con tutte le riforme e modificazioni che verranno stabilite dalla rappresentanza nazionale ((7)) , massimamente per ciò che riguarda la parìa.»
«Giuro di adempire al mandato ricevuto dalla nazione e con tutte le mie forze procurare la sua grandezza ed il suo ben’essere. Co6Ì facendo Iddio mi premi, altrimenti me lo imputi.»
Invano la parte moderata osservò, ch’essendo questa formola diretta a concentrare tutto il potere legislativo inuno de’ tre elementi di cui si componeva, qual si era la camera de’ deputati, e ad introdurre riforme e modificazioni ignote insino allora, dovesse riguardarsi come all’intatto sovversiva; perciocché la maggioranza, persistendo sul suo avviso, si ritenne che solo la indicata formola dovesse avere il suo pieno effetto.
A sostenere questa opinione della maggioranza de’ deputati, s’inviarono come oratori al Re deputati signori Capitelli e Baldacchini, quali dopo di una conferenza avuta co’ ministri soltanto, che nella più parte inclinavano al l o stesso divisamento , ma che per allora non si fidavano di secondarlo apertamente, se ne tornarono in Montoliveto, senza avere nulla ottenuto a tal riguardo.
Riuscita infruttuosa siffatta missione, deputati esaltati vieppiù se ne irritarono, anche perché trovandosi tra la numerosa udienza due animosi calabresi Romeo e M il eto (di già condannati a morte per la insurrezione di Reggio, di poi graziati della vita dalla munificenza Sovrana) per natura assai più inclina t i all’interesse delle fazioni, che alla quiete pubblica ed alla salute universale, cercavano con molta destrezza di vieppiù eccitare la esaltazione.
Informato il Re di quanto avveniva in quella bolgia, chiamò tosto a se il deputato D. Camillo Cacace, saggio e moderato al tempo stesso. Dolutosi amaramente innanzi tutto il Sovrano della ingratitudine colla quale accoglievansi le sue generosità, e delle calunnie cui era f a tto segno, manifestavagli ardente desiderio di conciliazione, ed all’uopo incaricavalo di presentare al consesso de’ deputati una circostanziata formola di giuramento, colla quale dicevasi; volersi osservare lo statuto del 10 febbraio, salvo lo svolgimento che ne avrebbero fatto di accordo tre poteri ((8)) , specialmente in ordine alla parìa . A questo modo, eliminata la formola del giuramento puro e semplice, sembrava evidente che niun pregiudizio più la camera de’ deputati potesse osservarvi.
Sollecitamente il deputato Cacace ritornava in mezzo ai suoi colleghi, a’ quali presentava la formola testéricevuta.
Per questa una novella discussione assai più animata della prima succedeva, e quando già l’agitazione di gran lunga accresciuta toccava ormai il suo estremo, giungeva il signor Gabriele Abatemarco, direttore della polizia (deputato anche esso) speditovi a bella posta dal Re, onde persuadere l’assemblea a de’ provvedimenti co’ quali potesse affatto cessare la suscitata quistione. Ottenuta la parola, espose il direttore, come vocaboli modificare e riformare non potendosi intendere nel senso medesimo che il vocabolo vo lgere, non si avesse perciò il dritto d’inserire nella for m ola del giuramento qualunque riserba ella fosse, che accennar potesse la facoltà di riformare o modificare lo stat u to; come tutti coloro che, scelti a deputati, ivi trovavano riuniti, non costituissero in quel momento che una semplice riunione preparatoria, non essendo ancora loro poteri verificati e riconosciuti, e quanto insomma sconvenevole fosse in quella occorrenza di spargere tanta agita zi one nel paese, compromettendone intieramente la tranquillità. Né a questo arrestavasi punto il direttore, poiché fattosi pure a ricordare, come le fantasie accensibili, moti incomposti, voleri discordi avessero sempre prodotti danni significanti, caldamente raccomandava al consesso che, ad evitare le discordie civili e lo spargimento del sangue cittadino, si fosse lasciato guidare da quella prudenza che in una società eccessivamente commossa abbisognavasi.
Terminato questo discorso, e rimanendo tuttavia h maggioranza nella risoluzione presa, il presidente parlò in questi sensi al direttore: voi ci avete esposte le idee del Re, ch’è uno; noi esprimeremo quelle della camera, cui membri si elevano a cento. E come che il signore Abatemarco replicava, che non si trattasse punto di cifre, ma bensì di dritti, il presidente interrompendolo disse: voi difendete il Re, che fa parole vuote; noi difendiamo il popolo che fa fatti; la camera deve deliberare, epperò conviene che vi ritiriate.
A questi termini erano ridotte le cose, quando giungendo precipitosamente nella sala un certo Giambattista Lacecilia, capo compagnia del 4° battaglione della guardia nazionale, di recente venuto dall’esilio , ed impiegato da poco qual capo di ripartimento al ministero del l’ interno con enfatiche parole fattosi ad esporre il pericolo che s icorreva ove avessero deputati a cos’alcuna ceduto, e l’attitudine che prendeva il Re per la resistenza che in e sse incontrava, conchiudeva, che venendo traditi dal Sovr a no, e d’altronde assicurati dell’appoggio del ministro Francia e della flotta francese, che trovavasi in rada, n on restasse altro mezzo di salvezza che nelle barricate sol tanto.
Barricate, replicò imbaldanzita l’udienza, e barricate, replicarono ancora quanti altri affollati stavano in quei d’intorni per ripetere quella voce. Non mancava più che una spinta qualunque per passare a’ fatti, e ciò fece bentosto Lacecilia, che il primo apparve in mezzo ad un crocchio di armati in via toledo.
Erano già presso le 11 della sera: tamburi della guardia nazionale battevano a raccolta per richiamare sotto le armi l’incomposta forza: si facevano aprire a viva forza gli usci per trarne carrozze, se ne arrestavano altre nel loro corso; si strappavano le insegne di legno dalle botteghe, si scomponeva il lastricato delle strade: serra, serra, pre s to, prestoudivasi da per tutto; il terrore serpeggiava per la città, e mentre si costruivano barricate, di tanto in tanto si sentivano delle voci: tradimento, barricate. Questo era il preludio della guerra civile e dell’agonia della monarchia; ma a tanta sciagura non dovevano al certo soggiacere l’ottimo principe ed il buon popolo, che ridotti all’orlo di un abisso, si affidavano pietosi a’ soccorsi invocati della divina giustizia.
In tale perplessità, mentre il Re veniva informato minutamente di tutto, ebbe avviso, che una deputazione composta de’ più audaci agitatori recata si fosse presso l’ammiraglio della flotta francese a chiedere protezione ed aiuto per la repubblica che intendevano proclamare. Forte nel suo dritto e contristato dalla probabilità di terribili avvenimenti, il Sovrano ripeteva con dignitosa costanza a quanti gli stavano dappresso; non volersi rimuovere dall a via legale, esser pronto ad affrontare qualunque difficolt à , qualunque pericolo, colla lealtà del cittadino, e col co r aggio del soldato. E con effetti disponeva, che le truppe immantinenti escissero da’ quartieri, ed occupassero il largo innanzi alla reggia ed siti più importanti della città. Ordinava poi al brigadiere D. Gabriele Pepe, comandante de ll a guardia nazionale di Napoli, di far comprendere tutti gl’individui di sua dipendenza, di già sotto l’ armi, e il loro nobile ufficio non dovesse trasmodare negli ecce ssi e nel disordine. E poiché il brigadiere assicurava il R e che l’agitazione sarebbesi calmata e le barricate disfai dalla stessa guardia nazionale, appena le truppe si fosse ritirate, cosi senz’alcuna esitazione, e sempre nel fine frenare il disordine, il Sovrano accogliendo tal propos ta tosto ordinava la ritirata delle milizie, e puntualmente ne affrettava la esecuzione.
Ma sia che gli agitatori avessero creduto che, con que lla attitudine presa, il Re si fosse di già sgomentato, e che p er ciò dovesse cedere a tutto; sia che lo stesso brigadiere Pepe i suoi ardenti principi democratici, serbando destrezz a si fosse apparentemente pronunziato per l’ordine, quandoin realtà nel senso contrario procedeva, il certo si fu e lungi dal disfarsi le incominciate barricate, con più impeg no costruttori si affrettarono a compirle.
Vedendo il Re che casi ormai toccavano gli estre mi e che il tempo perciò diveniva prezioso, chiesto del sig. Piccolellis, colonnello della guardia nazionale, ed avute sollecitamente in sua presenza, prese così con dignitoso m o do a parlargli: a forza dunque sediziosi vogliono pasc er nel sangue civile? Ma che altro si chiede, che altro si preten de? La formola del giuramento è stata già tolta, il ministero sta occupando si del decreto; perché le barricate sono ancora piedi, anzi si rafforzano? Ed il colonnello, assicurando Re che sarebbe tutto rientrato immediatamente nell’ord i ne, ed egli fra poco immancabilmente ritornato, pre commiato, non più ricomparve alla reggia.
A tale stato di spaventevole disordine trovavasi rido la capitale in quella notte fatale per opera di una fazion che tutta la sua fortuna sperava dall’universale scompiglio.
CAPITOLO XIV
Avvenimenti del 15 maggio.
A’ primi albori del giorno 15 maggio spaventevoli segni di vicina catastrofe agghiacciavano le membra degli atterriti abitanti della capitale.
Rotte e chiuse le strade, sospeso il traffico, altro non vedevasi che guardie nazionali e cittadini armati aggirarsi con muratori e facchini, correre quà e la da forsennati, a compiere o principiare barricate, a procurare materiali di ogni specie, come botti, travi, tavolacce, carrozze, a divellere il lastrico delle strade, a cavar terre, scegliere ed occupare posizioni, violar domicili, formar parapetti ai balconi co’ materassi che rinvenivano; ed altro non udivasi che grida e minacce spaventevoli. Dalla via toledo, emporio di tali eccessi, sorgevano di falso conio strane notizie spacciate a bella posta per aumentare l’audacia e le opere degl’insorgenti per tutta la città. Si asseriva tra le altre cose con certezza; che la truppa fosse già sulle mosse per allontanarsi da Napoli; che le milizie cittadine stessero impossessandosi delle castella; che il Re avesse provveduto alla di lui salvezza recandosi altrove per la via di mare. Ed affinché poi viemaggiormente rimanessero in que’ tristissimi momenti accreditate queste fole, facevasi velocemente di vulgare la strana mozione fatta dall’avventato deputato Ricciardi a suoi colleghi in Montoliveto.
«La situazione (egli diceva) è aumentata di molto da ieri in poi; il perché diverso esser debba il nostro linguaggio colla corona. La diffidenza della nazione, ed in ispecie delle milizie civili, è cresciuta a mille doppi: unico mezzo a farla cessare sarà l’ottenere dal governo garentie positive. Io propongo che gli sieno indirizzate il più presto possibile le due seguenti dimande moderatissime, moderatissime, io dico, in ragione de’ miei principi e desideri ben noti: la consegna delle castella in mano della guardia na zio na l e; lo scioglimento, ovvero l’invio della guardia reale in Lombardia. Che se il governo sarà per opporci il pessimo stato delle finanze; e noi diamo al paese l’esempio del sacrificio, soscrivendo ciascuno secondo le proprie facoltà. Ed io primo nella opposizione, mi segno fra primi per la somma di ducati 100.»
Per maggior ruina in quel mentre erano sbarcati un 300 agitatori siciliani , che trovando le cose avviate a garbo de’ loro perfidi disegni, si affrettavano tosto a percorrere la città, proclamandovi da per tutto la rivolta.
In mezzo a cosi deplorabili discordie un avviso al pubblico a nome del presidente dell’assemblea rianimava p er( ) un istante le speranze de’ buoni, perciocché annunziando( ) in esso composta la vertenza fra la camera ed il gover n o per essersi consentita la sospensione del giuramento, prescrivevasi il sollecito sgombramento delle barricate , se n za di che il Re seguito dal suo corteo non avrebbe potu to( ) recarsi a solennizzare colla sua augusta presenza l’apertura del parlamento.
Ne’ rivolgimenti politici non è sempre facile l’intendere lalogica de’ faziosi, e perciò non possiamo in buona coscienza ammettere rettitudine nel procedimento del comandante generale della guardia nazionale di Napoli brigadiere Pepe, il quale forse più per malizia che per poco accorgimento, non facendo conto della sensazione prodotta nelle masse armate dall’avviso del presidente dell’assemblea, recavasi, seguito da molti uffiziali maggiori suoi dipendenti, alfa presenza del Re cui esponeva; che composta ormai la vertenza intorno al giuramento, tutte le barricate sarebbero state senza tema di opposizione rimosse; che però essendo per le guardie nazionali malagevole e lenta siffatta travagliosa operazione, pregava, perché nella urgente bisogna con un discreto numero di soldati inermi prontamente vi si provvedesse. Il proposto espediente non presentava apparenti difficoltà, se non c he la mento del Sovrano ben prevedeva, che il frammischiare soldati a guardie nazionali, quando già tra essi lo scambievole male umore trovavasi al colmo, menato avrebbe facilmente a sanguinose conseguenze. Non pertanto, a fine di contribuire per la parte sua al ristabilimento della tranquillità, ordinava per allora, che un competente numero di granatieri senz’armi cominciato avesse pacificamente a disfare tutte le barricate che più vicine alla reggia si vedevano; e poiché prudenza esigeva contegno e destrezza nella ordinata perigliosa operazione, il generale Garofalo capo dello stato maggiore, seguito da parecchi uffiziali, a sostegno di tal proponimento ponevasi spontaneo alla testa di 50 granatieri inermi,, guidavali, movendo da palazzo sui passi del brigadiere Pepe, e tutti si accostavano per la via toledo alla barricata S. Brigida. Con sorpresa le guardie nazionali quivi agglomerate guardavano l’arrivo inopinato quella gente inerme, e ne rimanevano interdette; ma quando dalle prime parole del loro generale e dalle mosse de’ soldati, che di già ponevano mano all’opera, esse n on compresero l’obbietto, indispettite spianarono simultaneamente fucili contro uffiziali e soldati, e con minacciosi grida li obbligarono a ritirarsi.
Non è a supporsi a qual segno giungesse la rabbia dell e milizie, che videro o intesero tanta insolente perfidia, e di per effetto soltanto della militare disciplina a malincuo re si trattennero dal prorompere in aspra vendetta. Eppe rò divenuta imminente una catastrofe, tutte si trassero di nuovo sollecitamente da’ propri quartieri, venendo distr i buite così: due reggimenti svizzeri, con due squadroni lancieri e due compagnie di pontonieri occuparono il lar go del castello; un altro reggimento anche svizzero, con or squadrone di lancieri ed una mezza batteria di artigli eriaquello del mercatello, ed un quarto altresì dell’istessa a r ma, con una sezione di artiglieria prese posizione al sbocco, che dall’angolo degli 6tudi mena a S. Teresa, all’ inf rascata, a toledo ed al largo delle pigne: uno squadrone dilancieri ed una sezione di artiglieria situaronsi nelle adiacenze delle carceri della vicaria; il 2° reggimento deg li usseri della guardia al largo del mercato; il 1° reggiment o granatiere si trattenne in riserba nell’edificio de’ granili; per ultimo un battaglione del 2° granatiere, due de’ cacciatori della guardia, un battaglione di marina, una batteria di artiglieria a cavallo, il 1° reggimento degli usseri e d un battaglione di zappatori si accamparono innanzi alla reggia.
Ma queste minacciose disposizioni lungi dal produrre l’effetto desiderato, lo sgomento cioè delle ribellate guardie nazionali, con maggior tracotanza queste si videro progredire al compimento degli inoltrati apparecchi di generale sovversione, perciocché sotto gli occhi stessi della soldatescacontinuavano con sempre crescente baldanza a rafforzare specialmente le barricale che più dappresso strin gevanola reggia e le truppe che la circondavano a difesa. La barricata a S. Ferdinandosopratutto, dove l’operosità de’ ribelli più ferveva a’ cenni di Pietro Mileti, non che quella rimpetto S. Carlo, alla estremità del vico rotto, e l’altra a S. Brigida,che chiudevano le comunicazioni colla strada toledo,provocavano ne’ soldati lo sdegno tuttavia compresso dagli ordini precisi del Sovrano, il quale fermo ne’ suoi santi proponimenti, fidato nella disciplina delle sue truppe, apertamente dichiarava; volere in ogni conto i deplorabili effetti di una collisione evitare. E vagheggiando sempre queste sue paterne speranze, spediva sollecitamente a’ ministri riuniti nel palazzo della foresteria, in casa Tro y a, il brigadiere Carras c osa, per indurli ad emettere pronte ed energiche disposizioni, che la gravezza de’ casi richiedevano per lo ristabilimento dell’ordine pubblico.
Ma in questo mezzo mol t i avventati della guardia nazionale, venuti in que’ giorni da Salerno e da’ vicini paesi, muovono solleciti e furibondi per toledo verso la barricata S. Ferdinando, dietro alla quale si affrettano a disporsi in attitudine offensiva. Le truppe, che per ordini malvagi od equivoci volgevano a’ propri quartieri, richiamate a tempo dalla vigilanza de’ capi, ritornano. Un batter di mani, se guitoda strepitosi applausi, odesi uscire da’ dintorni di quella prima barricata. Trascorrono pochi istanti, (erano presso le11) ed ecco scoccarsi da’ ribelli due colpi di archibugio contro la massa della soldatesca fermata innanzi alla reggia;e molti altri ancora, diretti alla stessa volta, par are dal 3° piano della casa Cirella .
Da qui incomincia la tragica scena. Il popolo, in baste volenumero stante a curiosare presso la barricata, sbigotti t o, fugge. La soldatesca esasperata, nelmaggiore scompiglio, senza neanche attendere la voce del comando, scarica ad un tempo più di duemila colpi da fuoco contro ai ribelli, e confusa e disordinata come trovasi, ritenta una seconda scarica.Il Re, al grande scoppio, manda un gemito, vedendo di non essere ornai possibile di evitare lo spargimento del sangue. Accorrono allo istante generali ed uffiziali, ed invano levano alto la voce per riordinare quella esasperata milizia; e mentre il fuoco de’ ribelli si raddoppia, vedesi il maresciallo di campo principe d’Ischitella animoso, la spada in pugno cacciarsi innanzi a tutti, comandare, esortare, minacciare, far battere tamburi a riordinamento, e sul punto che tanto con pieno successo egli opera, un battaglione di granatieri e mezza batteria a cavallo, guidati dal brigadiere Carrascosa, si avvanzano ad attaccare in tutta regola quella prima barricata.
Impegnatasi per tal modo la zuffa, la truppa veniva aspramente bersagliata sul fronte e su’ fianchi dalle offese crescenti della barricata e delle case attigue, specialmente da quella di Cirella, che per la sua posizione, e per la quantità degli armati che vi stavano, poteva considerarsi come una picciola fortezza. A menomare adunque la forza del fuoco micidiale che da tante direzioni diverse provveniva, e che in certa guisa sgomentava momentaneamente que’ risoluti granatieri, il generale Nunziante, che tra gli alti( 1 ) trovavasi in mezzo alla mischia, fatta occupare da un( 1 ) compagnia di fanteria di marina la casa Zabatta, posta all’a n golo che congiunge le due strade di toledo e di chiaia, fatto altresì montare una compagnia di granatieri sulla terrazza della foresteria, dominante le case occupate dagli insorti, ottenne che in breve venisse positivamente rallenta re la resistenza contro la truppa, che si batteva all’aperto.
Accadevano in questo mentre alcuni fatti che torna utile conoscere.
Il Re, che agitavasi tra la considerazione del sangue che già cominciava a versarsi, e la dubbiezza degli eventi, esclama: Dio mio interponete la vostra mano per salvare dalla guerra civile questo sventurato popolo, poiché tutte le mie sollecitudini sono tornate a vuoto: fate che il sangue di tanti innocenti ricada tutto sul capo de’ provocatori, e che la vostra eterna giustizia e la infinita misericordia vostra ven ghino in soccorso di questa sventurata città non solo, ma del regno intero. E vieppiù la sua agitazione si accresce volgendo lo sguardo al forte di S. Elmo, a’ cenni del generale Roberti, anch’esso eletto deputato al parlamento nazionale, e che nulla accennava dell’attitudine che avrebbe ormai dovuto mostrare in quei supremi momenti.
Ma di già la irresolutezza di questo vecchio soldato èspronealla gloria per gli artiglieri ed svizzeri ivi di pre sidio;perciocché sorti spontanei agli impulsi dell’onore, corrono tosto alle armi ed alle batterie del forte, e con tre colpidi cannone, e col rizzare bandiera rossa appalesano al Re ed alla città la rettitudine delle loro intenzioni per la di fesadel trono e per lo ristabilimento dell’ordine.
I popolani di S. Lucia, come devotissimi al Re, al cominciar del conflitto eransi messi in tale attitudine da affrontare qualunque pericolo, se le circostanze il richiedes sero;epperò stimatasi questa una occasione opportuna a profittarne, un generale a ff rettavasi a radunare più arditi, spingerli al seguito delle truppe, ed a concorrere con esse, colle accette, co’ picconi e le zappe, di già provvedutisi, a disfarele barricate a misura che fossero state espugnate.
I ministri, che sin dalle prime ore di quel giorno tro v avansi, con deputati Capitelli, Poerio, Pica, de Piccolellis ed altri in casa del presidente del consiglio D. Car lo Troia, per discutervi la formola del giuramento, alle prime fucilate cessando ad un tratto, e sciamando, essersi tu tto perduto, corsero alla reggia, per tenere informato il Re del tristo caso accaduto. Volto quindi il Sovrano uno sguardo severo al ministro Scialoia, che mostravasi più degli altricrucciato per l’ardore spiegato dalla truppa, in questi accenti proruppe: siete or contenti di aver gittate per le vostri opere il paese nella guerra civile? E quegli: può ancora ripararsi, se Vostra Maestà ordinerà che si cessi dal fuoco. Si cesserà dal fuoco, replicò il Re, ma come trattenere l’impeto de’ soldati già troppo irritati, se voi non vi date la cura d’inculcare a’ vostri perversi satelliti di cessare dal l’ offendergli ulteriormente? Così soltanto potrà sperarsi che il fuoc o si smorzi e l’ ira si reprima.
A questo modo confusi accomiatavansi que’ ministri, ai quali generosamente permettevasi di ripassare illesi le soglie di quella reggia che ardentemente avevano desiderato distruggere.
Ma la tracotanza de’ deputati tuttora riuniti in Montoliveto avea di già colmata la misura. Divisi nelle speranze e ne’ desideri per la maggiore o minore esaltazione de’ loro sentimenti, chi turbato e perplesso, chi irritato e furibondo chi per timore e chi per passione, avevano incominciato a( ) bandire ordini severissimi, e ad adottare più estremi rimedi.
«La camera de’ deputati (cosi indicava la principale determinazione) unitamente à deliberato di creare un comita to di sicurezza pubblica con ordine assoluto di provvedere al urgenze del momento. Essa si dichiara in seduta permanente , e chi dal suo seno si allontana, verrà dichiarato poca fiducia della nazione.»
«La guardia nazionale sarà di assoluta dipendenza dal comitato di pubblica sicurezza, il quale è nell’obbligo di riferire alla camera continuamente il processo delle opera zio ni incoate, per decretare le ulteriori sue disposizioni. Questo regolamento sia al momento pubblicato.»
Al tempo stesso dirigevasi al generale comandante la piazza di Napoli il seguente ufficio:
«La camera de’ deputati, unica rappresentante della nazione, è in permanenza, ed à destinato un comitato di pubblica sicurezza. Con questa qualità, di cui si è data comunicazione al ministero, il comitato le dimanda, perché il conflitto fra la truppa ed cittadini sia sorto, ed insiste perché cessi sul momento ogni violenza.»
In tal guisa adunque l’agonizzante assemblea procedeva in quegli eccessi, che gl’irreconciliabili nemici della monarchia avevano provocati.
Ritornando ora alla narrazione del cominciato conflitto, diremo, che allo scoppio delle prime fucilate un battaglione del1° svizzero dal suo quartiere del Carmine, ov’erasi ri tiratoda pochi momenti per gli ordini corsi, nera novellamente sortito, ed a passo di carica condotto verso il luogo dellapugna. Giunto al largo di S. Ferdinando e surrogato all’istante una parte delle milizie spossate dall’aspro com batt ere, ricominciossi la lotta con più accanimento, sviz zeri,secondati dall’artiglieria, più volte tentarono di montare labarricata, e sempre con grandissima strage ne furon risospinti. Il generale D. Errico Statella era stato gravemen teferito, Né per questo volevasi rimuovere dal conflitto: retici tra uffiziali, sottuffiziali e comuni trovavansi uc c isi,ed altri trentase tt e, come gravemente feriti, messi fuoridel combattimento. Già l’esito della pugna pendeva ancoraincerto, sebbene a poco alla volta piegasse a favo re della truppa. Alla fine tentato un’altra volta l’assali con maggiore impeto, si ottenne di vincere quel fonda mento principalissimo di tutt’i disegni de’ sollevati.
Ottenuto questo primo successo, utilissimo tornava l’occupare il palazzo Cirella, da cui le milizie sarebbero state ulteriormente tempestate. Rottone perciò a colpi di scure lo sportello dell’uscio, due compagnie di cacciatori de lla guardia v’irruppero ad un tratto. Si ricomincia per questo con più accanimento il conflitto; dalle finestre si trae nei cortile e per le scale, la truppa monta, si caccia innanzi e risponde; trepidanti ed incerti si difendono congiurati, animose e pronte le milizie inoltransi; le porte si atterrano, la truppa vi penetra, e la scena si cangia ad un tratto. Alcuni resistono, e vi rimangono uccisi; altri si rendono, ed ottengono perdono; volgono più destri per una segreta nella attigua chiesa di S. Ferdinando, e vi restano insino alla notte che segue ((9)) . Sopraggiungono popolani, e come necessaria conseguenza la devastazione incomincia. Iprigionieri intanto sono condotti all’arsenale, e sul bordo di una fregata vengono custoditi.
Divulgatasi tosto la nuova della caduta di quel primo baluardo della insurrezione, e dell’avvenuto alla casa Cirella, lo scoraggimento de’ sollevati ebbe talmente a mostrarsi, che abbandonati a poco a poco le prossime barricate, poterono le milizie con minori difficoltà, sempre però combattendo, progredire.
Non così procedevasi dalla parte di S. Brigida, ove una barricata molto solida, custodita da quasi che tutto il 1°battaglione della guardia nazionale, acquartierato in quel l’ attiguo monastero, di già indicava che la difesa si sarebbe portata agli estremi. Il 2° e 4° svizzero, con mezza batteria stavano ormai disposti in divisione al largo del castello, ed altro non attendevano per agire, che gli ordini del generale Labrano, che ne avea preso il comando.
Nel lodevole scopo di evitare lo spargimento del sangue, quel generale aveva ordinato che due compagnie, l’una di granatieri, l’altra di fucilieri del 4°, mentre il 2° destinavasi per altrove, si avvanzassero a disfare a mano la barricata, ed a rispondere col fuoco quantevolte ne venissero provocate. Guidate dallo stesso colonnello e da altri uffiziali superiori, rimanendo il resto del 1° battaglione a trenta passi distante, ed il 2° di riserva al largo del castello, giungevano le due compagnie presso la barricata fra gli applausi e gli evviva i svizzeri mossi da tutti gli appostati ne’ luoghi circostanti. E poiché la truppa, senz’affatto curarsi della simulata esultanza, di già attendeva al suo ufficio , così ad un tratto udissi da quei forsennati gridare, che nulla si toccasse. Sprezzandosi pure queste minacce, affrettavansi i svizzeri ad eseguire gli ordini ricevuti. Epperò cangiatasi tosto la scena, una grandine di palle cadde sugl’intrepidi esecutori. Lasciato il lavoro, e dato di piglio alle armi, le due compagnie con mirabile celerità risposero al fuoco.
Essendosi intanto a’ primi colpi sollecitamente a v anzate le altre compagnie, ed impegnatosi per tal modo nel conflitto l’intero battaglione, l’aiutante maggiore di Goumens cerca saltare sulla barricata, ed invita coll’esempio i granatieri a fare lo stesso. Ad un tratto il prode vi resta ucciso, ed altrettanto succede alla più parte di quegl’intrepidi che si erano spinti a seguirlo.
Non è possibile a dirsi quanto ne rimanesse esasperataquellamilizia alla vista de’ compagni estinti; perciocché raddoppiando il fuoco, e spingendosi innanzi, intrepida corse all’assalto. Ma prevalendo la sicurtà de’ luoghi occupati dagli insorti, ed anche la loro audacia nel trarre, stette un pezzo dubbia la pugna. Già lo stesso colonnello era stato gravemente ferito nel capo, e trasportalo via dal conflitto; e non ostante che la strada apparisse cospersa dei cadaveri degli assalitori, questi non cessavano dal valore mostrato.
Scortosi dal tenente colonnello de Murali, che preso aveva il comando del reggimento, il gravissimo pericolo che per tal guisa si correva, e la necessità in conseguenza di cangiar di tattica, dispose che il battaglione dovesse proseguire l’attacco non più in colonna per divisione, ma per file sui fianchi della strada, coll’artiglieria in mezzo.
Ricominciatasi adunque l’azione in (al modo, il più mirabile effetto tosto se ne ottenne; perciocché l’artiglieria traendo senza posa a palla ed a scaglia, non fu possibile agli insorti di sostenere più a lungo la pugna. Cade la barricata; si assalgono le case donde il fuoco si era tratto, e l una dopo l’altra vengono tutte in potere della forza. Si monta sul campanile di S. Brigida, e morte succede a quanti armati vi stanno. Si monta altresì sulla casa del marchese Vasaturo e su quella del notaio Cacace, sventuratamente occupate da’ ribelli, e lo spettacolo più orrendo toccano e l’una e l’altra.
Cosi tra il fumo ed il fuoco, che ardeva una casa, tra lo strepito de’ soldati e le grida disperate di chi voleva fuggire, tra i colpi ed i gemiti, era un dolore, un terrore, una miseria, che si possono meglio con la mente immaginare, che colla penna descrivere.
Sgombrata per tal modo quella via, la truppa volse versoS. Giacomo. Già il 2° reggimento svizzero aveva con leggieri perdite superato la barricata in via Concezione, ed in possesso trovavasi dell’edificio delle finanze, onde proteggere da quei balconi sporgenti a toledo la marcia delle milizie dal fuoco de’ sollevati appostati nelle case circostanti. Ed il 3° svizzero aveva puranche assalito il palazzo Sirignano a fontana medino, d’onde gl’insorti sforzavansi con aggiustati colpi molestare il bastione di costei nuovo, e la gran guardia.
Continuandosi in tal maniera le operazioni, un battaglione del 3° svizzero, guidato dal generale Stokalper, presa la via di S. Giacomo, montava a toledo, e con sorprendente rapidità superava un altra barricala costruita sul limitare del vico taverna penta , che veniva sostenuta con molta vigoria da una quantità di armati appostati nel vicino palazzo Lieto ed in parecchi altri di que’ dintorni. Rilevante D’era stato pure il conflitto, perciocché non solo da parte delle milizie deploravasi la perdita del maggiore Salis e di altri ‘individui, ed in quella de’ sollevati contavansi non poche vittime; ma altresì il fuoco delle artiglierie avearidotto tutti quegli edifici in tale infelicissimo stato, che imminente ne appariva la ruina.
Accresciutosi per tutti questi successi l’entusiasmo delle milizie, e caduti nell’abbattimento i sollevati, apertamente scorgessi come rapidamente al suo termine dovesse volgere la insurrezione.
Procedendo intanto sempre più forte la colonna di attacco in su la via toledo, molestata di tratto in tratto dal fuoco dell’ultimo disperato avanzo degl’insorti, giungeva allo sbocco della Carità, ove del tutto sembrava che un altro accanito conflitto dovesse accadervi. Teneva quivi appunto il suo quartiere il 4° battaglione della guardia nazionale , il quale tra pel comando che ne aveva preso D. Giambattista Lacecilia, e tra per essere stato il primo a sollevarsi nella notte decorsa ed a rizzar barricate, destinato pareva a rappresentare la parte interessante di questo tragico dramma. Aggiungevasi poi a tutto questo, che trovandosi a poca distanza, cioè nella sala di montoliveto, tuttavia raccolti i più esaltati deputati, l’esito di quest’altro conflitto avrebbe pure dovuto decidere della loro sorte.
Stante adunque le milizie per isboccare al largo della carità, alcune scariche tratte dall’ albergo dell’allegria, che si presenta di fronte, e dalle case poste su’ laterali, avvertirono il comandante della colonna a dover principiare ad agire coll’artiglieria. Cominciava da vicino a tuonare il cannone, e talmente se ne sbigottivano i sollevati, che tutti ad un tratto abbandonavano la pugna. Alcuni lacerando e gittando via la divisa di guardie nazionali, tenuta insino allora in tanto pregio, sotto mentite spoglie e da volgari cercarono di sottrarsi dal temuto pericolo. Ed alcun’altri, i più compromessi, tenendosi sinanche mal sicuri per le vie, giunsero a tal grado di spavento, che penetrati nella sepoltura dell’attiguo monastero di S. Nicola, vi si tennero accovacciati insino a tutta la notte seguente.
Tre siciliani soltanto, tra’ quali un ispettore di dogana a nome D. Salvatore Tornabene, che non ebbero l’opportunità di fuggire dall’ albergo dell’allegriapria che cadesse in potere della truppa, trovandosi ancora bruttati dalla polvere pe’ tanti colpi d’archibugio che avevano tratti, presi a furia da’ soldati, e condotti nel sottoposto largo della carità, vi vennero spietatamente fucilati all’istante. Dopo questo atto di estremo rigore, la pugna, che da tante ore ancora ferveva in sul toledo, venne come per incantesimo a cessare di botto.
In questo mezzo, casi al pari luttuosi altrove avvenivano. Il 1° reggimento granatiere, destinalo a distruggere le barricate costruite lungo la strada di montolive t o , battendo la via di Fontana medina, meno alquante fucilate ricevute presso la chiesa 5. Giuseppe e l’angolo Donnal b ina, ed alle quali per altro fu vivamente risposto, in tutto il resto del cammino, insino al quartiere del treno, niun altro scontro ebbe a sopportare. Ma non appena la colonna perveniva allo sbocco del larghetto di montoliveto , ove una barricata anche solida sostenuta da centinaia de’ più arditi sollevati postati tanto nel palazzo Ricciardi, che stavate quasi a cavaliere, quanto nelle altre case di rincontro, che di già cominciava la più sanguinosa tragedia.
Una generale scarica di fucilate tratte sulle milizie da tutti quei luoghi occupati dagli insorti fece tosto entrare in azione un pezzo di artiglieria, che secondato da un fuoco continuo degli agguerriti granatieri, accese con tanta irritazione la pugna, che raramente se n’è vista mai una simile. Gl’insorti, calabresi nella più parte, traevano a tutta furia, e la truppa avvicinandosi, sempre con maggior vigoria rispondeva. In mezzo a sì aspro conflitto venendo atterrato a colpi di scure dagli animosi guastatori l’uscio del palazzo, tosto v’irruppero due compagnie. Giungono gl’intrepidi sugli appartamenti, e come alle onde agitate che s’incalzano, abbattono e rovesciano quanti oppositori v’incontrano. Vero è che parecchi degl’insorti vi perirono pugnando, ma è verissimo pure, che chi vi teneva il comando delle milizie non poco contribuì a salvarne anche molti.
Ma sia che nella mischia alcune fucilate tratte da vicino avessero accesa una portiera, sia che a disperdere criminosi incartamenti tenuti in una stanza, vi si fosse dato abella posta il fuoco da chi più era interessato a ciò fare, il certo si fu, che sviluppatesi le fiamme in quei tristissimi momenti, l’incendio talmente dilatassi per tutto l’edificio, che si rese impossibile per allora di arrestarne il progresso.
Dopo questi accaduti non avevano le milizie altri positivi ostacoli a superare, che una barricata allo sbocco del mercatello , ed un’altra tra l’edificio degli studi ed il monastero di S. Teresa. In quanto alla prima, innanzi che la truppa vi si fosse avvicina t a, presi gl’insorti da improviso terrore allo strepito che facevano le armi, dopo di aver tratti alquanti colpi, per tema di cadere in mano della pubblica forza, precipitosamente si ritrassero. Ed in quanto all’altra, dopo di essersi per circa mezz’ora accanitamente pugnato tra il 2° reggimento svizzero destinato ad attaccarla, e più centinaia d’insorti appostati in molte case circostanti, e nell’istesso monastero, tornando vana la resistenza, e caduti i sollevati nell’apprensione di esser presi alle spalle da un forte distaccamento che aveva girato pei luoghi della stella , abbandonata la pugna, anche come gli altri fuggirono in pieno disordine.
Intanto il brigadiere Carrascosa, allorché il conflitto stava per cessare su tutt’i punti, nel fine di conoscere se il resto della città offrisse qualche altro indizio di sommossa, ed anche per viemeglio tranquillare gli animi abbattuti degli onesti cittadini, postosi alla testa di uno squadrone di usseri, erasi spinto per la porta di massa, mercato e l a v inaio , senza rinvenirvi traccia di alcun disordine. Di la per porta capuana traendo, sollecitamente recavasi al piano della vicaria, ove fatte abbattere alcune barricate costruite in que’ dintorni, e di già abbandonate da’ loro difensori, volgeva per le strade tribunali , S. Gregorio ar meno, forcella e Trinità maggiore , ed indi a poco riconducevasi alla reggia per tenere informato il Sovrano della calma che ornai regnava da per tutto.
Questo fu il corso delle avventure di quel giorno, ma a compierne la narrazione torna utile di accennare un altro fatto essenziale.
Convien dunque sapere, che quando i deputati esaltati si accorsero che per la vittoria riportata dalla truppa convenisse meglio badare alla propria salvezza, anziché correre qualche gravissimo rischio ove i vincitori li trovassero tuttavia radunati, cercarono, pria di disciogliersi, di distendere la seguente formale protesta:
«La camera de deputati riunita in Montoliveto nelle sue sedute preparatorie, mentre era intenta a’ suoi lavori ed allo adempimento del suo sacro mandato, vedendosi aggredita con inaudita infamia dalla violenza delle armi regie nelle persone inviolabili de’ suoi componenti, ne’ quali è la sovrana rappresentanza della nazione, protesta in faccia alla nazione medesima, in faccia all’Italia, l’opera del cui provvidenziale risorgimento si vuol turbare con nefando eccesso, in faccia a tutta l’Europa civile, oggi ridesta allo spirito di libertà, contro questo atto di cieco ed incorreggibile dispotismo, e dichiara ch’essa non sospende le sue sedute, se non perché costretta dalla forza brutale; ma lungi di abbandonare l’adempimento de’ suoi solenni doveri, non la che sciogliersi momentaneamente per riunirsi di nuovo, dove ed appena potrà, affin di prendere quelle deliberazioni che sono reclamate da’ dritti del popolo, dalla gravità della situazione e da’ principi della conculcata umanità e dignità nazionale.»
Era appena terminalo quest’altro tracotante atto, allorché presentatosi nella sala di Montoliveto, alla testa d’undrappello di milizie, un uffiziale destinato ad intimare alla frazione esaltata de’ deputati ((10)) a disciogliersi ed a ritirarsi, che il più singolare spettacolo si offerse. Petruccelli il primo andò a nascondersi in una fogna, d’onde dopo alquante ore ne uscì travestito colla divisa di gendarme, che si aveva, non si sa come, procurata, ed alla quale dovette la sua salvezza. Ricciardi fuggì dalla parte del quartiere del treno con tale precauzione, che per sua buona sorte non fu riconosciuto affatto da chicchessia. E Lacecilia, che puranche trovavasi in Montoliveto, per avere vilmente abbandonato il suo battaglione sin dal cominciamento della pugna, quando si accorse del vicino pericolo, volendo fuggire con Ricciardi, tra il disonore e l’abbattimento, ebbe per colmo della misura a soffrire, che il deputato D. Stanislao Baracca , con tutta l’ira del cuore in questi brevi accenti il riprendesse: amico ne avete messo nel bal l o! Ebbene moriamo insieme, ma non fuggite.
Cessato sul far della sera, e dopo circa ott’ore, totalmente il conflitto, la truppa fu messa a serenare nelle piazze principali, tenendo scolte ne’ siti più o meno esposti; e quando già il più cupo silenzio succedeva allo strepito delle armi, quantità di popolani, girando per le vie alle grida di viva il Re, diedero a sospettare che sotto quell’apparente giubilo qualche reo disegno si covasse. Ma sia che le milizie si teneano vigili da per tutto, sia che la cosa fosse stata tutt’altra, il certo si fu che la tranquillità talmente si mantenne, che non si ebbe neanche a deplorare il più lieve sinistro.
Questi furono i fatti che avvennero al 15 maggio per una insurrezione, che preparata con tanta cura, e cominciata con tanta speranza, ebbe a finire con tanta meritata vergogna. La fazione fu valorosamente combattuta dalle milizie, poiché non saprebbesi, se fu più l’ardore o il furore con che si spinsero agli attacchi. Di esse perirono circa a 200, e forse altrettanti mancarono de’ sollevati. Vero è che vi furono pure altre vittime tra i non combattenti, ma non poteva la cosa andare altrimenti in una lotta di quella fatta.
A tali strette conducono le discordie civili e le improntitudini popolari, massime allorché vestono sembianze di libertà, perpetuo inganno de popoli.
CAPITOLO V
Condizione della capitale e delle provincia dopo la catastrofe del 15 maggio: si cangia il ministero; si scioglie la camera de’ deputati, e si stabilisce il giorno per le nuove elezioni: si scioglie altresì la guardia nazionale di Napoli, e vi si proclama lo stato di assedio: si richiamano le truppe spedile nell’Italia superiore, ed incidenti che vi succedono.
Vari furono i ragionamenti e le opinioni degli uomini intorno alla giornata del 15 maggio. Alcuni accusarono i deputati di soverchia intemperanza, e gli agitatori di tutti gli eccessi avvenuti; altri imputarono alle milizie atti di violenza e di atrocità; ma, i più impudenti, osarono sinanche di accagionare il Re di aver voluto provocare tutta quella catastrofe, per procurarsi l’opportunità di distruggere dalle fondamenta lo statuto da lui concesso per sole imperiose circostanze. Quel che però v’à di certo in tutto questo si è, che in un paese di recente passato a nuovo politico reggimento, in un paese costituzionale, non avrebbero dovuto mai gli eletti a deputati, pria che i loro poteri si fossero verificati, riunirsi in seduta preparatoria, e cominciare dal competere con quel principe che con estrema tolleranza aveva saggiato il calice amaro di tutte le improntitudini di una insolentissima fazione; e tanto meno pretendere che si giurasse ad un modo del tutto difforme, anzi sovversivo di quello statuto, che essi principalmente avevano obbligo di osservare. Che se poi a tutto questo si aggiunge la sempre biasimevole condotta serbata da quella guardia cittadina, che istituita unicamente a tutela della legalità e dell’ordine, sorgeva invereconda a difesa delle intemperanze di un consesso non peranche riconosciuto, dandosi a costruir barricate ed a fomentare il disordine da per tutto, agevolmente si comprenderanno le vere cagioni di quel deplorabile avvenimento.
Or se il Re avesse voluto per un momento solo avvantaggiarsi della rotta toccata agl’insorti e della repressione di un sovvertitore partito, chi mai poteva impedirgli di distruggere dal capo al fondo quello statuto, che altro non era divenuto nelle mani degli agitatori, che lo avevano sollecitato, se non il mezzo a menare il disordine da per tutto? Se per la vittoria compiuta riportata dalle milizie si avesse voluto almeno vendicare il sangue di tante innocenti vittime dell’avvenuta catastrofe, non sarebbe stato forse quello il momento di abbandonare a severa giustizia gli autori di quelle calamità, già in parte caduti in potere della pubblica forza? Ma nulla di lutto ciò immaginava in quel punto l’addolorato Sovrano il quale, mentre con una generosità senza pari tosto liberava la massa de’ colpevoli, dovea poi tra non molto da’ medesimi in tributo di gratitudine meritare il nome di Re bombardat re !
Velocemente passava ed in diversi ingannevoli aspetti, per quanto la malizia de’ più disperali demagoghi sapeva suggerire, la nuova del tristo avvenimento per tutte le provincie, talmente che gli agitatori vi prorompevano tosto in impeti strabocchevoli, e precipitose risoluzioni. La provincia di Salerno sopratutto , che il sedizioso Carducci aveva eccessivamente agitata, fu la prima a sollevarsi; perciocché in molti luoghi di essa le guardie nazionali, prese apertamente le armi, discacciate e conculcate le autorità che procuravano di ostare al disordine, si disposero a marciare verso la capitale, credendo di trovarvi presso che tutti disposti ad accoglierle.
Ma sia che si fosse dalle medesime penetrata l’attitudine presa dalle milizie, fatte già più ardenti per gli ottenuti vantaggi, sia che le misure adottate a prevenire qualunque ulteriore disordine si fossero dal governo con molta destrezza condotte, le apparecchiate masse di armati, quando già stavano per riunirsi tutte in Salerno ed in altri punti stabiliti, tra la difficoltà del successo e la trepidazione sopraggiunta, si disciolsero ad un tratto, rinunciando del tut toa qualsivoglia tentativo.
Intanto il Re determinato ad emettere pronte ed opportune provvisioni, affrettavasi a prescegliere un nuovo ministero, che pe’ suoi diversi, anzi opposti elementi di che si compose, viemaggiormente contribuì alla salvezza dello stato. Il principe di Cariati ottenne la presidenza e gli affari esteri: Bozzelli l’interno: il giudice D. Nicola Gigli grazia e giustizia: il maresciallo di campo principe d’Ischitella la guerra e marina: l’avvocato D. Francesco Paolo Ruggiero le finanze: il principe di Torella l’agricoltura e commercio, ed interinamente gli affari ecclesiastici; ed il brigadiere Carrascosa i lavori pubblici.
Un’ ordinanza del comandante della piazza di Napoli del giorno 16 maggio proclamava per la capitale lo stato d’assedio, ed un’altra pure dello stesso di, dichiarava sciolta la guardia nazionale di Napoli, prescrivendo a tutti gl’individui che la componevano, di consegnare fra tre giorni nella sala dell’arsenale tutte quelle armi che avevano ricevute dal governo. E per ultimo istiluivasi una commessrone temporanea per inquirere su tu tt ‘i reati commessi dal 1° di quel mese di maggio contro la sicurezza interna dello stato, e contro l’interesse pubblico.
La prima determinazione presa dal governo fu lo scioglimento della camera de’ deputati, causa principale dell’accaduto sconvolgimento, disponendo al tempo stesso la riunione de’ collegi elettorali pel 15 giugno, onde potessero le camere legislative aprirsi il 1° di luglio.
Un altro spediente, a cui prontamente si ricorse, valse non poco a consolidare la tranquillità minacciata da per tutto. Le truppe napoletane spedite per la campagna di Lombardia, abbenché non avessero ancora raggiunto il teatro della guerra, vi si erano però talmente avvicinate, che poco altro restava per entrarvi in azione. Ad oggetto adunque che quella improvvida spedizione, fomentata dal partito del disordine, e consentita nel solo fine di sottrarre lo stato dal gravissimo pericolo dell’agitazione universale, non sortisse più il suo effetto, spedivansi sollecitamente nella notte del 16 al 17 maggio alla volta dello stato pontificio il brigadiere Scala ed il capitano de Angelis dello stato maggiore, come latori delle istruzioni del governo, dirette tanto al generale Pepe, che al generale Statella, colle quali prescrivevasi l’immediato ritorno delle milizie nel regno, e la rimozione del generale Pepe dal supremo comando, quantevolte si fosse egli ricusato di obbedirvi. Giunti i due messi a Bologna, ove precisamente trovavasi il quartier generale dell’esercito napoletano, e partecipando tosto, pria al comandante in capo, e di poi al generale Statella le istruzioni ricevute, istarono perché, in vista dell’urgente bisogno che nel regno sentivasi di quelle milizie, si degnassero di emanare le opportune determinazioni.
Sollecitamente il generale Pepe manifestava a Statella con molta franchezza, come non convenendo a’ suoi conosciuti sentimenti di continuare punto nell’ottenuto comando, e di ritornare in conseguenza in Napoli per esser muto spettatore di quant’altro vi sarebbe accaduto, vedevasi obbligato di rassegnare a lui, (Statella) la condotta delle schiere, essendosi egli determinato a militare sotto le insegne piemontesi.
Cortesemente Statella rispondeva, che avrebbe tosto preso quel comando al quale veniva sollecitato, che gli ordini del Governo si sarebbero puntualmente eseguiti, e che in quanto a lui, riputavasi dolente soltanto a doversi dall’antico amico e compagno un’altra volta separare.
Stabilita la cosa in tal modo, il generale Statella spediva ordini a’ vari comandanti de’ corpi stanziati a Bologna, Ferrara, Cento ed altri luoghi, perché, in conformità della manifestata sovrana determinazione, si fossero tutti approntati ad un movimento retrogrado alla volta del regno. Ma non appena tali ordini propalavansi, che il generale Pepe, circondatosi, come per l’ordinario accadeva, di tutti i suoi più devoti dipendenti e de’ principali agitatori bolognesi, ed espostigli minutamente i casi di Napoli e le istruzioni ricevute, vi successe assai peggio di quello che nella sala di montoliveto avveniva nella notte dei 14 al 15 maggio. Mille ingiurie menate al Re; le più sinistre interpetrazioni a’ suoi atti, e progredendo in queste escandescenze, alla fine fu stabilito, che non dovesse il duce supremo abbandonare quella causa, dalla quale l’Italia tutta sperava la sua salvezza.
Presa questa nuova determinazione, il generale Pepe sicuro del solidissimo appoggio che gli era stato dato ad intendere, dopo po che ore recavasi dal generale Statella asignificargli, che richiedendo indispensabilmente la volontà delle milizie e l’onor nazionale di spingersi innanzi sul teatro della guerra, vedeasi egli obbligato a dover riprendere un’altra volta il comando. Colto all’improvviso il generale Statella, e benché stranissimo gli paresse quel linguaggio, tra la perplessità e l’agitazione rispose; esser prontissimo a tutto; ripigliasse esso generale (Pepe) a suo piacimento il comando; in quanto a lui (Statella) disponesse come meglio credesse, purché le sue veci tenesse nel corpo d’armata.
Ma sia che Pepe avesse sempre tenuto in sospetto il generale Statella, sia che i suoi partigiani lo avessero consigliato a disfarsene, osservato ch’ebbe con alquanta freddezza, come i suoi poteri non permettessero di fare ciò che nel suo cuore sentisse, cercò all’istante troncare ogni altra discussione al proposito. Comprese il generale Statella, sebbene un Po tardi, la trista posizione nella quale volontariamente trovavasi. ridotto, né volendo più oltre esporsi a’ pericoli che il minacciavano dappresso, dopo qualche giorno, lasciato il quartier generale di Bologna, in tutta fretta determinossi a partire alla volta di Livorno onde aver meglio l’opportunità di condursi sicuro in Napoli.
Ripigliatosi adunque indebitamente il comando dal generale Pepe, non può supporsi quanta esultanza i bolognesi ne mostrassero. A prima sera numerosa moltitudine raccoltasi sotto la sua dimora, felici t avalo con mille evviva. Più tardi l’intera guardia nazionale, in segno di gratitudine e di rispetto, ed in mezzo a numeroso popolo, marciava sotto le sue finestre; e tutto il resto della notte una generale luminaria ed uno straordinario movimento popolare mantenevano assai viva quella cieca esultanza.
Non al modo stesso però procedevano le milizie napoletane, le quali scorgendo apertamente negli atti di Pepe una manifesta opposizione agli ordini ricevuti, formalmente dichiaravano a’ loro capi di voler ubbidire soltanto, come era loro debito, alle determinazioni del Re. Seppe tosto il generale tutto questo, e dubitando che il trattenersi più oltre, le difficoltà complicasse, varcato sollecitamente il Po, col suo stato maggiore, una batteria d’artiglieria, una compagnia di zappatori, un battaglione di cacciatori e due di volontari crociati, e stabilito il suo quartier generale a Rovigo, a 10 giugno faceva pubblicare il seguente ordine del giorno.
Il sig. maggiore Ritucci domani all’alba passerà il Po, e si porterà in questo quartier generale. Domani alle due antemeridiane il sig. colonnello Cutrofiano col 1° dragone si metterà in marcia per Ferrara, dove pernotterà. Il di seguente passerà il Po a Francolino, proseguendo in detto giorno la marcia fino a questo quartier generale. Sul far del giorno di domani il sig. colonnello Colonna si recherà a Bonteno: al dì susseguente si porrà in marcia per passare il Po a Polontone, ed andrà a pernottare ad Occhiobello. La mattina del 13 lascerà Occhiobello, e prima di sera sarà a questo quartier generale. Il sig. maggiore Giosuè Guida col 2° battaglione dell’11° di linea, da Cento, ove trovasi, si porrà in marcia, tenendo la via di Mizzano: la mattina del 13 assai per tempo passerà il Po a Francolino, per essere sulla sera a questo quartier generale. Il sig. brigadiere Klein, col 9° di linea ed il primo battaglione dell’8°, domani alle sette pomeridiane si recherà a Bondeno, dove pernotterà. Alle due del 13 passerà il Po a Polontone, e proseguirà la marcia sino ad Occhiobello. Il dì 14 riprenderà il movimento per giungere la sera di detto giorno a Rovigo. Il 2° e 3° battaglione de’ volontari, la 2( a) batteria di artiglieria, e la 6( a) compagnia de’ zappatori ànno già varcato il Po, e fin da ieri trovansi in questo quartiere generale».
«Sarebbe difficile il dire, se fu maggiore il pronto entusiasmo di queste truppe nello spingersi avanti, ovvero le fratellevoli esultanze concu i furono accolte dagli abitanti e dalle milizie di Milano e di Bologna.»
«I militari di ogni grado sono nello stretto dovere di ubbidire a’ loro generali sotto pena di essere dichiarati in istato di rivolta. Un generale in capo à il dritto di modificare sulla sua responsabilità gli ordini che riceve dal suo governo, sopratutto allorché modificandoli à per iscopo l’onore nazionale e gli alti interessi del Re. Chiamo quindi responsabile dell’esatta esecuzione de’ movimenti comandati in quest’ordine del giorno , i sotto uffiziali, gli uffiziali di ogni classe, e particolarmente i capi de’ corpi, che mancando comprometterebbero vita ed onore.»
«Di la del Po il corpo di armata abbonderà di provvisioni di ogni sorte, e la cassa sarà fornita e dal nostro governo, e da quei di Lombardia e della Venezia, avendomi questi inviato i commissari a tale oggetto».
«Quattro recenti vittorie del Re Sardo sugli austriaci, e le lodi che ànno meritato il nostro 10° di linea ed il 1° battaglione di volontari pel loro valore, invogliar debbono ogni militare napoletano di trovarsi a fronte del nemico prima che termini la campagna colla immancabile vittoria italiana.»
Ed a render poi più efficaci gli effetti che da tale ordine del giorno il generale Pepe si attendeva, nello stesso di 10 giugno scriveva dal suo quartier generale di Rovigo in questi termini al brigadiere Klein, che aveva preso il comando della 2’ divisione in luogo del brigadiere Nicoletti, quando la squadra napoletana, ad evitare i pericoli della crociera de’ legni da guerra austriaci, disbarcava le truppe a Pescara ((11)).
«Riceverete unitamente a questo foglio vari esemplari dell’ ordine del giorno stampati, e colla mia firma in istampa ed in iscritto.»
«Se qualche uffiziale osasse farvi osservazioni, risponderete, che i frati ragionano, ed il soldato ubbidisce, che l’onore de’ ricalcitranti sarà macchiato per sempre, che se questo ministero pur troppo cadente li assolvesse, sarebbero condannati da un altro e dalle camere, che infine sarebbero combattuti dalle popolazioni pontificie, che furono rimproverate dal loro governo per non avere assaltati i disertori di Ferrara ad onta che quelli avessero una batteria».
Ricevutesi queste istruzioni dal brigadiere Klein, radunati in consiglio i comandanti de’ corpi, ed inteso il loro avviso per quella gravissima emergenza, formava un ordine del giorno in questi sensi:
«Soldati Tutti conoscete il nobile scopo che sin qui vi spingeva, e tutti gareggiavate di zelo per la santa causa, ma quello che più vi distingueva era la vostra condotta e la disciplina che questi fratelli italiani tanto elogiavano, ed eravi intanto chi credeva farne mestiere, vendendovi a tutt’altro stato come mercenaria gente ed avventuriera, è questi l’indegno a cui era stato affidato il sacro deposito dell’onor nazionale, della vostra condotta, l’ex tenentege n erale Guglielmo Pepe, il quale dichiaratosi in aperta ribellione col nostro governo, minacciando e vilipendendo nella di lui scritta a noi diretta il nostro ministero, èdecaduto dal comando che io assumo, perché il più graduato in queste truppe, e dichiaro come tutti voi, che ad una voce sola ripetete, ubbidienza intera al nostro Re costituzionale ed al suo governo che ci richiama ne’ propri stati.»
«Chiunque osasse allontanarsi dalle bandiere, da questa divisione e dal proprio posto, sarà considerato come disertore al nemico. Raccomando a tutti la esemplarità della disciplina, ed il pronto e cieco adempimento agli ordini superiori.»
«Il capitano Tiscar eserciterà le funzioni di commessario di guerra della divisione. Il tenente Armenio partirà per Cento, onde incaricarsi della riunione delle truppe colà, piazzandosi militarmente tra la Pieve e Cento, stabilire la situazione della forza, provvedersi degli animali da trasporto, de’ foraggi per gli animali, del pane per la truppa e di tutt’altro che potrà occorrere, avendo a se gli uffiziali dello stato maggiore delli Franci e Guillamat. Domani il mio quartier generale sarà in Cento, ove sarà tutta riunita la divisione».
Datosi adunque per tal modo vieppiù la spinta alle milizie a rientrare nel regno, cominciatosi immantinenti il loro movimento retrogrado, falliti ad un tratto tutt’i disegni di Pepe, dopo di aversi con molta destrezza appropriata la cassa militare, preso sollecitamente la volta di Venezia, con tutti quelli che lo avevano seguilo al quartier generale di Rovigo, vi faceva pubblicare questa solenne dichiarazione:
Agli italiani, e particolarmente alla popolazione di Bologna, in segno di gratitudine che ad essa porlo.
«Reduce in patria, dopo ventisette anni di esilio che per me non fu il primo, mi si offrì la presidenza di un ministero di mia scelta coportafogli di guerra e marina; ma il principe non aderendo al mio programma, tendente ad allargare la costituzione, accettai il comando in capo del corpo di armata destinato a combattere lo straniero.»
«La indipendenza d’Italia ed il desiderio di far brillare su’ campi di battaglia il valore de’ napoletani, che tanto sangue sparsero per la libertà, furono sempre il sospiro della mia vita. Mi accinsi quindi a vincere le innumerevoli difficoltà con cui si cercava di ritardare la spedizione. Feci anche decidere dal ministero che con parte delle truppe, sarei immediatamente sbarcato a Venezia; ma con subitaneo mutamento mi venne impedito di porre in atto quel salutare disegno, e le istruzioni che mi si dettero furono di aspettare nuovi ordini tra Bologna e Ferrara. Nondimeno, appena vidi riunito il maggior numero della truppa scrissi a S. M. sarda che avrei prontamente continuata la marcia per le provincie venete, senza punto attendere gli ordini da Napoli. Alla vigilia di eseguirla, il ministero napoletano del 15 maggio, giorno di terribile ricordanza, mi spedì un generale con ordine, non già di avvanzare contro gli austriaci, ma di ricondurre al regno l’esercito del quale si sarebbe servito poi a combattere i difensori della camera de’ deputati. E siccome i ministri non ignoravano qual fosse il mio animo, diedero allo stesso generale il carico di far retrocedere le truppe non ancor giunte a Bologna, e di esortare gli uffiziali e sott’uffiziali dello intero corpo a voce e per iscritto a non seguire il generale in capo qualora ricusasse di ritirarsi sotto pena di essere considerati quali avventurieri e proscritti della loro patria, perdendo così la loro carriera, ed abbandonando nella miseria le mogli ed i figli. A dispetto di tanta perfidia ordinai, che la prima divisione valicasse il Po il 26 maggio; ma le seduzioni produssero i loro tristissimi effetti, ed ognuno conosce come le due brigate progredite fino a Ferrara, ricusando di obbedire a’ l oro capi, retrocedessero verso Rimini, dove si faceva loro sperare che la flottiglia napoletana li prenderebbe e trasporterebbe in Napoli. Vari uffiziali fedeli all’onore non seguirono gli ammutinati ; il colonnello Lahalle che comandava la. 2( a) brigata, forzato ad accompagnarla, anteponendo generosamente al disonore la morte, troncò con proprie mani quella vita che non doveva più servire per la italiana indipendenza. Il colonnello Resta per la grave angoscia fu colpito da apoplesia. Questi orridi casi non bastarono a vincere il mio fermo proposito, di porgere aiuti alla causa comune, e disposi che il 30 maggio il colonnello del 1° dragoni, seguito dal suo reggimento e da tre battaglioni varcasse il Po presso la Stradella, e che le altre truppe lo varcassero il giorno seguente. Allora i capi de’ reggimenti dichiararono, che essendo ormai noto a tutti gli uffiziali e soldati che io operava contro la volontà del Re, si esporrebbero a rinnovare le tristi scene della prima divisione di Ferrara. Cedendo per tanto alla forza della necessità, nella speranza di giovare alla guerra italica, attesi la risposta del governo napoletano. Ma questo, benché fosse da più giorni passato il tempo indispensabile a dare una pronta risposta, serbava con insigna malafede un artificioso silenzio. Frattanto gli avvenimenti incalzandosi sul Veneto, i comitati di guerra di Venezia, di Rovigo, di Padova invocavano in aiuto della nostra santa causa le forze a me rimaste. Sempre Italiano, mi determinai a varcare subito il Po, e diedi a tal uopo ordini precisi. In moltissimi uffiziali prevalsero alle abitudini servili i sentimenti di onore militare; e ne diedero bellissimo esempio. Quelli della batteria di artiglieria, e della compagnia di zappatori, i quali pregevoli tutti e comandali dall’ottimo maggiore Murena, immediatamente passarono in compagnia di due battaglioni di volontari. Il maggiore Ritucci poi, che son lieto di chiamare della mia scuola, essendo stato egli antico mio subordinato, giunto alla sponda del fiume pronunziò queste nobili parole: di la è l’onore; di quà il disonore: ed i soldati lo varcarono. Fui seguito da tutti gli uffiziali del mio stato maggiore, e raggiunto da parecchi uffiziali e da qualche distaccamento. La divisione di fanteria e quella di cavalleria tanto applaudita dal patriottismo Bolognese, ne abbandonarono. Deluse cosi le mie speranze di accorrere in aiuto della causa d’Italia, e di porre in fiore la gloria militare napoletana, pensai di offrirmi qual semplice volontario al re Carlo Alberto. Ma chiamato colle poche truppe rimastemi a soccorrere Venezia, il suo governo mi affidò il comando delle forze in essa raccolte, ed il cardinale legato di Ferrara, a nome della consulta da lui preseduta, desiderò che assumessi quello delle forze pontificie sulla sinistra del Po. Troppo discorderebbe dal mio animo e dalla mia vita il ricusare di adoperarmi in servizio della italiana indipendenza. Accettai dunque i comandi conferitimi. Possa allo zelo corrispondere la riuscita. Possa la fortuna non mostrarsi avversa. Non è in poter suo lo scemare quell’amore per l’Italia, che qualunque io mi sia, mi è stato decoro, e nella sventura conforto.»
Cosi rapidamente spariva un’altra volta, dall’orizzonte politico delle due Sicilie, il generale D. Guglielmo Pepe, impegnatosi in una lotta, di cui anche brevissima esser ne dovea la durata.
Intanto le milizie cominciavano a volgere pel regno i loro passi, e sol con attitudine severa ed imponente riuscivano pienamente a rimuovere immensi ostacoli, che gli agitatori romagnoli, fomentati dagli esaltati napoletani recatisi a bella posta tra loro, si erano sforzati a preparare.
A questo modo adunque rimpatriava quel corpo d’esercito che per iscaltrezza di un’ardente fazione, onde poter sempre dominare, si era fatto, sotto il pretesto di una vagheggiata indipendenza, dal proprio stato allontanare. Gli onesti cittadini ne gioirono, i malvagi se ne dispiacquero, ed il regno fu salvato da novelle sciagure che la perfidia degli anarchisti vi aveva apparecchiate.
CAPITOLO XVI
Ribellione delle Calabrie; spedizione di truppe accenni del generale Nunziante per comprimerla: dichiarazioni che vi succedono: altra spedizione in due colonne, runa comandata dal brigadiere Busacca, l’altra dal brigadiere Lanza: la sollevazione si accresce per l’apparizione di alcunebande di siciliani guida t e da Ribotti: misure prese dal governo; disposizioni che adottano i sollevati.
Non tralasciavano gli agitatori di sempre più eccitare alla ribellione ed alla guerra civile tutte le provincie del regno, perciocché non solo in parecchi paesi crasi a viva forza disarmata la gendarmeria, ma in molti altri ancora, nelle Calabrie specialmente, essi, esasperati dal risultamento della lotta del 15 maggio, alle esortazioni ardenti, avevano aggiunto minacce precipitose per far correre i popoli alla libertà, abbattendo la monarchia.
A riparare efficacemente a tanto male, il governo aprimi di giugno vi spediva per via di mare quattro battaglioni di fanti, in tutto tremila uomini, sotto la condotta del generale Nunziante, i quali sbarcati alla marina del Pizzo, movevano sollecitamente alla volta di Monteleone, divisato quartier generale. Era desiderio del governo, che pria di venire all’estremo rimedio delle armi si usasse ogni mezzo per chiamare al ravvedimento ed alla concordia le smarrite popolazioni. Epperò il generale affrettavasi a dar fuori la seguente proclamazione:
«Cittadini.»
«Una colonna mobile di operazioni, composta di truppe nazionali sotto il mio comando, giunge nelle Calabrie d’ordine del Re e del governo per mostrarsi ove sarà d’uopo. Il suo scopo è di rassicurare gli animi de’ buoni e pacifici abitanti, di raffermare e coadiuvare il potere delle autorità civili, e per la esecuzione delle leggi. Non porgete orecchio alle false voci allarmanti, alle suggestioni pericolose di mal’intenzionati, né prestate fede alle mostruose menzogne che di concerto spargono certi giornali frivoli e sovvertitori sugli avvenimenti ultimi della capitale, e sullo stato attuale delle cose. La Dio mercé tutto è rientrato nell’ordine e nella calma: le prave intenzioni de’ tristi furono deluse, i loro tentativi abbattuti: la mano della Provvidenza salvando la capitale dal disordine e dall’anarchia, salvò il regno intero. Possa essa far rientrare in se stessi tutti i traviati se ancor ve ne sono, ove non sU stato sufficiente a farlo il magnanimo procedere del Sovrano, che per le illegalità commesse e tentate, ritrar potea quanto avea concesso, nel momento in cui per la forza delle armi il buon ordine erasi ristabilito.»
«Io renderò pronto ed esatto conto al Re ed al governo de’ risultati della mia missione, paratamente encomiando que’ paesi, i cui abitanti, e sopra t utto la guardia nazionale si saran mostrati benevoli alla truppa, e d’accordo con essa sostenitori dell’ordine e della legge. I soldati, credetelo, bramano mostrarsi a voi veri fratelli, e uniti alla maggioranza, che è per certo de’ buoni e leali, mantenere il giuramento dato al Re ed alla costituzione: e quando si trovassero oppositori a sì retti sentimenti, tenete per fermo che useranno della forza solo per farsi rispettare e per guarentire l’ordine pubblico.»
«Calabresi! Nelle vostre provincie taluni scaltri sediziosi sotto ipocrita apparenza d’amor patrio, usando smodata ambizione o mire di privato interesse, cercarono per lo passato e fin’ora guadagnar lo spirito di ardenti giovani inconsiderati per servirsene di strumento a sovvertire a poco a poco lo spirito dell’universale, mentre a taluni di essi che il dimenticava, il Sovrano era stato prodigo più volte di grandi non meritati benefizi. Costoro, pe’ loro fini, si piacquero spargere sul mio conto voci e scritti bugiardi, cui io mi affrettai opporre tali giustificazioni al pubblico, che avrian dovuto bastare a smascherarli ed illuminarli. Colgo il destro del mio ritorno fra voi per ripetere che oltre alle tante false imputazioni, mi vollero far carico esagerandole delle conseguenze di avvenimenti, la cui storia è troppo nota, e nei quali io mi limitai alla stretta esecuzione degli ordini del governo, come era mio dovere, pel giuramento che allora mi ligava. Ciò nondimeno per fino la memoria di tali antecedenti io ò cancellata dal mio pensiero: e se voi vorrete rammentare che io mi pregio aver passati gli anni della mia infanzia in questi luoghi, e che mio padre resse con alti poteri ed in tempi assai difficili queste provincie, lasciandovi un nome abbastanza riverito, arguirete da ciò se mai ò io voluto volerne il danno, e se leale è la protesta che ora vi fo di sempre procurarne il vantaggio, ove il possa senza mancare al mio dovere ed all’onore» Queste esortazioni del generale, tendenti a liberare dalla guerra civile le insidiate Calabrie, non partorirono alcun effetto; perciocché convenendo ad alcuni audaci e perversi, sia per signoreggiare, sia per arricchirsi, di mantenervi il fermento e di suscitarvi l’anarchia, facevansi sotto il nome dell’universale a pubblicare la seguente risposta:
«Signor generale.»
«Dopo i tremendi fatti avveratisi in Napoli nella metà dello spirato maggio, non era punto a sorprendersi il vedere una colonna mobile di truppe nazionali sbarcare sul nostro calabro suolo . Quel che sorprende si è il vedersi annunciare, che questa truppa nazionale comandata da lei, signor generale, viene a sostenere la conservazione dello statuto costituzionale del 29 gennaio, giurato a 24 febbraio.»
«Signor generale, bando una volta alle inutili ciance , ed alle vane promesse: fiori seducenti che nascondono l’aspide infido, il suo polente veleno: ora si presta fede ai fatti, non alle vuote parole. Fra noi lo statuto costituzionale per conservarsi non à d’uopo della punta delle baionette, o della bocca de’ cannoni; questo apparato di guerra mal si addice ad una missione di pace, e i fratellevoli sentimenti che si sforza a voler esprimere la di lei proclamazione de’ 7 stante mese, non troppo bene possono essere ascoltati tra il frastuono delle trombe e de’ tamburi soldateschi.»
«Dolorosa esperienza ci addottrinò a qual metà conducono mezzi siffatti: il 15 maggio fu una scuola di sangue, ma in pari tempo una scuola che svolse ogni ambage, e svelò ogni mistero.»
«Ella conosce quei fatti che a noi non sono punto ignoti; inutile è quindi tenerne proposito. Inutile però non è signor generale, che ella ed il mondo tutto sappia aver noi imbrandite le armi a sostegno delle nostre libertà costituzionali violentemente attaccate, ed in massima parte distrutte, non già perché spinte da false voci allarmanti, da suggestioni pericolose de’ mali intenzionati, o da mostruose menzogne sparse da frivoli giornali; ma sibbene per aver veduto la sacra e rispettabile rappresentanza nazionale minacciata ne’ suoi membri, e disciolta col mezzo della forza brutale; per aver veduto il sangue cittadino sparso, e le proprietà cittadine saccheggiate, incendiate, distrutte da quelle mani medesime che avean giurato difenderle; per aver veduto pubblicamente premiati gli strumenti di tali opere nefande; per aver veduto infine, che questi strumenti stessi si preparavano a venire, ed ora son venuti a sostenere lo statuto costituzionale del 29 gennaio.»
«Ne’ petti calabresi non tacque, non tace, ne tacerà mai il sentimento di attaccamento alle franchigie costituzionali, all’ordine pubblico; questo non venne mai turbato nelle Calabrie, né a sostenere quelle vi à d’uopo di altre armi, che calabresi non siano. Se ella signor generale à veramente a cuore la tranquillità ed il benessere di questo suolo, ove par che si compiaccia aver passalo la sua infanzia, senza fermarsi a considerazioni personali, che or son coperte da un velo, ne à nelle mani facilissimo il mezzo. Ritorni la colonna mobile alle stanze d’onde mosse per qui: si assicuri il mantenimento della legge costituzionale de’ 10 febbraio corrente anno sulle basi dichiarate col programma del ministero Trova. Si richiami all’alte sue funzioni quella camera de’ deputati, in onta alle franchigie costituzionali, con tanta brutalità minacciala e sperperata.»
«Come ella ben vede, dritto e ragione sostengono si regolari domande: la legge del 10 febbraio fu accordata dal re, il programma Trova fu l’opra de’ suoi ministri, e la camera dei deputati fu eletta e convocossi in esecuzionedi apposite disposizioni. Il rinvio immediato della colonna mobile, è l’unica guarentigia e l’unica pruova che ella potrà dare della sincerità delle sue intenzioni, della lealtà delle sue parole. Si allontanino le armi, e le armi cadranno in pari tempo dalle nostre mani. Ma fino a tanto che il soldato minaccioso calpesterà la nostra terra; fino a tanto che in guerresco apparato pretenderà di percorrerla; fino a tanto che si vorrà tenere il linguaggio dell’agnello, mostrando le zanne e le unghie del leone; le armi de’ calabresi ferme rimarranno nelle di loro mani, i loro petti a prezzo della propria vita manterranno que’ sacri dritti che solenni giuramenti li guarentiscono; la forza si respingerà colla forza, il sangue si pagherà col sangue, e la giustizia del Dio degli eserciti deciderà l’aspra lite fra gli spergiuri e gli oppressi».
A tale vituperio ed a tanta indegnità una sola risposta era da farsi, quella di ricorrere sollecitamente alle armi per vedere ciò che volessero i cieli difinire. Ma neppur questo faceva il prudente generale, che volendo dare un’altra pruova del suo animo inclinato alla pace, bandiva quest’altra dichiarazione;
«Cittadini.»
«I fatti àn reso evidente la lealtà di quanto io vi esprimeva col mio proclama del 7 di questo mese. Ma con dolore veggo che l’audacia de’ pochi tristi si spinge sempr e ppiù ad azioni deplorabili ed aumentano con avventurate minacce la perplessità di tutti i buoni».
«Prima di usar la forza, come il dovere mi detta, alzerò di nuovo la voce, non rispondendo al certo a ciò che si è scritto in Cosenza, dove si dovrebbe comprendere, che di tutte le monotonie la più nauseosa è quella di ripetere con sempre fresca impudenza le più assurde calun nie; né potrò sperare che tre o quattro, che falsamente credono non poter per i loro delitti contare su l’inesauribile clemenza del Re (N. S.) mettan senno.»
«Ma ò fiducia che si ra vv edan tutti gli altri che o per momentaneo predominio di passione, e passaggiero ottenebramento d’intelligenza, o per mire private, ripetono la menzogna di esser lesa quella costituzione, alla quale essi si stanno con tutt’i modi opponendo.»
«La libertà non può sussistere senza la ragione. La follia e la libertà non si trovano mai insieme. Comandante di truppe nazionali per sostenere la costituzione che abbiam giurata, io non posso, né debbo al certo entrare in discussione su i futili pretesti con i quali i rivoltosi cercano ricovrire le loro inconcepibili azioni. Ma solo pregherò dirmi con quanta buona fede si è stampato in Catanzaro che si allontanino le armi, e le armi cadranno dalle loro mani? Come se prima di venire le truppe, non solo non si fosse procurato colà di emanciparsi in tutto dal governo costituzionale, e usando le maggiori minacce, non si fosse mandato (inutilmente per altro nella maggior parte) eccitando i paesi alla rivolta, e non si fosse col fatto riunita, adoprando il terrore, molta gente per sostenersi colle anni».
«Per quanto si aggiunge che io usi il linguaggio dell’agnello mostrando le zanne del leone, è ben chiaro che il real governo è forte, assai forte, ed à dovere di essere eminentemente forte; e prima di dimostrarlo io con falli a’ rivoltosi, possan le replicate mie premure, e i miei voti esser da loro sentiti, col rientrare senza ulteriore ritardo nell’ordine, e per godere della giurata costituzione.»
Vani puranchc tornarono questi ultimi tentativi di conciliazione; e quindi fu d’uopo assolutamente far ricorso alle armi.
In tal frattempo era giunto in Cosenza D. Giuseppe Ricciardi, il deputato agitatore della sala di montoliveto, e mille grida di giubilo aveano salutato il suo arrivo. Alcuni deputati di quella provincia, esaltali al par di lui, si erano con esso collegati, ed avéano stabilito, sotto la sua presidenza, un governo provvisorio, mediante la seguente deliberazione:
«I deputati qui sottoscritti, attesa la protesta fatta dal parlamento ai 15 maggio; atteso l’urgente bisogno di tutelare la libertà nazionale contro un governo violatore aperto dello statuto fondamentale, oltre l’invito solenne fatto a’ loro colleghi di convenire in Cosenza al 15 stante, (giugno) ànno risoluto di riunirsi in Cosenza nel palazzo dell’intendenza in comitato permanente di pubblica salute . A viemeglio accertare il trionfo della pubblica causa, ànno deliberato di chiamare intorno a loro i cit ladini più riputati.»
«Il comitato infrascritto à in mente di non allontanarsi in veruna guisa dalle massime contenute nella protesta summentovata; intende cioè sostenere con tutte le forze in poter suo i dritti del parlamento e del popolo. Non proclama egli dunque veruna forma di governo, né vuole antivenire menomamente le risoluzioni dell’assemblea nazionale, a cui solo spetterà il profferire sentenza intorno alle pubbliche cose.»
«Il comitato di pubblica salute, desiderando operare alla faccia del sole, darà fuori ogni giorno i processi verbali delle sue operazioni, e comincia da oggi a fare di pubblico dritto le deliberazioni prese finora.»
E dopo ciò presceltosi a comméssario del potere esecutivo D. Raffaele Valentino, colle funzioni d’intendente della provincia, il primo allo del comitato medesimo fu la seguente proclamazione diretta agli abitanti tutti del regno.
«Gli enormi fatti, di Napoli de’ 15 maggio, e gli atti distruttivi al tutto della costituzione che loro tennero dietro, anno rotto ogni patto fra il principe ed il popolo. Epperò noi vostri rappresentanti fattici capi del movimento delle Calabrie, afforza t i dallo spontaneo soccorso de’ nostri generosi fratelli della Sicilia, incuorati dall’unanime grido d’indignazione e di sdegno levatosi contro il pessimo dei governi, non che nelle altre provincie, in Italia tutta, dichiariamo quanto segue, certissimi di essere interpetri fidi del pubblico voto.»
«Memori della solenne promessa fatta dal parlamento colla sua nobile protesta de’ 15 maggio, di riunirsi nuovamente non così tosto gli fosse stato concesso, crediamo debito nostro lo invitare i nostri colleghi a convenire nel 15 giugno in Cosenza, onde riprendere le deliberazioni interrotte in Napoli dalla forza brutale, e tutelare sotto l’egida dell’assemblea nazionale i sacri dritti del popolo napoletano.»
«Mandatari della. nazione chiamiamo intorno a noi ed invochiamo a sostegno della libertà nazionale la fede e lo zelo delle milizie civili, le quali nel sostenere in modo efficace la santa causa, a tutelare la quale siamo stati forzali a ricorrere alla suprema ragione delle armi, sapranno mantenere la sicurezza de’ cittadini ed il rispetto alle proprietà, senza cui non può esservi libertà vera» Dietro questo atto cotanto sovversivo, seguito da analoghe disposizioni per un generale armamento, quel comitato avea prescritto, che una colonna mobile di mille uomini, colla mercede di grana 25 per ognuno, occupasse, sotto il comando di Pietro Mileti la montagna di Paola, e che un’altra colonna mobile dello stesso numero, e col medesimo trattamento, all’ordine di Saverio Altimari, si stabilisse in Cosenza. Al tempo stesso per degli espressi erasi avvertito il commessario del potere esecutivo in Messina delle novità succedute in Calabria, premurandolo di sollecitamente quivi spedire armali ed artiglierie a sostegno della comune causa. E per ultimo si era stabilito il modo come armonizzare prontamente le operazioni colle altre due provincie di Calabria, e con quelle di Salerno e Basilicata.
In questo stato di cose, il governo affrettavasi a spedire nelle Calabrie due altre colonne, l’una per la via di mare, comandata dal brigadiere Busacca, l’altra per terra agli ordini del brigadiere Lanza, colle istruzioni di riunirsi nel giorno 26 giugno presso Castrovillari, debellare la insurrezione nella provincia di Cosenza, raggiungere la colonna di Nunziante, e così insieme ricondurre la tranquillità da per tutto.
La colonna Busacca, composta da un battaglione del 2° di linea, quattro compagnie del 4°, altrettante del 13°, del 5° battaglione cacciatore e di una sezione di artiglieria da montagna, verso la mezza notte del 9 al 10 giugno, sopra tre piroscafi e di altrettanti brigantini, moveva dal porto di Napoli, e pria che il sole sparisse dall’orizzonte nel giorno 10, disbarcava senza ostacolo in Sapri. Presa nel giorno appresso la volta di Lauria, e di la proseguendo per Castelluccio, fermavasi nel giorno 14 presso Rotonda.
La colonna Lanza, composta dal 1° battaglione cacciatore, da alcune frazioni del 3°, da tre squadroni di carabinieri a cavallo, da un altro del 3° dragone e da due pezzi da campagna, a 17 giugno a marce forzate muoveva da Nocera, e per evitare agguati, sempre di giorno pro cedeva. Varcava tranquillamente gli arrischiati passaggi dello Scorzo e del ponte di Campestrini, appositamente custoditi dal maggiore delle guardie nazionali del distretto di Sala D. Vincenzo Palmieri, il quale rispondendo co’ fatti alla fiducia che in lui riposta aveva il governo, animoso con alquanti suoi dipendenti, abilmente vi teneva sgomentati e lontani gl’insorti.
Approssimandosi questa seconda colonna alle Calabrie, il comandante facevavi circolare la seguente proclamazione:
«Cittadini»
«Io vengo tra voi non per far spargere sangue fratricida, ma per rimettere quella pace e quell’ordine che tutt’i buoni desiderano.»
«Disingannatevi, i pochi disturbatori dell’ordine, per particolari vantaggi, colle loro menzogne vi arrecano l’anarchia con le sue fatali conseguenze cioè la invasione della proprietà degli agiati, la distruzione delle famiglie e la miseria del popolano.»
«Nati in questa parte del più bel suolo d’Italia, noi siamo tutti fratelli, abbracciamoci.»
«Col ritorno dell’ordine, godremo della libertà che il costituzionale statuto indistintamente ci dà, unitamente al possesso pacifico della divisione de’ fondi demaniali, già sanzionato dal Re, col giusto compenso pe’ proprietari di essi.»
«Cittadini. La mia missione è di pace. Le istruzioni non sono ostili. Sparso adunque non sarà il sangue fraterno.»
«Coll’usar riguardo, anche agli stessi traviati, rimetterassi l’ordine in sostegno di quella costituzione che il Re, i militari ed il popolo tutto ànno d’innanzi a Dio giurato, e così saremo felici»
Ma dovendo le due colonne congiungersi nel giorno stabilito presso Castrovillari, e quindi essere obbligate a traversare terreni di difficile accesso che gl’insorti preparavansi ad occupare, torna utile, per la intelligenza di chi legge, di dare un’idea per quanto più esatta si possa di quei si t i.
A 124 miglia da Napoli, sulla consolare delle Calabrie, e fra il limitare delle due provincie di Basilicata e di Cosenza, giacesi a mezza costa de’ monti il paese Rotonda, d’onde per erta salita si perviene nella elevata valle di S. Martino. Percorsa che siasi questa per circa tre miglia, sempre aspramente montando, giungesi a Campotenese, che messo sul nodo degli appennini, è un vasto bacino lungo forse più di tre miglia, circondalo dalle vette de’ più alti monti. Scavalcata la gola opposta, sviluppandosi il cammino con ripide pendenze, si giunge nell’ampio bacino di Castrovillari, ove il primo paese che incontrasi è Morano. Di qui volgendo a manca, dopo quattro miglia all’incirca, alle falde del monte pollino, Castrovillari si trova.
Allo approssimarsi delle regie truppe, il comitato di Cosenza disponeva, che una colonna di circa a mille guardie nazionali, sotto il comando di un Francesco de Simone, si recasse subito in Castrovillari; nominava un Muzio Pace ed un Domenico Mauro ad alti commessari, con pieni poteri in quel distretto, ed inviava un Benedetto Mussolino, anche col carattere di alto commissario, presso il campo di Maida, ove gl’insorti della provincia di Catanzaro avevano fissato il di loro quartier generale.
Mentre in tal modo la guerra civile nelle Calabrie si accendeva, maggior fomento vi aggiunse l’arrivo di 600 siciliani, che sbarcati nella marina di Paola nella notte del 13 giugno, sotto la condotta d’Ignazio Ribotti, tostamenteavviavànsi alla volta di Cosenza. Guidavano quella massa non solo due felloni uffiziali di artiglieria napoletana (Giacomo Longo e Mariano delli Franci, col grado di colonnelli), ma altresì Costabile Carducci e Petruccelli ; e non appena giungevano in quel capoluogo, che il condottiere Ribotti vi pubblicava questa dichiarazione:
«Militi calabro siculi.»
«Eccoci alla fine riuniti sotto uno stesso vessillo, noi vendicatori di tanti oltraggi sì a lungo e barbaramente sofferti, noi propugnatori del più sacro dritto dell’uomo, la libertà!.»
«Mentre il settentrione dell’Italia è tutto in armi per fugarne il comune oppressore, l’empio che s’intitola nostro monarca, e che à educato l’anima ed il cuore a tutte le nefandezze di che l’oligarchico gabinetto austriaco è stato fucina, cercò, ed ancor cerca in queste parti d’Italia più meridionali di porgere aiuto a quella stessa causa che ora, sia lode all’italico valore, è sul suo morire.»
«Se non che le arti infernali del Borbone superarono di gran lunga i dettami di quella iniqua scuola del dispotismo. Ad illudervi, disse di concorrere alla santa crociata in Italia, e porse armati con perfida ostentazione, ordinando a’ suoi capi la lentezza nelle marce, mentre nascostamente porgeva oro e mezzi all’Austria, e insieme, co’ sostenitori della tirannide, ordiva a rendere Ancona un ammasso di rovina. A farvi odiare la Sicilia ed i suoi figli, predicò che i siciliani intendevano col proclamare la loro indipendenza, di dividersi da voi e di volere spargere lo spirito della discordia, mentre l’interesse d’Italia vorrebbe l’unione.»
«A questa infame accusa la Sicilia non à risposto, perché non sentiva, come non ù mai sentito il bisogno di unadiscolpa, allorché alla sua generosità, alla sua gloria, nota a tutta la terra, si cerca da un tiranno imprimere il marchio vilissimo dell’onta. Ma se pure vi fosse chi avesse solo dubitato delle intenzioni della Sicilia, ecco la miglior prova atta a cancellarle. L’Europa, il mondo tutto ci vede riuniti a strappare dalla mano più lorda di umano sangue uno scettro, dalla fronte più carica di delitti una corona. Un solo affetto ci muove, un solo desio ci anima, un solo vessillo ci guida.»
«Forti del vostro ben noto valore, o falangi calabro-sicule, ricordate che l’unità e la disciplina soltanto ci possono rendere invincibili. Io vi sarò duce, ed insieme compagno. La mia voce, voi l’udrete ove più calda ferve la pugna. Mi vedrete insieme con voi nelle prime file; e la dove ci spingeremo, sempre avremo a compagne la vittoria e la gloria.»
Così speravasi nascondere tuttavia l’inganno, ma i popoli che guardavano già con ripugnanza il cuore e la mente de’ primi agitatori, inorridirono allo arrivo di questi nuovi apostoli della libertà! Fattosi adunque il Ribotti supremo duce delle masse insorte calabro sicule, suo primo pensiero era quello di organizzarle in corpo di esercito; e a ciò felicemente provvedeva con ripartirle soltanto in due divisioni e quattro brigate! Riteneva a’ suoi cenni la prima divisione; conferiva il comando della seconda al colonnello Longo; nominava a comandanti delle brigate i colonnelli Farde ll a, Laudi, Grammonte e Carducci; e l’importante incarico di capo dello stato maggiore affidava al colonnello delli Franci.
Con queste disposizioni stabiliva il quartier generale a Spezzano Albanese, distante 23 miglia da Cosenza; abbandonava il resto alla fortuna delle armi.
CAPITOLO XVII
Muove il generale Nunziante ad attaccare i ribelli, e ne ottiene i vantaggi: il. generale Busacca si rimane in Castrovillari, e critica addiviene la sua posizione: sopraggiunge il generale Lanza, che con molla sagacia à eluso il nemico, e con soverchio ardimento si è spinto innanzi: si riuniscono le due colonne in Castrovillari, e Cosenza è minacciata. Le masse si disperdono, il comitato fugge, una deputazione di Cosenza si presenta a Busacca, chiede sottomettersi e le truppe non lardano ad occuparla: lo stesso indi a poco implora Catanzaro, ed il generale Nunziante tosto vi si reca colla stia co ionna: l’ordine è rimesso in tutte le Calabrie, ed è turbato in tre distretti della provincia di Salerno: vi accorre la pubblica forza, e la tranquillità tosto succede.
Durante il tempo non breve nel quale la disperata fazione recata aveva ildisordine e lo spavento nelle Calabrie, erasi quivi accresciuto strabocchevolmente il numero de’ ribaldi, alle di cui esigenze ni u no più osava avventurami a resistere; epperò il generale Nunziante fin. dalle sua fermata in Monteleone comprendendo le difficoltà che avrebbe incontrate per sottometterli senza dilazione, mentre da un lato erasi fatto a chiedere al governo un accrescimento di forze,dall’altro aveva promesso l’armamento di tanti calabresi, che svariati motivi mantenevano avverar agl’insorti. Sopratutto poi erasi il valentuomo, ingegnato a far comprendere a più influenti cittadini le esorbitanze de’ sollevati, gli eccessi de’ loro condottieri, la ferocia che animavali; afferrassero, diceva, la fortuna ormai propizia; si liberassero da que’ tiranni che tanto li opprimevano; cacciassero que’ crudeli strumenti di una crudelissima rivale, e sorgessero a mostrare al mondo intero di non essersi mai spenta in essi quella leale devozione che i loro maggiori avevano sempre alla casa de’ Borbone eminentemente professata.
Essendo frattanto al 25 giugno sbarcato alla marina del Pizzo un battaglione di carabinieri a piedi, reduce dalla Lombardia, e prossimo a sopraggiungere altro rinforzo, al giorno appresso il generale Nunziante, disposte le sue forze in due colonne, l’una sotto il suo comando, l’altra a’ cenni del maggiore Grossi, mosse da Monteleone verso Filadelfia, centro dell’insurrezione della provincia di Catanzaro, tenendo in mira Cosenza, onde congiungersi al corpo di Busacca.
Siede questa città in una valle, circondata da sette colli e bagnata da due fiumi, il Busento ed il Crati, a 178 miglia da Napoli, sulla consolare. Ricca di memorie storiche, ricorda specialmente gli assedi sofferti per Alarico, Ibrahim e Luigi III d’Angiò, negli anni 411, 9 0 2, e 1 0 45. Da Cosenza, proseguendo il cammino sulla stessa via, a distanza di 48 miglia all’incirca, si traversa il fiume Amato, nelle vicinanze di Maida, in c ui B o emondo figliuolo de lgran Ruggiero fissò sua dimora quando ottenne il Comando delle Calabrie, ed ove pure, una divisione inglese sbarcata nel golfo di S. Eufemia,agli ordini del generale Stuart; batté completamente a 4 luglio 1806 il generale Regnier comandante le forze francesi. Poco più oltre, superato che siasi il controforte detto Campolongo, alle falde de’ monti, s’incontrano i comuni di Curinga, Francavilla e Filadelfia. E continuando a progredire, dopo varcato pria il Pesipe, indil’ Angitola, si giunge alle alture del Pizzo, e poco più appresso a Monteleone, in sito eminente che domina un’ampia vallata, d’onde, come si è detto, movevano le due colonne di Nunziante e di Grossi.
La colonna Grossi di 1200 fanti, e due pezzi da montagna dirigevasi per la vecchia strada sulle alture de’ monti, per uscire alle spalle del campo di Filadelfia, nell’atto che il generale Nunziante, con tutto il resto delle sue forze, e con due pezzi da campagna e due da montagna a vv iavasi lungo la consolare, per attaccarlo di fronte.
Al cader della sera, dopo un tragitto di quasi nove miglia, giungeva il generale a vista del ponte sull’Angitola, dove le prime scolte nemiche tenevansi postate. Sostata quindi la marcia, messe le truppe a serenare in que’ dintorni, e date le debite norme a tutela del campo, il tutto disponeva onde al nuovo sole s’impegnasse il conflitto.
Puntualmente all’alba del giorno 27 cominciavano le offese; ma pochi colpi di cannone bastavano a porre in foga gli avamposti de’ sollevati, che per la precipitane abbandonavano sinanche due pezzi che avevano situati sul ponte per far testa al primo scontro. Intanto a snidare dai boschi sulle alture, dov’erasi rifugiato l’inimico, ed a tutelare la destra della colonna nella sua progressiva marcia, il generale spediva su’ monti il terzo battaglione cacciatore, con altre compagnie del 3°, 4° e 7° di linea, e de’ carabinieri. A questo modo, e d anche perché sulla sinistra dalla parte del mare i due piroscafi l’Archimede e l’Antelope, che procedendo rasente la sponda, spazzavano la via colle artiglierie, guadagnavasi cammino. Avvanzatasi di qualche altro miglio la colonna, pressoCampolongo si avvenne novellamente co’ sollevati, dove tra pe’ tortuosi sentieri ele folte boscaglie, e tra per la elevatezza de’ monti, avevano essi stimato opportuno a fermarsi. Non ostante la difficoltà del luogo e la viva resistenza opposta, le milizie si spinsero con ardore innanzi; né volendo per questo affatto cedere i sollevati, addivenne ben tosto accanitissima la pugna. Però non indugiò molto spazio la fortuna a mostrarsi a qual parte volesse inclinare, perciocché scorgendo i sollevati mancare a poco alla volta i loro compagni, e vana tornare ogni altra resistenza, cominciarono talmente a disordinarsi, che tosto si diedero a precipitosa foga.
Questo felice risultamento avrebbe senza dubbio menato a più vantaggiose conseguenze, se non vi fosse stato un eccesso d’indegnità e di fellonia in persona di un uffiziale calabrese (il tenente Zupi) di recente richiamato all’attività nello esercito, donde nera stato per poetiche imputazioni assai prima allontanato; perciocché nel meglio del conflitto, profittando dello smarrimento di pochi soldati, inoltratosi in una boscaglia verso la sottoposta marina, seco traendo i cavalli del generale e del suo stato maggiore, faceva col tamburo chiamare a raccolta le schiere che da quella parte si trovavano. Cinque uffiziali, e trecento fra sottuffiziali e soldati, troppo creduli, seguendo l’esempio stolto, andarono ad agglomerarsi nella sottostante marina, d’onde si diressero al Pizzo, continuando lo Zupi a spargere voci allarmanti della rotta toccata alla truppa.
Intanto approssima vasi al tramonto il cocente sole, e le travagliate milizie, oppresse dalla stanchezza e trafelate dal caldo sentivano estremo bisogno del riposo; per lo che il generale, non ostante la breve distanza da Maida, prese lo spediente, anche nel riflesso di evitare qualche collisione con gli abitanti, di sostare la marcia, e far serenare la truppa in campagna aperta.
Ma in mezzo alla gioia degli ottenuti successi,, stavasi il generale agitato per la colonna di Grossi de ll a quale il destino all’intutto ignorava. Il punto di raccozzamen t o stabilito tra loro erasi pure oltrepassato; de messi spediti in varie parti, niuna più affatto ritornava, né era stato possibile di saperne alcuna nuova. Laonde vista la difficoltà di progredire più oltre, ove quella truppa fosse rimasta a se stessa abbandonata, alle prime ore del giorno appresso risolveva il generale, anche per raggranellare i dispersi della propria forza, ad eseguire un movimento retrogrado, per quindi poi meglio regolare le cose a seconda delle circostanze.
In tanta agitazione sul destino della colonna di Grossi; ecco quanto di preciso erale accaduto. Giunta presso Filadelfia nel giorno 27, senz’alcun’ostacolo, non sospettando i sollevati di venir sorpresi alle spalle ed alla sprovvista, e r ansi presso che tutti rivolti ad attaccare le truppe di Nunziante. Rimasta perciò quella posizione mezza abbandonata, all’apparire della colonna, colpiti i restanti insorti dallo scoraggiamento, presentavasi tosto una deputazione di alcuni notabili cittadini del paese, protendendo parole di pace. Rispondeva il comandante; compiacersi di tale atto spontaneo; null’altro desiderare che questo, entrerebbero tosto le milizie, le persone e le proprietà sarebbero tutte rispettate. Se ne tornava intanto la deputazione, ma l’accorto condottiere sospettando di qualche reo disegno, limitavasi a spedire soltanto un forte distaccamento, come di avanguardia, per iscorgere lo stato del paese e l’attitudine de’ cittadini, per quindi poi egli risolversi al resto. Né i suoi sospetti andavano falliti, poiché appena il distaccamento giungeva nell’abitato improvvisamente numerosi colpi da fuoco lo assalivano. Come il resto della colonna, con impeto straordinario immediatamente piombato fosse nel paese, facendo man bassa sul. nemico e togliendo allo stesso cinque cannoni, è più agevole imaginarlo che descriverlo. Compiva pertanto il maggiore Grossi quella giornata col più rigoroso disarmo de’ cittadini, e dopo seco traendo de’ prigionieri, affrettavasi a raggiungere il generale Nunziante.
Laonde tra pel tempo consumato negli avvenimenti narrati, e tra per la malagevolezza delle strade e la stanchezza delle milizie, non era stato affatto possibile alla colonna del maggiore Grossi di trovarsi nella sera de’ 27 al punto di convegno stabilito col generale Nunziante. Pervenutovi per lo invece in sul tardi del giorno appresso, senza ricevere alcuna nuova della mossa del suo generale, e del quale soltanto gli veniva riferito la spacciata rotta, determinavasi a volgere tosto pel Pizzo, per conoscere non solo ciò ch’era avvenuto di preciso, quanto per risolversi al resto.
Per tal modo adunque trovandosi la colonna di Grossi riparata al Pizzo co’ prigionieri tratti da Filadelfia, fatalità volle che nel momento in cui la soldatesca sfavasi pe’ disagi sofferti a rinfrancare sulla piazza, un colpo da fuoco tratto dal castaldo di uno de’ prigionieri uccidesse una scolta del 6° battaglione cacciatore; perciocché all’inatteso scoppio ed alla vista del compagno estinto, credendosi i soldati sopraffatti, o traditi, dato tosto di piglio alle armi, allo istante ed a tutta furia si scagliano su’ cittadini per cominciarne il massacro. Gli uffiziali s’interpongono, gridano, minacciano, ed a stenti ottengono dopo qualche tempo che l’ira si smorzi.
Fra appena cessala quella tragedia, allorché giungeavi per una fortunata combinazione anche la colonna del generale Nunziante ; epperò disposte al momento le cose per ricondurre la calma, e per raccorre gl’individui sbandatisi per la fazione di Campolongo, mossero tutte le milizie un’altra volta per Monteleone, onde menare ad effetto gli ulteriori disegni.
Lasciando ora; dopo i successi di Filadelfia e Campolongo il generale Nunziante colla doppia sua colonna, al cader di giugno un’altra volta in Monteleone, occorre ritornare per poco alla provincia di Cosenza, centro della principale rivoluzione.
Il generale Busacca, che nel giorno 14 giugno erasi fermato a Rotonda, alla mattina del 15 messosi in movimento colla sua colonna, traversava senza veruno ostacolo la valle di S. Martino ed il piano di Campotenese, ed alle prime ore meridiane giungeva in Morano. Quivi una deputazione di Castrovillari a lui si presentava, e formalmente protestava sentimenti d’inalterabile divozione al Sovrano, e desiderio sincero perché l’ordine pubblico si ristabilisse.
La dimane la colonna tranquillamente traeva per Castrovillari, di già abbandonato nel giorno innanzi dalle masse degli insorti, i quali tenendosi per altro riparati a poca distanza, il generale Busacca, per meglio tutelarsi, faceva cingere il paese da un numero straordinario di avamposti.
In questo mentre giungeva da Napoli un uffiziale di stato maggiore latore di un ufficio del ministro di guerra, col quale indicandosi prossimo l’arrivo della colonna. Lanza, prescrivevasi al generale Busacca, recarsi tosto ad attenderla a Campotenese.
A tali ordini Busacca si sgomentava, perciocché venendogli riferito, che circa tremila sollevati occupassero i sbocchi di Canapotenese e Morano, grave rischio a lui sembrava il recarvisi soltanto con le poche forze che aveva. Né volendo saperne altro, senza neanche prevedere le triste conseguenze cui la stessa sua colonna sarebbe andata incontro ove la riunione con quella di Lanza non fosse sollecitamente avvenuta, decidevasi per allora a rimanere in Castrovillari, confidando nelle future combinazioni per trarsi d’imbarazzo.
A circa 12 miglia da Castrovillari, volgendo verso Cosenza, trovasi Spezzano Albanese , dove Ribotti, colla maggior parte delle sue forze ammontanti a circa 2000 uomini con sei bocche da fuoco, erasi stabilito. Ora sia a riconoscere l’attitudine del nemico, sia a distrarlo ins in o a quando non fossero sopraggiunti i rinforzi di Lanza, il generale Busacca risolvevasi nel giorno 21 giugno a spedire un battaglione di cacciatori, con altri distaccamenti ed un pezzo da montagna verso Spezzano. Alle prime ore del 22 giungevano queste milizie innanzi Spezzano, e tosto i sollevati, avvertiti da’ gridi di alcune donne, corsero alle armi. Si combatté per qualche tempo con lentezza, né convenendo a’ regi dippiù inoltrarsi, nel miglior ordine, sempre però molestati da’ sollevati, si ritrassero novellamente in Castrovillari.
Rimasta così inoperosa la colonna di Busacca, stimarono gl’insorti di attaccarla sin dentro Castrovillari; epperò presentatisi nel giorno 26 in forze imponenti su i monti circostanti, tosto ne discesero per impegnare un conflitto. Da principio si batterono con molto coraggio, ma sgomentatisi indi a poco dal soverchio ardore che mostrava la truppa, cominciato il disordine, velocemente quelle masse scomparvero, senza lasciarsi vedere più oltre.
Assaidiverso dar questo era però il procedere dell’accorto generale Lanza, il quale giungendo colla sua colonna in Rotonda nel giorno 26 giugno, appunto quando Castrovillari veniva attaccato dagli i nsorti,sollecitamente spingeva gli avamposti sul picciolo fiume cornuto , ove i. sollevati, che di già occupavano in grosse bande la valle di S. Martino ad impedire il passaggio alle milizie aveano non solo rotto il ponte, ma altresì formata una larga e profonda fossata. La scarsa fanteria, di cui era provveduto il generale Lanza avea indotto il governo a spedirgli per via di mare un rinforzo di altri 1500 uomini, sotto la condotta del tenente colonnello de Corn é , che sbarcati a Maratea, trovavansi puranche presso a Rotonda. Calcolando adunque il generale su gli ostacoli che dovea superare, ecco in qual modo determinava le sue mosse.
Al giorno 27 (giugno) spediva il tenente colonnello Esperti, con un forte distaccamento di cavalleria e fanteria, ad una ricognizione insino al Cornuto , che tenuto a difesa da una banda di sollevati, allo scorgere le milizie, volsero tosto in rapida fuga verso le alture della valle. Epperò volendo profittare di questo primo atto di codardia de’ sollevati, allo istante il generale ordinava di spingersi gli avamposti insino alla riva del fiume, onde garantire dalle offese coloro che venivano destinati a tracciare una via sulla sinistra, la quale doveva agevolare passaggio delle truppe. Al tempo stesso, durante il lavoro eseguito con perseveranza tra il fuoco e gli attacchi de’ sollevati, spiccava il generale per Laino alla volta di Mormanno, uno dei paesi più popolati della provincia di Cosenza, la colonna di de Corné, con ordini espressi, che appena venuto al dominio di quel luogo, ed eseguitovi un rigoroso disarmo, dovesse per la sommità de monti, dietro un colpo di cannone tratto a segnale,discendere dalla parte destra della valle, e cosi insieme per due direzioni diverse stringere i sollevati. Certamente disegno né più conforme agli accidenti, né di più probabile riuscita di q uesto potea idearsi.
Al 1° di luglio adunque, essendo stato, il generale Lanza informato, che Domenico Mauro comandante delle bande stabilite alla, difesa del vallo di S. Martino, trovavasi del tutto scorato, tra per la uccisione di un suo fratello avvenuta in uno scontro, e tra per la defezione c ominciata a succedere nelle sue masse, che Mormanno, per un’abile manovra della colonna di de Corn é era stato di già occupato colla rotta degl’insorti, e che per ultimo le sue truppe ardeano di venire al cimento, mosse im m antinenti per la va l le di S. Martino. Varcato il cornuto senz’alcun ostacolo per la nuova via tracciata dalle milizie, superate poche difficoltà per altri piccioli fossati aperti dagl’insorti, al cader della notte pose le truppe, colle debite precauzioni, a serenare alla imboccatura della valle, non molestato affatto da chicchessia. Fatto appena giorno, dalla vetta dei monti, tuonava il cannone di de Corné ; epperò traversata sollecitamente la valle, entrambe le colonne sboccavano a Campotenese. Le milizie intanto animosamente avvanzavano, e le masse di Mauro precipitosamente fuggivano. Proseguiva tostamente il generale la sua marcia, e, sempre colle dovute riserbe, si fermava la notte a Morano; dava delle prescrizioni, vi ristabiliva la quiete, e la mattina di buon ora traeva per Castrovillari, per unirsi a Busacca, che circondato insino allora dalle bande de’ sollevati, sentiva stretto bisogno di aiuto.
Operata in tal guisa la congiunzione delle colonne di Lanza e Busacca, cui si era pur unita l’altra di de Corné, immantinenti disponevansi a marciare tutti sopra Cosenza per isnidare da quella bolgia di sovver t ure gli attori principali di un dramma che ormai volgeva al suo termine.
Ma nel mentre che così andavano le cose a vantaggio del governo, ecco in che modo procedevano i condottieri dei sollevati.
Domenico Mauro, il commessario del potere esecutivo destinato a sovraintendere le operazioni in Campotenese, quando le regie milizie erano vicine a sopraggiungere, ragguagliando il comitato di Cosenza su ciò che avveniva, e su quello che bisognava fare, a 29 giugno così scriveva:
«Signore = Avanti ieri notte giunse qua Eugenio de Riso, ci annunziò che si era impegnato il conflitto tra i nostri ed i regi di Castrovillari, e domandò un rinforzo di 500 persone; il momento era critico, e fu mandato con alla testa il Sig. Mileti, ma questi con temerario coraggio non prese nessuna delle precauzioni che dovea, e fece marciare i nostri per la strada maestra. Ad un miglio lontano da Castrovillari si trovarono colti in una imboscata, e se non era l’entusiasmo de’ nostri, ed anche la paura dei regi, avrebbe potuto esser quello un momento fatale per noi».
«Mileti non fu veduto nel conflitto, ed i nostri rimasti senza capi fecero molto a disperdersi con calma per le diverse colline circostanti. Aggiungasi a quel che ò detto, che i nostri credeano di trovare i siciliani e gli altri calabresi intorno a Castrovillari, ma questi erano in Cassano, cosicché i nostri si trovarono nel pericolo di affrontare tutte le forze regie. Questa imprudenza ci dee rendere più attenti, ed io credo ch’elleno debbano richiamare dal comando il sig. Mileti, poiché in qualunque punto, non farà altro che succidezze, e comprometterà la nostra causa».
«Qui recandosi da Lungro si mise avanti ad una gregge del signor Gallo di Castrovillari, e la condusse in questo campo. Io non la volli ricettare, perché era stata presa fuori di questo campo, e perché si diceva che i siciliani siansi comportati nella stessa guisa con Gallo, riputandolo come nostro nemico. Non vorrei però che questi esempi si ripetessero, ma sino a quando sono tra noi uomini come Mileti, questi avranno sempre la virtù di demoralizzare la massa, la quale dopo un esempio è infrenabile. Né solo l’avvezza al furto, ma il sig. Mileti in un giorno fu sul punto di far fucilare tre o quattro individui , se io non lo avessi proibito.»
«Si è fatto tutto da cotesto comitato perché le nostre genti sbandassero, ed il nemico entrasse vittorioso. Voi avreste dovuto provvederci di tende, e noi dormiamo sopra i nudi sassi, come gli uccelli di rapina. Voi avreste dovuto provvederci di scarpe, ed i nostri soldati camminano a piedi nudi: avreste dovuto provvederci di munizioni, e se il nemico vedesse le nostre giberne, gitterebbe le armi e ci vincerebbe colle sole braccia. Voi ci avete fatto mancare di tutto quello di cui non manca un campo di selvaggi. Direte che questo è debito nostro, ma il vostro debito è darci i mezzi per procurarci tali cose. Io vi chiamo responsabili di tutte le nostre possibili sciagure.»
«Prendete adunque il partito che solo vi conviene; mandate danaro, munizione non solo qui, ma in tutti i campi, altrimenti il comitato resterà solo, come al primo giorno della sua istallazione» Da tutto questo si può tra l’altro di leggieri giudicare, chi fosse quel Mileti, l’autor principale delle barricate del 15 maggio, ed a quali strette si sarebbe senza dubbio trovata l’umanità ove per avventura uomini di quella fatta avessero dovuto governarla.
Petruccelli poi in questi sensi scriveva di colonnello del l i Franci sul ragguaglio che davagli del passaggio delle truppe per Campotenese.
«Mio caro delli Franci;= Saprai già la vergognosa ritirata dallo sciocco e vigliacco Mauro provocata. La rabbia mi soffoca, e non mi permette dirne parola. Fammi sapere francamente che condotta terranno i Siciliani. Io non voglio, non debbo scompagnare la mia dalla loro sorte, e Dio ti perdoni di avermi allontanato. Se essi partono, partirò anche io; se restano ancora a Spezzano, io resto due giorni qui, perché infermo, ed ò sofferto moltissimo nel viaggio. Dunque definiscimi le loro mosse; se essi partiranno domani per Cosenza, o per altrove; ritornando indietro, io vi seguirò».
E lo stesso Domenico Mauro,, cui Petruccelli addebitava tutto quel disastro, scrivendo al medesimo colonnello del l i Franci a 4 luglio, così riferiva:
«Signore Si è avverata la mia trista profezia. Ieri giunsero a Mormannoo ltre 1500 regi, ed assediarono il paese; cercando di occupare i posti difesi da un cento dei nostri. Questi nei giorni antecedenti erano aiutati e caldamente secondati dalle guardie nazionali dìdetto paese, m a da un giorno quella guardia non si vedeva più.»
«La stessa popolazione che sembrava risoluta prima ad una forte resistenza, cominciò, fin da quando intese ravvicinarsi delle nuove truppe a mormorare contro i nostri, chiamandoli. autori della loro ruina, e poveri e ricchi disertavano i loro focolari, ritirandosi nella campagna. Questo. mutamento non scorò i nostri, ma il tradimento di alcuni fu c om piuto, perché occupato che ebbero le truppe le vicinanze di Mormanno , una mano di guardie nazionali, che sembravano più caldi della nostra causa, uscirono incontro alle truppe per gratularsi del loro arrivo, recando il pallio, e dopo questo fatto vergognoso un ragazzo del paese avvertì il sig. D. Saverio Toscano che comandava la nostra compagnia stanziata, che le truppe regie aveano circondato tutt’i posti. Allora il bravo sig. Toscano cominciò ad indietreggiare a vista del nemico, a seconda che questi si avvanzava. Giunse immantinenti la notizia nel campo di S. Martino, distante solo un’ora e mezza da Mormanno, e non può ella immaginare quali impressioni di sconforto sentissero gl’individui di quella stessa compagnia che sono stati e saranno sempre prodighi del loro, sangue a pro della patria, poiché la novella della presa di Mormanno mise loro innanzi lo spettro della fame, più terribile dei battaglioni. Ed in verità la sola Mormanno a vea provveduto a dovizia le nostre genti, ed era il solo, paese vicino che non avesse mostrato ripugnanza a ciò fare; ora essendo caduto in mano de’ regi Mormanno, quale speranza a’ nostri rimane di provvisioni? Non poteva sperare in Rotonda, perché anche in potere delle truppe, non in Morano, perché situato tra i soldati di Busacca e quelli di Mormanno e Rotonda. In breve in un colpo d’occhio io vidi abbandonati tutti i posti o ccupati da’ nostri ,eint e siun grid o : non possiamo più stare qui, vogliamo unirci a’siciliani.»
«Io fui colpito come da un fulmine a questa risoluzione ; tentai far vergogna a quella gente, ma non vi f u modo in farla rimanere».
Senza che io ne dessi il segnale si misero a marciare,. abbandonando la valle di S. Martino, e allora montai a cavallo e partii, lasciando, un. mio fratello, che con aliò sei individui temerariamente si era spinto, come dicesi, fino a’ Rotonda, e faceva fuoco col nemico»
«Ora la nostra gente è in Lungro, domani sarà costà. Signore, se invece di chiedere forza da Campotenese ve ne fosse mandata, se invece di rimanere in Spezzano si fossero da coteste forze occupate le posizioni che sono tra Busacca e noi, e ci fosse stato lasciato Morano libero dagli assalti del nemico, noi non avremmo abbandonato il posto più importante. Ora io manderò le genti al sig. Ribotti, e cesserò di essere commissario civile.»
Così ad un tratto quell’eroe del liberalismo, stretto dalle circostanze confessava, suo malgrado, la viltà decelerati suoi seguaci, dichiarando implicitamente la sua stoltezza.
E per ultimo Carducci, che neppur mostravasi avaro né di risorse, né di consigli, da Lungro ove trova vasi colla sua colonna, scriveva a Ribotti in questi sensi:
«Sig. Generale—Se io avessi potuto persuadere le masse a restare nella valle di S. Martino, ove con 50 uomini mi era io compromesso di custodire quel passaggio, l’assicuro che tale importante posizione non si troverebbe ora in braccio a’ regi, che si ànno aperto la loro comunicazione colle truppe stanzionate in Rotonda al numero di 1200, ed in Mormanno in simile numero con quella di Castrovillari; con più aggiungere a’ due piccioli cannoni di Castrovillari altri due di Rotonda, cioè uno di dodici ed un obice.»
«Le masse anzidette decimate di due terzi, comandate da un commessario poeta, generale che non à mai conosciuto l’arte della guerra, e nello stesso tempo di un timore senza pari, praticò nella circostanza quello che altra volta fece in Spezzano, e che l’egregio comitato di Cosenza non seppe rimediare a tempo. Le stesse masse piene di timore non sanno militare, se non alla sua presenza, ed in unione di buoni siciliani, ed è per questo che per mezzo del tenente colonnello de Simone glie le spedisco, con ordine di restare in S. Lorenzo, fino a che riceverà i suoi ordini; prevenendola che le troppe costà stanzionate potrebbero occupare Cosenza senza quel luogo.»
«Io intanto parto per la mia missione, e son certo di avere de’ buoni risultati, e ne attenderà i ragguagli. Non già per farle da maestro, conoscendo quant’ella è perita nell’arte della guerra, ma per semplice suggerimento le fo conoscere, che tenendo ella il campo in Spezzano, le truppe regie passando da’ confini del territorio di Spezzano, cioè circa otto miglia distante da Spezzano, si potrebbero recare in Cosenza, e serrare le sue truppe in mezzo, come fecero i francesi nel 1806.»
«Dalle premesse crederei nelle attuali cose, ed opinerei che il campo generale lo riconcentrasse in Cosenza, dove mercé le cooperazioni del sig. tenente colonnello de Simone, che ne’ casali à molta influenza, potrebbe colà riunire molta gente; tanto più se la mercede di ciascuno la porta a grana 40 invece di 25, come con 10 persone che io meco porto nella provincia di Salerno ò fatto; prevenendola che in Cosenza potrebbe tra gli arrestati in quelle carceri centrali, scegliendone un paio di centinaia, che potrebbe armare con i fucili de’ particolari di Cosenza, accrescere di molto le sue forze.»
Provvidi consigli di un patriotta guerriero! scegliere 200 detenuti; aggiungerli alla massa de’ galeotti di Sicilia, e destinare tutti questi decorosi ornamenti della società, a sottrarre i popoli dall’oppressione! Così la rivoluzione, che ormai volgeva rapidamente al suo fine, da per se stessa rivelava chi fossero coloro che l’avevan guidata: audaci quando il pericolo appariva lontano, inverecondi e vili se vicino.
Ritornando ora alle operazioni delle milizie riunite di Busacca e Lanza, è d’uopo sapere, che ad atterrare compiutamente l’idra della rivoluzione, già ferita a morte, spedivansi tostamente due colonne, l’una per Saracena, Lungro e Fermo, agli ordini del maggiore Marra, l’altra comandata dal tenente colonnello Esperti alla volta di Cassano; e colla fermezza di questi condottieri non solo giungessi prontamente a ristabilire l’ordine ed a scoraggiare vieppiù l’avanzo de’ sollevati, ma altresì a sollecitare il versamento delle contribuzioni arretrate nella cassa distrettuale di Castrovillari pe’ bisogni della truppa. Né furono questi soltanto i successi che si ottennero, perciocché le masse di Ribotti riunite in Spezzano Albanese, colle ali a’ piedi, precipitosamente fuggirono alla volta della provincia di Catanzaro; e poco appresso lo stesso comitato di Cosenza, che insino allora aveva costantemente spacciato il trionfo della causa nazionale, ad un tratto scompariva, e per colmo della misura, nel malvagio fine di tener sempre viva l’agitazione, fuggendo pubblicava la seguente manifestazione:
«Agli abitanti di Calabria citra il comitato di salute pubblica di Cosenza.»
«Per cagioni, ch’è inutile il riandare, le nostre forze avendo dovuto retrocedere in questo capoluogo, desiderosi di evitare al paese gli orrori di una guerra accanita, e le conseguenze di una invasione per parte de’ regi, invasione che il sito sfavorevole di Cosenza renderebbe probabile, questo comitato à risoluto ritirarsi spontaneamente da questa città.»
«Fermo però sempre mai ne’ principi da lui proclamati fin da’ 2 giugno, giorno della sua istallazione, trasporterà nella vicina Calabria la sua bandiera, che anzi, in quel tratto medesimo che sarà per mantenerla saldissima, si co stituirà in Catanzaro in governo provvisorio centrale delle Calabrie.»
«Forti schiere di calabri e fratelli della Sicilia faranno siepe al governo, e secondandone energicamente i dettami, lo porranno ben presto nel grado, non solo di rioccupare questa provincia, ma d’allargare la rivoluzione nel rimanente del regno.»
«Cosenza 3 luglio 1848»
Tanto per la fuga del comitato da Cosenza, che delle bande de’ sollevati, divenuta la città sgombra da tutta quella canaglia rivoluzionaria che vi si era ammassata, tostamente una deputazione composta da quell’arcivescovo e da altri distinti soggetti, recavasi nel giorno 4 luglio in Castrovillari presso del generale Busacca, comandante superiore delle forze quivi riunite, per protestare, che Cosenza era stata illusa e manomessa da pochi demagoghi e da un branco di sediziosi appoggiati da masnade siciliane, e che la grandissima maggioranza non solo degli abitanti di quel capoluogo, ma dell’intera Calabria citeriore, colla più viva anzietà attendeva le truppe liberatrici, per dimostrarle con una cordiale accoglienza la costante sua devozione al real trono. Rispondeva il generale; partirebbe tosto per Cosenza colle sue truppe, solo desiderare pel bene del paese, che le milizie fossero sinceramente accolte. Dati perciò gli opportuni provvedimenti, sollecitamente moveva alla volta di quella città, ove ad immense allegrezze il popolo teneasi preparato. Vi entrarono indi a poco le truppe, e con mille grida di gioia le accolsero i cittadini. Così dopo tanti giorni agitati, rinasceva nella provincia di Cosenza quella tranquillità che i più audaci faziosi vi avevano a sì alto grado manomessa.
Mentre tutto questo accadeva nella provincia di Cosenza, il generale Nunziante di già ritornato a Monteleone, trovandovi un certo smarrimento per le nuove corsevi circa la spacciata sua disfatta, al momento ordinava il disarmo tanto di quella guardia nazionale, che degli altri comuni vicini, per essersi mostrati inchinevoli alle suggestioni degli insorti. Sopra tutto poi volgeva le aspre sue doglianze al sottintendente del distretto di Palmi, significandogli che troppo ormai rincrescevagli di udire tuttavia parlare di assembramenti ne’ piani della Corona, e che se il generale Nicoletti non si fosse peranche mosso da Reggio per dissiparli, vi avrebbe validamente provveduto egli stesso.
Né a questo soltanto limitavasi il generale Nunziante, perciocché giudicando dalle relazioni ricevute, che i sollevati scacciati da Filadelfia, Curinga e Maida si fossero riuniti nei dintorni di Nicastro per impedirgli il passaggio verso la provincia di Cosenza e la congiunzione colle colonne di Busacca e Lanza, tosto risolvevasi ad imbarcare le sue milizie al Pizzo per farle inaspettatamente discendere o nella marina di Paola, o in altro sito più adatto della costa della Calabria citra, onde con un colpo improvviso e decisivo all’intutto schiacciarvi la ribellione.
Recatosi dunque con questo intendimento il dì 5 luglio la colonna di Nunziante da Monteleone al Pizzo, ove già tutto teneasi pronto all’imbarco, giungeva al generale una deputazione da Nicastro , protestando da parte dell’intero distretto e delle bande siciliane, pronta e sincera sommissione alla volontà del Sovrano. Per tal modo scorgeasi apertamente da quell’inatteso linguaggio, che la insurrezione della provincia di Cosenza avesse toccata qualche grave rotta, e che i sollevati forse inseguiti dalle colonne di Busacca e di Lanza si dovessero trovare presso Nicastro. Rispondeva intanto il generale alla deputazione, sperassero i cittadini nella clemenza del Re ove sincera fosse la sommissione; per ogni altro poi, e pe’ siciliani specialmente, nulla potere assicurare, per essere il caso ben diverso.
In questa avventurosa condizione convenendo al gene : rate Nunziante di spingersi sollecitamente alla volta de’ sollevati, lasciato tosto il Pizzo, volse colla sua colonna verso Maida. Giuntovi in sul tardi del 6 luglio, all’indomani perveniavi anche il vicario di Nicastro, latore di una lettera di quel vescovo, colla quale raccomandavasi caldamente un foglio sottoscritto da Ribotti e da Longo relativo a talune condizioni di resa delle bande siciliane, che insieme a pochi calabresi, per essersi tutti gli altri dispersi, o ritirati, trovavansi presso Tiriolo. Ma il generale, fermo ne’ suoi primi divisamenti replicava, non potersi allatto tali condizioni accettare, dovendo la resa seguire soltanto a discrezione.
Saputisi frattanto in Catanzaro i casi di Cosenza, la dispersione delle masse, la fuga del comitato; e succeduta ben tosto all’audacia degli agitatori l’abbattimento, rinato il coraggio fra gli onesti cittadini e riunitesi le autorità per determinare il bisognevole in quei supremi momenti, nel fine sopratutto di evitare una catastrofe ove le milizie si fossero ostilmente avvicinate, nel giorno 5 luglio prendevasi la seguente determinazione:
«Riunita la commissione di pubblica sicurezza di questo capoluogo, composta da’ signori comandante le armi, procurator generale presso la gran corte criminale, dal decano consigliere d’intendenza, dal sindaco della città e da due proprietari del paese.»
«Il funzionante da intendente faceva rilevare, che si fra pubblicato un proclama rimesso dal comitato di Cosenza, con cui dirigeva la parola pure agli abitanti di questa provincia, dicendo che conferivasi in Catanzaro per istabilire un governo provvisorio centrale delle Calabrie, e che perciò era espediente di prendere le opportune misure come allontanare ogni inconveniente che poteva arrecare la novità, tanto più che sciolto appena il comitato di questo capoluogo, il tutto era rientrato nell’ordine da più giorni.»
«Nel mentre occupavasi la commissione per l’adozione de’ temperamenti opportuni, immenso numero di cittadini catanzaresi e di ogni condizione si è presentato in nome del popolo, manifestando apertamente alla stessa commissione, che non voleva conoscere governo provvisorio, ma sostenere colle armi alla mano il legittimo governo del Re nostro signore, senza permettersi la introduzione delle truppe e soggetti di cui si parla in detto proclama, epperò conchiudeva: 1° spedirsi una deputazione per manifestare a’ capi di dette truppe ed a’ componenti del governo provvisorio disciolto in Cosenza, che la città di Catanzaro non permetteva l’ingresso, al quale si opponeva apertamente ove occorresse colle armi alla mano, per sostenere l’ordine pubblico ed il governo di Sua Maestà FerdinandoII (D. G.) colla costituzione da lui concessa a’ suoi popoli: 2° eseguirsi delle barricate, se occorreva, per impedire l’ingresso dell’artiglieria sicula e della truppa nazionale che seguiva i suddetti componenti: 3° destinarsi pron t uariamente un capo della guardia nazionale locale in persona di D. Gregorio Ferrari per riunire la forza, e mantenere l’ordine pubblico nell’interno e nell’esterno della città; 4° che si spedisse staffetta al generale marchese Nunziante, ond’essere in conoscenza della ferma risoluzione de’ catanzaresi. e se lo stima, mandare sollecitamente le truppe di linea sotto il di lui comando, che la città desidera, per viemaggiormente mantenersi il buon ordine.»
«La commissione esaminando il voto del pubblico di questa città, e ritenendo di esser regolari e giuste le proposizioni fattesi, delibera:
«Che si desse la piena esecuzione e partecipazione al sig. generale Nunziante, pregandolo per l’invio della truppa di linea sollecitamente.»
«Che si desse ancor conoscenza al sig. generale Busecca, onde mandare anche egli rinforzo per allontanare ogni inconveniente» La posizione di Ribotti e della sua banda essendo divenuta estremamente difficile, anche per la defezione de restanti calabresi, cercò prestamente di volgere per Catanzaro; ma saputo a mezza via, come quella popolazione non intendesse affatto di accogliere la sua banda, e che fosse anche per questo disposta ad opporvisi colle armi, cercò in tutta fretta di guadagnare il lido, nella speranza di trovarvi uno scampo. Né il disegno andò punto fallito in quel primo rincontro, perciocché rinvenuto sulla spiaggia un brigantino per iscaricarvi ferruggine, ed un trabacolo carico di sale, impossessatosi tosto dell’uno e dell’altro, e salpate ad un tratto le ancore, tutti divisarono essere il migliore partito quello di dirigersi a Corfù.
Avvertito in questo mentre il generale Nunziante, che le superstite bande si fossero dirette verso Catanzaro, vieppiù affrettossi a quella volta; e quando già stava per arrivarvi, numerose deputazioni e stuoli di cittadini usciti all’incontro delle milizie, con rami di ulivo e banderuole bianche, alle grida di viva il Re, protestando ad alta voce, essere stati sedotti da pochi faziosi ed obbligati loro malgrado a mostrarsi ingrati al Sovrano, chiedevano perdono e sicurezza.
Accoglieva il generale queste dichiarazioni, e quasi in trionfo indi a poco colla sua colonna giungeva in Catanzaro. Riordinava tosto le amministrazioni, ed a tutt’uo m o si dava a disciogliere quelle guardie nazionali che più avevano parteggiato per la rivolta. Avvertiva poi i generali Lanza e Busacca di quanto era avvenuto, e loro raccomandava con analoghe istruzioni ciò che bisognasse operare a conseguire la calma da per tutto. Ed in ultimo per espressi informava il comandante della corvetta a vapore lo Stromboli della notizia ricevuta intorno alla fuga della banda siciliana sopra i due legni, e lo sollecitava a dar tosto la caccia a’ medesimi.
E poiché la mano della Provvidenza visibilmente secondava i passi del governo, anche l’ultimo colpo vibrato contro le orde de’ sollevati non venne punto a fallire.
Datosi il 9 luglio lo Stromboli ad inseguire a tutto corso i due legni diretti a Corfù, sul far del giorno 11 ottenne di raggiungerli ad una certa distanza da quell’isola, ed assicuratosi al momento di tutt’i fuggitivi che vi erano, volse tosto coi legni catturati la prora verso Reggio, facendovi sbarcare, e quindi imprigionare da circa a 500 di quei siciliani. Il giorno appresso il piroscafo trasse per Napoli, onde condurvi le munizioni e le artiglierie tolte agli insorti, non che 30 de’ principali condottieri della banda, tra’ quali Ribotti, Longo e del l i Franci.
Erano intanto rimasti nelle Calabrie alcuni de’ principali sollevati, mentre a’ più destri era riuscito fuggire. Carducci, imbarcatosi con altri dieci de’ suoi più fidi, erasi diretto verso la spiaggia di Acqua fredda presso Maratea; e Mileti inseguito da ogni parte, tuttavia aggiratasi per la provincia di Cosenza. Ove ad essi fosse riuscito di radunare nuova gente, forse la rivolta sarebbe nuovamen t e ricomparsa. Affrettatesi perciò le autorità a spiarne i passi, e ad indagarne le mosse, udivasi ad un tratto, essere stati uccisi e l’uno e l’altro dalla pubblica forza.
Nondimeno i più disperati, già mossi alle prevenzioni corse, cercavano tostamente di raggranellarsi ne’ distretti di Vallo e di Sala, preparandosi a sorprendere le casse pubbliche , ed a manomettere la vita e le sostanze de’ più agiati proprietari, e de’ più attaccati all’ordine ed al Re. Ma quando già due bande di parecchie centinaia di armati si aggiravano incerte negl’indicati distretti, e cominciavano a bandirvi la rivolta, affrettavasi il governo a spedire pel distretto di Sala una colonna di quattro compagnie di cacciatori della guardia a’ cenni del maggiore Manzi, ed il 1° reggimento granatiere, agli ordini del colonnello Becco pe’ distretti di Vallo e Campagna.
Il giorno 9 luglio le milizie in due colonne, per la via di mare, e col mezzo di piroscafi, giungevano, l’una a Sapri, l’altra a Pesto; volgendo la prima comandata da Manzo per Diano, la seconda da Becco per Capaccio. Né ricevendosi alcuna notizia in sulle prime intorno alla precisa situazione degl’insorti del Vallo, non conveniva al colonnello Becco di azzardare alcun movimento sugl’inesatti ragguagli che gli pervenivano, specialmente dall’intendente e dal comandante militare di Salerno; e per quanto l’indugio di due giorni in Capaccio fosse stato in certo modo disapprovato da quelle autorità, altrettanto il risultamento dimostrò come la condotta delle forze repressive deve per l’ordinario regolarsi solo da colui che ne assume la responsabilità del comando. In effetti compariva la banda nel giorno 12 nel comune di Trentinara, a quattro miglia da Capaccio: circa 250 insorgenti aveano preso posizione nell’abitato, il dippiù in maggior numero,compariva sulle creste delle alture che ligano la elevazione del paese colle montagne di Monteforte e Rocca d’Aspide. Era questa una pruova che essi intendevano fare, dall’esito della quale dovea dipendere la tranquillità, o lo scompiglio generale della provincia. Otto compagnie mossero immediatamente da Capaccio sotto gli ordini dello stesso comandante Recco, e verso le dieci del mattino si trovarono a vista del nemico. Sulle prime il suono che udivasi delle campane, e le varie bandiere bianche che vedevansi sventolare dall’alto di quella rocca, fecero supporre, che la truppa invece di soffrire ostilità, sarebbe stata ricevuta all’amichevole. Approssimavasi intanto al piede dell’altura, ma una grandine di palle le giungeva dappresso. Tanto bastò ad animare l’ardore delle milizie. Divise in tre colonne, la più forte pel centro, e le altre due pe’ fianchi, eseguirono l’ordine d’inerpicarsi su per quelle rocce, muovendo allo assalto del paese. La travagliosa montata, e la difficoltà di superare successivamente tanti scaglioni composti di mura a secco rallentavano per poco l’ebrietà de’ soldati sotto una fitta scarica di fucilate; ma poiché a risvegliarne la bile, tanto necessaria nelle azioni di vigore, una voce dall’alto esortavali ad accelerare il movimento, chiamandoli granatieri di Palermo , in un tratto ricordarono essi le immeritate sventure patite in Sicilia in gennaio di quell’anno, e con un coraggio senza esempio superarono velocemente tutti gli ostacoli, ed invasero il paese. Idirupi situati alle spalle di questa posizione ricevettero in quel mentre la massa fuggente del nemico, e solo coloro che vennero sorpresi nell’abitato, che tuttavia da ostili trovavansi nelle case, ignorando che fossero stati da’ compagni abbandonati, vennero trattati con severità dalla truppa.
Cosi discioglievasi quella banda che ne’ distretti di Vallo e Campagna aveva impresso negli animi de’ pacifici abitatori lo spavento, e cagionato a molte distinte famiglie danni non lievi.
Intanto da Eboli segnalavasi al telegrafo di Capaccio che l’altra banda del distretto di Sala fosse comparsa verso Postiglione, minacciando il saccheggio da per tutto; ma sia per l’attacco di Trentinara e per la rotta toccata a quegli insorti, sia per la stretta osservanza dell’ordine mostrato da molte popolazioni; il certo si fu che appena mossesi le milizie all’incontro di que’ ribaldi, la banda così precipitosamente si disciolse, che abbandonò nella fuga sinanche porzione del danaro depredato. D’allora spari t a rivolta in quelle contrade, e l’ordine andò mano mano a ristabilirsi.
Incalzati così e dispersi da per ogni dove tutti gli avanzi delle ribellioni avvenute, restava che si usasse di tutta la fermezza onde la tranquillità non venisse un’altra volta turbata. Alacremente vi si dedicò il governo, e sia col disciogliere in molti luoghi la guardia nazionale, causa principale dei succeduti disordini, sia col refrenare le intemperanze della stampa, sia col rimuovere dalle pubbliche cariche buona parte di coloro che per gli esaltati principi professati le avevano conseguite, ottenne ben presto di ricondurre la macchina governativa ad un sentiero più retto.
Si venne tostamente a sapere quali e quante fossero state le crudeltà, le rapine, le insidie, le fraudi e le soverchierie commesse da coloro, che più vanto si davano di fratellanza e di amor patrio, e se la moderazione che ci abbiamo proposto per guida non ci obbligasse a covrire con denso velo siffatte enormità, certo che molte pagine di questa istoria rimarrebbero bruttate dalla narrazione di mille e mille fatti, che sarebbero sempre con raccapriccio ricordati. Bisogna adunque convenire, che la natura dell’uomo sia assai diversa da quella, di cui si vanta.
CAPITOLO XVIII
Si apre il parlamento, e discorso che vi fa la corona: operazioni che avvengono nella camera de’ deputati, e discussioni che indi a poco vi succedono rispetto agli avvenimenti delle Calabrie: iniqua determinazione che adotta il parlamento di Sicilia, e dignitosa protesta per parte del Sovrano.
Dopo di aver discorso delle rivolture che avvennero, delle conseguenze che produssero e del sangue che si sparse, l’ordine della storia ci obbliga ora a rivolgerci alla politica.
I collegi elettorali, che per tutto il regno doveansi riunire il 15 giugno, onde scegliere i novelli deputati al consesso legislativo, che aprir si doveva al 1° luglio, in diversi luoghi delle provincie procederono con calma e rettitudine al disimpegno del di loro mandato; ma in alcuni altri, cominciandosi dal protestare per lo seguito scioglimento delle camere all’accaduto del 15 maggio, non si volle affatto addivenire alla chiesta elezione. Nella più parte poi, dopo la stessa formale protesta, si rielessero un’altra volta tutti coloro che pria del 15 maggio erano stati prescelti. Laonde apertamente scorgeasi, che le stesse intemperanze che avevano partorita quella catastrofe, si volessero di bel nuovo con maggiore audacia riprodurre.
Ad onta di tutti questi sforzi menati dagli agitatori, erasi non pertanto ottenuto una sufficiente elezione di deputati, in guisa che niun altro ostacolo più esisteva per questo verso per la solenne apertura del parlamento.
Nei paesi costituzionali, in tali occorrenze, dovendo il Sovrano presedere all’atto d’inaugurazione della sessione legislativa, ove non si voglia, o non si possa a tale atto intervenire, fa sempre d’uopo delegare uno o più soggetti, al disimpegno di quelle alte funzioni. Ora tanto per l’appunto in Napoli accadeva al 1°luglio, perché non potendo il Re prestarsi all’atto d’inaugurazione, espressamente vi deputava il duca di Serracapriola, vice presidente del consiglio di stato e pari del regno, il quale partito dalla sua dimora con carrozze di corte, e col corrispondente seguito, alla volta de’ regi studi, destinati per siffatta solennità, dopo di esservi stato ricevuto con tutti quei riguardi che al suo alto incarico convenivano, assisosi al suo posto, alla presenza de’ pari e deputati, del corpo diplomatico, del ministero, de’ generali, de’ magistrati e di tutt’i più alti funzionari, profferiva in nome della corona il seguente discorso:
« Signori = Mentre nel mio animo io vagheggiava il sospirato giorno, in cui sarei stato circondato dalle camere legislative del regno, un fatale disastro, del quale non lascerò mai di contristarmi, sopraggiunse sventuratamente a protrarne la solenne riunione. Al dolor profondo di un sì malaugurato ritardo, mi è oggi di conforto di vedervi qui ragunati; poiché a far prestamente rifiorire in questa comune patria dilettissima la prosperità vera, cui ogni popolo incivilito à ragion di pretendere, ò bisogno del vostro leale, illuminato e provvido concorso.»
«Le libere istituzioni, da me irrevocabilmente sanzionate e giurate, rimarrebbero infeconde se apposite leggi dettate sopra basi analoghe non venissero ad affiancarle co’ loro vari sistemi di applicazione. Invoco dunque la vostra particolare sollecitudine su questo prominente obietto.»
«Su i diversi progetti, che vi saran presentati, voi fermerete sopratutto le utili norme a stabilirsi per la speciale amministrazione delle comuni e delle provincie, che dan primo stato ad ogni società politica; quelle che debbono ordinare definitivamente la guardia nazionale, a cui si appartiene di vegliare al sostegno della tranquillità interna dello stato; quelle finalmente che son dirette a diffondere con più sicuri metodi la pubblica istruzione in tutte le classi, affin di promuovere la ognor crescente civiltà, e serbare nell’avvenire intatta quella gloria che tanti egregi ingegni ci procacciarono per lo passato.»
«Le finanze pubbliche meritano di occupare innanzi tutto la vostra particolare attenzione. Al dissesto inevitabile, cui esse instantaneamente soggiacquero per tante politiche vicissitudini, si richiedono pronti e generosi provvedimenti. Né io diffido che in questa ubertosa terra l’equilibrio, fra gl’indispensabili bisogni ed i mezzi più acconci a provvedervi, possa ritardar molto a ristabilirsi.»
«Delle si funeste perturbazioni, che agitando pertinacemente il reame, paralizzarono da una parte ogni specie di industria e di commercio, e strariparono dall’altra sino ad attentare alla proprietà ed all’onore de’ privati, voi cercherete di smascherare coraggiosamente le cagioni e i pretesti, e con provvedimenti energici darete opera che un si rincrescevole stato di cose cessi per sempre, né più si riproduca; essendo questo un bisogno universale di cui tutti sentono l’urgenza e l’importanza. L’ordine, senza del quale non è possibile alcuna prosperità civile, non può derivare che da savie leggi e la libertà stà esclusivamente nell’ordine.»
«In generale, io non ò ragion di credere che le nostre pacifiche relazioni con le altre potenze di Europa sieno in nulla cangiate. Posti così nella felice attitudine di rivolgere tutte le nostre cure all’amministrazione interna dello stato, noi potremo contribuire d’accordo a farla prosperare tranquillamente nelle sue vie. Inflessibile nel mio proponimento di assicurare il benessere a tutti e il godimento di una ben’intesa libertà, farò di questo nobile obietto la costante preoccupazione della mia vita; ed il vostro autorevole concorso me ne garantirà pienamente il successo. Avendo chiamato a giudice Iddio della purità delle mie intenzioni, non altro mi rimane oggi che chiamare a testimoni voi e la storia.»
Terminato il discorso, il regio delegato dichiarava in nome del Re aperte le camere legislative, e ritiravasi dalla sala con gli stessi onori co’ quali era venuto.
Alle prime ore del giorno appresso recavansi molti pari e deputati alla chiesa del Gesù vecchio per assistere al sacrificio della messa; indi invocavasi l’aiuto dello Spirito Santo col veni creator spiritus, e per ultimo impartivasi la benedizione del Santissimo Seguito questo sacro atto, i pari e deputati volgevano alle proprie camere, per disimpegnare l’alto incarico ricevuto.
I primi giorni nelle due camere si passarono in meri atti preparatori, perciocché non trovandosi in entrambe il numero bastevole a’ sensi dello statuto costituzionale, niuna discussione vi potè succedere.
Essendosi poco appresso riuniti in numero sufficiente i deputati, la prima operazione che vi avvenne, fu la verifica de’ poteri e la scelta delle cariche indispensabili per la camera. La presidenza l’ottenne l’avvocato D. Domenico Capitelli, la vice presidenza il professore D. Roberto Savarese, e per segretari poi si elessero D. Leopoldo Tarantini, D. Giuseppe de Vincenzi, D. Paolo Emilio Imbriani e D. Antonio Ciccone. Cominciarono le discussioni, ed una veramente interessante fu quella che riguardò la capacità de’ ministri, stati puranche scelti deputati, pe’ quali scorgeasi un ostacolo in ciò che prescriveva lo statuto rispetto a’ pubblici funzionari amovibili; perciocché molti trovando inapplicabile quella disposizione in riguardo a’ ministri, ed altri per lo invece ravvisando l’opposto, la quistione diveniva di gravissimo momento. Speciosi furono gli argomenti che si svilupparono dall’una parte e dall’altra, ma due sopratutti richiamarono l’attenzione dell’assemblea.
Assumeva il sostenitore della incompatibilità, che il risolvere la quistione affermativamente tendeva ad uno sconcio grandissimo, qual’era quello d’introdurre nella camera niente meno che dieci ministri responsabili, che uniti a funzionari pubblici inamovibili, che un dì avessero potuto sedervi, sarebbe stata di leggieri alterata la indipendenza della rappresentanza nazionale, immutandola per tal modo in un organo governativo.
«Io credo, (diceva l’oratore) che le assemblee legislative debbano trattare le quistioni che loro si presentano con larghe vedute politiche, risalendo sempre a’ principi, anzicché attenersi alla lettera morta degli statuti per rovesciare le più solenni garentie della libertà. Il principio porta una grave conseguenza che proviene legalmente dalla base dello statuto fondamentale che, anzicché respingerla con interpetrazione manierosa, e siami permesso dirlo, con interpetrazioni legulee. E poiché a creder mio sarebbe deplorabile per noi nelle condizioni del paese di vedere i ministri sedere nella camera come depu tati, permettete che io rimonti alle diverse opinioni che nelle varie costituzioni de’ stati europei sono state diversamente adottate, per trarne utili insegnamenti, e storiche induzioni. Nella costituzione francese del 1791, dalla quale le altre posteriormente da’ diversi popoli adottate ànno attinto, come da fonte comune, quale più, quale meno, era permesso a’ ministri di essere nominati deputati, ma ad una condizione, che ottenuta la nomina dovessero scegliere fra l’ufficio del quale erano investiti, e la nazionale rappresentanza. E ciò teneva ad un principio santissimo, cioè alla incompatibilità sostanziale fra gli agenti del potere esecutivo, e gli eletti del popolo per suoi rappresentanti incaricati del potere legislativo. Nella stessa costituzione era egualmente statuito, che il deputato non poteva esser fatto ministro, e ciò per una conseguenza dell’identico principio. Le costituzioni poscia venute ànno modificato or luna, or l’altra di coteste istituzioni, poiché o ànno permesso chiamare i ministri dal seno de’ deputati, ovvero a’ ministri d’essere eletti rappresentanti della nazione. Ognuno riconosce che bene in un governo costituzionale possa trarsi dalla maggioranza parlamentaria un ministro, a vv egnacché i ministri debbono rappresentare la pubblica opinione, epperò debbono uscire dal seno della maggioranza che questa pubblica opinione rappresenta; quindi la fiducia che gli elettori ànno riposto in un cittadino, si presume giustificata, anzi accresciuta, quando egli appartiene alla maggioranza, ed è invitato a partecipare delle funzioni ministeriali. Ecco perché si è derogato al principio della costituzione francese sulla incompatibilità de’ deputati di entrare nel ministero. Ma queste ragioni non possono invocarsi nel caso che un cittadino il quale, mentre è rimasto nella vita privata, né à meritata la fiducia degli elettori, si presenti esso con tutta l’influenza che gli deriva dalla carica di ministro conferitagli dal potere esecutivo.»
«Or nelle nostre costituzioni si è voluto sapientemente consacrare il rispetto ai principi di dritto statutario che accennai, avvegnacché si è soppressa la disposizione dell’art. 46 della costituzione francese, il quale fermava in massima, che i ministri potevan sempre essere eletti a deputati, ed invece si è consacrata la incompatibilità fra questo altissimo ufficio civico ed ogni pubblico impiego da] governo conceduto, riforma vanamente per 18 anni desiderata dal popolo francese, il quale da essa sperava rimedio alla corruzione introdottasi nella sua rappresentanza, corruzione che chiuse la via a quel social progresso inaugurato dalla rivoluzione del 1830. Il deputato che tale fu per libera e non sospetta scelta de suoi concittadini, ben può conservare la fiducia ch’essi gli accordavano ascendendo al ministero: il suffragio che allora ottiene è una conferma popolare delle scelte che di lui àn fatto a gara governo ed il popolo. D’altronde se è ben facile che in una elezione generale l’influenza governativa spiegandosi sopra qualcuno de’ molti collegi elettorali, faccia prevalere un ministro ad ogni altro candidato, questa sfera di azione diviene angusta e limitata nel caso di una rielezione presso quello stesso collegio che già prima riconobbe fa probità civile di un cittadino, e lo prescelse a suo rappresentante.»
«Né da ultimo parmi che priva di ogni altro interesse sia la riflessione che nelle prime mie parole accennava. In Francia ed in Inghilterra numerose di più centinaia sono le assemblee legislative, locché rende quasi inutile la influenza di tre a quattro voti accordati ai ministri; ma nel nostro parlamento sarebbe oltremodo pericoloso fra unapicciola schiera dì deputati conceder seggio infitto a dieci ministri, poiché le più gravi quistioni sarebbero da essi d’ordinario derise.»
«Riconoscete adunque con me siccome una delle più solenni garantie della indipendenza della camera de’ dopatati, e quindi delle pubbliche libertà, il principio della incompatibilità tra il nostro ufficio e le pubbliche funzioni amovibili, e largamente applicatelo ogni qual volta le parole dello statuto decisamente non ve lo vietino.»
Il difensore dell’opposta sentenza, dopo di avere convenientemente mostrato che la quistione della capacità essendo tutta impersonale, d’uopo si rendesse di svolgerla co’ rigori de’ principi, aggiungeva così:
«Per quanto io mi sappia, non vi è popolo civile che non abbia stabilito il principio, d’esser lecito a’ deputati l’addivenire ministri, anzi aggiungerò, che questo è un articolo fondamentale di tutte le costituzioni più libere stabilite nell’interesse del popolo, e nell’utile della patria. Che cosa è mai il ministro deputato? Èl’uomo prescelto dalla nazione, è l’uomo che ascende al potere col suffragio della maggiorità della camera, ossia della maggiorità de’ deputati eletti dalla nazione. Ecco perché in tutte le costituzioni di Europa è stabilito questo sacrosanto principio, che tutt’i ministri possono esser prescelti tra i membri delle due camere. Anzi questo principio è tanto radicato in Inghilterra, ch’è il paese più antico che abbia goduto della libertà costituzionale, che certamente un’inglese avrebbe a far le meraviglie se vedesse agitare la presente quistione, e sostenere la incapacità del ministro ad essere deputato del popolo, mentre non v’à esempio presso quella libera nazione di un ministro che non abbia seggio o nell’una, o nell’altra camera. Premesso questo principio, io dimando, se si ritenga che i deputati possono essere mi ni stri? Certamente non v’è chi possa dubitarne. Or quando la legge stabilisce una eccezione al divieto generale che colpisce gl’impiegati amovibili, dichiarandoli inabili a rappresentare il paese nella camera elettiva, e questa eccezione è appunto a favor de’ ministri, era quello il luogo di limitare questo favore (se tal era la mente del legislatore.) e dichiarare che il deputato poteva esser ministro, ma il ministro non mai deputato. Ora il legislatore si è servito di una locuzione generale, che non lascia luogo alla benché menoma osservazione dubitativa, e come mai si vuole a forza di stanche interpetrazioni introdurre questa distinzione sofistica, e sostenere che i ministri debbono esser prima eletti deputati, poi nominati ministri, e per ultimo rinominati deputati. Ma io domando, quale differenza vi è tra i voti che il libero suffragio de’ cittadini elettori dà all’uomo rivestito delle funzioni di ministro, quando a lutti è noto, ch’egli è nella attualità del possesso di questa qualità, ed i suffragi che dà al deputato divenuto ministro? Che questo sia apertamente un voto di fiducia dalla parte del pubblico, non vi à un dubbio al mondo, poiché lo elegge, malgrado che sia ministro. Che se poi si teme della influenza che il ministro possa esercitare mercé le attribuzioni della sua carica, allora bisognerebbe cancellare l’articolo 73 dello statuto, poiché quando il deputato divenuto ministro si ripresenta alla elezione, allora ei potrà benissimo esercitare quella medesima perniciosa influenza che avrebbe potuto esercitare essendo ministro e non deputato.»
«Ma vi è dippiù; noi con questa interpetrazione andremo incontro ad uno sconcio di cui non potrei segnalare e qualificare il maggiore. Io auguro a questa camera, di cui mi onoro di far parte, la sua vita naturale, ossia di cinque anni: allora si dovrà procedere alle rielezioni; e fo voti che buon numero de’ ministri trovinsi prescelti allora tra la maggiorità di questa camera, tra coloro che ànno ottenuto il battesimo popolare. Ora in questo caso, che deve indubitatamente avverarsi almeno ogni cinque anni, i ministri non potranno presentarsi alla rielezione, poiché essendosi caduca t o il mandato che avevano precedentemente ricevuto, se sono ministri, senz’alcun dubbio non sono ministri deputati preceduti da una elezione quando eran privati, poiché la elezione é caduta nel nulla, essendo spirato il termine del mandalo conferito dal popolo. Ed immaginate che costoro s o no ascesi al potere (come deve presumersi nel sistema costituzionale) sull’appoggio spontaneo della maggiorità del parlamento, che vuole decisamente l’ordine, la legalità, la larga libertà. Or bene, costoro non potranno aspirare al suffragio de’ loro concittadini tuttoché sostenuti ed approvati nella loro amministrazione dalla immensa maggiorità de’ rappresentanti del popolo! Questo é un mostruoso assurdo. La libertà è cosa seria, e seriamente va considerata, ed il vero modo di renderla stabile, duratura e trionfatrice è quello di rimanere saldi ai principi, senza farsi influire da considerazioni estranee.»
«Ecco dimostrato che la nomina de’ ministri fra i deputati e tra i membri dell’altra camera è tutta nell’interesse del popolo. Credo di aver anche dimostrato che tutte le costituzioni di Europa ammettono il medesimo principio, e tra queste la più libera, che è quella del Belgio, à stabilito quanto vi era di meglio nel principio democratico temperato col principio monarchico, di modo che quella può dirsi una costituzione repubblicana col presidente ereditario. E finanche nella Francia, che ora si regge a signoria di popolo e con forme interamentedemocratiche , i ministri lutti possono essere e sono membri dell’assemblea nazionale repubblicana. Anzi nell’ultima elezione del ministro della marina si è dubitato della legalità della nomina, perché egli non era membro dell’assemblea! Ora in tutte quelle costituzioni questo principio è sancito come una delle guarentigie principali del popolo. Vi ò dimostrato per ultimo, che laddove si desse luogo a questa interpetrazione, gli uomini che sono ascesi al ministero con voto unanime e con immensa maggiorità della camera elettiva, e che godono della fiducia del popolo, questi uomini voi li esporreste a far la più trista figura, a far le viste di dimettersi, è sottrarsi momentaneamente dal ministero per rioccuparlo. E tutto ciò col consenso, e col plauso del paese! Non date luogo a questo pubblico scandalo.»
Terminata questa vivissima discussione, dopo di aver caldamente perorati parecchi altri oratori, la camera ad una rilevante maggioranza ritenne, che non potessero i ministri venire eletti deputati.
Passati alquanti giorni senz’alcun significante incidente, non sopportando taluni esaltati della camera quel modo col quale era stata in certa guisa infrenata la stampa, e mal soffrendo alcuni altri che il generale Nunziante collo sciogliere le guardie nazionali di alquanti comuni avesse ricondotta con ciò la calma nelle Calabrie, a tutto potere si diedero ad attaccare aspramente il governo. Epperò un giorno, nel mentre la camera stava ne’ suoi lavori occupata, un deputato faceva la seguente mozione:
«Io annunzio alla camera, siccome è mia opinione, dopo i nefandi attentati commessi contro la maggiore delle nostre libertà, la libertà della stampa, esser necessario d’interpellare il ministero, se per avventura questo sacro, anzi santissimo dritto della parola libera, debba aversi ancora per annullato come tanti altri; o pure vi è alcun limite alla usurpazione progressiva del potere. Io prego questa assemblea di prendere in considerazione una cosa di sì alto momento, poiché io non so come noi potremo dirci liberi nel seno di quest’adunanza, quando al di fuori questa stessa libertà manca a’ cittadini; e una radunanza la quale manca della libertà della sua opinione, è una illusione, o per dir meglio una ironia della libertà. Io prego. dunque questi signori che furono chiamati qui come propugnatori della libertà, di assentire alla mia domanda, che tende a premunirla da una manomessione compiuta, che sarà immancabile, quando privandola della parola, le sarà tolto lo spirito e la vita.»
E poco appresso un altro deputato anche più esaltato, che al 15 maggio occupava il seggio di un ministero, togliendo a pretesto il procedere del generale Nunziante, faceva quest’altra mozione.
«Domando di fare una interpellazione al ministero sulla autorità discrezionale che à esercitato ed esercita nelle Calabrie il generale Nunziante. Dicesi investito dei grandi poteri che son contenuti nella formola dell’ alter-ego , ma io non ò veduto alcuna ordinanza segnata da un ministro responsabile che gli abbia conferito un sì ampio potere politico amministrativo, qual si è quello che egli esercita in quelle provincie. Dal foglio ufficiale rileviamo che egli à in diversi comuni usato la sovrana prerogativa di sciogliere la guardia nazionale, e l’altra di ricomporne una nuova, e con norme differenti da quelle della legge provvisoria del 13 marzo, che è la sola vigente in questo regno , dapoiché dalla convocazione delle camere dal 15 maggio in poi, il potere esecutivo non avea più dritto di far leggi da se solo, segnatamente in rispetto alla guardianazionale, essendo stato espressamente prescritto dallo statuto, che soltanto per quella prima volta si sanzionava una legge provvisoria da valere insino alla convocazione della rappresentanza nazionale. Io non so se un Re costituzionale possa delegare ad altri l’esorbitante facoltà di sciogliere la guardia cittadina: massime colla generica for m ola dell’ alter ego; è questo uno de’ più gravi problemi del dritto di questo regime; ma so bene che sciolta, non può ricomporsi che secondo la legge vigente fino al giorno della riunione delle camere, che sole possono sostituirne a quella una nuova e diversa.»
«Domando altresì d interpellare il ministro di grazia e giustizia, se abbia ricevuto rapporto sull’assassinio che dicesi avvenuto, e con brutale ferocia commesso, in persona del già deputato Costabile Carducci. Colui che se ne vuole autore scorre a fronte alta le vie di Napoli, e dicesi venuto a domandarne il premio. Siccome questo non è un fatto isolato, e molti simili casi sono avvenuti altrove, senza che pur si accenni alla formazione di un processo penale, vorrei sapere come si debba intendere questo sistema d’impunità, e fino a qual segno e sotto quali condizioni la vita de’ cittadini si voglia garentire dal presente ministero, ed in quali casi le leggi tutelari di esse abbiano a tacere» Su queste mozioni era stato il ministero interpellalo a dare i dovuti chiarimenti; e presentatosi di fatti al giorno appresso il ministro dell’interno Bozzelli alla camera, ove per la circostanza il pubblico trovavasi radunato strabocchevolmente, con voce alquanto debole dapprima, ferma e sonora nel proseguo, in questi termini parlava:
«Signori, pria di ogn’altro domando all’onorevole deputato da cui mi parte l’interp e llazione, d’onde mai egli abbia tratto la notizia che il generale Nunziante nell’ultima increscevole congiuntura sia stato rivestito dell’ alter-ego? Quella frase mi è nuova, e se il ministero ne à veramente fatto uso, bisogna dire che il ministero sia il solo che non ne sappia nulla. Quando in quell’infelice provincia scoppiò la conflagrazione che pose in tanta ansietà tutto il reame, e di cui fra non molto io confido di presentare alla camera i particolarizzati ragguagli da me altra volta promessi, il governo stimò suo positivo dovere di accorrere immediatamente per apporvi un argine, ed al generale Nunziante cui venne affidato il comando di una parte della truppa colà spedita all’uopo, furono date in iscritto delle apposite istruzioni, le quali discusse e consentite dall’intero consiglio de’ ministri, furono pagina per pagina da tutti i ministri contrasegnate. Nel quadro storico di quelle deplorabili vicende di cui sto raccogliendo a lutto potere gli svariati elementi, per darne comunicazione alla camera, era mio preordinato disegno di comprendere tra i promessi documenti una copia legale di queste istruzioni; ma poiché si à tanta impazienza di saperne il contenuto, eccomi a darvene lettura» Dopo di avere il ministro minutamente esposto tutt’i documenti corrispondenti, e le istruzioni date dal governo al generale Nunziante, così continuò a dire:
«Ora il generale à seguito con esattezza ed onore le tracce che queste istruzioni gl’imponevano di calcare.»
«Se voi siete compiacenti di attendere i ragguagli promessi, ne sarete appieno convinti. Si è detto inoltre che il generale sciogliesse varie parti della guardia nazionale delle Calabrie, e ne ricomponesse delle nuove a sua posta. Qui signori vi è un doppio equivoco a chiarire. Le varie parli della guardia nazionale che furono ivi disciol t e non per fatto del generale, ma per ordine preciso e posteriore del rea l governo, avevano presa parte diretta nella conflagrazione che incendiò quelle provincie. Sciogliendole il governo, non fece che seguire le facoltà che la legge gli accordava, e voi consentirete, spero, che non si possa comprimere una rivoluzione lasciando armi e poteri nelle mani di coloro che erano concorsi a suscitarla. Correa obbligo al real governo di riorganizzarla tra lo spazio improrogabile di un anno, ciò non offre addentellato a’ reclami; poiché se il calendario non m’illude, il periodo dell’anno non è al certo decorso. In quanto alle guardie nazionali che si dicono ricomposte a capriccio, l’equivoco è ancor più flagrante. Le Calabrie o signori sono state iniquamente cal unniate. Si è preteso che quelle popolazioni volessero da capo a fondo rovesciare la costituzione del 10 febbraio per istabilirne non so qual altra immaginata nella beatitudine de’ monti platonici, e favolosi. È falso: quella fu opera di pochi deliranti ivi rifuggiti alla ventura, e forti soli di pochissimi proseliti stranieri, e da un’orda di condannati di ogni specie, che a dispregio di ogni conosciuto principio di dritto delle genti l’Etna ne vomitava dal fondo delle sue ciclopiche viscere. Quindi avvenne che le popolazioni delle Calabrie, dispersi al solo apparir della forza i sovvertitori dell’ordine, stanche dalla divorante anarchia che le agitava r fedeli alla costituzione giurata, e non altro volendo che la costituzione giurata, offersero spontaneo il concorso del loro aiuto. Perché? Non per altro che per lo ristabilimento dell’ordine. Il generale Nunziante non poteva certo dispensarsi d’accogliere una sì cittadina offerta; ecco a che si riduce la guardia nazionale ricomposta a capriccio, io credo che in ciò non vi sia nulla né di straordinario, né di abusivo. In quanto alla guardia nazionale di Napoli, di cui parlava l’onorevole preopinante, io osservo ch’essa fu disciolta per gravissime ragioni. Era dri tt o, o per dir meglio dovere del governo di riorganizzarla, ma tra lo spazio improrogabile di un anno, e siccome si avvicinavano i collegi elettorali e le susseguenti camere legislative, il governo credè spediente di riprendere l’antica guardia civica che vi era in Napoli per attendere a’ servizi delle camere e de collegi, ed in ciò anche mi sembra che non vi sia nulla né di straordinario, né di abusivo; l’anno non è ancora decorso, e fra breve voi dovete votare una legge diffinitiva sulla guardia nazionale. Nell’ultima discussione mi sembra di aver letto l’ avviso di un altro onorevole deputato il quale, allegando gli usi de’ governi rappresentativi, dichiarava esser dovere de’ ministri rimanersi inchiodati su’ banchi della camera se per avventura l’estro venisse a qualcuno di far loro delle straordinarie interpellazioni. Ma anche noi peregrinando in Europa per lo spazio di diciotto malagevolissimi anni abbiamo studiati gli usi de’ più celebri governi rappresentativi, ed il vero uso è quello di annunziare le interpellazioni in una tornata, e di attenderne la risposta in un’altra; del resto io mi restringo qui ad osservare solamente che dopo i nuovi, ordini civili tra noi stabiliti, l’attual ministero si trova in uno stato eccezionale di straordinarie cure e fatiche, dalle quali non può esser troppo distratto senza paralizzare in danno di tutti la intera macchina governativa; gran tempo è altresì preoccupato il ministero da tanti progetti di legge che si stanno da per tutto elaborando per soddisfare a’ medesimi desideri della camera, e poiché si parla della dottrina e degli usi, io credo uso costante ne’ governi rappresentativi di non passarsi a discutere progetti di legge senza che sia prima pubblicato l’indirizzo in risposta al discorso della corona, come quello il quale dovendo manifestare la fisonomia politica dell’assemblea, dee servire di stella polare al ministero per illuminarlo nella sua via, e a quanto io sappia,l’ egregio deputato a cui accenno non à mai alzato la sua voce per far cessare un ritardo che tiene il paese in una prolunga t a e desolante agonia.»
«Signori, in ciò che si esige dal governo in queste difficilissime circostanze, vi à qualche cosa che passa fumana intelligenza, passa tutte le forze umane; poiché nel reame vi è calma bastante sì, ma di quella calma, che succeduta di fresco alla tempesta, è ancor più spaventevole della tempesta. Né poi vediamo sparito da per tutto quello spirito di effervescenza, di novità, di anarchia, di disordine, onde il paese è stato tanto agitato e sconvolto. Vogliate, o signori, vogliate per poco gittar lo sguardo su questo miserando spettacolo che ci sovrasta son già due mesi, da per ogni dove suscitata la cieca plebe ad impadronirsi della proprietà de’ privati, l’industria paralizzata, il commercio distrutto, le casse pubbliche depredate, le città in convulsione, le campagne deserte, la miseria entrata in tutte le famiglie, il terrore a tratti scolpito e dipinto in tutte le fisonomie.»
«Da per ogni dove la guardia nazionale prender parte ai più gravi disordini, spesso suscitarli e difenderli; da per ogni dove la sfreuata stampa inventar menzogne, spander l’allarme, insultar tutti, calunniar tutti, non rispettar né l’umano, né il divino; e coprir fina n co di calunnie, d’ingiurie, e far bersaglio d’immoderate minacce chi la legge dichiara persona sacra ed inviolabile; i collegi elettorali farsi giudici delle operazioni del governo, e non dubitate il carro è sul suo bel pendio; andranno un giorno fino a destituire voi stessi dalle vostre alte funzioni» Vero è che a queste ultime parole successe una straordinaria agitazione nel pubblico esaltato, che degenerò ad atti smodati, per modo che il ministro dové per qualche tempo interrompere il suo dire; ma rimessa indi a poco la calma, il medesimo potè turbato com’era in tal guisa proseguire:
«Signori, io non so come poter riannodare le fila del mio discorso; il mio spirito non è turbato, ma bastantemente commosso; fino ad oggi, avvezzo ad essere bersaglio d’ingiuste contumelie, io so pur troppo, che non ci è vita intemerata, la quale possa resistere alla ferocia ed al furore de’ partiti, se non che pubblicate, or sono già ventisei anni, le mie politiche opinioni al cospetto di Europa, sfido chiunque ad imputarmi, che io mai abbia deviato da queste tracce; volli sempre la libertà dell’uomo onesto, e per questo solo ed innocente desiderio, le mie guance sono ancora solcate di lacrime, le mie mani portano ancora l’impronta delle catene; il non aver parteggiato con tutti, à rivolto tutti contro me, io non curo le ire, bastando aver meco la testimonianza della mia coscienza; oggi specialmente in cui fermo è in me il proponimento di non trascinar più oltre queste pesanti catene, e rientrare nella solitudine della mia condizione privata. Provvederete voi, o signori, a’ mezzi di ritirare questo infelice paese dalla voragine de’ mali, in cui più volte fu sommerso e risommerso; e di me, di voi, di tutti saranno giudici severi l’Italia, l’Europa, il mondo, la posterità.»
Questo franco parlare di un ministro, ch’erasi sempre mostrato un caldo partigiano di civili riforme, avrebbe dovuto, come a lampo di luce che addita un sentiero nell’oscurità, avvertire qualche ardente deputato, quanto malagevole e dura impresa fosse quella di muovere in siffatte circostanze una viva opposizione ad un procedere cotanto legale che aveva serbato il governo, senza neanche commettersi da alcuno de suoi principali agenti nelle insorte regioni il benché menomo atto di rigore, che circostanze tanto straordinarie avrebbero in certo modo autorizzato. Al contrario però sorgendo oratori da molti sta l li della camera per ribattere quelle accuse che il ministro dell’interno aveva mosse, il primo tra essi, cui fu concessa la parola, faceva si a dire cosi:
«Signori: se peccassi di vanità avrei giusto motivo di superbire, poiché l’onorevole ministro dell’interno nella prima volta che intervenne in questa camera in comitato segreto, ed ora ch’è venuto in seduta pubblica, à creduto di dovere specialmente volgere il suo dire intorno a qualche mia opinione, e per confutarla l’una volta mi à rammentato il secolo di Saturno, e questa mane à accennato alla repubblica di Platone. Ma io, signori, lascerò la favola, porrò da banda la storia antica, e verrò difilato alla trista storia contemporanea. Dirò soltanto che forse l’onorevole ministro non à prestato tutta la sua attenzione allorquando ò chiesto la rettifica del processo verbale, poiché altrimenti si sarebbe di leggieri convinto che io son venuto a dire tutt altra cosa, e che la intenzione che mia mosso a chiedere quella rettifica è stata precisamente l’opposto di ciò ch’egli à creduto di attribuirmi. Io non diceva essere nella facoltà di un deputato di fare ad ogni istante qualunque interpellazione al ministero, e che il ministero fosse tenuto di rispondere al momento: io diceva tutt’altro, cioè esser nella facoltà del deputato di dichiarare in un giorno l’obbietto della interpellazione, ed esser suo obbligo di determinare nello stesso giorno la seduta in cui intendeva sviluppare la sua mozione. Ecco dunque che io non ò mai preteso parlare di chiodi, non ò mai detto che il ministero dovea esser inchiodato su quel banco; ò detto bensì che il ministero sempre si presume virtualmente presente alle nostre pubbliche discussioni, perciocché o effettivamente un suo membro assiste all’assemblea sedendo sul banco assegnatogli, ovvero il ministero à contezza di tutto che avviene in ciascuna tornata, leggendo (come è suo debito) il rendiconto dell’assemblea, specialmente quando non è stato nel grado d’intervenirvi. Allora è ben naturale che per quella reciproca convenienza, per quella scambievole civiltà che deve regolare le relazioni tra gli agenti del potere esecutivo ed i rappresentanti del popolo, nel giorno indicato il ministro al quale deve rivolgersi l’enunciata interpellanza, recasi nell’assemblea o per dare i chiesti chiarimenti, o per dichiarare non esser nella posizione o nell’obbligo di darli.»
«Sbrigatomi o signori da queste considerazioni tutte a me personali, permettete che alla mia volta sottometta le mie idee all’assemblea, giovandomi della presenza dell’onorevole ministro; poiché col suo dire, e mi giova sperarlo, egli potrà dileguare alcuni gravissimi dubbi.»
«L’onorevole ministro nel suo discorso che testé avete udito, à saggiamente detto che non era stato mai conferito l’ alter ego al generale Nunziante. Ed in vero come m ai questo poteva aver luogo? E può mai, o signori, in un governo costituzionale, può mai parlarsi di alter ego conferito ad un agente del potere esecutivo? Il supremo capo dello stato, il capo ereditario della nazione, non può fare alcun atto che non sia rivestito della soscrizione di un ministro, come agente responsabile del potere. Or come si potrebbe trasmettere ad un semplice cittadino l’esercizio di questo dritto della corona, che è strettamente congiunto all’adempimento di quell’indeclinabile dovere? Certo che no; bisognerebbe che l’uomo investito di quell’alta facoltà avesse a sua disposizione un segretario di stato che autenticasse tutte le sue disposizioni? Or questo è contrario a tutti i principi ed a’ più elementari del dritto costituzionale, poiché ogni atto governativo deve avere la sottoscrizione ministeriale, affinché la responsabilità non sia un vano. nome; né un ministro può autenticare con la sua firma gli atti di un suo subalterno per infondere in loro quella legalità di cui mancano. Laonde ottimamente diceva l’onorevole ministro, ed io fo plauso al suo dire, che non si era mai trattato di dare al generale Nunziante l’ alter ego. »
« Ma mentre siamo interamente di accordo intorno ai principi, sono dolente di non poter seco convenire in quanto a’ fatti; poiché a me pare che comunque quelle istruzioni date al generale Nunziante e lette dalla tribuna in questa tornata, fossero in gran parte sagge e temperate, pure porto opinione che in quella sia frammisto alcuna cosa che non possa delegarsi ad altri, senza render nulla, vana ed illusoria la responsabilità ministeriale. Intendo parlare del dritto di scioglimento parziale della guardia nazionale.»
«Io ò prestato come era mio debito tutta l’attenzione al discorso dell’onorevole ministro; ma forse per mio difetto non ò bene compreso se egli consentiva questo fatto, che il generale Nunziante avea facoltà di sciogliere la guardia nazionale, (al che avendo risposto il ministro che non l’aveva, ma che con rescritto del governo firmato dal ministro responsabile v’era stato autorizzato) così l’oratore continuò: Assodato adunque questo punto di fatto, che il ministero non à inteso nelle istruzioni date al generale Nunziante di conferirgli il dritto di sciogliere la guardia nazionale, questa guardia che è istituita a tutela dello statuto, della libertà, della indipendenza e di tutti i dritti i più sacri della nazione; quando, io diceva, si conviene di ciò, domando alla mia volta: il generale Nunziante, visto lo stato delle Calabrie, che cosa à proposto al governo? Aproposto forse lo scioglimento locale di alcune guardie nazionali? Ma per essere locale Io scioglimento della guardia nazionale vi à bisogno di un decreto speciale e della sottoscrizione del ministro. Or bene; dov’è il decreto di scioglimento? Dov’è la firma del ministro? L’onorevole ministro dell’interno ricorda certamente che, quando il consiglio determinossi a disciogliere la guardia nazionale di Napoli, non agì altrimenti, poiché con un decreto rivestito della firma dell’agente responsabile, ossia del ministro di quel ramo della pubblica amministrazione, dichiarò al paese che la guardia nazionale di Napoli era sciolta. Di lì a pochi giorni qualche tumulto succeduto nella città di Ariano consigliò al governo l’adozione di una consimile misura, e si uniformò schiettamente alle regole prescritte dallo statuto. Io non intendo di entrare mallevadore di quegli atti, ne giudico la forma, non la sostanza; non discuto ora se furono indispensabili o almeno opportuni, e tutta ne lascio la responsabilità a chi li sottoscrisse. Ma per ciò che riguarda il rito (ed il rito in queste cose è di somma importanza) io domando: se allora vi fu bisogno della firma di un ministro che contrassegnò l’atto speciale ed individuo dello scioglimento, come mai si può supplire a questo difetto con un semplice posteriore rescritto concepito in termini generali, e quasi fosse una sanatoria della commessa illegalità? Ma si può con un semplice rescritto conferire ad un agente del potere esecutivo di sciogliere a suo giacimento la guardia nazionale ne’ singoli luoghi? Per lo scioglimento della guardia nazionale ne’ singoli luoghi fa d’uopo che il ministero sappia i gravi fatti autorizzanti una misura di tanta importanza, che li discuta e valuti, che stenda il decreto speciale di scioglimento, che il supremo capo dello stato Io firmi , e che il ministro dei carico Io contrassegni. E tutto ciò manca completamente nel caso in esame. Quindi a me pare di tutta evidenza, che stando anche alla posizione presa dall’onorevole ministro ed alle esplicite dichiarazioni che mi à favorito, sia questo un caso gravissimo, poiché si risolve nell’aperta infrazione della legge costituzionale che ci governa.»
«Ma ciò non è tutto, giacché il generale Nunziante, dando una maravigliosa elasticità alle ricevute istruzioni, si à preso l’enorme arbitrio da una mano di sciogliere la guardia nazionale, rivocandon e i capi eletti giusta la legge, e dall’altra convocare de’ corpi franchi, nominandone direttamente i capi . Si, lo ripeterò, e con profondo dolore; i drappelli finora raccozzati per ordine del generale che comanda nelle Calabrie non possono altrimenti considerarsi che come corpi franchi; poiché quando si affidano le armi cittadine non per ministero, della legge, ma per la scelta dell’uomo, allora queste aggregazioni di armati non possono essere risguardati come corpi legali; sono veri corpi franchi, che non sono sotto la tutela delle leggi , e quindi non possono guarentire l’ordine pubblico. E che sia così, ben vedete gittando lo sguardo sugli avvenimenti che desolano quelle infelici contrade. E che? Saremo tornati a’ tempi degli inconfidenti, delle epurazioni segrete, degli scrutini misteriosi? Che cosa à fatto il generale Nunziante? Esso à sciolta la guardia nazionale, ed à poi designato a suo arbitrio Tizio, Caio, Mevio e Sempronio per comporre una guardia nazionale, che à chiamata col titolo di provvisoria, quasicché quella esistente non fosse tale, o potesse esservi provvisorio nel provvisorio. Onde io domando; ciò è costituzionale? Che no! perciocché sostituisce la scelta dell’uomo, che è sempre di sua natura arbitraria, essendo soggetta alla influenza della passione, alla scelta della legge, che per sua essenza è impassibile.»
«Né reputo inopportuno di chiarire, o signori, questo punto specialmente adesso che siamo prossimi a discutere la novella legge sull’ordinamento definitivo della guardia nazionale. Anzi tutto dirò che il difendere con le armi cittadine il paese, le libere istituzioni concesse dalla Maestà del Principe, e l’ordine pubblico, che è inseparabile dal reggimento costituzionale, non viene già conferito dal governo, non da’ suoi agenti; viene conferito dalla legge. Si dalla legge, la quale non individua le persone che debbono Comporre questa guardia tutelare, ma stabilisce soltanto i requisiti di che abbisognano i cittadini per esercitare questo nobile diritto, che si confonde e s’immedesima col più sacro dovere. Laonde quando si è rivestito di questi requisiti, chiunque dimostra alle autorità competenti di esserne in pieno possesso, à il dritto santissimo di far parte della guardia nazionale, ogni qual volta non sia sottoposto ad una prevenzione giudiziaria, o non abbia altro legale impedimento. Ecco perché io diceva, che il generale Nunziante comportandosi in questo modo, rinviando e sciogliendo la guardia nazionale esistente, e sostituendovi dei drappelli armati sotto capi di sua scelta, à creato de’ veri corpi franchi, i quali non possono essere riconosciuti sotto il reggimento costituzionale.»
«Ma vi è dippiù, o signori; permettetemi un’altra osservazione, ed avrò finito di abusare della vostra cortese attenzione. Con questo deplorabile procedere si dà corpo all’ombra; così procedendo si vuole, in certo modo, far credere al resto d’Italia ed all’Europa, che in questo paese la opinione costituzionale non è sostenuta dal maggior numero, ma da una minorità turbolenta ed impotente. Ed in vero qual è il senso politico di questi atti del generale Nunziante? Egli ci dice in sostanza che à dovuto togliere le armi alla generalità, poiché sulle masse non si può contare, che ben pochi cittadini sono sinceri e dichiarati amici dell’ordine.»
«Signori, questa è una infelice calunnia: lo giuro pel sangue copiosamente versato da mezzo secolo, per la ostinata costanza de’sacrifizi , per le sofferte sventure, le quali sono state comuni a chi vi parla, ed all’onorevole ministro a cui rispondo. Sì il paese vuole la libertà onesta e sapiente. La immensa maggiorità del paese vuole il trono costituzionale circondato da’ suoi splendori, vuole la libertà assicurata delle nostre franchigie, e le sue legittime conseguenze: nulla di più, e nulla di meno. Conchiudo, che questo provvedimento del generale Nunziante manomette la legge costituzionale. Che dico? Compromette la gloria del paese, e la civiltà de’ tempi. Questo è gravissimo inconveniente, poiché (permettete che io lo ripeta) fa supporre all’Italia, all’Europa, che ci sta guardando, che in questo regno la opinione costituzionale non è generale, ma è sostenuta da un partito. Voi non soffrirete, o signori, che sette milioni d’italiani s o no esposti a tanto ludibrio; e mi confido che, formolando degnamente il concetto espresso in queste mie povere e disadorne parole, voi saprete tenerne conto nell’indirizzo in risposta al discorso della corona, e vendicherete l’oltraggio, come fanno i generosi, con una opportuna dichiarazione, rispettosa verso l’augusto Principe largitore dello statuto, e solenne verso la nazione che vi affidava le sue sorti.»
Terminava appena questo discorso, quando un altro deputato sorgeva a dire in questi termini:
«Dalle stesse istruzioni riservate date al generale Nunziante, che il ministro dell’interno favori di comunicarci e farci leggere questa mattina, voi vedete che la insurrezione si circonscriveva, si limitava ad alcuni punti delle due provincie di Calabria ultra 2( a) e Calabria citra, cioè di Catanzaro e di Cosenza. Affatto non si parlava della prima Calabria ultra, della provincia di Reggio. Ed io che vengo da que’ luoghi posso assicurare la camera, che si è sempre la conservata la tranquillità, l’ordine e la pace, e particolarmente nel comune di Casalnuovo, comune che per la sua posizione avrebbe potuto suscitare e mantenere la rivolta nel distretto di Palma, e quindi in tutta la provincia; il comune di Casalnuovo non si dipartì mai in parte alcuna, né si allontanò dall’ordine e dall’obbedienza alle leggi. Perché dunque arbitrariamente, dispoticamente si disorganizza la guardia nazionale di quattro compagnie di quel comune, destituendo senza render ragione di nulla i suoi comandanti, i suoi capi? Lo stesso si à per una compagnia di Polistena; lo stesso si fa in altri luoghi. Ma pur è lieve cosa, o signori, questo abuso di potere. Rivolgiamo gli occhi alle contrade insanguinate fumanti di sangue cittadino del Pizzo, di Filadelfia, di altri luoghi della provincia di Cosenza, dove si sono commessi gli eccessi più inauditi. E chi comanda le armi? 11 generai Nunziante. E il generale Nunziante di questa grande conflagrazione quali risarcimenti à dati?.»
«Egli tuttavia gode la piena fiducia del governo, egli tuttavia comanda le armi in quelle provincie. E questo è vivere sotto l’impero della costituzione? Questo è vivere sotto il nome della costituzione, non sotto l’impero della costituzione. Signori, se la camera deve sapere il vero di questi ultimi fatti che io accenno, e specialmente del fatto memorabile del Pizzo soggiocato fino all’ultima depredazione, ed insanguinato colla morte di circa trenta pacifici cittadini, senz’aver dato menomo motivo d’insurrezione o di altro, se la camera, ripeto, vuol accertarsi di questi fatti, potrebbe adoperare quello che si adopera in somiglianti casi, cioè una commissione dalla quale sarà tutto verificato. E quindi invoco che la camera prenda le analoghe disposizioni, per far conoscere al popolo che noi vogliamo fermamente una costituzione di f atto,e non di nome.»
Né qui si sarebbe arrestata la impegnata discussione, tenendosi parecchi altri deputati preparati a svolgere la promossa questione, se il ministro delle finanze, giunto per l’appunto allora alla camera, prendendo la parola, non si fosse espresso così:
«Sembra che queste discussioni s o no fuori di luogo. Il ministro à il dovere di dare i chiarimenti che si dimandano; non deve entrare in ulteriori discussioni. I chiarimenti de’ fatti son dovuti ora al ministro, ed il ministro dirà ora quel che può dire. In quanto alla discussione del se poteva, o se doveva, non è questo ilmomento di farlo così all’improvviso ; bisogna che sia chiamato a render conto il presente ministero, ed esso à troppo pura la coscienza perché possa incontrar difficoltà a render conto del suo operare. Quindi di tutto ciò che ci sarà domandato, a quello che possiamo rispondere, risponderemo».
Ma il pensiero a ferire nel cuore il governo, la opposizione da vicino il mostrava in quest’altra interpellazione che un deputato faceva». Signori, ei diceva, prima del29 gennaio per qualche nube apparsa sull’orizzonte politico del regno fu ordinata una leva di dodicimila uomini. Dopo la proclamazione della costituzione si sospese, poiché si vide inutile di far marciare sotto le reali bandiere un num ero di uomini così forte, che sarebbe stato d’ impaccioall’erario. In aprile surse la guerra di Lombardia, e noi credemmo di accedere a questa santa causa mandando le nostre truppe; fu chiamato il contingente delle reclute, furono chiamati anche i congedati per cinque annidell’ultima riserva, il numero di costoro potrebbe ascendere a circa 30 mila uomini. Disertata la guerra della indipendenza italiana, dimando al ministero, perché i congedati non sono stati rimandati alle loro case, essendo cessato il bisogno di tenerli sotto le bandiere, ed essendo rimasti ancora con grave discapito dell’erario, togliendo così una quantità di braccia necessarie a’l avori dell’agricoltura, dell’industria e del commercio?»
Ed il ministro delle finanze rispondeva; non aversi ancora a dar ragione di siffatto procedere; essersi avuto troppa necessità a ciò fare; poter però osservare, essere abbastanza alterata la cifra di 30 mila uomini tra congedati e reclute.
Da quel che adunque avveniva nella camera de’ deputati, per la opposizione manifestata contro gli atti del governo, sia per lo infrenamento della stampa, sia per la condotta del generale Nunziante, come per lo aumento dell’esercito, chiaramente si scorgea che tutt’altro si volesse in sostanza che, la speciosa legalità, e la tranquillità de’ cittadini.
Ma nell’atto che queste cose accadevano nella parte continentale del regno, nella Sicilia gli eccessi andavano ancora più oltre. Dopo la solenne dichiarazione fatta da quel parlamento sulla decadenza del Re e della, sua famiglia dal trono dell’isola, si era giunto sinanche a proclamare come sovrano di Sicilia il duca di Genova, figlio secondogenito del Re Carlo Alberto di Sardegna. E perché la scelta venisse tantosto riconosciuta, laccasi sollecita mente partire da Palermo su di un piroscafo inglese alla volta di Genova una deputazione delle impudenti notabilità siciliane di que’ tempi, per indurre Re Carlo Alberto ad annuire alla offerta che veniva fatta al figliuolo. Né frattanto trascuravasi d’informame gli agenti delle straniere potenze per le conseguenze che ne sarebbero risultate; e sopratutto poi incaricavasi il commessario del potere esecutivo in Messina onde per mezzo del consolato restasse di tutto avvertito il comandante del naviglio inglese che in quelle acque stanziava. A questo atto adempito con sollecitudine, ecco come il console britannico rispondeva al medesimo commessario:
«Bri t ish Consular Office.»
«Messina il luglio 1848»
«Signore Mi onoro dirle che ò comunicato al capitano Johen Rohb della fregata a vapore di S. M. Britannica Gladiator qui ancorata, il di lei officio di quest’oggi, col quale mi fa conoscere essere stato eletto per Re dal parlamento Alberto Maria Filiberto duca di Genova. Esso sig. capitano mi à significato che dimani alle 8 a. m. farà la salva alla bandiera di Sicilia. Serva ciò per sua intelligenza.»
«Il console di S. M. Brittannica W. W. Burker.»
Laonde non convenendo alla dignità del Sovrano delle due Sicilie di lasciar correre quest’ultimo tratto di eccesso della ribellata isola, a 13 luglio pubblicava un’altra solenne protesta espressa così:
«Visto il nostro atto di protesta del 22 marzo 1848, col quale dichiarammo illegale, irrito e nullo qualunque atto contrari o agli statuti fondamentali, ed alla costituzione della monarchia.»
«Visto l’altro nostro atto solenne di protesta del dì 18aprile 1848, col quale dichiarammo illegale, irrita e di niu n valore la deliberazione presa in Palermo il di 13 aprile 1848, perché lesiva de’ sacri dritti della nostra real persona e dinastia, e della unità ed integrità della monarchia.»
«Essendo venuta a nostra cognizione altra deliberazione presa in Palermo il dì 11 luglio corrente, colla quale violandosi il principio dell’unità e della integrità della monarchia, ed i sacri dritti della nostra real persona e dinastia, è chiamato al trono della Sicilia S. A. R. il duca di Genova, figlio. secondogenito di S. M. il Re di Sardegna.»
«Udito l’unanime parere del nostro consiglio de’ ministri.»
«Dichiariamo di protestare, e col presente solennemente protestiamo contro Tatto deliberativo di Palermo del dì 11 luglio 1848, dichiarandolo illegale, irrito, nullo e di niun valore»
Mentre tali cose accadevano a riguardo della Sicilia, l’aspetto del continente era divenuto tutt’altro. La ribellione schiacciata nelle Calabrie, l’insurrezione compressa nella provincia di Salerno, l’ordine e la tranquillità ricondotte in tutto il resto del regno, avevano fatto riacquistare al governo quella forza morale e quella influenza sul popolo, di cui dal 29 gennaio in poi tanto si abbisognava. A ciò un altro vantaggio si aggiungeva, perciocché riattivatasi prontamente una leva rimasta sospesa per le emergenze avvenute, e richiamati tostamente alle bandiere tutti gl’individui della riserva, e che col massimo brio vi si erano recati, l’esercito si era a tal segno accresciuto, che non v’era più luogo a temere che ulteriori disordini popolari potessero alterare il pubblico riposo. E per ultimo i rile vanti vantaggi ottenuti dall’esercito austriaco sul piemontese, le significante perdite toccate dagl’insorti in altre regioni italiane, il ritorno del milanese, del modenese e del parmense a’ loro antichi dominatori, apertamente indicava, che le forze degli agitatori italiani ormai si trovassero in una totale prostrazione. Mostrandosi adunque si favorevoli le circostanze, il governo affrettavasi a preparare i mezzi necessari a ricondurre la Sicilia sotto la sua legittima dominazione.
CAPITOLO XIX
Sorgonooratori nelle camere inglesi a biasimare la condotta di alcuni agenti del governo brittannico, per la manifesta protezione accordata alla Sicilia: il ministro degli affari esteri di Napoli viene interpellato dalla deplomazia inglese e francese su’ preparamenti che si fanno per la spedizione in Sicilia; la stessa si mena ad effetto, e le camere vengono prorogate.
Per quanto in Inghilterra molti favorito avessero la rivoluzione di Sicilia, e si fossero in seguito a tutta possa adoperati perché lo scettro di quell’isola in altre mani ricadesse, non vi mancarono per altro personaggi distinti e per mente e per cuore, che nel seno del parlamento non si facessero a biasimare il modo illegale col quale il più antico alleato della regina della Gran Brettagna venisse dal di lei governo corrisposto.
Nella tornata della camera alta de’ 5 agosto (1848) lord Brougham dimanda t a al marchese di Lansdowne, uno dei ministri della regina, se fosse vero; che il signor Fagan, attaccato all’ambasciata brittannica presso la corte di Napoli, recato si fosse il 24 giugno sul vapore ingles e il Porcupin o a Palermo, credendo conveniente, contro le istruzioni ricevute, di comunicare a quel governo provvisorio, che l’Inghilterra avrebbe ritirati i suoi aiuti e la sua protezione sull’isola, se nel termino, di 24 ore non si fosse proceduto alla nomina del duca di Genova, come re. Certamente (così il nobile lord soggiungeva) doveva sapere il signor Fagan esser cosa sconvenevole il mischiarsi con governi stranieri contro gli alleati dell’Inghilterra, e specialmente contro il Re di Napoli; imperocché che cosa avrebbe potuto impedire al Re di Napoli di mandare una simile comunicazione a’ ribelli d’Irlanda ? La Sicilia stava nelle medesime relazioni verso Napoli, come l’Irlanda sta verso l’Inghilterra, eccetto che l’Irlanda non à un parlamento, come l’aveva la Sicilia . Sotto tutti i rapporti (conchiudeva) non posso mai credere che il signor Fagan abbia fatta una simile comunicazione, ma ove ciò fosse stato, bisognerà presto richiamarlo dall’ambasciata.»
Rispondeva il ministro inglese, che non avendo lord Brougham dato antecedentemente alcun avviso della intenzione che aveva di porre in campo la mossa quistione, egli (Lansdowne) non si trovava preparato a dire ciò che Fagan avesse fatto; che non ostante ciò, poteva sin d’allora assicurare, che né il signor Fagan, né alcun’altra persona aveva ricevuto tali istruzioni dal governo di Sua Maestà Brittannica, e perciò non poteva crederlo autorizzato a fare la comunicazione in quistione.
In una posteriore tornata avvenuta agli 8 dello stesso mese (agosto) lord Stanle y , alzandosi dal suo seggio, moveva al ministro delle relazioni straniere la stessa dimanda, che lord Brougham aveva diretta il giorno 5; e nell’atto che dichiarava, sperare da’ ministri una risposta diretta alla dimanda avvanzata, e che avrebbe pure ritirata ove il governo avesse avuto delle eccezioni ad opporre, continuava a dire:
«Quando una quistione su questo soggetto fu mossa poche sere fa dal nobile e dotto amico (lord Brougham)il quale aveva lasciata la camera pel resto della tornata, lo fa senza precedente avviso datone al nobile marchese (di Lansdowne) epperò la risposta che questi potè dare fu impro v visata sul momento, e senza aver avuto il tempo di consultare i suoi colleghi; ma egli opinava che lo stato in cui trovavasi il re delle due Sicilie, e l’effetto che questi poteva avere sul mantenimento della pace in Europa, fossero di tale importanza da dargli il dritto di chiedere dal governo non un’accurata, ma una dettagliata esposizione delle regole che aveva creduto di seguire nell’adempimento de’ suoi doveri, e della politica che intendeva adottare. Egli sperava di non aver bisogno in questa occasione, né in nessun’altra ricordare all’onorevole assemblea l’importanza di attenersi a quella massima di legge internazionale ch’egli poteva stabilire non solo come politica, ma bensì come dovere di ogni stato straniero, cioè che nell’evento di civile contesa insorta in uno stato indipendente, sia che questa contesa fosse di natura da cangiare la dinastia esistente in tutto il territorio dello stato, o riguardasse semplicemente una separazione di dipendenza, fosse sempre essenzialissimo dovere di ogni straniero paese di mantenere in tali circostanze la più assoluta e stretta neutralità, e d’astenersi da ogni intervento in una lotta d’un carattere affatto interna e domestica. Per questo principio assumevamo sopra noi medesimi di protestare unitamente a Carlo Alberto contro l’invasione delle provincie lombarde, e per questo principio la camera non dimenticherà che tutte le partì si unirono nell’esprimere la loro cordiale approvazione alla risposta che fu data dall’ultimo capo del governo provvisorio di Francia a quella deputazione di uomini traviati che cercavano d’invitare le simpatie della Francia in quella rivolta che anche in quel tempo nutr i vano in Irlanda contro la suprema autorità di questo paese. Ed il nome di Irlanda deve ricordare ad ognuno, che se vi è paese al mondo, rispetto al quale sia non solamente un dovere, ma un affare d’interesse essenziale, l’abbattere il sofisma che ogni stato straniero abbia il dritto d’immischiarsi in una lotta tra un paese dipendente e quello governante, se vi è paese al mondo al quale incomba di mantenere in tali materie la stretta dottrina del non intervento con le straniere nazioni, questo paese esser debba l’Inghilterra, che à vicino a se l’Irlanda, in cui la maggioranza della nazione sarebbe in ogni tempo felice d’invocare l’aiuto straniero per scuotere il giogo del dominio britannico. Al contrario è accaduto, che quando scoppiò la sollevazione siciliana, il nobile conte che sta nel lato opposto, a cui era stata affidata la misteriosa missione di andare, come ministro generale in tutti gli stati del sud d’Europa, trovavasi a Roma, donde fu invitato a recarsi in Napoli, dietro una dimanda dell’incaricato di affari residente in quella città, per offrire i suoi consigli. Quel che ne avvenne tra il Re di Napoli ed il nobile conte, e tra il Re ed i sudditi rivoltosi di Sicilia, tra i quali il nobile conte volle farsi mediatore, non era possibile a lui (lord Stanle y ) di dire per la migliore di tutte le ragioni, di esserne cioè perfettamente ignaro. Qualunque consiglio il nobile lord avesse dato all’una parte o all’altra, temeva, dovesse riuscire infruttuoso come in altra congiuntura. Intanto le milizie napoletane furono espulse dall’isola; e un temporaneo avventuroso successo fu ottenuto da’ siciliani. Un governo provvisorio fu formato, e la quistione sulla quale esso (lord Stanley ) desidera di richiamare l’attenzione del nobile lord del lato opposto, e del governo di sua Maestà, si limita a questo; l’intervenzione, o non intervenzione riguardo alla forma del governo, o nell’individuo da essere al posto di capo del governo che sarebbe eletto da siciliani? «Io credo (cosi proseguiva il nobile oratore) che il tempo della indipendenza di ogni stato in rivolta debba essere lasciato alla discrezione de’ paesi stranieri; mentre in quanto alle potenze amiche, dovrebbe stabilirsi come massima, che il riconoscimento di una rivoltata porzione di territorio non potrebbe mai aver luogo sin tanto che il potere del governo dominante fa travedere l’intenzione di perseverare nel disegno di ridurre all’obbedienza i suoi sudditi, avendo anche i mezzi di effettuare una simile sottomissione: il riconoscere adunque uno stato che si è ribellato sotto tali circostanze, è un atto di ostilità contro il paese amico.»
Un’altra quistione a cui il nobile lord accennava si era, se istruzioni fossero state date all’ammiraglio comandante della squadra del mediterraneo d’immischiarsi minimamente nel libero esercizio dell’autorità del Re di Napoli, impedendogli di mandare un’armata in Sicilia per ristabilire la sua autorità. Non desiderare, aggiungeva, avere sotto occhio le istruzioni dell’ammiraglio, ma contentarsi delle copie di tutta la corrispondenza su quest’oggetto, quantevolte però le carte avessero potuto esibirsi senza inconveniente.
Il Marchese di Lansdowne rispose; «che senza entrare in ragguagli, egli non aveva alcuna difficoltà di dare al nobile lord quelle informazioni che potevano riguardare alla natura ed al carattere di un tale intervento, se pur tale era quello che aveva avuto luogo durante le divergenze, sfortunatamente avvenute per un lungo periodo tra il Re di Napoli ed una porzione de’ suoi sudditi; bramare egli però, pria di accennare alla condotta tenuta dal gabinetto inglese, allontanare l’idea che sembrava prevalere sullo spirito del nobile lordStanley , e su quello di tutti gli altri membri dell’onorevole camera, che vi fosse stato in queste transazioni minimo desiderio di compire, o di assistere al compimento di una separazione de’ due regni di Napoli e di Sicilia : che in tutte le discussioni che avevano avuto luogo, egli era contento di poter dire, che l’Inghilterra era stata, e sperava che continuasse ad essere, in uno stato di amicizia col regno di Napoli: che in quanto alla Sicilia, anche quando era unita a Napoli, l’Inghilterra era stata sempre in particolari relazioni annesse alla sua esistenza e costituzione, e che senza por mente a queste discussioni, il governo Inglese manteneva le sue relazioni tra Napoli e Sicilia nello stesso piede in cui erano state sempre: che lungo tempo dopo che i torbidi cominciassero nel regno di Napoli, e lungo tempo dopo che cominciassero in Sicilia, l’unico oggetto della politica del gabinetto inglese era stato di mantenere queste relazioni sullo stesso piede come era avvenuto insino allora, e l’unico oggetto della missione di lord Minto era di promuovere l’adozione di quelle misure, sulle quali riposava l’unica probabilità di mantenere quelle relazioni.»
«Questi consigli (così proseguiva a dire il ministro inglese) furono ricevuti con segni di amicizia. Anche ad un’epoca avvanzata delle trattative eravi ragione di sperare che questo primo e favorito oggetto sarebbe stato compito, e il Re di Napoli se avesse sottoscritta a certe condizioni, avrebbe in questo momento il suo potere sulla Sicilia.Vi fu un momento in cui ciò era possibilissimo; ma taluni cangiamenti ebbero luogo nel consiglio di stato di Sua Maestà napoletana, che servivano a ben altri oggetti, che all’accomodo. Questi avvenimenti furono seguiti dal quasi intero successo delle armi siciliane nella loro resistenza all’autorità napoletana; ma certo fino a quest’ultimo momento, e fintanto che vi fu la medesima speranza di mantenere l’unione compiuta, i consigli e l’opinione del gabinetto inglese furono diretti a questo unico scopo. Egli era contento di avere l’opportunità di dichiarare che, avendo il nobile lord Stanley particolarmente accennato all’assenza in quel tempo del rappresentante inglese in Napoli, una tale assenza non aveva alcuna relazione con queste circostanze. Ma egli assicurava il nobile lord, che nessun paese al mondo fu rappresentato con maggiore abilità, che la Gran Brettagna lo è stato da lord Napier alla corte di Napoli. Dal tempo in cui fu manifesto che il popolo di Sicilia non voleva restarsi più lungamente sotto il dominio di Napoli, in quel senso in cui era stato per lo passato, surse un novello stato di cose, ed il governo inglese dette un altro passo, che desiderava veder coronato da felice successo. Questo f u che un principe della casa di Napoli sarebbe stato scelto come sovrano del regno divenuto col fatto indipendente da Napoli; e tutti gli sforzi furono fatti dal suo nobile amico per indurre i siciliani a fare questa scelta. Divenne anche molto notorio, che il popolo di Sicilia raccogliendo ogni classe della popolazione, spiegò tal forza militare da poter mantenere l’indipendenza che aveva dichiarata. Senza dubbio il governo di Sua Maestà Brittannica non aveva a tali circostanze ritirato i suoi consigli. Non vi era stata nessuna minaccia, né l’apparenza di una minaccia, ma fu creduto conveniente di emettersi un’opinione in favore della forma di governo monarchico, anziché repubblicano. Questo consiglio fu abbracciato, e fu considerato profondo nello stato attuale dell’Europa. Vivendo nella certezza che questa consiglio fosse abbracciato, il governo di S. M. Brittannica non aveva esitato a consigliare i siciliani che, qualora per loro scelta volessero eliggersi un re, questa scelta fosse caduta sopra un principe degli stati italiani, per non produrre nuove difficoltà. Il nobile lord ( Stanley ) erasi ingannato nel credere che il governo di Sua Maestà Brittannica avesse richiesto un’assicurazione che il duca di Genova verrebbe eletto come sovrano, e che questa fosse posta come condizione sulla quale sarebbesi riconosciuta l’indipendenza della Sicilia. Questo fatto era così lontano dal vero, che il pensiero era caduto sul figlio del gran duca di Toscana. Tutto ciò che aveva fatto il governo inglese era stato per provare che la forma monarchica era la migliore. In quanto alla condotta dell’ammiraglio Parker in Napoli, egli poteva assicurare che la presenza della flotta non aveva alcuna relazione a questi affari, ma bensì ad un altro oggetto affatto diverso. In conchiusione di ciò, egli sperava, di non vedere spingere ulteriormente dal nobile lord una tale mozione.»
Quasi lo stesso avveniva nella camera de’ comuni, ove nella tornata del 17 di quel mese (agosto) il signor Dis ra eli in questi sensi parlava:
«Si è detto, signori, in luogo di autorità che lord Minto fu invitato dal Re delle due Sicilie di favorirlo de’ suoi consigli e di cooperarsi negli affari de’ suoi domini. È possibile! I l nobile lord simile agli altri celebrati attori cominciò a rappresentare negli stati italiani; ed essendo tanto bene riuscito a Milano e distintosi a Roma, venne invitato perché si mostrasse in Napoli. Or bene il risultato della rappresentanza di S. E. nel sud dell’Italia non ebbe meno successo che nel nord e nel centro. Chiamato dal Re delle due Sicilie per rimuovere alcuni malintesi che esistevano fra i due suoi regni, il nobile lord si affaticò molto per reggere l’unione legislativa fra Napoli e Sicilia; e le sue fatiche risultarono non soltanto colla separazione della loro unione legislativa, ma nella divisione della loro unione politica. Sento che farei male di offrire altro che una critica amichevole sulla defunta carriera del più insigne diplomatico. Desidero soltanto che sia inteso che il governo presente non è nuovo nel condurre un intervento diplomatico, e che non ci potrà dire di essere stato spinto da importanti avvenimenti, che l’obbligarono a delle momentanee risoluzioni, senza far uso di quella riflessione ed esperienza, che sono generalmente richieste in simili circostanze, e che avrebbero potuto fargli ad un tratto intraprendere un intervento diplomatico in Italia. Si è provato di metterci le mani prima che le grandi rivoluzioni fossero avvenute; ed i risultati sono stati non meno interessanti che di riuscita. Ma adesso, signori, io sento che il nobile lord segretario degli affari esteri, non contento di quello che è già accaduto, sia nel punto di riaprire una nuova campagna in Italia, e che interverrà insieme con un altro governo; credo che sia per un soggetto molto legittimo d’investigazione, e che faccio il mio dovere co’ miei costituenti e con questa camera, se colgo tale occasione per invitare il governo a darci qualche informazione in quanto all’oggetto ed al motivo della sua politica. Il nobile lord c’informò l’altra sera, ed è stato dopo annunziato in ogni organo di pubblica opinione, che l’Inghilterra e la Francia interverranno negli affari del nord dell’Italia. Ora io credo che fo legittime investigazioni al nobile lord quando gli domando d’informare l’assemblea: primo, qual dev e essere il principio di questa mediazione? secondo, qual dev’essere la natura di questa mediazione? terzo, qual è il fine che ci siamo proposto di guadagnare con questa mediazione ? Queste mi sembrano tre domande sulle quali il nostro dovere c’impone d’invitare i ministri di S. M. a rispondere. Or bene, signori, primieramente riguardo al principio di mediazione.Questo principio può essere di carattere politico, vi può essere desiderio d’impedire lo spargimento di sangue ch’è stato cagionato da un prolungato conflitto e senza speranza di risultato; può, o debbevi essere un desiderio di por fine ad uno stato di cose che à potuto nuocere al commercio di questo paese.»
« Il governo à annunziato una mediazione unita dell’Inghilterra e della Francia negli affari del nord dell’Italia, i o credo che il governo sia obbligato a dire sopra quali principi è fondata questa mediazione, ed il fine che questa si propone di ottenere; d’impedire l’invasione dell’Italia dalla Francia? Io non ò alcuna difficoltà a dire che l’invasione del nord dell’Italia dalla Francia dev’essere impedita; e se il governo di Sua Maestà con tutt’i vantaggi dell’ultima esperienza fatta dal lord Guardasugelli, può trovare un mezzo come impedire un tale risultato, certamente i suoi componenti avranno ragione di vantarsi come uomini di stato. Ma l’assemblea si rammenterà che la Francia non à nessun dritto d’impicciarsi dell’Italia , sarebbe una violazione di ogni principio di legge pubblica, e di ogni trattato che esiste in rapporto agli stati italiani. Sono d’opinione io stesso, che la Francia non invaderà l’Italia, lo non credo che sarebbe dell’interesse, né dell’onore della Francia il farlo.»
«Io sono contrario anche ad una ingerenza nelle circostanze le più disastrose del mondo, e che non sarebbe punto giustificabile per parte della Francia.»
«In riguardo all’Italia, in riguardo all’Europa, la Francia non à dritto di tal natura. Vorrei poter dire che la Francia fosse nella stessa posizione in riguardo all’Inghilterra. Confesso di no. Io ammetto che la condotta del nostro governo in Italia presenta un antecedente per la Francia, ma ciò non giustifica la Francia per violare i trattati; ciò non giustifica la Francia in faccia all’Italia ed all’Europa; ma disgraziatamente giustifica la Francia in faccia all’Inghilterra.»
«Per esempio se il nobile lord si mettesse in comunicazione con il rappresentante di quel paese a questa corte, se facesse un appello al ministro francese su tal soggetto, potrebbe riferire ad una circostanza che dà un colore od un pretesto di quell’antecedente alla Francia. Qual’è la nostra condotta a Napoli. Permettetemi di rammentare alla camera il risultato difinitivo della cordiale cooperazione fra il lord Guardasugelli ed il Re delle due Sicilie. Per quelle informazioni che ò potuto ricevere, essa è la seguente: il Re delle due Sicilie avendo preparata un’armata potente per punire i suoi sudditi ribelli, precisamente come à fatto l’Austria, trovò ad un tratto nella baia di Napoli una flotta inglese che gli annunziò che i suoi dritti, come sovrano della Sicilia non erano più riconosciuti dal governo inglese. Il governo inglese pare, che sia animato da quel principio che governò i movimenti del conte di Minto, mosso da un desiderio estremo di consolidare il regno delle due Sicilie, e por fine ad ogni malinteso fra i sudditi di S. M. Ei fu sì buono da approvare la nomina di un sovrano indipendente, che dov e a governare la Sicilia in violazione de’ dritti di Napoli. Il governo ed i ministri di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra, cominciarono dal trattare co’ sudditi ribelli del Re di Napoli, e finalmente mandarono una flotta per impedire al Re delle due Sicilie di usare dei suoi sovrani dritti. La Francia in possesso di questi fatti, avrebbe una buona ragione per invadere l’Italia. »
«Il lord presidente del consiglio in un’altra circostanza ricusò di dare una risposta a simile interrogazione; e questi fatti furono ammessi dal primo ministro in altro luogo, cioè che noi siamo intervenuti negli affari della Sicilia solo per indicare a quel popolo le basi sulle quali la Sicilia sarebbe divenuta indipendente, la forma del governo che dovrebbe scegliere, la maniera nella quale dovrebbe esser fatta la scelta, e l’individuo che l’Inghilterra approverebbe come sovrano. L’intervento era completo per parte nostra, e che risposta dovremo fare alla Francia, se una invasione francese accadesse nel nord dell’Italia? Sono ben preparato di fare questa concessione al governo di S. M. non credo che, per quanto ingiuriosa fosse la nostra condotta riguardo a Napoli, presenterà un antecedente alla Francia per l’invasione del nord dell’Italia, e per questa ragione semplice e soddisfacente , io non credo che vi sia minimo desiderio in questo momento per parte della Francia di fare una tale invasione.»
«Signori, il sistema di finta mediazione, è il sistema che questo paese non dovrebbe incoraggiare. Il corso che nobile lord à da percorrere, se desidera assicurare la pace del mondo e la grandezza del suo paese, è quello che io credo essere egli adatto ad adempire, e di avere la conoscenza, l’abilità ed il coraggio che lo rendono capace a praticarlo. Ciò è la non aderenza al sistema di politica che egli à percorso sinora, e che finì per formare il suo discredito, e nella distruzione del suo alleato d’allora, perché io credo che il trono di Francia non sarebbe mai caduto se non fosse stato per quelle occasioni forzale di corrispondente cooperazione che conduce eventualmente una generale diffidenza. Il nobile lord, dico, non à che un corso davanti a lui a seguire, che è il giusto ed il solo che un ministro inglese dovrebbe adottare. Fate che il nobile lord dica francamente al mondo, che sotto i suoi consigli l’Inghilterra manterrà i principi di legge nazionale; che l’Inghilterra osserverà le stipulazioni de’ trattali esistenti, che non autorizzerà col suo permesso alcuna violazione dei dritti delle nazioni; che ella non consiglierà nessuno dei suoi alleati a cedere i loro interessi legittimi per compiacere la vanità interessata di una società mal regolata. Allora il nobile lord prenderà una posizione che gli guadagnerà la confidenza degli uomini di stato, la simpatia dei sovrani, e la speranza e la fiducia delle sofferenti nazioni. Ma se il nobile lord prende un corso contrario, ed io non devo credere ch’egli vorrà seguirlo, sarà un corso, non dirò fatale a questo governo, (perché non avria mai tanta considerazione colla camera, quanta potrebbe averne nelle menti de’ suoi immediati sostenitori, benché io sarei dispiaciuto di vedere il governo disturbalo) ma sarà un corso fatale alla sua riputazione e nocivo al suo paese, e queste considerazioni, son sicuro che avranno in lui qualche influenza. Signori, è inutile di provarsi a trattare tali affari agendo col partito giacobino. Io chiamo quello il partito giacobino, benché fui chiamato a render conto dal deputato onorevole per Montrose, che disse che quel nome era svanito, e ci dette un altro nome per difendere il partilo, e ch’è spesso stato usato per descrivere il loro sistema. Signori, io conosco le stesse antiche circostanze, e perciò uso lo stesso nome. È un sistema che principia con fraternità, e finisce con assassinamento. È un sistema che comincia col predicare carità universale, e termina col fare uno spoglio generale. Signori, non m’imporla qual sia l’individuo, se sia Ledru Rollin. Non posso riconoscere persone di quella sor t a, come la nazione francese, o come quelle persone colle quali desidererei che il mio paese fosse in alleanza ed intendimento cordiale. Io, signori, sono persuaso che se il nobile lord segue questo sistema, sarà colui che renderà prestamente questo paese della stessa sua opinione. Il nobile lord può anche adesso agire in modo da ingrandire il suo potere, ed ingrandire anche la riputazione di questo paese. Potrà in questo secolo matto asserire i principi di giustizia pubblica in un modo che conviene ad un ministro brittannico; e troverà allora che nessun bandito, qualunque sia la sua posizione, attraverserà le montagne o invaderà le città, quando saprà che l’Inghilterra è preparata per sostenere i principi di legge pubblica. Perché, signori, in cose pubbliche, quanto nelle private, ò veduto assai, e sono sicuro che ogni onorato gentiluomo presente, sulla sua personale esperienza, à veduto abbastanza per convincersi, che niente può resistere alla maestà delle leggi, alla forza del vero, ed all’ispirazione dell’onore.»
Così con franchezza e lealtà mostravasi da uomini eminenti nelle camere inglesi quanto sconvenevole fosse stato il procedere a riguardo del governo di Napoli nella vertenza colla Sicilia.
Nel mentre che in tal maniera altrove procedevasi, in Napoli il partilo esaltato della camera de’ deputati non tralasciava, colla sua sistematica opposizione di mantenere sempre viva l’agitazione, e precaria la tranquillità; e poiché stanchi da una parte molti cittadini di tanta oltracotanza, e dolenti dall’altra le milizie pe’ novelli disordini che ininacciavansi, una dimostrazione in senso reazionario sembrava imminente ((12)). Laonde a prevenirequalunque disordine il generale comandante della piazza di Napoli con apposita ordinanza facendosi a rammentare a militari della guarnigione, come il loro principale obbligo consistesse nella esecuzione delle leggi e degli ordini de’ superiori, prescriveva a non immischiarsi in alcuna pubblica dimostrazione di qualunque natura potesse essere, minacciando di severo trattamento coloro che in menoma parte vi trasgredissero.
A quei giorni giungeva pure a notizia del generale Nunziante quanto era avvenuto a suo riguardo nella camera de’ deputati; per lo che tocco da giusto risentimento con tutta l’ira del cuore facevasi a manifestarlo al ministro della guerra in questi termini:
«Soffra V. E. che, nella penosa impressione che mi à recato il leggere quello che si è detto di me nella tornata della camera del 27 luglio, le sommetta qualche osservazione.»
«Delle fatiche, de’ pericoli, de’ maggiori disagi che ò durato nel compiere la commissione di ridonare la calma alle Calabrie, e disperdere le migliaia d’armati, era ben chiaro che non dovevano essermi grati i rivoltosi; ma non avrei mai creduto che alcuni che siedono nella camera non avesser saputo reprimere il loro dispetto.»
«Sotto qualunque governo il più democratico, per gli avvenimenti di cui sono state teatro le Calabrie, vi si sarebbero di necessità sospese tutte le franchigie, e senza distinzione eseguito da per tutto severo disarmo. E presso di noi si mena tanto rumore, perché in alcuni luoghi siasi alquanto ristretto il numero delle guardie nazionali? Se dal ministero à dovuto serbarsi la frase di sciogliere, e ricomporre, perché non si è nettamente dichiarato il fatto, che non vi è altro se non che provvisoriamente in alcuni comuni tolti dal ruolo quelli che avèan parteggiato per i faziosi, o si erano mostrati avversi all’ordine pubblico?.»
« E’ un esempio unico nella storia, che provincie insorte sian trattate con tanta benignità ed indifferenza da sembrare di non aver preso sul serio quali danni abbian recati l’anarchia e la rivolta.»
« E sarebbe inconcepibile tal esempio di essersi limitato solo a restringere in alcuni comuni il numero delle guardie nazionali, se non fosse manifesto che la grande maggioranza è attaccata al Rea l trono ed alla legalità, e che le truppe, dopo aver disperso i faziosi, son procedute fra le continue grida viva il Re.»
« Perché non si è risposto chiaramente, che nella ricomposizione delle guardie nazionali, non è già che siensi sostituiti a quelli che vi erano altri che non ne facean parte, ma solo se n è ristretto in alcuni luoghi il numero?.»
«Perché si è esitato a rispondere, anche quando colla maggiore temerità il sig. Poerio credendo far dello spirito, à insultato le guardie nazionali scevrati da’ faziosi, persone insomma rispettabili, chiamandole corpi franchi ? Il sig. Muratori poi à ben ragione di dire che può assicurare la camera dell’attaccamento all’ordine del comune di Casalnuovo. Quei bravi abitanti si opposero al Plutino, ed altri che tentarono tutt’i modi per sommuoverli, e stabilire colà un comitato centrale. Ma ciò non toglie il fatto, che fra le guardie nazionali vi furono alcuni che parteggiarono, specialmente i capitani, fra i quali un Muratori, che suppongo figlio del deputato. Il mio abuso è stato quello di non arrestarli e rimetterli al potere giudiziario, e prego l’E. V, d’indicarmi se debba ora adempire a ciò che non ò eseguito, per quella estrema mitezza, di cui ò sempre raggiunto il massimo culmine, e che il ministro dell’interno ben sa, e può con precisione attestare. Intanto desidererei che Muratori, e simili sapessero, che se nella comodità in cui si trovano di eccitare disordini sotto la sicura veste di deputato, è naturale che cerchino di calunniare chi à vinto la rivolta, non è però che io rinunzio ai dritti personali e particolari di non soffrire che si manometta la mia riputazione. Sappiano in fine che le loro smanie, le loro grida, mentre mantengon viva l’agitazione fra’ perversi, le di cui speranze si rialzano fra mille illusioni, eccitano d’altra parte le grandi maggioranze, che sottratte or ora dall’atroce oppressione di un picciolo partito, si cominciano a sdegnare della indifferenza con cui si vede l’impunità di coloro che in ciascun paese àn turbato, o procurato di turbare l’ordine.»
«Ben altrimenti procede sotto i nostri occhi il governo repubblicano francese, e le camere dell’Inghilterra, che al solo apparire di un pericolo nell’Irlanda, sospendono nientemeno la libertà individuale degl’irlaudesi. Io non voglio, né debbo giudicare del sistema d’impunità che il nostro governo costituzionale crede giusto di seguitare; ma io debbo reclamare i miei dritti di cittadino e di generale, quando veggo che mascherandosi fatti ed abusandosi della ragione,io son calunniato da quegli medesimi che avrebbero a sostenere le leggi , delle quali si dicon custodi, intanto che io non per altro apparisco colpevole agli occhi loro, se non per averle osservate con troppa religiosità.»
«I fatti di Filadelfia, e del Pizzo! Ma questi fatti sono stati forse da me comandati? Non è forse notorio che, mentre avvenivano questi fatti, io era a Maida, inconsapevole di ogni cosa?.»
«E dico ciò quando la truppa sotto i miei ordini avesse inveito per volontaria deliberazione; ma tutti sanno, che la truppa allorché à operato in esecuzione de’ miei comandi, non solo non à mai inveito, anzi si è comportata umanissima co’ rivoltosi; e che in Filadelfia e in Pizzo gli eccessi non furono volontari, ma provocati col fuoco; perciò imputabili a’ provocatori, e non ai soldati. È veramente straordinario che persone le quali seggono al posto di deputati invece di gridare contro di chi si ribella alla costituzione, gridano invece contro i soldati provocati ed uccisi.»
«Se V. E. si benignerà far pubblicare questo mio ufficio, mi sarà ben grato, onde la verità sia conosciuta dai buoni cittadini delle altre provincie.»
A questo modo egli dignitosamente smascherava le calunniose note apposte alla onorata sua condotta che intempi così difficili non poteva andar meglio esercitata.
Preparavansi intanto nel continente grosse schiere per passare da infruttuose negoziazioni alla forza delle arminel riacquisto della Sicilia. E trattandosi di dover solcare le onde con numeroso naviglio, bisognava che con sollecitudine si procedesse, tanto a causa della stagione, quanto per non dare più opportunità al nemico di accrescere i suoi apparecchi guerreschi, pe’ quali niun mezzo trascurava.
Stando adunque le cose in questi termini, il ministro di Francia presso la corte di Napoli a 28 agosto dirigeva al principe di Cariati ministro delle relazioni straniere la seguente nota:
«Il sincero interesse che il governo della repubblica prende a tutto ciò che concerne la prosperità dell’Italia, ed in particolare del regno di Napoli e Sicilia, mi à spinto in molte occasioni ad esporre a V. E. i voti del mio governo per una pacifica soluzione della quistione siciliana ; voti ispirati tanto dai sentimenti di umanità, quanto dai motivi che lo àn condotto di concerto col governo brittannico ad offrire la sua mediazione nel nord dell’Italia affin d’arrestare l’effusione del sangue.»
«Il mio governo crede che un tentativo colla forza delle armi, il cui successo sarebbe problematico, non puole che aggiungere delle difficoltà ad un conveniente aggiustamento. Non varrebbe meglio profittare delle nuove probabilità che l’andamento degli avvenimenti nel nord dell’Italia offre alle misure conciliative? Io desidero di tutto cuore che una tal considerazione, di unita a quelle che à già avuto l’onore di sviluppare al governo di S. M. siciliana, invitino a rinunziare di ricorrere alle armi, adoperando in preferenza le vie della conciliazione. Non esito punto a dichiarare, che qualunque proposizione conducente ad una soluzione pacifica, non solamente sarebbe ricevuta con trasporto dal governo della repubblica, ma ne avrebbe pure suo cordiale appoggio. »
«Confido che V. E. comprenderà, che nella presente condizione dell’Italia il momento è propizio per un aggiustamento fra Napoli e Sicilia, il duca di Genova à rifiutato la corona siciliana; l’esercito del re Carlo Alberto non esiste più; i siciliani non possono più contare su questo appoggio, ed evidentemente sono inquieti e scorati. Il loro vero interesse li spingerà dunque a far la pace con Napoli. L’unione di Napoli colla Sicilia è per i due paesi una condizione di prosperità e di forza; per la Sicilia è essa una condizione d’indipendenza. In quali modi questa unione potrà realizzarsi? Vi sono due estremi partiti, da una parte l’indipendenza assoluta, che la Sicilia pretende di ottenere, dall’altra la fusione di due corone con un’amministrazione diversa. Fra questi due estremi esiste un mezzo termine che potrebbe accettarsi. Per esempio, un figlio del Re non sarebbe ben accolto in Sicilia? »
«Ma il governo napoletano avrebbe da opporre molte obbiezioni ad una tal combinazione, e si nega di prestarvi la mano. In tal posizione à egli il dritto di ricorrere ad estremi spedienti adoprando la forza? Non à esso argomenti per credere che le ostilità ravviverebbero lo spiri t o di resistenza e di antipatia di razza, la quale come tutte le passioni, estinguesi quando non viene eccitata, ma si rianima quando si viene a toccarla? L’evento è certo? Sarà intero? Non è sottoposto a varie probabilità? Una spedizione può non andare a vuoto e produrre al tempo stesso pochissimo effetto? In tal caso essa addiviene un male; perciocché fa rivivere l’animosità dei siciliani, impedendo così il progresso della conciliazione. Se non riesce che in parte, essa desta la guerra civile fra una porzione della Sicilia e l’altra: risul t amento questo deplorabile e per nulla adatto a preparare le relazioni che per l’avvenire devono esistere fra Napoli e Sicilia.»
«Una spedizione non può avere che una favorevole sorti t a, e sarebbe nel caso in cui la Sicilia intera all’apparire della flotta napolitana distruggerebbe da se medesima tutto che à creato, sottomettendosi immediatamente a quelle stesse milizie, contro delle quali con tanta ira à combattuto ora volge poco tempo. Per una probabilità tanto problematica è prudente lo esporsi a tanti rischi, disconoscendo i vantaggi che potrebbe produrre una negoziazione?»
«Riguardo alle condizioni proposte dal governo napoletano, non sarebbe utile di cedere qualche cosa? È evidente che la fusione delle due corone è la più grande delle sue pretensioni, e che se si contenta di meno, potrà contare sull’influenza del tempo, sugl’interessi finora poco compresi per giungere poi ai grandi mutamenti, ed un miglioramento nelle stipulazioni si potrà senza dubbio produrre in ultimo. Vi sono troppo passioni in giuoco per permettere che la negoziazione avanzi senza mediazione. È dunque il momento di parlare della Francia e dell’Inghilterra .»
«È inutile il far notare quanto la cooperazione di queste due potenze ne assicuri il successo, e di quanto peso possa essere nella bilancia. I due governi occupati a pacificare l’Europa e l’Italia si oppongono fortemente in principio per una spedizione militare , ed in conseguenza quali siano i loro sentimenti intorno alla quistione italiana, vi è luogo a temere che questi stessi sentimenti tornino a detrimento della corte di Napoli, se la spedizione à luogo.»
«Uno dei vizi della spedizione si è quello che mentre dà una dubbia probabilità per ciò che riguarda la Sicilia, conduce certamente ad un cattivo risultamento per quel che concerne le due potenze. È di fatti più probabile che il Re Ferdinando agendo ostilmente in Sicilia perda in gran parte quel concorso, che oggi troverebbe in queste due potenze, se prendendo in considerazione i loro desideri tenterebbe con modi pacifici raggiungere lo scopo, che cerca conseguire colla forza delle armi; avendo luogo una lotta in Sicilia, (a malgrado che la simpatia delle due potenze non possa manifestarsi, mentre essa dura, in favore della causa siciliana) il governo del Re è esposto ad aver bisogno di ricorrere alle due potenze, ed ove s’impromette qualche cosa dalla loro cooperazione, deve riflettere alle modificazioni che una spedizione militare in Sicilia, fatta loro malgrado, non può mancar di produrre nei loro animi.»
«Le loro ottime disposizioni sono abbastanza note, perciocché trovansi più che mai meglio disposte, ed il loro buon volere potrebbe aumentarsi di più. La Francia, da sua parte si compiacerebbe nel pensare che l’unione di Napoli e Sicilia sia la miglior combinazione; ma se i voti del popolo siciliano non sono contrari a tal combinazione, non correte il rischio di rendere questa opposizione più violenta, senza costringere al tempo stesso la Francia a sacrificare la opinione sua ai voti del popolo siciliano?.»
«Non v’ha mezzo di uscire da tal difficoltà? Non sarebbe possibile di sottoporre alle due potenze l’ ultimatum del governo napoletano, e chieder loro, senza proporre una formale mediazione, se vogliono appoggiar questo ulti matum?Supponendo che questa dimanda non riuscisse, il governo napolitano avrebbe minor responsabilità, ed in seguito maggior libertà di azione.»
«Riassumendo, le probabilità sono favorevoli per una negoziazione. Il governo napoletano avrebbe sempre la libertà di accettarne o di rifiutarne le condizioni. Se il nord dell’Italia sarà pacificato, nulla verrà a mutarsi qui nella posizione degli affari. Se la lotta continua, il campo ri marrà tanto più aperto. Le ostilità al contrario, indipendentemente dalla quistione di umanità, non offrono di presente alcuna probabilità al governo napoletano; tutte le probabilità son contro di lui. Esso deve correre la ventura di tutte le vicissitudini che accompagnano ogni spedizione; successi incompiuti, guerra civile, accanita resistenza, odio ed esasperazione del popolo, ed in conseguenza una prospettiva molto più trista di quella che à ora d’innanti. Inoltre esiste la possibilità, e si può anche dire la certezza, di perdere le simpatie della Francia e dell’Inghilterra, e conseguentemente di diminuire i vantaggi del concorso, che il governo napoletano a causa degli avvenimenti potrebbe esser condotto a chiedere a queste due potenze.
Napoli 28 agosto Firmato: DeRayneval »
Né diverso procedere serbava il rappresentante della Gran Brettagna, poiché messosi in pieno accordo con quello della repubblica francese, facevasi anch’esso verso il ministro degli affari esteri del governo di Napoli a disapprovare in questi sensi la minacciata spedizione:
«Napoli 29 agosto.»
«La legazione di Sua Maestà Brittannica essendo stata informata del pari che gli altri ministri stranieri accreditati presso questa corte, che era intenzione di S. M. inviare un’armata per riconquistare la Sicilia, io arrischio sottomettere a V. E. le seguenti riflessioni, che spero saranno ricevute con le disposizioni amichevoli colle quali sono state dettate.»
«Richiamo su queste osservazioni tutta l’attenzione di V. E.»
«V. E. non può ignorare da quanto pubblicamente si dice, e dalle informazioni ufficiali di Parigi e di Londra, che i governi francese ed inglese ànno preso l’impegnodi una mediazione comune, il cui scopo tende a pacificare l’Italia,ed a consolidare i rapporti d’amicizia fra gli stati italiani e l’impero d’Austria, rapporti che sonosi disgraziatamente interrotti. Una sospensione temporanea d’ostilità à avuto di già luogo, grazie ai buoni uffici de’ ministri inglese e francese presso le corti di Torino e di Firenze, ed avvi luogo a sperare che sotto gli auspici delle due potenti nazioni, la pace dell’Italia e dell’Europa sia prossima a ristabilirsi ne’ termini più adatti a conciliare gl’interessi e le pretensioni delle parti rivali, ed a fondare la felicità degl’italiani su basi durevoli.»
«La deplorabile quistione che si è recentemente sollevata fra il governo di Napoli e gli abitanti di Sicilia à un carattere completamente differente. Dessa fin’ora à resistito a tutti gli spedienti impiegati per condurla ad una pacifica soluzione; ma V. E. si ricorderà che l’autorità de’ governi inglese e francese non ancora si è messa in opera per risolvere questa quistione. L’influenza di questi governi, se si esercita, non può mancare di avere un gran peso a Palermo, ed egli è certo che avrà i migliori risultati per gl’interessi di Sua Maestà Siciliana.»
«Per ora io non ò i poteri necessari per far conoscere a V. E. le intenzioni del mio governo a questo riguardo, ma io sono fermamente convinto che questa quistione ne forma l’oggetto delle più serie riflessioni, e che nel modo stesso debba richiamar quelle della repubblica francese. Io conosco che l’inviato di quel governo è di questa opinione, ed io non dubito che il governo di Sua Maestà Brittannica non deplori profondamente l’effusione inevitabile del sangue nella ripresa prematura delle ostilità, e fino a quando si saranno trascurali i mezzi conciliativi di una mediazione»
«Egli non sembra indegno della saggezza e della clemenza di Sua Maestà Siciliana, né contrario ai suoi dritti, od al suo onore, di fermarsi prima di confidare irrevocabilmente la sorte della sua causa alle probabilità della guerra. Ch’Ella sia pur certa dei sentimenti di S. M. Brittannica, non che della repubblica francese, i cui governi, nei benevoli loro progetti per la pacificazione dell’Italia, non ànno potuto omettere di prendere in considerazione la rivoluzione siciliana.»
«V. E. autorizzando una spedizione nello scopo difficile di sottomettere il potente partito che governa la Sicilia, à senza dubbio pesate la probabilità del successo, le forze del governo napoletano, ed i mezzi di resistenza che gli possono essere opposti dall’altra parte.»
«È inutile dunque che io mi distenda sugl’incidenti particolari che possono nascere da una lotta prolungata, sulla perdita di uomini che può risultarne, su’ dolori che sono la conseguenza della guerra, ed ancor meno su i risultati deplorabili, che condurrebbe seco una rotta della spedizione, sull’esasperazione permanente di un partito inconsideratamente provocato, e sull’abbandono di tutti i mezzi atti a produrre una riconciliazione.»
«Sottomettendo a V. E. queste osservazioni io non intendo dare un avviso non richiesto, e se io non ò toccato una quistione che indirettamente interessa il governo che rappresento, V. E. ne scorgerà i motivi nella antica fratellanza che à esistita fra i nostri due stati, e nella parte attiva cui l’inviato di S. M. Brittannica è stato ultimamente chiamato a prendere negli affari di Sicilia e di Napoli»
Firmato Napier
A queste note diplomatiche, niuna risposta fu data per allora. E giustamente, poiché dopo otto mesi di maravigliosa indifferenza diplomatica per gli avvenimenti di Sicilia, sorgeva inaspettata pel bene della umanità così tarda mediazione. Se in tutto quel tempo in cui il continente del regno rimase in preda all’agitazione, non fuvvi mai alcuno che avesse almeno sollecitato una mediazione qualunque tra un governo prostrato, a causa delle sue intestine discordie, ed i ribelli dell’isola, che da audaci si facevano vieppiù a riaccendere la guerra civile nel continente medesimo, perché poi spariti i disordini, sopraggiunta la calma, rendutosi forte il governo, veniva fuori tanta sollecitudine, da far credere, che nel solo fine di preservare l’umanità dalle sciagure di una guerra e dalla effusione del sangue, la mediazione si proponeva? L’intervento de’ sovrani assoluti negli affari interni dei loro vicini era stato dal 1815 in poi l’obbietto costante delle recriminazioni de’ fecondi parlatori nelle camere d’Inghilterra e di Francia. Come dunque nel 1848 un governo eminentemente costituzionale, qual si è l’Inghilterra, ed un altro repubblicano, qual si è ora la Francia permettevano che si facesse quello che avevano costantemente riprovato? I l cielo però, che volea e dovea salvare l’umanità dalle angosce che la straziavano, permetteva che una voce tuonasse dalle nortiche regioni, che a’ due governi indicasse, quanto sconvenevole fosse d’intervenire nelle peculiari vertenze degli altrui stati, e come per tal verso le leggi internazionali s’infrangessero. L’imperatore delle Russie, facendosi colla spada in pugno a protestare contro ogni specie d’intervento, energicamente instava, perché ciascuno non s’impacciasse di quanto accadeva in casa altrui.
« Qual distinzione (diceva il suo rappresentante a Londra) p otrassi stabilire tra la condizione dell’Irlanda e quella della Sicilia? Qual differenza fra i sovrani di questi due paesi, ad eccezione delle loro forze relative? Perché dunque (soggiungeva) si è permesso di riconoscere l’indipendenza della Sicilia e di ricevere nella gran famiglia de’ sovrani di Europa il principe che si sarebbe scelto? Se giorni di sventura venissero a compromettere le forze dell’Inghilterra, non potrebb’ella forse dolersi con giustizia di quegli che verrebbero ad attaccarla nel punto più debole, e farle soffrire quanto essa impone agli altri?»
Né per ultimo in Inghilterra la pubblica opinione diversamente mos t ravasi. La gran Brettagna (dicevano le intelligenze inglesi) à veduto recentemente delle rivolte in molte delle sue colonie; la sua propria forza, più forse la generosità de’ suoi alleati, l’à salvata da un operoso intervento, ed essa deve per principio di giustizia e di onore mettere in opera con gli altri tanta riserbatezza, quanta se ne à con essa a causa della sua potenza. È nostro dovere sostenere i dritti del Re di Napoli, ed è il più debole e vile argomento quello di pretendere, che dobbiamo rompere le leggi internazionali sotto il pretesto che la Francia continuerebbe da se sola il suo intervento in Italia.»
Esposto ciò che accadeva nel senso diplomatico a riguardo della vertenza colla Sicilia, l’ordine della storia richiede, che si ritorni al filo interrotto intorno alle camere.
Era nella camera de’ deputati giunta a tal segno la esasperazione contro al ministero, che sempre quando il destro si offriva, niun mezzo più trascuravasi per porre a sindacato gli atti del governo. Epperò colpita la occasione della presenza di alcuni ministri, un deputato dalla tribuna, prendendo argomento dalla disamina del progetto dello indirizzo per la corona, facevasi così a dire:
«Signori. Un indirizzo non è, per quanto a me pare, che la espressione de’ desideri, delle esigenze e de’ bisogni del paese: esso non è, che una esplicita, una chiara manifestazione del parere della camera che rappresenta la nazione, una dimostrazione esplicita, che come diceva lo stesso onorevole ministro dell’interno, è la stella polare del l’ amministrazione dello stato; è un segno visibile a cui tutti gli atti governativi debbono conformarsi. E però vuol essere chiaramente e francamente compilato: vuole esprimere i bisogni, le esigenze del paese con coscienza, con coraggio: vuole richiedere il rendiconto degli atti dello stesso governo».
«Ma pare a me che l’indirizzo che vi è stato presentato non comprende chiaramente ciò che io, e molti altri miei amici politici (siccome ò la speranza di credere) pensano che dovesse essere. Miei signori, vi è noto che il discorso della corona contiene la identica professione di fede e de’ principi che il ministero che governa à tenuto ne’ suoi atti posteriori al 15 di maggio. Ora questi atti sono stati dalla pubblica opinione censurati. Quindi gli atti stessi pare che debbano essere francamente dalla camera censurati. Ed in vero sapete, come dopo il 29 gennaio lieti e festevoli giorni trascorsero; come l’entusiasmo si trasfuse dal primo all’ultimo cittadino di questa nostra regione; come questo entusiasmo e questa gioia si sentisse e corrispondesse alle esigenze ed alle condizioni di quei tempi. Ma quando in seguito degli avvenimenti strepitosi a cui l’Europa fu soggetta, nuovi fatti vennero consumati, e nuove guarentigie i popoli ottennero; quando vedemmo la repubblica in Francia; quando vedemmo la costituente a Berlino; quando la stessa Vienna ebbe una costituente; e quando sopratu tt o ci fu dato lo spettacolo di altra costituente nel l’ intera Germania, allora tutti si domandarono, se quel nostro regime costituzionale corrispondesse precisamente abisogni del tempo in cui eravamo collocati, ovvero se altri provvedimenti fossero da esigersi altre guarentigie a reclamare. Questa fu la dimanda che ci facemmo. Ebbene questa dimanda era nell’ordine stesso delle cose. Il mondo è in progresso: chi disconosce questa verità, rinnega se stesso; rinnega tutto ciò che innanzi agli occhi suoi avviene. Quindi non mi sorprendeva, quando udiva da qui, da questa tribuna, le parole seguenti: è da 20 anni, diceva il ministro dell’interno, che i miei scritti sono pubblici; è da 20 anni che ò manifestato le mie opinioni sopra la libertà ed il godimento della libertà civile dell’uomo onesto: quei principi sono invariabili!! Perdoni il ministro dell’interno: ciò che 20 anni dietro era opportuno, poteva esser detto e ben detto: venti anni di poi non può essere più opportuno. Ciò che allora era una verità, è divenuto un problema dappoi. Quando dunque un uomo di stato viene a proclamare che i suoi principi sono indelebili , e sono quelli che à professati 20 anni fa, io ritengo che quest’uomo di stato disconosce la missione sua propria, disconosce la condizione de’ tempi».
«E volete persuadervi come le cose che veniva sponendo raggiungono il vero? Volete averne una dimostrazione? Eccola: essa sorge dagli atti stessi che avvennero dal dì 29 gennaio in poi. Fu creduta morta la Sicilia: la Sicilia era viva. Essa fu perduta, perché si voleva che si governasse colle massime pubblicate 20 anni sono. Volete persuadervi come co’ fatti questo sistema fallisse, e come la dottrina essa stessa il disconoscesse? Guardate tutto ciò che avvenne durante il reggimento del primo ministero del 29 gennaio. Questo ministero vi presentò una legge sulla guardia nazionale incompleta. Bisognarono comenti molti e schiarimenti svariati per intendere quella legge. Lo stesso ministero vi fece dono della legge elettorale; e questa legge fu trovata tanto incompleta, tanto inesatta, che dovettero nuovi rescritti e deliberazioni svariate essere emesse, perché venisse corretta. Finanche un decreto riguardante l’indulto, dà luogo ad una correzione. Quindi da ciò naturalmente dovete supporre venuti lo scontento, il dispetto, il susurrare, e ’l diffidare. E questo non era sicuramente un mettere in repentaglio le nostre libere istituzioni? Non era un dar fondamento all’opinione del Guizot, che avea detto, i popoli italiani dover ancora trent’altri anni attendere un libero reggimento?.»
«Non era tutto ciò che è avvenuto, un giustificare che gli stessi atti del governo del 29 gennaio erano atti incompleti, e che producevano quello scontento, di cui indi fummo spettatori? Però, non avete, voi udito lo stesso ministro dir qui in comitato segreto che gli atti posteriori al 15 maggio, ed il 15 maggio stesso non furono se non i figli del 3 aprile, ed il 3 aprile non essere stato che il padre del 15 maggio? Quindi se questa era la condizione delle cose; se sotto questa condizione avvenivanoi casi deplorandi del 15 maggio; se una variazione nella amministrazione interna avveniva dopo questi casi del 15 maggio; degli atti di questa amministrazione doveva l’indirizzo far menzione, ed è di questi atti che io prendo nota e dico, che l’indirizzo non risponde al voto della nazione, o almeno quello, che io rappresentante della nazione vengo a manifestare dalla tribuna.»
«Io vi diceva che il discorso della corona debba esprimere nettamente lo stato del paese, e l’indirizzo debba rilevare questo stato. Ora voi udiste in sessione pubblica i fa tt i svariati che si sono consumati sotto gli occhi vostri: molti altri potrei io qui citarne. Attualmente nella provincia di Salerno, nel distretto di Sala si disarmano, si degradano i capi della guardia nazionale, vi si sostituiscono dei capi banda, i quali non sono che de’ capitani di ventura, che ricevono un soldo. E sono costoro che si chiamano capitani della guardia nazionale. Ecco qual’è lo stato attuale delle cose, e se di questo stato noi non possiamo menomamente dubitare, se la nazione si trova in una condizione speciale, e tale che ammette il bisogno urgentissimo di provvedimenti che calmino gli animi e producono il balsamo salutare dell’ordine, io credo che nell’indirizzo francamente e coraggiosamente si debba disapprovare tutto ciò che è avvenuto, come contrario a quella istessa costituzione che impera.»
Terminava questo discorso, ed un altro deputato sorgeva a menare più asprilamenti, dal perché si tenevano imprigionati 612 siciliani delle più distinte famiglie dell’isola ((13)), com’ei diceva, nel bagno di Nisida , ove costretti a giacere sulla nuda terra, si dovessero cibare di una lurida zuppa di fave. E per ultimo un terzo, facendosi ad esporre con foschi colori un moto popolare avvenuto in alcuni villaggi degli Abruzzi, più per private vendette, che per fini politici, conchiudeva, venir tutti questi disordini fomentati dal governo, onde promuovere apertamente una reazione .
Ma nell’altra camera, ove procedevasi con più sincerità, avvenne che un pari, stato sempre di ardente carattere, alla occasion e del l’ indirizzo per la corona, trasmodò siffattamente a danno del governo, per la condottaserbata dal 15 maggio in poi, specialmente a riguardo del richiamo delle milizie da’ campi di Lombardia, alla legge elettorale ed alla vertenza colla Sicilia, che non bastando alcune acconce risposte date da un ministro, bisognò che un altro pari ((14)), la cui saviezza e prudenza andrebbe sempre poco elogiata, montasse tostamente alla tribuna, e con eloquente discorso vi si facesse a dire così:
«Signori Pari. Il discorso intero dell’onorevole preopinante, più che toccare l’ indirizzo, à toccato il ministero, quindi è che fino ad un certo punto, mi dispenserò di seguirlo a passo a passo nel suo lungo viaggio. Tanto più lo farò, in quanto che nella mia politica, in quella che professo, credo che le riviste retrospettive, che il cercare sulla tavolozza de’ tempi andati de colori foschi per stemperarli sull’avvenire, è il vero modo, ed il più potente per mantenere quell’agitazione negli spiriti, la quale finora à sì gravi, estreme, e dolorose conseguenze prodotto. Quindi è che io vorrei tirar sul passalo un velo fittissimo, poiché credo che tale è la natura del vero, tale è la condizione del paese, tale è la condizione generale d’Italia e di Europa, che gli uomini non fanno le opinioni, ma sono quasi sempre trascinati da esse, e che i nomi propri, e le persone difficilmente possono ai tempi, in cui viviamo, cambiare la natura o la forza delle idee. Non però adotto lo stesso principio, e seguo la stessa politica, quando si tratta del valore dei fatti, ché laddove, non già le opinioni, ma i fatti trasmodano, allora la pubblica libertà, allora la pubblica pace è compromessa. Ora il problema del paese secondo me sta nel persuadere a tutti, nel convincere tutti e in tutte le regioni, non essere già impossibile di conciliarela libertà con l’ordine, non essere già conseguenze infallibili della libertà le perturbazioni, le sommosse, le diffidenze, i dissidi, e tutti i mali da cui il nostro paese, sono già sei mesi, è stato violentemente agitato. Questa opinione, se io non sono in errore, è chiaramente espressa nello indirizzo che io vengo a difendere a questa ringhiera.»
«Quale è lo spirito generale dell’indirizzo? La concordia! la pace. Dimanderò: vi sarà mente cosi ferma, o cuore così ardito, che vorrà trattar di falsa una simile dottrina? che vorrà escludendo e la pace e la concordia, alludere a tristissime memorie? Or se questo è lo spirito generale del l’ indirizzo; se ad ogni passo di esso, non tenuto conto degli uomini, è vagheggiata la pace, la concordia e l’unione, la conciliazione senza debolezza, la libertà senza licenza, la forza ove bisogna, ma senza abuso; laddove questi principi si sostengono in un pubblico documento ed in un momento solenne, io credo che in niuna giusta causa di critica sia incorso. Partendo dunque da questi principi, io scenderò a trattare le diverse opinioni svolte dall’onorevole pari. Queste, se a me la memoria non fa difetto, si riducono, al richiamo dell’esercito dalla Lombardia, allo scioglimento della guardia nazionale, agli affari di Calabria e finalmente ad un cenno rapidissimo, ad un cenno il quale nulla determina, il quale nulla definisce, sugli affari di Sicilia. Con questo medesimo ordine, non molte, ma poche parole dirò; giacché come l’onorevole preopinante ne appellò all’imparzialità della storia, questa, severa ed indipendente, giudicherà uomini e cose, ed a ciascuno assegnerà il suo posto.»
«Richiamo dell’esercito dalla Lombardia. Credo che niuno in questo recinto, né ovunque illumina il sole d’Italia, possa aver dubbio che questa tra le più nobili imprese debba riscaldare ogni cuore, eccitare ogni mente. Né io credo che vi sia alcuno che voglia negare a questa il primato tra tutte. Ma se la guerra d’Italia era un santo dovere ed un altissimo scopo, bisognava che sempre fosse rimasta a scopo e dovere, e che giammai non si fosse invocata come un velo a coprire altri disegni. Dacché questo tarlo roditore nacque nell’infelice paese, e di dentro la sua pace, e di fuora la sua importanza vacillarono; ed i suoi obblighi divennero di difficilissima esecuzione.»
«Ma pria di accennare la delicata e difficile posizione del paese nei suoi ordini interni, e nei suoi esterni doveri in quell’epoca, qualche esempio ricorderò atto a farne sentir l’importanza ed il peso di una tale posizione. E però, o signori, vi prego di portare il vostro sguardo sulla potente monarchia del gran Federico. E bene, questa monarchia benché sì potente, sì temuta in Europa, agitata dai medesimi principi, dalle medesime cause dissolventi, questa monarchia stenta innanzi ad una guerra Scheleswinchese!… Non è più quella monarchia che per sette anni combatté , e vinse le tre più grandi potenze d’Europa. E perché mai, se non per la decomposizione interna, e per le discordie intestine?.»
«Volgete l’occhio al potente impero di Francia, uno tra quelli che per istoria, per grandezza e per gloria tanto tempo dominò tu tt ‘Europa. Ebbene questo impero francese, dal momento in cui l’ordine abbandonò la finanza, dal momento in cui i cittadini non furono più di accordo tra loro, questo impero di Francia richiamò dalle Alpi nel momento il più grave l’esercito che avea tenuto la per più mesi per osservare i grandissimi avvenimenti italiani su di una frontiera francese. Al momento, in cui parlo, l’esercito delle Alpi sta per metà a guardar Parigi, e per l’altra metà a contenere Grenoble, e Lione»
«In questo modo queste grandi potenze, strette da interne gravissime circostanze, ànno dovuto a malgrado delle loro grandezze, a malgrado della forza, a malgrado della gloria, a malgrado dell’istoria, ànno dovuto richiamare al centro quelle truppe che per altre anche gravi cagioni erano state mandate alle estremità del paese. E finalmente rammenterò quell’impero d’Austria, altra volta così potente, e sempre fatalmente nemico d’Italia. Ebbene questo impero di Austria, così altra volta potente, agitato dalle medesime condizioni, questo impero, non una volta, ma più, à dovuto non provvedere alla funesta guerra, perché gravissimi disordini, altrove avvenuti, ànno impedito alle sue schiere di marciare sul Po, scopo principale delle loro operazioni.»
«Queste cose io diceva come esempi per dimostrare, che le più grandi nazioni, allorquando sono ridotte ad alcune condizioni tristissime, più che il lontano anche nobilissimo, più che l’assoluto, debbono seguire il necessario, il prossimo: debbon pria dell’altrui, assicurar la propria esistenza. Tale era, o almeno, tale parmi che fosse stata, la condizione del regno di Napoli, nel giorno 16 di maggio. Quali fossero le forze dello stato a quel tempo, io non posso dirlo. Il ministero, che è qui presente, potrebbe sopra di ciò dare chiarimenti di natura tale da dimostrare come il nostro paese avesse allora bisogno di unir tutte le sue forze a difesa dell’ordine e della pubblica salvezza da per ogni dove in grave periglio. Quello che solamente io so, è che il corpo di Lombardia aveva in circa 12 a 13 mila uomini; che il nerbo della nostra cavalleria era in Lombardia; che delle sei batterie di cannoni compiutamente montate, tre, e le più potenti erano in Lombardia, e che quindi avevamo l’esercito di gra n lunga diminuito. Quello che io so è, che la coscrizione a cui si allude, e la riserva a cui l’onorevole preopinante si rapportava, nel tempo di cui noi parliamo, non erano per ancora giunte, ovvero Io erano in sì scarso numero da non potersene tener conto di sorte alcuna, né trarne un servizio bastevole ed efficace; giacché i signori pari conosceranno quali sieno le differenze che passano fra soldati avvezzi a combattere ed armeggiare, ed uomini i quali ancora non sono formati all’esercizio delle armi, ancora non vestiti, ed inesperti al servizio ed alle armi. Quindi è che io riepilogando su questi capi, dico, che il regno doveva, e dovendo voleva, ma che condizione essenziale per lo attivo concorso delle nostre truppe in Italia era la pace interna, era la concordia tra cittadini e cittadini, era la unione tra cittadini e governo. Allora sì, si sarebbe potuto affidare il regno a questa, e a quell’altra cittadina milizia, allora facendosi uso della massima parte del nostro esercito comparire in Italia, come avrebbe potuto e voluto, senza tali circostanze il più grande reame della penisola. Ma allorquando questo reame fu fieramente sconvolto, quando il fiume fu avvelenato nelle sue sorgenti, allora non rimase libertà di scelta; allora l’uomo politico dovette dolorosamente alzare in una bilancia i bisogni d’Italia, ed i bisogni del regno. Dippiù far la guerra, e per nobilissima causa, è certo dovere in alcuni casi, gloria sempre; ma non era guerra ordinaria e metodica: ed in ciò prego i signori pari a non temere che io faccia uso della strategia della tribuna, di cui conosco pochissimo, e ancor meno della tattica. parlamentaria che non conosco affetto, dico soltanto che non basta per la guerra di voler la guerra: l’atto materiale della guerra non è che un profilo dello stato di tensione in cui una nazione si trova, quando aspira ad un grande oggetto. La guerra in cui un paese non entra solo, si fa appoggiati sul dritto e su’ trattati solenni. Io non conosco, e sarà forse causa di ciò la mia limitatissima istruzione, ma io non conosco che vi sia stata guerra in cui essendoci molti a farla insieme non vi sia stato prima fra loro patto e trattato: io non conosco come può farsi una guerra, e senza averne indicato lo scopo finale, i dritti ed i doveri, senza avere convenuto nemmeno la ricognizione, e la garanzia reciproca degli stati dei contraenti, base e principio di ogni trattato di questa natura; senza aver detto quali sieno gli obblighi, e i doveri; senza aver presuntivamente divisi i pericoli e le conseguenze del successo. Guerra in questa maniera fatta per me non ò veduta giammai. Né veduta, né letta. Dippiù fare la guerra, non basta, bisogna crearne gli elementi. E in qual modo si creano gli elementi di guerra? Gli elementi di guerra si creano accrescendo le risorse della finanza. Non ci è bisogno di lunga dimostrazione per sostenere che la guerra assorbisce grandissimi capitali. Bisogna inoltre che la giustizia, l’amministrazione pubblica abbia tutta la forza possibile, perché in tal modo possa infliggere agli uomini, il più grande, senza dubbio, ma il più doloroso di tutti i doveri, quello cioè della coscrizione, e il richiamo de’ congedati, e per conseguenza apportare nelle famiglie una perturbazione necessaria ma dolorosa. Ciò non si ottiene se non che con una amministrazione compatta, saggia e gagliarda. Io domando se il regno era retto da una amministrazione di questa natura? Ora quando la pace interna era talmente turbata da quel principio che io non chiamerò con l’antica parola del paese, per non macchiare questa tribuna, o con nuova parola non molto più nobile, dal principio dirò del comunismo , quando s’invadevano le proprietà, s’impedivano leimposte, si manomettevano gl’individui, si erigeva il controbando a regola , la percezione del dazio ad eccezione , io vi domando, se con una amministrazione così montata potevano ottenersi braccia e sforzi finanzieri proporzionati all’altezza del bisogno? Unendo dunque ciò che vi era di anormale nello stato interno del paese, e ciò che vi era di strano nel negare alleanze, esigendo il concorso armato nelle relazioni internazionali, ne risulta non già che il governo non abbia voluto, ma bensì, che non abbia potuto appoggiarsi né su’ trattati, né su la pace interna per volere far la guerra. Vi dimando, se in tal caso poteva il regno di Napoli, o una buona politica napolitana, sottraendo le forze al paese, l à condurle, dove il desiderio ed il dovere, in tutt’altra circostanza, avrebbero imperiosamente comandato? Ma v’è di più. Non appartiene al tempo presente di fare la storia delle attuali perturbazioni d’Italia. Ma ciò che può essere stato veduto da tutti, o almeno da tutti quelli che ànno riflettuto sugli avvenimenti, si è, che non un’idea sola, non una politica unica ed esclusiva à dominato in Italia, ma politiche diverse, diverse tendenze, scopi diversi ànno agitato or questa, or quella parte de’ cittadini d’Italia; e se la camera porrà mente, che nel momento in cui una grande potenza si ergeva (e spero ancora che la provvidenza permetta che si erga sul Po) allora questo regno soffrì la separazione di una gran parte di esso, separazione da alcuni dolentemente veduta, da alcuni potentemente eccitata, e quel regno, il quale già si trovava in condizioni così tristi, questo regno doveva badare alla doppia stretta, che gli veniva dalla perdita della sua potenza relativa nel concorso degli stati italiani, e dalla perdita positiva che la separazione della Sicilia produceva nelle sue forze. Quindi non bastava piùdi guardarsi a 200 leghe sul nord; ma fu forza imperiosa di guardarsi ancora più attentamente a 100 leghe al sud, e potè, edové temere oltre Faro quelle contingenze che poi il tempo à rivelato, ma fin d’allora più che prevedibili. Or vi dimando: qual nazione non sentirebbe, messa in simili condizioni, perduta ogni forza, ridotta ad uno stato assai inferiore a quello che da tanti secoli aveva questo regno che, benché provincia, pur tuttavolta (tranne che in taluni casi eccezionali) unito si opponeva alle perturbazioni politiche tutte che si movessero in Italia, sia da italiani, sia da stranieri, quale nazione non sentirebbe acerbissimo cordoglio? Che rimane al regno di Napoli per tenere la bilancia in modo che da regno rinomato e potente non divenga potenza di quarto ordine, o forse di nessun’ordine? L’abbassamento sarebbe tale, che io non saprei come mai un napoletano abbia potuto guardare l’avvenire senza sentirsi compreso da altissimo dolore! Tal era lo stato del regno di Napoli.»
«La camera non esigerà, napoletana come è, da un napoletano, come io sono, che imprudentemente mi avventuri sul giorno doloroso che rimena alla memoria tristissima rimembranza. Io non sono alla tribuna per fare il processo a chicchessia, vi sono al contrario per fare che ogni processo svanisca nella concordia, nell’unione e nella pace de’ cittadini, perché nella concordia, nella unione e nella pace sta. non solo ogni interna potenza del regno, ma ogni sua politica importanza in Italia, e fuori. E la potenza d’Italia verrà compiuta e rispettata soltanto allora, quando questo regno unito, forte, con equa federazione, stia in guardia o difesa della nobile penisola. Perciò tra le condizioni di forza è senza dubbio gravissima la guardia cittadina, e non è chi non veda che senza questa base essenziale della pace interna, qualunque altro provvedimento esterno, lontano, o vicino, diventerebbe difficilissimo. Ma sventura volle, e l’esperienza costante provò, che alcuni tra loro si dichiararono avversi, altri illusi, neghittosi tutti. Non vorrò stabilire dolorose distinzioni; ma dirò che l’attitudine loro tolse quella base su cui il grande edilizio d’Italia avrebbe potuto elevarsi; non vorrò seguir la genesi, che menò a conseguenze così deplorabili, benché sarebbe agevole di seguirla da quel simbolico funebre carro ((15)) che ciascuno vide percorrere le nostre strade, al dolorosissimo giorno di maggio. Quando questa genesi verrà imparzialmente svolta dall’istoria, chiaro apparirà, come questa grande istituzione debb’esser contenuta in limiti, non dirò stretti troppo, ma prudenti, con forme, non dirò troppo severe, ma ordinate e conservatrici. Non è questo un leggiero argomento, tale che possa trattarsi di scorcio e come per incidente. Lapruova è stata dolorosa; la esperienza, lo spero almeno, non sarà perduta. Ciascuno può giudicar da quello che offrì o che vide, e potrà conseguentemente sostener col suo assenso coloro i quali s’ingegnano di rimettere il. paese su migliori vie, sostituendo ad un passato tumultuoso, la tranquillità e la concordia per lo avvenire. Indulgente per le persone, uopo è che ciascuno divenga severo pei fatti, se son biasimevoli.»
«Il nobile preopinante in una parte del suo discorso diceva: io predico la concordia e la pace; ed io mi perme t terò di rispettosamente dimandare, che altro predica l’indirizzo della camera de’ pari se non che la concordia e la pace dal primo all’ultimo verso? Io non so, né nel pensiero, né nella espressione vedervi un sentimento diverso; e da questo lato almeno sarà la commissione lusingata d’aver ottenuto così rispettabile assenso. Ma l’ordine e la pace è esso un frutto che nasce spontaneo, o è esso un frutto laborioso, il quale l’uomo ottiene dal sudore della sua fronte? Ebbene, chi vuol la pace, la concordia e l’unione: chi vuole l’ordine, non dovrà violar la legge. Non dovrà egli dire alla milizia cittadina: siete voi i mantenitori della legge; non dovrà dire a’ ministri, fate applicar la legge, alle camere fate la legge giusta, ma che ima volta poi fatta la legge, sia eseguita fermamente sì nello spirito, e sì nella lettura? Se il preopinante dice di volere la concordia e la pace, debbe necessariamente volere il potere forte nella sua responsabilità, perché possa mantener ciascuno nel suo dritto, e nei suoi doveri; che da questo equilibrio soltanto può discendere l’ordine, e la pace. Se la mia illusione non è grande, io nel difendere il progetto d’indirizzo mi son tenuto assai meno distante dall’onorevole preopinante, di quello ch’egli medesimo non mostra per avventura di crederlo.»
«Io dirò pochissime parole, della quistione di oltre Faro. Ricorderò solamente che per lo articolo 63 dello statuto sotto il capitolo il quale determina e definisce i dritti della corona, è espressamente e solennemente detto. «Provvede a sostenere la integrità del reame; dichiara la guerra e conchiude la pace».
«Dunque l’art. 63 dello statuto parla del reame e della integrità del reame, e dà alla corona non solo il diritto, ma il dovere di mantenerne la integrità.»
«La camera de’ pari indica in uno degli articoli dell’indirizzo di provvedere agli avvenimenti gravi, che manifestandosi intorno a noi potrebbero esercitare su questa parte d’Italia e sulla sua integrità una seria influenza. È il voto dello statuto che l’indirizzo rammenta, lo statuto ch’è legge per tutti inviolabile. Con questo la corona è avvertita, e ne diviene più forte; e la corona sa che grave influenza alcuni grandi avvenimenti potrebbero esercitare su questo paese. La corona per l’art. 63 aveva de’ doveri ad adempiere: la camera dei pari, secondo me, à il me ri to di averglieli ricordati. Né aggiungerò più parole, e non farò che la tribuna de’ pari entri in quistioni, le quali assolutamente van lasciate nel diritto e nella responsabilità del potere esecutivo. Tocca ad esso di far tesoro, e di dare all’indirizzo della camera de’ pari quello svolgimento che la natura de’ tempi, il calcolo delle circostanze del paese, le ragioni diverse dello stato permetteranno dar loro. Limito le mie osservazioni, persuaso che più dicendo, oltrepasserei la linea oltre alla quale incominciano i diritti ed i doveri del governo. Signori, queste sono le o s serva»ioni che io aveva a sottomettere a’ pari difendendo l’indirizzo.»
«Un’altra cosa; mi riprendo, poiché la memoria fallace faceva che io la dimenticassi, e pare che sia l’accusa prodotta dall’onorevole preopinante riguardo allo scioglimento della camera de’ deputati.»
«Signori. Noi non siamo chiamati a giudicarci l’un l’altro, noi non siamo chiamati a vedere se violazione ci è o non ci è in tale o tale altro atto del potere esecutivo, n° non siamo chiamati a pesare certe circostanze e certe ragioni di diritto, sulle quali potremmo discutere lungo tempo. Chiunque crede che lo scioglimento della camera avvenuto nel 15 o 16 maggio sia qualche atto che compro m ette il potere, il quale lo consigliò alla corona, questi che cosi crede sarò mai sempre imperdonabile» Questo discorso fu udito con grande sodisfazione da presso che tutta la camera, e quasi all’unanimità fu approvata la formola del rispettoso indirizzo.
Mentre così al termine dell’agosto, nelle stesse camere legislative del continente, i virtuosi ed i modesti che v’erano, detestando i mali avvisati consigli, e sentendo sdegno grandissimo della presente vergogna, levavano alto la voce della ragione per denunziare al pubblico giudizio le smodate pretese degli esaltati rigeneratori della libertà, nella Sicilia la maggioranza perveniva finalmente a scovrire l’abisso, all’orlo del quale gli usurpatori del potere, predicando la sua grandezza ed il suo valore avevanla spinta, e ritraevano inorridito lo sguardo, fortificandosi tacitamente nel santo desiderio di ritornar ben tosto sotto la pristina legittima dominazione.
Intanto l’apparecchiato corpo d’esercito nel continente del regno te n easi ormai preparato, ed una squadra per trasportarlo era già pronta nel porto di Napoli. A duce supremo delle forze di terra e di mare, era stato prescelto il tenente generale Carlo Filangieri principe di Satriano, ed a comandanti delle due divisioni, in cui le milizie venivano spartite, deputavansi i marescialli Pronio e Nunziante.
Ma ciò non bastava. A fronte di una tribuna impaziente, che senza calcolare le difficoltà dello stato e le esigenze diplomatiche, avrebbe senza dubbio sollevate le più inopportune discussioni, ed attraversato il corso degli eventi con interpellazioni impudenti, togliendo per tal modo al governo tutta intera quella libertà di azione, che nel rincontro estremamente convenivasi, fu d’uopo che al 1° di settembre, quando già il naviglio destinato a tra s portare le milizie avea rivolto la prora verso il faro, si pubblicasse il decreto, che prorogava la sessione delle camere legislative pel di 30 novembre.
Cosi tra mille vaticini, e le speranze de’ buoni e de’ tristi, aspettavano tutti con ansia i casi avvenire.
FINE DEL VOLUME PRIMO
INDICE
CAPITOLO I Rapido cenno della condizione del regno al ritorno della famiglia Borbone per la caduta di Bonaparte, ed avvenimenti succeduti insino al 1830, in cui fu innalzato al trono l’augusto Sovrano regnante Ferdinando II | 1 |
CAPITOLO II Determinazioni prese dal nuovo Re Ferdinando II: tristi casi avvenuti, specialmente in Sicilia per la invasione del colera: misure adottate a spegnere l’odiosità ne’ siciliani: mali umori coll’Inghilterra; tentativi d’insurrezione | 8 |
CAPITOLO III Progressi del liberalismo: mezzi usati a spargere il malcontento: tentativi d’insurrezione a Palermo: moli di Messina e di Reggio | 16 |
CAPITOLO IV Movimenti di Napoli: provvedimenti a refrenarli immaginati dai governo; meni conciliativi alla fine adottati | 24 |
CAPITOLO V Mezzi usati in Palermo per determinare il popolo ad insorgere | 29 |
CAPITOLO VI Insurrezione scoppiala in Palermo: truppe speditevi da Napoli per comprimerla | 37 |
CAPITOLO VII La insurrezione in Palermo si accresce: la truppa di guarnigione se ne sta sulla difensiva, né il corpo d’armata del generale Desauget s’impegna in alcun’ azione: il luogotenente si sforza a delle trattative, ma le richieste vengono da’ siciliani rigettate: inaspettatamente, tutta l’armata abbandona l’isola, e si ritira in Napoli | 46 |
CAPITOLO Vili Scompigli in Napoli: insurrezione del Vallo: deputazione che si presenta al Re, chiedendo una costituzione: alcuni ministri esteri ne lo dissuadono: gli agitatori raddoppiano i loro sforzi; il Sovrano viene tradito da chi meno si attende: cadono gli antichi ministri; un novello ministero si crea conforme alle occorrenze, che come unico mezzo di salvezza propone una costituzione, la quale per la necessità in cui il Sovrano si trova, vien concessa | 62 |
CAPITOLO IX Il Re concede la costituzione, conseguenze che ne derivano: la Sicilia è interamente ribellata: mezzi usati dal governo per pacificarla, e che restano tutti privi di effetto | 69 |
CAPITOLO X Insulti menati a’ gesuiti, e loro espulsione dal regno: conseguenze che ne derivarono: ostilità in Messina tra le masse e le milizie della cittadella. smodate pretese del governo provvisorio di Palermo: formale protesta del Re | 84 |
CAPITOLO XI Il Re del Piemonte manda un corpo d’esercito in soccorso de’ lombardiveneti ribellati all’impero austriaco: dallo stato romano e dalla Toscana muovono truppe allo stesso intendimento: in Napoli gli esaltati esìgono altrettanto: cangiamento del ministero: spedizione di truppe in Lombardia: generale Pepe: comunismo: raggiri usati nella elezione de’ deputati: malcontento | 98 |
CAPITOLO XII Il parlamento di Palermo dichiara la decadenza del Re e della sua dinastia dal trono di Sicilia: rilevantissima novità; il Papa protesta di non volere affatto muovere la guerra all’Austria: gravi subugli a Roma: le cose vanno a ruina nel regno di Napoli | 109 |
CAPITOLO XIII Circa a 90 deputati si radunano nel giorno 14 maggio nella sala municipale di Montoliveto, onde essere di accordo su talune determinazioni a prendere: animata discussione che ne nasce: turbamenti che nella capitale ne succedono: insurrezione che si prepara, ed attitudine ohe prende il governo | 123 |
CAPITOLO XIV Avvenimenti del 15 maggio 131 | 131 |
CAPITOLO XV Condizione della capitale e delle provincie dopo la catastrofe del l’Omaggio: si cangia il ministero; si scioglie la camera de’ deputati, e si stabilisce il giorno per le nuove elezioni: si scioglie altresì la guardia nazionale di Napoli, e vi si proclama lo stato di assedio: si richiamano le truppe spedite nell’Italia superiore, ed incidenti che vi succedono | 150 |
CAPITOLO XVI Ribellione delle Calabrie; spedizione di truppe a’ cenni del generale Nunziante per comprimerla: dichiarazioni che vi succedono: altra spedizione in due colonne, l’una comandata dal brigadiere Busacca, l’altra dal brigadiere Lanza: la sollevazione si accresce per l’apparizione di alcune bande di siciliani guidate da Ribotti: misure prese dal governo; disposizioni che adottano i sollevati | 164 |
CAPITOLO XVII Muove il generale Nunziante ad attaccare i ribelli, e ne ottiene i vantaggi: il generale Busacca si rimane in Castrovillari, e critica addiviene la sua posizione: sopraggiunge il generale Lanza, che con molta sagacia à eluso il nemico, e con soverchio ardimento si è spinto innanzi: si riuniscono le due colonne in Castrovillari, e Cosenza è minacciata: legnasse si disperdono, il comitato fogge, una deputazione di Cosenza si presenta a Busacca, chiede sottomettersi, e le truppe non tardano ad occuparla: lo stesso indi a poco implora Catanzaro, ed il generale Nunziante tosto vi si reca colla sua colonna: l’ordine è rimesso in tutte le Calabrie, ed è turbato in tre distretti della provincia di Salerno: vi accorre la pubblica forza, e la tranquillità tosto succede | 178 |
CAPITOLO XVIII Si apre il parlamento, e discorso che vi fa la corona: operazioni che avvengono nella camera de’ depurati, e discussioni che indi a poco vi suo cedono rispetto agli avvenimenti delle Calabrie: iniqua determinazione che adotta il parlamento di Sicilia, e dignitosa protesta per parte del Sovrano | 204 |
CAPITOLO XIX Sorgono oratori nelle camere inglesi a biasimare la condotta di alcuni agenti del governo britannico, per la manifesta protezione accordata alla Sicilia: il ministro degli affari esteri di Napoli viene interpellato dalla deplomazia inglese e francese su’ preparamenti che si fanno per la spedizione in Sicilia; la stessa si mena ad effetto, e le camere vengono prorogate | 235 |
CONSIGLIO GENERALE DI PUBBLICA ISTRUZIONE Napoli 16 aprile 1851 Vista la domanda del tipografo. Raffaele Marotta con che à chiesto porre a stampa l’opera intitolata:Storia de’ rivolgimenti politici nelle Due Sicilie dal 1847 al 1850 per l’avvocato Giovanni Giuseppe Rossi. Visto il parere del signor D. Giulio Capone. Si permette che la suindicata opera si stampi; però non si pubblichi senza un secondo permesso che non si darà se prima lo stesso signore D. Giulio Capone non avrà attestato di aver riconosciuto nel confronto esser l’impressione uniforme all’originale approvato. Il presidente interino FRANCESCO SAVERIO APUZZO Il segretario interino GIUSEPPE PIETROCOLA |
STORIA DE’ RIVOLGIMENTI POLITICI DELLE DUE SICILIE DAL 1847 AL 1850 per l’Avv. Gio. Giuseppe Rossi Volume II NAPOLI STAMPERIA DEL FIBRENO 1851 |
CAPITOLO XX
Sguardo retrospettivo sugli accaduti in Messina: il maresciallo Landi è sostituito dal brigadiere Cardamone, e perché? condotta del novello comandante; le circostanze si complicano, gli affari peggiorano, ed oltremodo pericolosa addiviene la condizione delle milizie rinchiuse in cittadella: s’invia sollecitamente il maresciallo Pronio al comando di quella fortezza prossima a cadere, e lo stato di essa tosto si rileva. Si raduna a Reggio l’esercito di spedizione destinato al riacquisto della Sicilia, ed ai 3 settembre cominciano le prime fazioni: s’interpongono, ma inutilmente, i comandanti delle squadre inglese e francese, e dopo due giorni di continuato combattere Messina è conquistata, con grave suo danno. Si spaventano le città vicine, e subito volontariamente si sottomettono.
Nel primo volume di queste istorie accennandosi alla infelice ritirata delle regie milizie da Palermo, ed al loro imbarco seguito nella spiaggia di Solanto il 31 gennaio 1848, rilevammo come poco appresso per disposizione del governo di Napoli avvenisse la cessione del forte Castellammare, e come alquanto dopo seguisse l’abbandono della piazza di Siracusa, che forse più prudenti, o meno ingannevoli consigli avrebbero suggerito mantenere; e sin d’allora notammo come altro non rimanesse in potere delle forze napolitane in Sicilia, che la sola cittadella di Messina, coadiuvata da altre distaccate fortificazioni. A quali eccessi poi si fossero spinti i ribelli dell’isola, e come per la loro cieca ostinazione, tornate sempre vane le trattative con ciliative, fosse stato il Re costretto di ricorrere al mezzo delle armi per riprendervi i suoi dritti, non fa mestieri ripeterlo. Volgendo ora alla narrazione de’ fatti relativi alla spedizione contro Messina, indispensabile ci sembra di dare uno sguardo retrospettivo intorno a questa città, il cui destino tanto potentemente influì su quello di tutta la Sicilia.
Giace Messina sulla costa siciliana del Faro, o stretto del suo nome, ad otto miglia dal capo Peloro, uno de’ tre vertici del triangolo che figura quell’isola. Città cospicua, cinta da solide mura bastionate, elevasi gradatamente seguendo la china degli ultimi poggi delle soprastanti colline, e specchiasi nell’ampio e sicuro porto naturale che le sta dinnanzi formato da lunga e ricurva lingua di terra, quale avvanzandosi dalla sua estremità meridionale, e volgendo ad arco verso settentrione, conservasi alta pochi palmi dal mare, e sempre in piano. Sulla parte più spaziosa dell’istmo sta la cittadella, pentagono bastionato, opera del 1679, cinta di fossi bagnali dal mare, e munita di opere accessorie e distaccate, specialmente sul fronte rivolto al lato che, mercé lo spazioso piano di Terranova, l’unisce alla città. Alla estremità dell’istmo evvi il forte S. Salvatore, il quale a brevi distanze reciproca i suoi fuochi colla cittadella, coll’intermedio forte della lanterna e con quello di Rea l alto, primo bastione della città messo all’imboccatura del porto. E per ultimo a cavaliere, sulle prime dominanti colline al di la del muro di cinta dell’abitato, veggonsi minacciosi i due forti Gonsaga e Castell uccio posti a tutela della città, se fedele; ad infrenarla, se ribelle.
Quando in sullo scorcio dell’anno 1847 il brigadiere Cardamone succedeva nel comando militare della provincia e piazza di Messina al maresciallo di campo Salvatore Landi, che per aver trionfato contro la insurrezione del 1 .°settembre si aveva attirato l’odio e la persecuzione di alcuni malvagi che stavano al potere, divenuti poi strumenti dell’agitazione ((16)), diversi utili provvedimenti, a proseguo di quelli invano invocati dal suo antecessore, facevasi ad attivare. Di viveri aumentaval’approvvigionamento di riserva della cittadella; impediva che cento cantaia di biscotto si estraessero da quella fortezza, col pretesto che fosse il genere deperito; affrettava il riordinamento delle artiglierie; minacciava sottoporre allo stato di assedio la città se indocile, e per nulla curava le proteste contro siffatta determinazione che i consoli d’Inghilterra e di Francia , con rara prepotenza, ardivano contrapporre .
Questa lodevole operosità mostrata sulle prime dal generale Cardamone videsi dappoi declinare; ed o che fosse stato anch’esso tocco dalla febbrile incertezza di quei tempi, o che abbandonato si fosse a perfidi consigli, che destramente suo malgrado sviavanlo dalla fedeltà, unico sentiero dell’onor militare, diveniva egli tutt’altro in appresso.
Vero è che alle nuove della insurrezione di Palermo aveva sollecitato dal governo in suo soccorso le milizie del generale Nunziante, nella vicina Calabria, ma neppure colla giunta di queste nuove forze seppe mai stringere fermo il comando nelle proprie mani.
Passando così le apprensioni dalla irrisolutezza della forza militare nella massa degli abitanti, le autorità infedeli (non poche) ne gioivano, spingendo gli agitatori a far peggio, e le oneste non potendo resistere al torrente devastatore, cercavano almeno un rifugio fra le baracche di Terranova , imitando lo stesso Cardamone ed il duca di Bagnoli, novello intendente.
In tanta difformità di azione, pervertiti e trepidanti tradivano e sfuggivano i propri doveri; e quando già canlavansi pubblicamente la marsigliese ed altre canzonette eccitanti ad insorgere, ed il borgo S. Leone per la tristizia de’ suoi abitanti diveniva fucina del disordine, la città abbandonavano a’ capricci della fazione rivoltuosa.
Con questi preludi rompeva l’alba del 29 gennaio 1848. Deserta la strada Austria; chiuse la più parte delle botteghe; sparite le faccende commerciali in Portofranco, pre6agivansi dapertutto calamità imminenti. Intanto i congiurati stavano apparecchiati ed indecisi, ma appena scorgevano ritirate in cittadella le milizie di Nunziante stanziate nel palazzo senatorio e nel monastero della Maddalena, rotti gl’indugi, attivavansi a costruire una barricata nel quadrivio delle quattro fontane , chiudendo per tal modo la strada Austria dal lato prossimo a Terranova.
Muoveva allora minaccioso dalla cittadella il generale Nunziante con fanti e cannoni, e quei lavori tosto scomparivano. Più tardi, vedutisi nuovamente in loro balia gli insorti, si aumentavano e s’inorgoglivano, obbligavano lapopolazione a fregiarsi della coccarda tricolore, e traendo l’archivio della polizia al largo dell’Annunziata, lo condannavano alle fiamme.
Esporre minutamente quant’altro accadeva di strano in que’ tristissimi momenti, sarebbe del tutto superfluo. Basta solo accennare, che divenuti al cadere di quel giorno più arditi i faziosi, ed armatisi la maggior parte, spingeansi insino al posto avvanzato di S. Girolamo, attaccandolo a colpi di fuoco per isloggiarlo; ma non appena ricomparivano le forze del generale Nunziante, e le artiglierie della cittadella tuonavano per comando del generale Busacca ((a)), essi gagliardemente pressati, si sbaragliavano precipitosamente.
Quando adunque queste cose sventuratamente succedevano, ad impedire che la ribellione vieppiù si accrescesse, sarebbe indispensabilmente occorso, che il generale Cardamone avesse proclamato il minacciato stato di assedio, ma egli al contrario, facendo rinserrare le milizie nella cittadella, chiudendo la barriera di Terranova e troncando ogni comunicazione colla città, dava maggior comodità ai dispersi faziosi di raggranellarsi, rendersi più operosi e cominciare, come difatti praticarono ne’ giorni appresso, a tormentare dalle case opposte i regi stanziati nel bastione S.( a) Chiara, dietroalla barriera di Terranova e nell’arsenale di marina. Per si mali avvisati consigli peggiorò talmente lo stato delle milizie e la condizione della cittadella, che gl’insorti, guidati da un fellone uffiziale del genio ((17)) s’impadronirono sollecitamente del forte Real alto, e costrinsero successivamente la guarnigione della cittadella ad abbandonare sinanche il piano di Terranova, (situato d’innanzi alle sue opere esterne), le caserme ed il bastione Donblasco, rimanendo per tal maniera la fortezza in un perfetto stato di assedio.
Ridotta a queste strettezze la condizione della cittadella, il Re vi spediva in tutta fretta nel 22 febbraio il valoroso maresciallo di campo Paolo Pronio, e tre distinti uffiziali superiori delle artiglierie e del genio, ((18)) onde a quegli accidenti avessero al meglio riparato. Giungevano essi nel giorno appresso, e quantunque i ribelli, oltre ai vantaggi descritti, avessero avuto pure il destro di stabilire batterie sul noviziato, sul bastione S.( a) Chiara, al piano del duomo, sotto Varco della porta d’ingresso del piano di Terranova, alla Flora, ed altre ancora ne stassero apparecchiando a Torre Vittoria, innanzi la Chiesa di S. Gregorio, sull’altura di Matagrifone e sul bastione Andria, non pertanto, mercé la loro abilità e zelo, restituivano alla guarnigione la opinione di bravi, che un mal fermo comando aveva insino allora offuscato, e ponevano la cittadella, quando già pareva imminente sotto il comando di Cardamone la sua caduta, nello stato di respingere i rilevanti attacchi avvenuti ne’ giorni 6, 7 ed 8 marzo, ed ogn ialtro tentativo a cui poderose forze siciliane, secondate da copiosi stranieri soccorsi, vigorosamente meditavano.
Tali erano adunque le sorti di Messina e della sua forte cittadella quando il corpo d’esercito napolitano teneasi sulle mosse per piombare in Sicilia a spegnervi quella ribellione che i casi di Napoli e le complicazioni diplomatiche avevano già troppo favorita.
Intanto il governo di Sicilia, mosso dagli accidenti che andavansi a suo danno maturando, erasi dato seriamente a pensare a quel che fosse a farsi. Ruggiero Settimo, qual capo del potere esecutivo, aveva decretato chiamarsi sotto le armi tutti coloro che ne avessero la idoneità, e fatto distribuire in gran numero armi da fuoco e da taglio a tutti i comuni, a seconda de’ notamenti pervenuti al ministro della guerra da’ rispettivi comitati. Aveva pur disposto mobilizzarsi il quarto della guardia nazionale di ogni comune per aggiungere altri ventiquattromila armati alle truppe di ordinanza, prescrivendo ai comitati provinciali di pubblica sicurezza, ubbidienti a quello di Palermo, di ripartire la guardia nazionale non mobilizzata in due classi, l’una di riserva pronta a marciare nel maggior bisogno, l’altra sedentanea, cui dovevano appartenere indistintamente tutt’i padri di famiglia; facendo per ultimo armare finanche gli agricoltori, bracciali e giornalieri, che la necessità di non distrarli dal loro mestiere avevali fatto sino allora escludere dal novero delle guardie nazionali. Per tal modo la Sicilia offriva una forza di circa centocinquantamila combattenti, corrispondenti quasi al terzo della popolazione atta alle armi.
Trovavansi alla difesa di Messina, oltre alla sua numerosa guardia nazionale, quattro battaglioni di linea speditivi da Palermo per l’oppugnazione della cittadella , e molti corpi franchi, denominati squadre; in tutto circa ventimila armati. Otto batterie di più di sessanta pezzi di grosso calibro e di parecchi mortai avevano pure costruito i siciliani contro la cittadella ed a difesa della città; e la costa poi da Torre di faro insino a mare grosso era di tratto in tratto munita di numerose bocche a fuoco, in modo che qualunque nave napolitana tragittava lo stretto, era tolta a bersaglio de’ loro proiettili ((a)).
La fama buccinava tanto a favor di Sicilia, che i fatti gloriosi si stimavano dai più sempre superiori ai racconti. Taluni attendevano anziosi l’esito della prossima lotta, certi che attaccata nel suo territorio quella valorosa nazione, avrebbe nel suo furore operato immensi prodigi. Altri informati delle intestine discordie ond’era l’isola lacerata, disapprovavano la spedizione, come incentivo a rendere vieppiù compatti gl’insorti. Tra tante diverse opinioni però poco curavasi la più ragionevole, e la più esatta, quella cioè, che i faziosi pervenuti al potere senza alcun merito, divenuti i despoti del loro paese, e riposta tutta la forza ed il coraggio nella vanità di far credere in essi quella virtù che non aveano mai posseduta, sarebbero stati senza meno debellati dalla legittimità del potere, e maledetti da’ popoli stanchi dalle sofferte oppressioni.
Stante così le cose, il 30 agosto il tenente generale Filangieri, prescelto a supremo duce del corpo d’armata destinato a sottomettere la Sicilia, partiva da Napoli con proporzionato naviglio, seco conducendo due reggimenti svizzeri, che unitamente alle milizie delle Calabrie ed alla guarnigione della cittadella di Messina compor doveano l’esercito di operazione. Uomo di vasto ingegno, in nome di buon guerriero per la riputazione acquistatasi nelle fazioni di guerra sostenute ne’ suoi verdi anni alla scuola di Bonaparte, già facea presentire quel che fosse capace di fare. Toccato appena Bagnare, all’alba del 1° settembre giungeva in Reggio il generalissimo, e nell’atto che faceasi a prescrivere quanto era indispensabile per lo concentramento delle milizie che successivamente pervenivano dall’interno delle Calabrie, sopratutto occupavasi a riconoscere le circostanze e la posizione del nemico, per potere con fondamento stabilire quel piano di attacco che avesse meglio corrisposto al conquisto di Messina, suo principale proponimento.
Nella cittadella vedeva egli un saldo appoggio alle forze che sarebbero disbarcate, e perciò ad avere una linea d’operazione la più breve ed assicurata, e per distrarre il meno possibile che fosse le sue truppe, determinavasi a costituirla come principale sostegno delle sue mosse; quindi ne rafforzava il presidio con altri cinque battaglioni, e con quattro obici da dodici.
Il sito dello sbarco delle milizie, e per la disposizione del terreno e per la situazione della città veniva determinato a destre della cittadella, ed a conveniente distanza fuori le offese delle artiglierie nemiche; ma poiché da’ fatti precedenti conoscevasi la esistenza di una batteria da costa denominata le Moselle, stabilita dai ribelli a circa 500 tese dal bastione Donblasco, allo sbocco della fiumara Zaera, ed altra se ne sospettava eretta a 300 tese più innanzi, il generalissimo disposto con ordini riservati quel che la rafforzata guarnigione della cittadella operar dovesse, nella notte del 2 al 3 faceva muovere da Reggio ventuno tra lancioni, scorridoie e paranzelli armati, una fregata a vela e quattro piroscafi, a fin di distruggere le due accennate batterie, e riconoscere la condizione di quei luoghi dove andavano a succedere i primi scontri.
Perveniva puntualmente la picciola squadra innanzi alla spiaggia, situandosi i legni sottili a scacchiera in due linee di rincontro e lateralmente alla batteria a distruggersi, indietro i piroscafi, ed in ultimo la fregata a vela. Dalle barche cannoniere aprissi un vivissimo fuoco, che secondato da quello del bastione Donblasco e da’ piroscafi, che lanciavano proiettili vuoti, in breve tempo, non ostante l’attivissimo trarre delle nemiche artiglierie del noviziato a danno de’ legni sottili e de’ piroscafi, lo spalleggiamento di quella batteria, fatto bersaglio d’innumerevoli offese, vi restava pienamente manomesso.
Mentre tanto succedeva dalla parte di mare, facevasi avvicinare alla cittadella, anch’essa impegnata in azione pel vivo fuoco che i ribelli traevano dalle batterie della città, uno de’ piroscafi della squadra, ed appena inalberava il convenuto segnale, che colla massima celerità effettuivasi la sortita di una colonna, sotto la condotta del colonnello Rossaroll, composta di sette compagnie scelte, come antiguardo, e di due battaglioni di ordinanza, con i proporzionati distaccamenti di artiglieria e genio, muniti de’ rispettivi utensili.
Percorrendo la spiaggia l’antiguardo giungeva sollecitamente alla batteria manomessa, v’inchiodava sette pezzi di grosso calibro che vi stavano e v’impiantava il vessillo reale, nel mentre che il resto della colonna, marciando sul destro fianco, affrontava i nemici che traevano dalle case rurali e da dietro i muri de’ giardini, e con tale impeto gli attaccava, che appena potevano trovare la loro salvezza nella fuga, senza più osare di ricomparire. Una parte dell’antiguardo corse pure in cerca della voluta seconda batteria,
li ma altro non rinvenne lungo il cammino, che cinque pezzi di artiglieria di picciolo calibro abbandonati al suolo, de’ quali tre si ruppero ad inutilità, e gli altri due si trasportarono sulle barche cannoniere. Non rimanendo a farsi altro, la colonna, con lievi perdite tra morti e feriti, rientrava in cittadella, lasciando i nemici in gravissime apprensioni sull’esito delle fazioni di guerra che dovevano tosto accadere sul loro suolo.
Distrutta la batteria Moselle, principale ostacolo al disbarco delle milizie regie, il generale in capo nel giorno 4 settembre sollecitava le sue prescrizioni onde la spedizione si tenesse pronta alla partenza, la quale sarebbe in quella stessa notte accaduta, se una dirotta e continuata pioggia non ne avesse ritardati gli apparecchi. Non pertanto calmatosi alquanto il tempo al dì seguente, il generalissimo, che pur troppo calcolava su’ sinistri eventi ai quali si avrebbe potuto andare incontro ove le operazioni a farsi si fossero più oltre ritardate, in su la mezza notte faceva salpare le ancore, per trovarsi a’ primi albori del giorno 6 sulla spiaggia di Contessa, a tre miglia da Messina. Così ponevasi in movimento la squadra verso il luogo destinato, se non che dopo la traversata del canale poggiavasi alquanto più al sud per meglio evitare le offese del noviziato, circostanza, che unita alle precauzioni di alcuni comandanti nel mantenere i loro legni a buona distanza dalla spiaggia in quel mare sempre minaccioso, ritardavano sino alle 8 12 il cominciamento dello sbarco. A questo non fu opposto alcun ostacolo, tra perché le cannoniere ed i legni sottili avevano sgombrata la riva colle loro artiglierie, e tra perché i ribelli temendo di pugnare allo scoverto, attendevano le milizie nell’a g guato.
Iprimi a porre il piede a terra furono i marinai de’ lan cioni e scorridoie, che percorrendo il lido alle festanti grida di viva il Re, impiantavano sulle vicine siepi le bandiere reali. Disbarcavano appena dopo alquante compagnie del 1.° battaglione cacciatore, le quali impazienti di affrontare il nemico, mal frenando il marziale ardore trasfusole dal loro egregio comandante tenente colonnello Pianell, senza puranche attendere le prescrizioni di attaccare, siccome era stato disposto, inoltravansi in ordine aperto, e con singolare audacia, non ostante un attivissimo fuoco cominciato da’ ribelli a traverso i canneti e le vigne, rispondevano energicamente alle offese che ricevevano. Sopraggiungevano indi a poco le residuali compagnie, e non meno ardenti di gloria, tostamente ancor’ esse entravano a rafforzar l’azione.
Le posizioni prese da’ ribelli in più migliaia raccolti in quei luoghi non potevano essere più vantaggiose per essi, perciocché tenendosi i più dietro le mura della strada e dei giardini, ed i restanti riparati in tutte quelle casine sparse sulla consolare, che da Contessa mena a Messina, e tutelati da tegole sollevate e da materassi convenientemente disposti, le milizie che vi si accostavano, andavano soggette a danni gravissimi. Né tanta disparità di condizione fra i combattenti punto o poco rallentava l’ardore di quel 1.° battaglione, che anzi spingendosi sempre vivamente innanzi, mostravasi tanto più ostinato ad attaccare, quanto maggiori perdite soffriva. All’avviso di ciò che accadeva sapendo il condottiero supremo di quanta mole fosse in quei momenti la sua presenza sul luogo del conflitto, tosto dal suo legno discendeva, affrettava il disbarco degli altri battaglioni, ed a misura che arrivavano, incontanente li spingeva all’attacco. E perché poi ai ribelli potesse più facilmente mancare il maggior punto d’appoggio alla loro resistenza, fa ceva da’ piroscafi della squadra lanciare senza interruzione grossissime granate su tutt’i punti, d’onde vieppiù il fuoco nemico provveniva.
Fatta così generale l’azione, e spartite le milizie in due corpi, l’uno comandato dal maresciallo Nunziante, l’altro dal brigadiere Lanza, vigorosamente procedevasi. Piantate le artiglierie in siti opportuni, e con esse battutisi impetuosamente i luoghi occupati da’ ribelli, venivano essi successivamente sgombrati. Né bastando ancor questo a vincere interamente l’ostinato nemico, le milizie, sia coll’appiccare il fuoco agli usci delle case e delle casine, sia coll’investirle e di fronte e pei fianchi, riuscivano alla fine di guadagnarle. Quivi il raccontare le cose che seguirono, parrà certamente impossibile, se si farà a considerare la rabbia immensa mostrata, il sangue che si sparse, 1immanità de’ combattenti, e tutte quelle opere nefande commesse da’ ribelli, che come cannibali si avevano finanche mangiato le carni abbrustolite di alcuni infelici cacciatori, che sulle prime erano caduti vittime del loro cieco valore: ardevano dà per tutto le case, e con esse pur. vi ardevano coloro che non avevano potuto fuggire, per non cadere nelle mani dell’irritato vincitore.
Così combattendosi giungevano le milizie regie a guadagnare la consolare; epperò occupate le alture sulla stanca, più agevole si rese di sloggiare da quei loro ricoveri i nemici, i quali rinculando sempre verso Messina, si ridussero alla sponda opposta del torrente Bordonaro, che intersecando la strada, divide i due villaggi di Contessa e Gazzi. Si rinnovarono quivi gli stessi attacchi, le medesime resistenze, se non che i nemici abbandonate appena le loro posizioni, raggranellavansi ben tosto sul campanile di S. Nicola e nei casamenti del largo anteposto a quella chiesa, e ripigliavano più che mai feroce e micidiale la pugna; ma ai fuochi simultanei della fanteria, sostenuti da tre pezzi da montagna, ed allo scoppio di qualche granata lanciata dai piroscafi, finalmente cedevano inveleniti e protervi.
Erano molte ore trascorse in quell’accanito conflitto, e le milizie pel continuato ritrarsi de ribelli trovavansi già poco meno di mezzo miglio distanti da Porta Zaera. Laonde considerato dal generalissimo, che bisognava ormai dar riposo alle stanche sue truppe, determiuavasi ad ordinare che sostassero da ogni ulteriore movimento. Fatto perciò coronare le alture a sinistra da corpi di cacciatori, e tutelare la destra da due battaglioni di ordinanza e dalle barche cannoniere ormeggiate sulla corrispondente spiaggia, le milizie quivi serenavano. Ma non ostante quelle ore notturne di riposo, ebbero esse a soffrire non poco dal fuoco che i siciliani di tratto in tratto facevano al buio.
Mentre tanto era avvenuto in quel giorno fra le truppe disbarcate ed i ribelli dell’isola, le cose della cittadella non erano neppure quietamente passate. Secondo le prescrizioni del generalissimo, appena le milizie da lui condotte alla pugna ebbero guadagnata la consolare, un piroscafo della squadra appressatosi alla cittadella aveva inalberato il convenuto segnale per una sortita, che il maresciallo Pronio di persona doveva guidare. Se non che il perforamento intrapreso dai pionieri del muro divisorio tra le caserme di Terranova ed il monastero di S. Chiara, d’onde le milizie passar dovevano, procedeva lentamente per la troppo solidità che nelle fabbriche s’incontrava. Le truppe avevano ordine d’impadronirsi di viva forza, uscendo da S. Chiara, della prossima batteria nemica messa a rincontro sullo sbocco della strada, assalire pe’ fianchi le altre esistenti nel piano d’Austria, di S. Elia e di Mezzomonnello, procedere con porzione di esse all’attacco delle batterie verso le alture
della città, e forzare con la rimanente dall’interno Portanuova e Por t a imperiale, per attaccare alle spalle i nemici in azione colle truppe disbarcate.
Le milizie di sortita durante il perforamento avevano traversato il piano di Terranova sotto un vivissimo fuoco nemico, e si tenevano preparate al ridosso di quelle caserme per isboccare al luogo designato, quando si accorgevano di un denso fumo innanzi Porto franco. Erano otto fornelli di mina situati sotto gl’interni pilastri di quell’edificio, che erasi cercato di accendere per mezzo di un salsiccione, che per altro restava di niuno effetto per l’infiltramento delle acque piovane. Ma non volgevano quegli istanti pericolosi, che di già un troppo deplorabile caso avveniva. Una bomba scagliata dal nemico scoppiava nel piano di Terranova, presso alle caserme, dove per l’appunto le milizie si trovavano serrate in massa: dodici ne uccideva, molti feriva, ed appiccando il fuoco alle munizioni eccedenti, che i soldati asportar solevano in sacchetti di tela, infiammava ben due compagnie del 6° di ordinanza, lasciandone gli uomini orribilmente estinti e scottati.
Tuttavia continuavano i soldati del genio l’incominciato perforamento; ma cadendo il giorno, sia che altro tempo ancora bisognasse, sia che le immaginazioni fossero state soverchiamente colpite, e profonda impressione avesse lasciato nell’animo de’ soldati il disastro avvenuto, il generale Pronio giudicando nella sua prudenza di rinunziare per allora alla sortita, faceva novellamente ritrarre in cittadella le sue truppe, e differiva al giorno appresso, dietro gli ordini del generalissimo, quanto altro bisognava fare in quel rincontro.
Questi impreveduti accidenti determinavano il supremo duce a nuove combinazioni. Inviava egli nel corso della notte un capitano dello stato maggiore al generale Pronio con ordine di uscire al prossimo spuntar del giorno colle sue milizie, non più pel vano disegnato, ma sibbene per la saracinesca attigua al bastione Donblasco; progredire pe’ giardini de’ Moselli, ed attaccare l’edifizio della Maddalena.
Difatti ai primi albori puntualmente eseguivasi quanto era stato prescritto, e nel mentre che le truppe del generale Pronio entravano in azione $u tutta la linea, restituivasi dalla cittadella al campo il capitano inviatovi, recando al generalissimo, per incarico del maresciallo Pronio,la seguente lettera indirittagli da’ comandanti le stazioni navali francese ed inglese in quelle acque.
«Dal bordo del vascello l’Ercole innanzi Messina, 7 settembre 1848, alle 4 del mattino. — Al signor generale in capo dell’armata del Re di Napoli prossima a Messina».
«Generale. I navigli da guerra inglesi e francesi non sono più capaci di ricevere le famiglie messinesi che friggono il saccheggio della città, e le depredazioni da cui veggonsi minacciate. Egli è perciò che in nome del Dio della misericordia i sottoscritti comandanti delle forze navali di Francia e d’Inghilterra, appellandosi ai sentimenti di umanità del rappresentante del Re di Napoli, vengono a supplicarlo di accordare una tregua a fin di arrestare l’effusione del sangue, già troppo versato, e stabilire le condizioni di una capitolazione da discutersi a bordo del vascello francese l’Ercole dagli incaricati delle due parti belligeranti».
«I sottoscritti uniscono al loro rispetto il sentimento dell’alta stima che professano pel generale in capo H capitano di vascello comandante il gladiatore: Robb—Il capitano di vascello comandante l’Ercole : Nona y ».
Il generale in capo stimando inopportuno per allora di rispondere per iscritto, spedi invece il capo del suo stato maggiore a bordo del vascello l’Ercole , per dire al comandante Nona y , che qualora il nemico avesse desistito dalle ostilità, le avrebbe anche egli momentaneamente sospese, per dar tempo agl’insorti messinesi di far la loro piena sommessione al legittimo sovrano; aggiungendo espressamente, che l’attacco intrapreso sarebbesi intanto condotto innanzi finché niun dubbio fosse rimasto sulla dovuta piena ed intera sommessione.
Appena il comandante Nonay riceveva questa comunicazione, faceva l a tosto manifesta a’ membri del potere esecutivo di Messina, di già rifuggiti sul suo vascello; e non ostante che questi avessero vilmente abbandonata la loro causa assai prima che potesse dirsi perduta, ostentavano ancora inopportuna iattanza, ed impudenti osavano dettare come basi della voluta capitolazione i seguenti patti: che le reali truppe sarebbero state ricevute in Messina a condizione; che si conservassero ne’ rispettivi impieghi le autorità esistenti; che la quistione governativa fosse definita dalle camere siciliane; e che un cambio di prigionieri avesse luogo tra le due parti.
Sarebbe stata troppo inverecondia se queste tracotanti condizioni avessero trovato eco presso alcuno de’ due interposti mediatori; epperò il comandante Nonay , mentre ne prevedeva l’inaccettabilità, trasmetteva quel foglio all’inviato del duce supremo, e lo interessava pregare il generale Filangieri, anche per parte del comandante Robb, a manifestargli per iscritto ima risposta. Senza perder tempo il generalissimo restituiva all’uno ed all’altro comandante la copia della vagheggiata capitolazione, e dignitosamente vi aggiungeva queste brevi parole:
«Signor comandante» – È questa la copia delle pretese basi della capitolazione, che il capo del mio stato maggiore mi reca da vostra parte. Il mio dovere e l’onor militare mi vietano accettarle: voi non potete disconvenirne. Colgo questa occasione per ringraziare voi ed il vostro collega dell’amichevole mediazione, sebbene disgraziatamente infruttuosa».
Intanto vigorosamente procedendo la destra delle milizie disbarcate nel giorno innanzi forzava il centro degli avversi sulla piegatura della consolare anteposta all’ osp i z i o di Col l ereale; posizione dalla quale spesseggiando i tiri de’ ribelli, non era così facile di guadagnarla. Parve alle milizie troppo grave ed insopportabil cosa che quel posto tenuto da’ nemici dovesse per poco arrestare la loro marcia; epperò dopo pochi colpi tratti da due soli pezzi da montagna, spintisi i più audaci ad assaltare alla corsa la siciliana artiglieria, riuscivano, colla precipitosa’ fuga de’ spaventati difensori, tosto a guadagnarla.
Poco al di la dell’ospizio di Co ll ereale, ed in capo allungo tratto rettilineo della consolare, che termina alla descritta piegatura, avevano gl’insorti innanzi Porta Zaera costruita una batteria di quattro pezzi di grosso calibro, circondata da profonda fossata, perlocché non potevano le regie truppe, sotto quel micidialissimo fuoco d’infilata, protetto dalle esacerbate masse appostate nel villaggio S. Clemente, avventurarsi a procedere coll’usato ardimento, senza esporsi a perdite rilevanti. Stettero quivi per alquanto a fronte i combattenti pria di venire alle mani tra loro, e meno pochi colpi scambiatisi a vicenda, senza gravi offese per altro, ognuno si rimase nella sua posizione. In questo frattempo però il generalissimo non se nera stato indifferente, poiché spingendo in aggiunta a que’ corpi di cacciatori, che la sinistra tutelavano, alcune compagnie del 4° svizzero e talune del 3° di ordinanza, tutte queste forze indi a poco si avventavano sull’estremità della destra nemica, e respingendo quelle immense masse, mirabilmente riuscivano a guadagnare le alture da quel lato. A questa giudiziosa mossa aggiungevasi un colpo veramente audace. Un drappello di venticinque cacciatori, di due individui del 4° svizzero e di un zappatore arrischiavasi in prima a discendere nella fiumara Zaera, ad inerpicarsi tosto per l’erta opposta, correre ad impadronirsi del forte Gonzaga, in quell’istante deserto per la fuga de’ suoi difensori, e per ultimo spiccavansi sette di essi soltanto alla conquista delle sottostanti batterie del Noviziato, i cui difensori sorpresi per la caduta del forte, e spaventati all’apparizione di que’ prodi, che vi penetravano per una mal sicura rampa di legno addossata ad un muro di cinta della città, le abbandonavano frettolosamente.
Da questi non lievi successi non potevasi più dubitare de’ vantaggiosi risultamenti che avrebbe dovuto ottenere la colonna principale di attacco. Già dalla parte de’ giardini era riuscito ad una buona mano di svizzeri e napolitani di penetrare a viva forza nell’ ospizio di Collereale, ed essi dopo di aver manomessi senza pietà quanti ribelli vi erano, fattisi dalle finestre di quel vasto locale a fulminare a tutta furia i siciliani che stavano alla difesa della sottoposta batteria di Porta Zaera, li avevano obbligati dopo alquanta resistenza ad abbandonare quel sito in potestà loro. Però pochi de’ più animosi di quei ribelli continuavano tuttavia coll’artiglieria a trarre vivamente a scaglia sulla truppa, che di fronte si avvicinava; ma alcuni audaci napolitani e svizzeri sbucando da un rastrello di ferro prossimo alla batteria, ed affrontando con mirabile celerità e da impavidi l’ultimo colpo, tosto di essa s’impadronivano, trucidandovi tutti coloro che vi sorprendevano.
Così le troppe disbarcate trionfavano sulla destra delle masse nemiche, le quali simultaneamente discacciate dalle alture e dalle case lungo la consolare, perduta la batteria innanzi Porta Zaera, e spaventate dal vicino pericolo di essere tagliate a pezzi per la caduta del forte Gonzaga e del Noviziato, scomposte e sbaragliate rientravano in Messina, lasciando che le milizie occupassero dal borgo Zaera sino a Porta imperiale dopo due soli colpi di artiglieria tratti a spaurire pochi altri sciagurati, che invece di provvedere alla propria salvezza, avevano ancora di nascosto e da disperati tentato, con qualche fucilata, di resistere un altro poco.
Quasi al tempo stesso, con non minor valore procedevano le milizie condotte dall’intrepido maresciallo Pronio alla oppugnazione del monastero della Maddalena e subborgo annesso, dove numerosi stuoli di ribelli, tutelati dalla doppia cinta di mura de’ giardini anteposti a quell’edificio, la più viva resistenza opponevano. La pugna vi stava accanitamente accesa, poiché cominciatosi furiosamente dall’assalire, e con molta ferocia a ributtare, ora la sicurtà dei luoghi faceva inclinare le sorti a favore degli assaltati, ed ora l’audacia, certo non credibile, se non fosse vera,le voltava a favore degli assalitori. Già il prode capitano Andruzzi, che le artiglierie napolilane comandava, mortalmente ferito, stava per ispegnersi; e non pochi altri de’ suoi valorosi compagni pur cadevano vittime della fazione. Né tutto questo intanto bastava ad infrenare l’irritazione de’ combattenti , la quale al contrario sempre più accrescendosi, in singolar modo mostrava quanto l’ira potesse nelle guerre civili.
Quantunque sì ostinatamente si pugnasse, non pertanto le posizioni tenute dagli assaltali, dove lacerate dalle granate e dalle palle, dove consunte dalle fiamme, cominciavano di già a venir meno. D’altronde non fidandosi più i ribelli resistere a’ replicati assalti e terribili urti che davano i regi, lo scoraggimento e lo scompiglio ormai fra loro si mostravano. Fuggivano i più destri, e si riparavano verso Porta Nuova, mentre gli altri, più audaci, continuavano ostinatamente a difendersi. Durò un altro pezzo questo feroce combattimento di ferro e di fuoco, nel quale i nemici stavano alla dura molto fortemente. Finalmente prevalse la fortuna a’ regi, i quali entrati a viva forza nel locale cotanto disputato, vi trucidavano tutti quegli che per la loro indomabile rabbia cercavano tuttavia di opporsi. Questa fu dunque la rilevante fazione della Maddalena, dove le milizie napolitane tanto mirabilmente si comportarono.
Cessata cosi anche da questo lato ogn i altra resistenza, e postesi tosto le milizie di Pronio in relazione con quelle disbarcate per la strada traversa, parallela alla cinta di Messina, che ricongiunge le due porte Nuova ed Imperiale, cercarono insieme di proseguire le ulteriori operazioni, di cui la occupazione di quella città abbisognava.
Dopo i narrati accaduti, quando ancor tiepido il. sangue scorreva per le vie, e ne’ momenti in cui sinanche i pacifici cittadini, per non cader nelle mani di gente sdegnata, precipitosamente fuggivano verso le navi straniere, conducendo seco le donne, i fanciulli e le suppellettili le più preziose che in tanto precipizio avean potuto raccorre, sarebbe stato certo troppo sconvenevole, anzi pericolosissima cosa di spingere le irate milizie nella città, per non vedere il finale della tragedia assai più spaventevolmente rappresentarsi. Sicché ponderatosi tanto dal generalissimo, affretta vasi di ordinare, che le milizie sostassero dal procedere oltre, e colla minaccia di severissime pene proibiva a tutti di entrare per allora in Messina.
Ma non ostante queste prescrizioni, un accidente grave e funesto ormai avveniva. Alquanti soldati, o che fossero mossi dall’odio antico e dalle ingiurie recenti, o da ben’altra cagione, riuscivano dalla parte delle batterie del Noviziato e dal piano di Terranova di penetrare in Messina. Girando per le vie, ed incominciatosi dal mormorare, dal gridare, dal minacciare, si trascorse finalmente agli sdegni. Come tante furie i regi, cresciuti di numero ed avidi di vendetta per delle fucilate trattegli da’ ribelli in ag g uato, correndo per le contrade e le piazze, e stimolandosi a vicenda, già col ferro e col fuoco facevan prova di distruggere quanto gli si parava d’innanzi. La catastrofe adunque di Messina era già cominciata; eppure in si furioso tumulto il Cielo mostravasi propizio ai fati della città minacciata. Saputosi dal generalissimo quel tristo caso, tostamente inviava sul luogo zelanti uffiziali con de’ numerosi distaccamenti, ed essi tanto fecero con le esortazioni, con le minacce e con l’autorità dei loro gradi, che ottennero in breve di frenare quell’impeto, il cui fine sarebbe stato senza dubbio funestissimo.
Si fè indi a poco la città occupare dall’intero corpo di esercito, e sessantatré cannoni di grosso calibro, dodici mortai in bronzo, strabocchevole quantità di polvere inglese, ed un numero straordinario di bombe, palle e fucili a percussione caddero in potere del vincitore.
Morirono pugnando in questa rilevante fazione di guerra da ottocento ribelli, oltre a dugento consunti dalle fiamme. Né la vittoria per altro dell’esercito regio si ottenne senza gravi amarezze: di quindicimila uomini all’incirca che presero parte nelle azioni di quei due giorni, più dimille dugento per morte e per ferite mancarono . Così all’ombra delle armi vittoriose trovavasi la scomposta Messina ricondotta sotto lo impero della legittimità, e confidente nella pietà del Principe, come nella sapienza del vincitore, mirava le sanguinose sue piaghe, confortata soltanto dalla dolce speranza di poterle bentosto risanare.
Volendo intanto il generale in capo dar forma al governo della riacquistata città, e ricompor quello che il disordine de’ popoli tumultuanti avea scomposto, sollecitamente provvedeva al riordinamento del municipio, il quale per mezzo del sindaco pubblicava il seguente avviso:
«Sua Eccellenza il tenente generale D. Carlo Filangieri comandante in capo del corpo d’esercito di spedizione, mi à incaricato di annunciare al pubblico, che Sua Maestà il Re, qual padre amoroso de’ suoi popoli, dimentica i passati traviamenti, nella sicura persuasione che d’ora innanzi i suoi sudditi siciliani ritorneranno a quel devoto e fedele attaccamento per la sacra sua persona, che li à sempre resi sì cari al suo cuore».
«Per la sola mancanza di facoltà la prefata E. S. è nell’obbligo di eccettuare da questo generale ed amplissimo perdono i capi della ribellione, e gli eccitatori ai gravi disordini che sì gran danno arrecarono a questa bellissima isola. Costoro nullameno dando pruove di sincero ravvedimento, debbono serbare la speranza di ritrovare nella nota clemenza di Sua Maestà la stessa benevole indulgenza».
«Attesal’affliggente posizione in cui Messina trovasi per le conseguenze delle passate vicende, permette l’eccellentissimo generale in capo, che rimanga fino a nuova disposizione sospeso il dazio sul macino, il quale nella maggior parte è soddisfatto dalla classe meno agiata, che è pure la più numerosa».
«Viene parimenti per ordine di S. E. il generale principe di Satriano dichiarato, che da oggi innanzi la città di Messina in dentro della sua cinta murata sarà porto franco , e godranno lo stesso privilegio i sobborghi S. Leone, Boccetta, Porta legna e Zaera, tosto che sarà compiuto il muro di cinta, che formerà d’allora in poi l’intero novello ambito del cennato porlo franco».
«Da ultimo à stabilito l’E. S. che tanto le autorità ecclesiastiche, quanto i funzionari finanzieri ed amministrativi siciliani si restituiscano immediatamente al posto che occupavano alla fine di agosto dello scorso anno, affin di riprendere senza indugio l’esercizio de’ rispettivi loro uffici».
«Quanto riguarda i magistrali, le autorità giudiziarie e la riapertura de’ tribunali, verrà in prosieguo stabilito».
Messina percossa da tanta tempesta, se ne stette occupata un certo tempo da uno stupore misto tuttavia di spavento; ma finalmente un vivere molto più regolato, le maniere piacevoli degli uffiziali dell’esercito, la dolcezza del supremo condottiero fecero di modo che, succedendo la sicurezza al terrore, ognuno tornasse alle opere consuete.
Intanto la sanguinosa fazione avvenuta in Messina, le pruove di valore date dalle milizie regie, e la precipitosa fuga de’ vinti talmente avevano spaventati gli armati ne’ vicini paesi, che lungi di adoperarsi a riordinare gli avanzi delle masse battute, fuggivano per consenso anch’esse, lasciando a quelle tribolate popolazioni l’opportunità di sottomettersi pacificamente alla generosità del vincitore. Quindi Milazzo, piazza d’armi munita di molte batterie e di un solido soprastante castello, rimasta priva di difensori, davasi anziosamente alle armi del re, appena compariva nelle sue acque, abilmente manovrando, un piroscafo della regia squadra; più innanzi Barcellona, popolosa città, praticava altrettanto allo approssimarsi di poca forza; e le isole di Lipari affrettavansi pure a sottomettersi, appena scoprivano altro piroscafo napolitano. In somma la sottomissione sarebbe divenuta progressiva ed intera per tutti gli altri paesi insino a Palermo, se gl’inglesi ed i francesi per le vie diplomatiche, nella idea di favorire i siciliani, col pretesto di arrestare la effusione del sangue, non l’avessero attraversata. Così per effetto di rovinosa protezione il resto della dilaniata Sicilia prorogava la sua reddizione, per quindi trovarsi novellamente in preda ad inevitabili ulteriori sciagure.
CAPITOLO XXI
Lieve disordine in Napoli: macchinazioni degli agitatori, e provvedimenti governativi che si adottano. Interposizione della Francia e dell’Inghilterra t ra il governo di Napoli ed i ribelli di Sicilia per arrestare la marcia delle vittoriose truppe: corrispondenza diplomatica, ed effetti che se ne ottengono.
La vittoria conseguita dall’esercito di spedizione nel riconquistare Messina aveva talmente inebriato nella capitale del regno gli amici dell’ordine, desiderosi di ritornare sotto l’assoluta dominazione del proprio Sovrano, che pr o rompendo un giorno in aperta manifestazione di gioia, lungo la via Toledo di tratto in tratto gridarono viva il R e. Comunque scorati i parteggiani della rivoluzione, no l soffrirono; e quella massa di plebe stipendiata da essi a bella posta per muovere ogni specie di disordine, non tardò a piombare sugl’inermi gridatori, maltrattandoli con pietre ed armi bianche. Accorsavi tostamente la pubblica forza, due soli colpi di moschetto, menati a spaurire, bastarono a sbaragliare quei comprati popolani, i quali nel giorno appresso circuiti, insieme ai sospetti agitatori, dalle milizie nel loro quartiere di Montecalvario, cui la maggior parte di essi apparteneva, subirono rigoroso disarmo.
Non solo questo ed altri fatti di minor conto, che per l’ordinario avvenivano, rilevavano come il disordine si volesse sempre riprodurre; ma le macchinazioni degli esaltati apertamente indicavano quanto fosse guasto l’elemento governativo, e come l’idra rivoluzionaria lungi dall’esserne incatenata, venisse per lo invece copertamente favorita. Laonde il Re, e per la condizione de’ tempi, e per la sicurezza sì del presente, che dell’avvenire, determinavasi a prescegliere alla importante carica di ministro dell’interno il cavaliere D. Raffaele Longobardi, avvocato generale della corte suprema di giustizia, che pel suo carattere fermo ed energico aveva saputo conciliarsi la pubblica stima; e destinava a prefetto di polizia l’avvocato D. Gaetano Peccheneda , già troppo versato nella pratica del mondo politico. I novatori altamente si conturbarono a questa scelta; ma gli onesti cittadini se ne rallegrarono pur troppo, sperando che con misure più repressive venisse lo stato preservato dalle improntitudini de’ libertini.
Intanto non appena erano pervenute le nuove della caduta di Messina, che lord Napier, incaricato, per l’assenza del ministro, a rappresentare il governo inglese presso la corte di Napoli, facevasi a dirigere al principe di Cariati, ministro degli affari esteri, la seguente nota:
«Il sottoscritto incaricato di affari di Sua Maestà britannica ba avuto l’onore d’indirizzare a S. E. il principe di Cariati il 29 agosto una nota, colla quale si è egli permesso di sottomettere la proposizione di trattare col governo di Palermo per mezzo della mediazione comune dell’Inghilterra e della Francia, prima di ricorrere a’ mezzi estremi destinati a ridurre i siciliani colla forza delle armi».
«Ilsottoscritto non à ricevuto alcuna risposta a tale amichevole introduzione, ed è stato testimone della possente spedizione diretta contro la Sicilia. Egli à saputo inoltre questa mattina istessa i particolari dell’occupazione di Messina dalle truppe reali.»
« Le operazioni delle forze napolitane sono state condotte con un rigore estremo, secondo le testimonianze degli uffiziali della forza brittannica spettatori di quella scena affliggente , che non può in alcun caso essere giustificata, trattandosi sopratutto di guerra civile. Ora lo spirito di resistenza mostrato da’ messinesi e da’ loro alleati, è stato così disperato e feroce, da dar luogo a temere che la continuazione delle ostilità non produca grandi guai e gravi perdite di uomini, piuttosto che una situazione politica basata su condizioni essenziali di una concordia durevole e di una prosperità comune.»
«Questa desolante alternativa, o degli sforzi prolungati e disgraziati delle reali truppe onde soggiogare un popolo sventurato, o dell’abietta e miserabile sottomissione degli abitanti la Sicilia ad un governo contro il quale si rivolterebbero alla prima occasione, à prodotto una sì dolorosa impressione nell’animo del comandante in capo le forze britanniche , e nel mio, che non possiamo abbandonare la speranza di un accomodo fra le parti contendenti fondato su i loro reciproci interessi.»
«In conseguenza il sottoscritto invita di nuovo con rispetto, ma con fermezza Sua Maestà siciliana ad accettare le negoziazioni proposte, ed a spedire gli ordini per sospendere le ostilità, e stabilire un armistizio, che dovrebbe essere osservato da ambe le parti, fino a che non si potran conoscere le risoluzioni de’ gabinetti inglese e francese».
«Tale è stata la impressione del vice ammiraglio Sir William Parker divisa col sottoscritto, che nel qui accluso dispaccio di lui il vice ammiraglio à manifestato l’intenzione, nel caso ricomincino le ostilità contro la sua aspettazione, d’interporre la sua autorità per istabilire una sospensione d’armi, fermamente convinto che così agendo servirà agli interessi permanenti del governo di Napoli, ed a quelli della pace generale in Europa, che si trova minacciata mercé la lotta di simiglianti passioni.»
«Napoli 10 settembre – Napier.»
Questo era adunque il linguaggio che sotto l’aspetto umanitario usava il rappresentante inglese , e nel qual favellare si vedevano due grandi verità: una dichiarata deferenza per un popolo ribellato, a discapito di un sovrano indipendente, di una potenza amica; una manifesta violazione di quel principio di non intervenzione che il governo e la filantropia inglese spacciavano come legge suprema fra le nazioni.
Né di minor considerazione d’altronde mostravasi un’altra partecipazione che lo stesso lord Napier riceveva dal vice ammiraglio Parker, comandante le forze inglesi nel mediterraneo, il quale dando alle sue esigenze un imponente apparato, appositamente ed in minacciosa attitudine da Malta condotto si era colla sua formidabile flotta nella baia di Napoli.
«Milord, (egli scriveva) Alle 11 j e r sera ò ricevuto pel piroscafo il Plutone i dispacci del capitano Robb riguardanti la presa di Messina dopo un vivo bombardamento di cinque giorni dalla forza napolitana, ed una violenta difesa dalla parte de’ siciliani, tal che la città era preda delle fiamme in undici punti, e desolata per la fuga de’ suoi infelici abitanti, che non avevano più munizioni per difendersi. V. E. leggerà questo rapporto con la emozione del più profondo dolore»
« La più grande ferocia fu mostrata da parte de’ napolitani, la furia de’ quali fu incessante per otto ore dopo che la resistenza de’ siciliani era sospesa. Un esempio di brutalità che non si trova quasi in nessuna storia di guerre civili, mentre che lo spirito degli infelici messinesi può essere riguardato come un segno di devozione alla causa loro, spirito comune in tutta l’isola. La voce della umanità imperiosamente domanda che qualche misura debb’esser presa per prevenire simiglianti orribili scene di devastazione in altre parti della Sicilia.»
«Persuaso che la simpatia dell’Europa intera sarà eccitata dalla distruzione di una città, che avrà per effetto r abbandono di tanti infelici, convinto che la guerra non può essere prolungala per nessun bene, sapendo pure quanto il governo napolitano à tenuto sinora in non cale i consigli dell’E. V. per sospendere l’attacco sopra Messina, colla speranza di accomodare la quistione all’amichevole, mi attendo che l’E. V. con un ultimatum insisterà, che il governo napolitano faccia sospendere le ostilità; esso mi risparmierà di domandare un’amnistia, che sarebbe la cosa più desiderabile, con la forza, sinché si possa sapere dal governo brittannico una decisione su quest’affligente guerra».
«Io aspetterò le istruzioni col primo vapore, e mi lusingo che i principi della umanità che mi spronano a tal politica corrisponderanno a quelli del governo napolitano per arrestare i disastri, conseguenza della continuazione di una guerra di reciproca animosità».
«William Parker Vice ammiraglio».
Calunnioso ragguaglio, nel quale trasparivano la speranza delusa, e la forza in abuso.
Non ostante però che questi fossero tempi in cui la prepotenza e la mala fede ottenevano il predominio, pure il principe di Cariati, con quel pacato risentimento che una causa tanto giusta pel governo richiedeva, all’incaricato inglese rispondeva: ogni misura presa dal vice ammiraglio Parker, per attraversare i progetti del governo delle due Sicilie, in violazione manifesta de’ dritti di un Sovrano libero ed indipendente, e de’ dovuti riguardi ad una potenza amica, doversi necessariamente considerare come un atto emanato dalla volontà particolare dello ammiraglio, e non dalle intenzioni del governo brittannico: aver più volte lord Palmerston dichiarato ai rappresentanti del Re a Londra, che il governo brittannico non avrebbe messo ostacoli di sorta alla spedizione militare preparata per ristabilire l’ordine nella Sicilia , e per liberare questo paese dal giogo di alquanti scellerati opprimenti la maggioranza de’ loro compatriotti con mezzi di terrore: né potersi trattenere dall’osservare, che ove i ribelli siciliani si fossero persuasi della protezione del governo inglese, si sarebbero vieppiù ostinati ne’ loro insensati progetti, facendo per tal guisa divenire impossibile una qualunque riconciliazione.
Quasi al modo stesso il principe di Cariati significava al rappresentante della repubblica francese, al quale assicurando che si sarebbe fatto quanto dippiù si avrebbe potuto per mitigare i mali inerenti alla guerra, chiedeva che a non rendere vieppiù pertinaci nelle loro pretensioni i ribelli della Sicilia, prolungare la lotta e provocare ulteriore spargimento di sangue, la Francia si astenesse da qualunque intervenzione, e serbasse in una quistione, dove la sua dignità ed i suoi interessi tutt’altro suggerivano, una perfetta neutralità.
Ma quando già in Napoli tali cose avvenivano a riguardo delle due mediatrici potenze, a Messina i comandanti delle squadre inglese e francese al. modo stesso presso a poco procedevano.
«I sottoscritti (era questo un loro ufficio degli 11 settembre diretto al generale Filangieri) comandanti le stazioni navali di Francia e d’Inghilterra, ànno l’onore di notificare a S. E. il comandante in capo la spedizione napolitana, ch’essi sono incaricati da’ loro capi, in nome della Francia e dell’Inghilterra, di dichiarargli, che non ànno alcuna intenzione di turbarlo nel possesso di Messina e di Milazzo, la cui presa è oramai un fatto compiuto; ma che ànno l’ordine di domandargli una sospensione di ostilità sulla costa di Sicilia, fino a che i governi di Francia e d’Inghilterra, mercé la loro mediazione, abbiano potuto risolvere le difficoltà che si oppongono ad una pacificazione generale.»
«I due governi di Francia e d’Inghilterra ànno finora scrupolosamente osservato le leggi della neutralità; essi ora invocano le sacre leggi della umanità Gradite: Nonay : Robb.»
Rispondeva il generale Filangieri; niuno più di loro conoscere come dal momento dell’ingresso delle truppe in Messina non ad altro avesse egli rivolto le sue cure, che a lenire le profonde ferite cagionate dagli ultimi avvenimenti ; voler continuare a seguire tal condotta, ed avrebbe frattanto al Sovrano riferito tutto quello in cui veniva da essi comandanti interessato, per attendere le corrispondenti istruzioni su quanto la bisogna richiedeva.
Intantogli agitatori non tralasciavano di spacciare col mezzo sopratutto della stampa , come le milizie napolitane si fossero licenziosamente comportate nella occupazione di Messina , e quante enormità vi avessero commesse sulle persone e le sostanze di quei pacifici cittadini. I giornali italianiriboccavano delle più bugiarde narrazioni sul proposito , e lo stesso governo di Palermo, mettendo ogni st u dio ad occultare i veri fatti, faceva pubblicare questo impudente; avviso ufficiale :
« Messina non è più! Dopo cinque giorni di orribile guerra, ella à prescelto di essere distrutta, piuttosto che scendere a patti. La città era vuota, ed il fuoco ed il ferro aprivano la strada al saccheggio. I regi irrompevano da ogni parte, e con gli ultimi sforzi la popolazione armata pugnava, quando lo scoppio dell’incendio compì la ru in a dell’eroica città, e tutti uccise i soldati. Anche i soldati che da Messina si dirigevano a Milazzo sono stati distrutti. Nuova Missolungi, Messina è caduta , ma tutta Sicilia si appresta ad una memoranda vendetta».
Colmava poi la misura di cosiffatte improntitudini il procedere di alcuni stranieri, i quali unicamente mirando ai vantaggi che avrebbero potuto ritrarre dalla continuazione della discordia tra il continente e l’isola delle due Sicilie, nulla trascuravano per vieppiù eccitare i popoli ribellati ad un generoso risentimento. Già da Palermo spedivasi sollecitamente a Messina un piroscafo francese chiamato l’ Ellesponto, il quale allo giungervi, tosto imbarcando dal bordo de’ legni da guerra l’ Ercole ed il Boulledogue i rifugiati che vi stavano, col pretesto di trasportarli a Malta, li disbarcava per lo invece in Catania, onde quegli abitanti, che di già si erano offerti a sottomettere, venissero dalla influenza della fazione disposti alla più dura resistenza. Al tempo stesso il Palermo , piroscafo siciliano, recavasi celeramente a Livorno per caricarvi munizioni da guerra quas i tutte inglesi , quando già un famoso agitatore di Sicilia volgeva per Marsiglia a fare altrettanto.
Ma non erano questi i soli spedienti che i ribelli dell’isola adottavano, perciocché con sorprendente attitudine procedevano all’ordinamento di difesa. Un campo formavasi a Taormina, con le forze riunite de’ distretti di Messina e di Acireale: un altro in Catania, con le forze del suo distretto e di quello di Caltagirone: un altro in Siracusa, con le forze riunite di tutti i suoi distretti: un altro in Girgenti; un eguale a Trapani; e per ultimo un simile a Palermo, con tutte le forze della provincia e delle più scelte dell’isola.
Nel mentre adunque che così la Sicilia preparavasi ad una nuova resistenza, il governo inglese specialmente, quantunque avesse continuato a spacciare la sua mediazione come del tutto pacifica, e nel solo fine di evitare ad ambe le parti lo spargimento del sangue, non cessava dal procedere a più aperte minacce. L’ammiraglio Parker tenendosi poco soddisfatto della risposta data dal principe di Cariati all’incaricato brittannico, scriveva a lord Napier in questi sensi:
«A bordo dell’lbernia Napoli 16 settembre.
«Milord Ho avuto l’onore di ricevere la lettera di V. E. in data di ieri con due copie di due lettere di S. E. il principe di Cariati riguardanti la guerra in Sicilia.»
«Secondo l’ultima intelligenza di Napoli la mediazione anglo-francese è stata accettata dall’Austria per terminare le controversie tra quella potenza e gli altri stati italiani. Perciò vi è ogni speranza che le potenze mediatrici saranno ugualmente disposte a terminare, mercé le loro negoziazioni, la fatale collisione tra le forze napolitano e siciliane.»
«La intelligenza che ò ricevuto da tutte le parti dell’isola, mostra ben chiaro che l’esasperato sentimento dei siciliani per il fatale bombardamento di Messina li rende tenaci a contrastar palmo per palmo il loro terreno , e di ritirarsi in fine, ove sian battuti, nelle montagne.»
«Da una tale risoluzione altro non si può aspettare che conflitti sanguinosi, ruina e desolazione.»
«Le flotte francese ed inglese probabilmente riceveranno le istruzioni da’ loro governi rispettivi.»
«I miei sentimenti di umanità m’impongono in questo frattempo d’insistere più fortemente presso il governo napolitano acciò accordi una prolungazione d’armistizio, domandata dalle forze francese ed inglese a Messina, accordata condizionalmente dal principe di Satriano il giorno 11. Questa domanda produsse infinite circostanze. La umanità richiede ciò, ed io spero che non saremo costretti ad usare la forza per conseguirla».
Questi tratti di si manifesta prepotenza apertamente dimostravano come la libertà di dentro non impedisce la tirannide al di fuori; perciocché fra gli atti tanto scorretti, di cui quei tempi abbondarono pur troppo, non si scorge che alcuno più di questo possa reputarsi insolente. Tale sarà almeno il giudizio che ne faranno le generazioni sì presenti, che future, in cui la virtù sarà sempre più potente che il vizio».
Comunicavasi intanto per mezzo del ministro inglese la lettera dell’ammiraglio al principe di Cariati, il quale non tanto per persuadere, sapendo come ciò fosse difficile in allora, quanto per purgare il suo governo da quello che gli si apponeva, affrettavasi a dare la seguente risposta:
«Il sottoscritto à ricevuto, con la nota di lord Napier del 17, la còpia di una lettera del vice ammiraglio Parker del 16, relativa alla sospensione delle ostilità in Messina».
«Il sottoscritto non può trovare, né riconoscere alcuna somiglianza fra l’accettazione da parte dell’Austria della mediazione offerta dalla Francia e dall’Inghilterra per aggiustare le differenze tra quella potenza e gli stati italiani, e la sommissione de’ siciliani al loro legittimo Sovrano; dappoiché nel primo caso l’oggetto è di stabilire la pace tra due indipendenti potenze belligeranti, e nel secondo trattasi di liberare una parte de’ domini reali dallo insoffribile giogo di una perniciosa banda d’individui faziosi e male intenzionati, di ristabilire la pace e l’ordine nel regno delle due Sicilie, e di conservare riunita la monarchia, della quale quell’isola forma una parte integrale».
«Oltre a ciò dal rapporto ricevuto dall’ammiraglio, è chiaro e manifesto, che i capi della insurrezione non avrebbero avuto altro mezzo di salvarsi, che di fuggirsene sulle montagne, da dove anche sarebbero stati cacciati, se fossero stati privi dell’aiuto morale e materiale delle potenze straniere, essendo a loro ben nota la disposizione della maggioranza degli abitanti della Sicilia disgustati dagli eccessi di ogni specie, a’ quali sono stati soggetti in questi ultimi otto mesi».
«In riguardo poi al modo di abusare della forza armata con la veduta di comprimere la libera indipendenza di un governo che non può essere rimproverato di alcuna violazione della legge internazionale, il sottoscritto non à altra alternativa che di protestare formalmente ed innanzi a tutto il mondo incivilito contro un atto simile. E le potenze di second’ordine al certo osserveranno con sorpresa e dispiacere gli eventi che in tal momento àn luogo nel regno delle due Sicilie, e la ingiuria che può tornar dannosa in un tempo; in che il principio della indipendenza e della libertà delle nazioni è in tutte parti proclamato».
«Il sottoscritto prega lord Napier di comunicar questo dispaccio al vice ammiraglio Parker».
Così parlava un ministro desideroso che la giusta causa del suo governo trionfasse; ma più poteva in chi lo ascoltava un voluto inganno, che le persuasive parole.
Per chiudere la narrazione de’ fatti avvenuti in quell’epoca cotanto esiziale, è indispensabile di aggiungervi poche altre cose utilissime a sapersi. Lord Palmerston, ministro degli affari stranieri della gran Brettagna, manifestava nel parlamento inglese uno sdegno grandissimo pe’ rigori usati, come ei pensava, dalle milizie napolitane nel conquisto di Messina: essere, ei diceva, la crudeltà della truppa in questa occasione giunta al suo colmo ; senza pietà essere stati trattati pacifici abitatori, non risparmiandosi né a sesso, né ad età, né a condizione; gl’incendi, i saccheggi, gli eccessi essere stati innumerevoli; i mezzi di dolcezza e di persuasione praticati dalle mediatrici potenze essere stati infruttuosi; non doversi adunque permettere che la tentata spedizione più oltre procedesse, per non veder rinnovati maggiori scandali; né voler dubitare che il parlamento non abbracciasse tali consigli.
Ma nel mentre che tanto operavasi dal ministro inglese per far calare il Re a quel che si voleva, a desistere cioè dalla sottomissione della Sicilia, le ordite trame per altrove vieppiù si spingevano. Affermavasi; che di già fosse partita dall’Inghilterra, al comando di uno de’ più arrischiali condottieri, un’altra formidabile squadra pel mediterraneo, destinata a soccorrere la oppressa Sicilia; che un’armata francese avesse pur varcate le Alpi , e che per ogni parte con infiammative predicazioni si stimolassero i popoli a soccorrere i loro fratelli di Sicilia.
Stretto il Re da tanti nemici, ed angariato da chi doveva l o forse più aiutare, lungi dallo sgomentarsi, forbiva le sue armi per tenersi sempre più apparecchiato agli eventi. Aveva di molto accresciuto il suo esercito di veterani e di soldati di nuova leva, e di quant’occorreva, di tanto per lo appunto aveva l o provveduto. E sebbene non avesse ig n o rato che le ostinazioni politiche non lasciano luogo a molla riflessione, pure, facendo fondamento sulla giustizia della sua causa, aveva espressamente spedito in Inghilterra un principe siciliano, che e per le relazioni che vi teneva, e per l’abilità che mostrava, e pel credito che come siciliano avrebbe dato ad una causa che per altrove volevasi pur troppo screditare, sembrava il più adatto a trattare in quei si gravi frangenti. Né il potente Sovrano del nord, l’imperatore delle Russie, d’altra banda se ne rimaneva indifferente. Dolevansi con risentite protestazioni i suoi ministri co’ governi di Francia e d’Inghilterra per la seguita condotta rispetto alla vertenza siciliana, e vivamente rilevavano la insopportabile indegnità, che un sovrano cioè non dovesse affatto riscuotersi contro i suoi sudditi ribelli.
Intanto dalla manifesta protezione spiegata per la Sicilia ne conseguitavano insolenze, prepotenze, eccessi, che gli esaltati, gente tumultuaria e sfrenata, vi commettevano di ogni maniera. Un audace, famoso per tante ribalderie nelle quali per lo innanzi era trascorso, il cui nome non possiamo ancora a’ posteri tramandare,spargeva tanto spavento nella stessa Palermo e suoi dintorni, che sinanche le più delicate ed intemerate persone erano fatte segno agli oltraggi ed alle nefandezze sue. Un altro più famoso scellerato, messosi alla testa di gente più di lui rapace, commetteva sotto politiche apparenze opere indegnissime: uccideva chi meno gli andasse a garbo; saccheggiava dove potesse con fruito soddisfare alla sua cupidigia; incendeva quando non trovava a sfogare le sue malnate voglie. Altrove una banda armata, coadiuvata sinanche dal consiglio civico e dalla guardia nazionale di Monreale, invadeva quel monastero di benedettini, e prendendo ad ostaggi alcuni padri, obbligava la comunità a sborsare ducali diciottomilapel di loro riscatto. E lo stesso presso a poco accadeva in S. Martino, nelle cui bande (oh cosa orrenda) sopratutto figuravano autorità non solo, ma ecclesiastici benanche.
Non erano al certo ignoti in Inghilterra gli autori e le cause di tali ribalderie; né ivi per altro la pubblica opinione ristavasi dal pronunziarsi apertamente contro la condotta spiegata dal governo a pro della Sicilia; e però un illustre oratore che tanto figura in quel parlamento, tolta un giorno la occasione che nella camera de’ comuni volgevansi interpellanze al ministero sulla vertenza siciliana, dopo un lungo discorso pronunziato per dimostrare i falli commessi dal governo inglese per l’accordata protezione ad un popolo ribelle ed indegno di alcun soccorso, cosi conchiudeva: e questi sono gli uomini che il governo inglese à preso a favorire? per costoro adunque i rappresentanti della Inghilterra si offrono come mediatori contro g li incontrastabili dritti del Re di Napoli?
CAPITOLO XXII
Congresso federale italiano a Torino: insurrezione a Vienna: disordini a Roma; uccisione del conte Rossi, e fuga del Pontefice.
Falliva il primo saggio della ribellione di tutti gli stati italiani sia col ritorno del potere austriaco in Lombardia, sia colla vittoria conseguita dalle truppe regie delle due Sicilie su’ difensori di Messina, ma gli agitatori non perciò desistevano dall’iniquo proponimento di rovesciare da per tutto l’autorità sovrana de’ principi; perciocché preparati anzi tempo a contemplare nella calda ed insidiosa immaginazione dell’abate Vincenzo Gioberti una stretta lega tra le singole parti della penisola, comprendevano bene che solo con tal mezzo avrebbesi potuto dare unità al pensiero ed all’azione per raggiungere lo scopo designato. Epperò bandito un congresso federale italiano, il 10 ottobre di quell’anno (1848) lo inauguravano formalmente a Torino sotto la prestigiosa presidenza dell’autore. Gioberti prendendole mosse da’ congressi scientifici, precursori della rivoluzione, proluse un discorso nel quale concorsero la fama di lui, il sapere ed un’arte raffinata da annosa meditazione. Applaudito dalla folta udienza sull’oggetto di democratiche riforme, cui doveva mirare la italiana famiglia, la sua orazione concluse coll’elogio degli apostoli della libertà, ed i nomi di Terenzio Mamiani, del principe di Canino, deputati di Roma, e del calabrese Giovannandrea Romeo, provocarono fra’ congregati un generale entusiasmo.
Terenzio Mamiani fece quindi mostra de’ suoi sentimenti, e dopo di avere con melate parole esortato tutt’i figliuoli d’Italia a stringersi in fascio attorno a Carlo Alberto, qualificandolo primo cittadino d’Italia, come se il congresso già tenesse a sua disposizione un esercito pronto a combattere, mandò il grido di guerra. La guerra, sciamava, diviene oggi per noi l’unico strumento di rigenerazione; ma la guerra basterà forse a salvar l’Italia? Nommai, se manca quella confederazione di corpi e di animi per cui si trova ora congregato a Torino il fiore de’ pensatori d’Italia.
Parlò poco appresso il siciliano Perez, difendendo i suoi compatrioti dalla taccia di separatismo.
«Un popolano di Palermo, egli disse, nella famosa rivoluzione del gennaio uccise un satellite del Borbone , gridando viva la lega: questo importa unione: quando l’Italia sarà libera di lui, avrà un generale tedesco di meno da combattere».
Queste parole furono accolte come si accolgono i detti generosi pronunziati fra una strapotente commozione, e l’assemblea si chiuse con estraordinario entusiasmo, preludio dell’andamento del congresso.
In questo mezzo tempo le macchinazioni avevano sortito l’effetto loro. Un Kossut, fattosi centro di movimento repubblicano in Ungheria, minacciava di rovesciare il trono d’Austria. Il bano di Croazia barone Iellacich, generale austriaco fedele all’imperatore, guidava le sue milizie contro la rivolta, annunziando a quei popoli, come sotto mentiti colori di libertà volessero in sostanza i ribelli assoggettarli ad un giogo più duro. Ma non essendo bastate lesue forze a comprimere si esteso movimento, alcuni battaglioni di granatieri avevano avuto ordine di marciare a quella volta nello stesso intento. Il primo battaglione del reggimento Ceccopieri (italiano) era di già partito a stento, trovandosi molti de’ suoi compromessi nella cospirazione; ma il secondo battaglione apertamente rifiutavasi. Il ministro della guerra conte La Tour comprendendo bene, che quando una rivoluzione rumoreggia, quando da ogni banda l’ordine sociale è minacciato, l’unico spediente è quello di camminare fermamente innanzi ai pericoli, credè suo debito d’insistere, impiegando la forza, sulla esecuzione degli ordini dati. Ei fece adunque avvanzare contro quel battaglione ricalcitrante de’ cannoni, della cavalleria e due battaglioni di truppe boeme e polacche: ambedue le parti stavano a fronte, allorché sopraggiungendo numerosi distaccamenti di guardie nazionali, e la legione accademica, col pretesto di amichevole interposizione, si pronunziavano a favore del battaglione italiano. Passavasi tostamente dalle minacce ai fatti: cominciava una pugna la più sanguinosa; durava un certo tempo, ma il numero sempre crescente de’ ribelli, e le fila troppo estese della cospirazione, gli facevano trionfare. Alla vittoria succedeva subitamente la vendetta, solito procedere di popoli sconvolti. Ricercatosi da per tutto il ministro La Tour, e rinvenutosi nello stesso palazzo ministeriale, lo sagrificavano gl’insorti a colpi di martello e di armi bianche, lo avvolgevano in un lenzuolo e lo esponevano pendente a’ ferri di un fanale di città al pubblico terrore.
Queste scene di sangue e di ferocia determinavano l’imperatore a lasciare tosto Vienna, dirigendosi sotto buona seorta di numerosa cavalleria verso Olmulz. Quivi riparato manifestava con pubblico editto il gravissimo duolo cheopprimevate, le sciagure che alte stato minacciavano i perfidi faziosi, ed al tempo stesso indicava, come ad infrenare la rivolta di un popolo ingrato dovessero tutt’i buoni raccogliersi intorno a lui.
Appena i casi di Vienna divulgavansi per l’impero, che quantità di milizie movevano a quella volta a danno de’ ribelli. Il bano Iellacich, guidando poderoso corpo d’esercito, perveniva il primo sotto le mura della sconvolta città; raggiungevate presto il generale Harmnerstein con diecimila uomini dell’esercito di Gallizia; e per ultimo dalla Boemia rafforzava tanta numerosa oste l’agguerrita soldatesca condotta dal feldmaresciallo principe di Windischgratz, cui veniva conferito il comando in capo di tutte le forze destinate a comprimere la rivolta.
Il 23 ottobre il generalissimo faceva intimare a’ ribelli di sottomettersi senza condizione all’imperiale comando; e poiché a popolo mosso bisogna parlar co’ fatti, e non altrimenti, le esortazioni rimasero senza effetto. Messo perciò nella dura necessità di far valere la forza, giungeva egli, dopo due giorni di un vivo fuoco di artiglieria, e con replicati assalti, ad impadronirsi de’ principali sobborghi di Vienna. Non pertanto gl’insorti continuavano a resistere, nella lusinga di un prossimo soccorso di forze ungheresi; ma respinti da luogo in luogo, incalzati da per tutto, cedevano dopo gli ultimi sforzi di una troppo inutile resistenza.
Vincevasi così nel 31 ottobre la insurrezione di Vienna, né però gli agitatori italiani desistevano da’ loro iniqui proponimenti.
Accennammo come la vagheggiata lega italiana a Torino tendesse ad apparecchiare nuovi sovvertimenti. Per la repubblica la rivolta soffiavasi in tutti i punti. Cadevano successivamente in disordine Genova, Livorno e molti luo ghi della Toscana, ma il principale desiderio de’ novatori si era di sconvolgere da capo a fondo lo stato romano, che agitato trovavasi fuor di misura. Scorgeva il Santo Padre il temporale che si appressava, e per isviarlo tantosto liberavasi dal ministero Mamiani, la cui condotta tanto contribuiva a vieppiù compromettere la tranquillità pubblica, e destinava a capo del nuovo ministero il conte Pellegrino Rossi, il quale riuniva a liberi pensamenti, ingegno elevato, somma moderazione e costante attaccamento alla sua sacra persona, cui erasi avvicinato tempo innanzi come ambasciadore del governo Francese presso la S. Sede. Ma non v’è speranza di salvezza quando il torrente devastatore trabocca da per ogni dove. Il conte Rossi ben prevedeva quanto insormontabili fossero gli ostacoli che andava ad incontrare, e come egli troppo tardi chiamato a puntello della cadente macchina sociale, ne sarebbe rimasto senza dubbio alcuno schiacciato sotto le ruine.
Questa scelta intanto irritava il partito del disordine a segno che suscitava ne’ circoli disperate risoluzioni; epperò mentre i buoni attendevano salute, i tristi affilavano il pugnale dell’assassinio.
Fra le speranze degli uni, e le macchinazioni degli altri spuntava il giorno 15 novembre, destinato all’apertura delle camere legislative in Roma, e già molta gente conveniva nel cortile della camera de’ deputati agitata da sinistri proponimenti, quando segreti avvisi pervenivano ripetutamente al conte Rossi, co’ quali non solo gli amici, ma sinanche lo stesso Pontefice lo scongiuravano a non recarsi in quel dì presso il consesso, per non esporre a grave pericolo la sua vita. Ciò non pertanto, a non trascurare i doveri che in momenti cotanto supremi Io astringevano, il conte Rossi verso il meriggio giungeva in carrozza nell’accennato cor t ile, ove la moltitudine appena cedendo all’impeto de’ cavalli sforzavasi a schernirlo con fischi e con oltraggi. Senz’affatto scomporsi in sì perigliosi istanti, discendeva egli dal suo legno, e stretto dalla gran calca, volgeva tosto per la scala. Circondato allora da’ congiurati, il pugnale di un assassino il feriva mortalmente alla gola; e senza che alcuno avesse almeno osato di arrestare lo scellerato uccisore, dava egli dopo pochi momenti l’ultimo respiro, lasciando alla terra la trafitta salma, avanzo del sofferto martirio. A tanta enormità ben tosto successe un moto straordinario in tutti i ritrovi politici, nunzio funesto di ulteriori e gravi sciagure.
Al nuovo giorno taluni deputati e membri del circolo popolare chiedevano del Santo Padre. Ricevuti per Io invece dal cardinale Soglia, awanzavano strane ed immoderate pretensioni; al che il Pontefice faceva loro rispondere, che all’avvocato Galletti (uno de’ principali tra quegli agitatori) verrebbe conferita la composizione di un nuovo ministero per provvedere alle mosse dimande. Annunziata dallo stesso Galletti la promessa pontificia a’ sediziosi, per tutta risposta menavansi mille imprecazioni, e facevansi minacce di ulteriori sconvolgimenti. Tanto imponendo la necessità, la deputazione ritornava sollecitamente dal Pontefice a significargli lo scontento del popolo; ma ricevuta egualmente dallo stesso cardinale Soglia, ne otteneva in risposta, non potere affatto il Santo Padre accondiscendere a quelle stravaganti richieste.
Giunta per tal modo al colmo la irritazione della moltitudine forsennata, con terribili colpi cominciava a percuotere la porta maggiore del palazzo pontificio, schiamazzando con tumultuose ed orribili grida, e sebbene nell’interno del Quirinale la corte del Papa spaventata di niuna risoluzione fosse stata capace in quei terribili momenti, pure per la ferma attitudine delle milizie svizzere, che vi stavano a tutela, e per alquanti colpi a fuoco da esse tratti, impedivasi per allora che il sacro palazzo venisse invaso e manomesso da quelle orde scellerate.
Divenuto oltre ogni credere pericolosa la situazione del Pontefice, non rimanevagli altro scampo che di accogliere prudentemente le insino allora rigettate dimande. Fatto perciò chiedere sollecitamente del Galletti; avutolo indi a poco alla sua presenza, e manifestategli le sue benefiche intenzioni, tosto questo tribuno del popolo ritornava fra gli assembrati, loro assicurando che il Pontefice non solo rimetteva alle camere le dimande del circolo popolare, ma altresì condiscendeva alla formazione del nuovo ministero, escludendone soltanto l’esaltato napolitano Aurelio Saliceti, non ostante che fosse stato espressamente proposto dal circolo medesimo. Quindi il Galletti facendosi efficacemente ad insistere, che ciascuno rientrasse nel seno della propria famiglia, e non turbasse più oltre il pubblico riposo, in breve una calma apparente succedeva a quel gravissimo subuglio.
Veniva al potere il nuovo ministero, e con un tratto della più nera perfidia e di un dispotismo senza esempio apriva il suo corso, disciogliendo non solo il corpo delle milizie svizzere, ma allontanando altresì dalle soglie pontificie la maggior parte di quanti vi stavano addetti, cominciando da’ più distinti prelati insino ai più bassi famigli di corte.
Ridotto adunque a sì dure strettezze il capo della cristianità, il successore di S. Pietro, raccolto intorno a se tutto il corpo diplomatico, con una serenità di spirito non mai vista a quel modo, facevasi a dire:
«Io sono, o signori, come consegnato; si è voluto togliermi la mia guardia, e mi circondano altre persone: il criterio della mia condotta in questo momento che ogni appoggio mi manca, sta nel principio di evitare ad ogni costo che sia versato sangue fraterno. A questo principio cedo tutto, ma sappiano lor signori, e sappia l’Europa ed il mondo, che io non prendo nemmeno di nome parte alcuna agli atti del nuovo governo, al quale io mi riguardo estraneo affatto. O’ per tanto vietato che si abusi del mio nome, e voglio che non si adoprino neppure le solite for m ole.»
Avendo Papa Pio IX così favellato verso i rappresentanti delle potenze di Europa, gli agitatori di Roma cominciavano già a concepire qualche timore, prevedendo che un immenso numero di fedeli abbracciando la giustizia della causa del Pontefice, avrebbe sentito mal volentieri le risoluzioni e le persecuzioni contro di lui.
Ma se a tale estremo era ridotta la condizione del Papa, in non meno pericolosa situazione trova v ansi i suoi cardinali, i quali riguardati da’ novatori come principale sostegno del cessato governo, erano divenuti vieppiù bersaglio del suscitato disordine. Quindi non convenendo ad essi di compromettere più oltre la loro personale sicurezza, molti afferrata opportuna occasione a salvarsi, rifagiavansi precipitosamente in Napoli, come l’unica città d’Italia che in allora maggior sicurezza offriva.
Nasceva intanto ben inteso, ma riservato e spontaneo il consentimento in tutto il corpo diplomatico di sottrarre il Santo Padre dall’indegno trattamento cui trovavasi ridotto, se non che qualunque segreto mezzo a riuscirvi sentiva a quei tempi tanto più d’imprudenza, per quanto fatale alla sacra persona del Pontefice esser ne poteva lo scoprimento. Tuttavia i ministri di Francia e di Baviera animati da uno spirito di religione non meno, che da particolare devozione per Pio IX, vi si determinavano con risolutezza e coraggio.
Sin dal 17 novembre, in cui Roma trovavasi in piena sollevazione, e gl’indugi aumentavano il pericolo, conveniva destramente abituare le guardie nazionali destinate alla custodia del palazzo pontificio alla veduta di certe apparenze, mercé le quali fosse tornata più agevole la meditata impresa. Quindi a bella posta facevasi spesso entrare ed uscire dal palazzo medesimo una carrozza con de’ prelati che fingevano dirigersi alla maggiordomìa per affari. La sera del 24 il conte Spaur ministro di Baviera presentavasi per vedere il Santo Padre: impedito sulle prime da rituali difficoltà, egli risolutamente facevasi a pretenderlo, adducendo essere per lui indispensabile ubbidire agli ordini del suo governo, pe’ quali veniva premurosamente incaricato impetrare da Sua Santità la dispensa pel matrimonio di una principessa di Baviera. Appena ricevuto con questo artifizio, sopraggiungeva nell’anticamera il duca Harcourt ministro di Francia, al quale indi a poco fingevasi concedere lo stesso onore. Intanto il Santo Padre aveva trasformato la sua apparenza, vestendo l’abito corto da prelato, ed accompagnato dallo stesso conte Spaur, per l’appartamento del maggiordomo usciva dal palazzo, coll’accennata carrozza del ministro, e da sconosciuto prendeva la via di Terracina. Il duca Harcourt, rimasto solo nelle stanze del Papa, vi dimorava ancora un’ora e mezza, e poi fingendo commiato, avvertiva ripassando l’anticamera, che Sua Santità erasi già posta a riposare. Così volgevano quelle ore, nelle quali Pio IX ricuperar doveva la sua libertà, riparando a Gaeta, dove le virtù sue e quelle di Re Ferdinando II rifulsero di vivissima luce sull’orbe cattolico.
Il pio monarca appena riceveva dal pontefice l’ annunzio del suo arrivo in Gaeta che immantinente partiva da Napoli a quella volta, a rendere i dovuti omaggi al vicario di Cristo. Indi a poco vi giungevano pure da Roma gli ambasciadori di Francia e di Spagna, e dopo qualche giorno il resto del corpo diplomatico presso la Santa Sede.
L’arrivo del Pontefice f u sentito per tutto il regno con molta allegrezza da’ buoni, ritenendo questa nuova come un’arra sicura di quella calma che all’agitazione doveva ‘ immancabilmente succedere.
Intanto dovendo gli avvenimenti di Roma richiamare seriamente l’attenzione del governo in Napoli, cosi ad impedire che quei disordini potessero per avventura nel regno trovare un addentellato nella prossima apertura del consesso legislativo, con decreto de’ 23 novembre ordinavasi, che la sessione delle camere prorogata pe’ 30 di quel mese, restasse vieppiù prorogata pel 1° febbraio, vicino a sopraggiungere.
Ecco adunque qual’era Io stato delle cose al cader dell’anno 1848. Un accesa voglia di combattere nel Piemonte, e preparamenti occulti che vi si facevano contro l’Austria: desideri smodati nella Toscana: atti di manifesta sedizione in Roma: continuazione della forma repubblicana in Venezia: perplessità in Lombardia, e nuove forze austriache che vi si riunivano: e per ultimo in Napoli, sebbene covasse gran fuoco sotto poca cenere, pure per la straordinaria vigilanza del governo, e per la forza morale che si era riacquistata, poco vi era a temere dalle segrete pratiche degli agitatori.
CAPITOLO XXIII
Formale protesta del Papa: ultimatum sulla vertenza siciliana, non accettalo: cenno sul dominio della Sicilia, e sulla sua spacciata indipendenza: apertura delle camere legislative in Napoli: disaccordo tra la camera dei deputati ed il ministero: indirizzi al Re: chiusura del parlamento.
La fuga del Pontefice da Roma, e la sollecitudine di Re Ferdinando nel ristorarlo dalle sofferte tribolazioni destavano l’ammirazione dell’universale. In s ino allora non ben ravvisate le vere intenzioni di Papa Pio IX, ognuno addebitavagli le prime spinte de’ sopraggiunti sconvolgimenti della penisola italiana; ma quando poi la cristianità lo ravvisò esule e fuggitivo, e scorse sulla sua sacra persona prodigate maravigliosamente le più affettuose cure da un Re, quanto giusto e religioso, altrettanto travagliato nel suo regno dalle conseguenze degli atti dello stesso governo di Roma, punto non dubitò che sorpreso dapprima, costretto in appresso, tutte le novità nocive avveratesi nel breve periodo decorso dalla sua elevazione al pontificato, fossero a bella posta derivate da una setta di uomini perversi. Né questa illazione rimaner doveva puramente logica, perciocché il Santo Padre ubbidiente nelle sue dolorose meditazioni alle divine ispirazioni della Provvidenza, da Gaeta pubblicava questa formale protesta:
«Le violenze usate contro di Noi nei scorsi giorni, e le manifestate volontà di prorompere in altre, che Iddio tenga lontane, Ci Anno costretto a separarci temporaneamente da’ Nostri sudditi e figli, che abbiamo sempre amato ed amiamo.»
«Fra le cause che Ci ànno indotto a questo passo, Dio sa quanto doloroso al Nostro cuore, una di grandissima importanza è quella, di avere la piena libertà nell’esercizio della suprema potestà della Santa Sede, qual esercizio potrebbe con fondamento dubitare l’orbe cattolico, che nelle attuali circostanze Ci venisse impedito. Che se una tale violenza è oggetto per Noi di grande amarezza, questa si accresce a dismisura ripensando alla macchia d’ingratitudine contratta da una classe di uomini perversi al cospetto dell’Europa e del mondo, e molto più a quella che nelle anime loro à impresso lo sdegno di Dio, che presto o tardi rende efficaci le pene stabilite dalla sua Chiesa.»
«Nella ingratitudine de’ figli riconosciamo la mano del Signore che Ci percuote, il quale vuole soddifazione de’ Nostri peccati, e di quelli dei popoli; ma senza tradire i Nostri doveri, Noi non Ci possiamo astenere dal protestare solennemente al cospetto di tutti (come nella stessa sera funesta de’ 16 novembre, e nella mattina del 17 protestammo verbalmente avanti al corpo diplomatico, che c i faceva onorevole corona, e tanto giovò a confortare il Nostro cuore) che Noi avevamo ricevuto una violenza inaudita e sagrilega. La quale protesta intendiamo di ripetere solennemente in questa circostanza, di aver cioè soggiaciuto alla violenza, e perciò dichiariamo tutti gli atti che sono da quella derivati di nessun vigore e di nessuna legalità»
«Le dure verità e le proteste ora esposte Ci sono state strappate dal labbro dalla malizia degli uomini e dalla nostra coscienza, la quale nelle circostanze presenti, Ci à con forza stimolato all’esercizio de’ Nostri doveri. Tuttavia Noi confidiamo che non ci sarà vietato innanzi al cospetto di Dio, mentre lo inviliamo e supplichiamo a placare il suo sdegno, di cominciare la nostra preghiera colle parole di un santo re e profeta: memento Domine David et omnis mansuetudinis eiu s.»
Questa dichiarazione grave e solenne fatta dal capo supremo della chiesa, reso vittima della più nera ingratitudine, rivelava a tutto l’orbe, che malgrado il profondo dolore che ei provava, aveva dovuto non pertanto rendere alla sua piena libertà l’esercizio del supremo potere della Santa Sede, il cui impedimento poteva gittare il cristianesimo nelle più gravi perturbazioni..
Ma quest’atto lungi dall’arrestare il torrente della rivoluzione in Roma, valeva a renderne più artifizioso e colpevole il progredimento; perciocché con vivi colori si spacciava al popolo romano, trovarsi il Papa prigioniero in Gaeta, non esser libero nelle sue determinazioni, essergli stato estorto quell( 1) atto, che se pure derivato fosse da sua esplicita volontà, riguardar dovevasi per nullo, comeché incostituzionale, e non sottoscritto da alcun ministro responsabile. Quindi le massime più sovversive ripopolo esser sovrano, da lui derivare ogni potere; il popolo essere pupillo, né poter perdere i suoi dritti, sia per tempo, sia per usurpazione; esser dovere ribellarsi, quando chi governa facciasi a manomettere i dritti del popolo; spuntare già un’era novella per l’umana generazione, compiersi le predizioni delle scritture; sorgere co’ dritti la giustizia, con la giustizia la pace, con la pace la felicità; abbastanzae pur troppo essersi fatto pruova delle usurpazioni, ora doversi provare la libertà, e togliersi una volta quel grave giogo che da tanti anni i popoli schiacciava.
Così gli ambiziosi con la loro astuzia sagrificavano il popolo che proclamavano sovrano! Ma non consideravano quei fanatici sovvertitori, che la opinione cattolica è inflessibile ed immutabile.
In questo mentre giungeva in Napoli, dopo molti mesi di assenza, il cavaliere Tempie, rappresentante della Gran Brettagna, e seco portava da Londra l’ ultimatum perla quistione siciliana. Gli articoli erano ad un dipresso quegli stessi progettati da lord Minto, e non accettati dal Re; cioè che l’isola dovesse avere un’amministrazione separata da Napoli, una costituzione propria, un’armata di terra e di mare indigena, la corona di Sicilia unita a quella di Napoli. E tutto ciò a condizione, che se una delle parti avesse ricusato l’ultimatum, la mediazione si sarebbe ritirata, l’Inghilterra e la Francia avrebbero guardata una stretta aneutralità, e la quistione sarebbe stata dalle armi risoluta.
Da tutto questo era pur troppo chiaro, che la politica inglese, contenta di quanto operato aveva per lo innanzi, velava con molta destrezza la protezione sì apertamente spiegata per la Sicilia, ed in qualunque modo preparavasi a racco rn e il frutto.
A sì oltraggiante proposta il principe di Cariati, non ostante che il Re si trovasse assente da Napoli, pure a non trattenere neanche per poco la conveniente risposta, in questi sensi al ministro inglese scriveva:
«Nell’assenza di Sua Maestà, dalla quale non posso nel momento ricevere ordini diretti, ma delle cui positive intenzioni sono perfettamente informato, mi affretto a rispondere alla comunicazione che V. E. à voluto farmi. Le intenzioni pacifiche che vi sono espresse e l’assistenza che offre in nome del suo governo, mi sembrano difficili a combinarsi col rimanente di ciò che contiene. Il Re che capisce tutt’i gravi doveri che la Provvidenza gli à imposto, non può mai prestarsi ad alcuna combinazione che non assicuri nel modo il più assoluto i dritti nazionali che sono seriamente in pericolo. Sua Maestà è perfettamente convinta che quest’oggetto non può essere ottenuto se non colla fusione delle forze napolitane e siciliane, che non devono formare che una sol’armata, ed essere, com’è stata sempre promiscuamente composta di napolitani e siciliani. Se noi teniamo un altro linguaggio, non soddisferemo a’ bisogni più pressanti del paese. In conseguenza io credo di essere il fedele interpetre di Sua Maestà esprimendovi il dispiacere che à in lui cagionato la natura di siffatta proposta.»
«Questo primo punto essendo riconosciuto, voglio suppor r e per un momento che voi essendo meglio informato sull’oggetto di questa indipendenza, che mi assicurate di voler con tanto impegno difendere, diverrete partecipe della opinione che ò creduto mio dovere di appalesarvi, non dovendo questo governo far altro che valersi della vostra gentile assistenza, onde comporre colla vostra ufficiosa concorrenza tutte le altre quistioni pendenti. E d’uopo però che vi domandi, che cosa farete, ove gl’insorti di Palermo ricusassero di sottomettersi al vostro ultimatum, della cui ragionevolezza siete perfettamente convinto? L’altitudine presa dalle forze della Francia e dell’Inghilterra nel giorno 11 settembre non può essere intieramente dimenticata, giacché gli ammiragli Parker e Baudin minacciarono allora di arrestare colla forza la vittoriosa spedizione in Sicilia. Io sento dunque di aver dritto a dimandare, se in caso di bisogno prenderete un’attitudine capace a troncare queste difficoltà.»
«Permettetemi ora di chiarire un errore che sembra di essere sfuggito alla vostra attenzione. Voi mostrate credere che avesse il Re per un momento acconsentito alle proposizioni che ci faceste. Mi affretto di protestare contro una supposizione di quella natura, che niente à autorizzato, e ch’è assolutamente contraddetta dalla realtà de’ fatti. Basta senza dubbio ricordare queste circostanze, per evitare che possiate in avvenire cadere in cosiffatti errori. Prima di terminare questa nota fa d’uopo indirizzare all’E. V. una altra domanda. Sa ella che il duca di Rivas, ministro di Spagna, à protestato al governo di Sua Maestà in sostegno de’ dritti eventuali che appartengono alla dinastia della famiglia regnante in Ispagna sul trono della Sicilia, ed à reclamato di voler intervenire in qualunque conferenza che possa aver luogo sull’oggetto? Gli ordini della sua c orte sono precisi a tal riguardo, e noi non possiamo ricusarci ad accogliere questi suoi legittimi desideri.»
«La quistione non essendo né spagnuola, né inglese, ma esclusivamente napolitana, siciliana e dinastica, nessuna obbiezione può nascere dalle attuali relazioni diplomatiche ch’esistono fra la Spagna e la Gran Brettagna. Sua Maestà siciliana non potrebbe da se stessa, ed in una volta risolvere questa pendente quistione, anche che avesse desiderio di farlo; dovrebbe dunque esser posta in tale situazione da poter rispettare questi dritti come reclami legittimi e giusti, o avere il potere di troncarli con un completo rifiuto» Mentre dignitosamente forte de’ suoi diritti rispondeva così il governo di Napoli alle insidie della straniera mediazione, contro ogni aspettativa i faziosi governanti della Sicilia dimenticando la propria impotenza sperimentata già nella difesa della città di Messina, rigettavano pure quelle condizioni che solo dalla prepotenza straniera potevano sperare. Epperò illusi dagli apparecchi guerreschi aumentati senza posa sotto l’influenza inglese, non meno che dalla fiducia di esser in ogni evento sostenuti dalla stessa nazione, risentitamente, o meglio stoltamente, rispondevano: non potere accettare quell’atto senza grave ingiuria dell’acquistata indipendenza, e senza molta taccia, di connivenza nelle pratiche tenute contro alle promesse fatte. In tal modo adunque il governo di Napoli opportunamente liberavasi da ulteriori pericolose complicazioni, ma non svanivano pei ribelli dell’isola i sogni beati delle straniere assistenze.
E la cecità in Palermo spingeasi tant’oltre, che sulla proposta del ministero la camera de’ deputati approvava la piena adesione della Sicilia alla costituente italiana, sollecitava maggiori apparecchi, di guerra per le prossime ostilità a ripigliarsi, ed accettava i servigi del generale Antonini, uno de’ principali agitatori italiani, nominandolo ispettor generale di tutte le milizie siciliane.
Cominciava il generale Antonini il disimpegno del suo ufficio col giro delle coste dell’isola per progettarne la difesa, e varie disposizioni dettava perché l’esercito siciliano potesse sollecitamente organizzarsi. Ma o che si fosse indi a poco sgomentato per la deficienza de’ mezzi a sostener la guerra, e per la tiepidezza con cui il governo procedeva intorno a questo; o che la rilasciata disciplina delle improvvisate milizie siciliane, e la incommoda condotta delle bande armate lo avessero eccessivamente colpito, rassegnava inopinatamente l’ottenuto comando, e per altrove fuori dell’isola immantinente volgeva.
Al modo stesso poco appresso praticava un altro militare straniero, il generale francese Trobiant, che alla Sicilia avea benanche offerto i suoi servigi, perciocché ravvisando nell’isola tanti opposti elementi a sostegno di quella causa, che tutti spacciavano voler difendere, tostamente rinunciando al supremo potere di generalissimo delle forze ribelli, che gli era stato conferito, con più celerità se ne partiva. Così la Sicilia dilaniata da chi vi comandava e da quegli che dovevano ubbidire, rimasta in balia di uomini senza freno e senza consiglio, ormai indicava che poc’altra vita restasse alla sua proclamata indipendenza.
Ma la indipendenza della Sicilia, che gl’insorti di Palermo nel 1820, e’ribelli di tutta l’isola intendevano ricuperare nel 1848, à ella mai esistita come un fatto della storia, ovvero è stato un fantasma introdotto con destrezza nelle menti accendibili de’ siciliani per alimentare in essi la cieca speranza di separarsi dal continente? Pria di esaminare la sua antica esistenza, osserviamo, che la rimarchevole vicinanza dell’isola, è stata,e sarà mai sempre la causa irremovibile della sua dipendenza, che secondo i tempi è un bene o un male necessario al continente, ma bene sempre per essa, perciocché sciolta da tal condizione, tranne la sua materiale esistenza, perderebbe tutto, non escluso il linguaggio ed il nome.
Senza rimontare a’ tempi più favolosi che veri de lestrigoni e de’ cimmeri, ed alle epoche incerte degli etruschi e de tirreni, è certo che quando l’impero di Roma crollava da tutt’i lati, i saraceni divenivano i padroni dell’isola. Erano moltissimi anni trascorsi in questa dura soggezione, allorché il normanno Roberto Guiscardo divenuto conquistatore della maggior parte della meridionale penisola italiana, arditamente co’ suoi spingeasi a discacciare dalla Sicilia i barbari che la dominavano, aggiungendo per tal guisa al titolo acquistatosi di duca di Calabria e Puglia, anche l’altro di duca di Sicilia. Cosi l’isola liberatasi dal duro giogo che l’opprimeva, diveniva sotto il dominio di quel duce parte integrale dello stato, al quale si congiungeva.
Morto Roberto, e cessata indi a poco del tutto la sua discendenza, i ducati di Calabria, Puglia e Sicilia passavano al conte Ruggiero, figlio di un suo fratello, il quale, per l’aumentata estensione de’ suoi domini, nel maggio del 1189 solennemente per re se ne proclamava. Così il regno unito del continente e dell’isola, sotto il nome delle due Sicilie, sorgeva; cosi unito passava agli sveni, pel matrimonio di Costanza, ultima della stirpe di Roberto, con Errico VI imperatore di Germania; e così pure unito nel 1266, per la battaglia di Benevento, passava sotto la dominazione angioina. Nel 1282 il famoso vespro siciliano, cioè la ribellione contro gli angioini,separava di nuovo il dominio dell’isola da quello del continente, facendo volontariamente passare la Sicilia nel potere degli aragonesi;ma nel 1402 Alfonso d’Aragona lo riuniva di bel nuovo alla corona di Napoli. Dalla morte di questo principe l’isola ed il continente mutarono condizione sotto separata dominazione decadendo nello stato di provincie straniere sino a che nel 1734, per la giornata di Bitonto, risorgevano a regno unito all’ombra del paterno e glorioso scettro di Carlo Borbone di Spagna, che in tal maniera trasmettevate a suo figlio Ferdinando, cui succedeva Francesco, e quindi l’attuale Sovrano regnante Ferdinando II .
Senza la rivoluzione di Francia del 1793 e lo strepito delle armi diBonaparte , Ferdinando I avrebbe continuato a governare in pace il regno unito delle due Sicilie; ma costretto dalla francese invasione nella parte continentale a ridursi nell’isola di Sicilia, il suo governo si trovava per la lotta tra quel conquistatore ed i sovrani di Europa sottopostoall’influenza inglese, la quale comunque avesse di concerto agito per atterrare quel colosso, pure con dubbia fede non trascurava di prepararsi un avvenire che avesse potuto, se non l’ambita diffinitiva dominazione, almeno un protettorato sull’isola assicurarle. In tale stato di cose, per le fraudi di alcuni aristocratici (alla testa dei quali stava il principe di Belmonte ), gelosi del potere di un ministro napolitano, e de’ soggetti, che napolitani ancor essi, avevano seguito le sorti della corte, spargevansi semi di mal contento contro il governo che vi reggeva; e questi perversi raggiri, secondati dalla influenza straniera, preparavano il popolo a prossime mutazioni. E poiché chi per l’Inghilterra teneva la somma delle cose nell’isola vedeva ormai facile il conseguimento de’ suoi disegni, chiamò la forza; proccurò da prima che il Re, sotto pretesto di malsanìa, trasmettesse temporaneamente la potestà reale al principe ereditario Francesco suo figliuolo, con titolo di vicario generale del regno, e poi seguendo le solite formalità, costrinse quest’ultimo a dare nell’agosto del 1812, coll’assenso del padre, strettamente peraltro guardato dalle milizie inglesi nel suo pacifico ritiro de’ colli , una costituzione rappresentativa affatto simile a quella della Gran-Brettagna.
Intanto la regina Carolina nemica di quelle novità fuggiva per Costantinopoli a Vienna, e lasciava così alla storia un documento inoppugnabile delle violenze usate dal rappresentante dell’amica e propugnatrice Inghilterra contro re Ferdinando suo consorte, e del principe Francesco suo figliuolo. Ma questi tratti di perfidia e di aperta violenza suggeriti da particolari disegni non potevano al certo andar tollerati quando per la sconfitta di Bonaparte veniva nel 1815 restituita la pace all’Europa. Epperò la stessa Inghilterra, accettando le determinazioni de’ potentati che con essa intervenivano al congresso di quell’epoca, proclamava, con tutti suoi alleati, il regno unito delle due Sicilie sotto la dominazione di Re Ferdinando, senza tenere in conto alcuno la forma rappresentativa che imperiosamente procurata aveva alla Sicilia tre anni innanzi.
Essendo questa la genuina sposizione storica della politica esistenza della Sicilia, si vede apertamente che quell’isola non solo non sia stata mai indipendente, ma che altresì il suo dominio sia andato per lo più congiunto a quello del continente.
Ritornando ora alla interrotta narrazione, quantunque i siciliani avessero nel loro acciecamento ricusato quell’ ult imatum, che il governo di Napoli per altro aveva respinto come oltrante, pure in Inghilterra,. divenuto di pubblica ragione questo fatto, lordStanley istava nella camera de’ co mun i, perché il ministero sollecitasse la comunicazione de’ dispacci relativi alla Sicilia; e lord Lansdowne nel prometterla senza indugio, frattanto dichiarava che la flotta inglese del mediterraneo non si sarebbe più oltre interposta nella contesa tra il Re di Napoli ed i suoi sudditi di Sicilia, mentre non avrebbe cessato di proteggere le persone e le proprietà brittanniche nell’isola. Così finiva la mediazione dell’Inghilterra, e pur quella di Francia, onde darsi luogo agli eventi, su’ quali la prima, per gli apparecchi formidabili cui aveva potentemente contribuito, pareva che riposasse.
Intanto nel febbraio del 1849 riaprivasi in Napoli il consesso legislativo accompagnato dall’universale desiderio di moderazione e giustizia, sole virtù che avrebbero potuto sanare le profonde ferite cagionale da’ passati sconvolgimenti al corpo sociale. Speravasi che il tristo sperimento fatto delle utopie e degli eccessi, ed il pubblico lamento, fossero sufficienti a refrenare il dispetto degli esaltati; e che ove le prime insegne di una moderata condotta venissero rizzate, vi sarebbero concorsi la volontà del governo ed il sentimento degli onesti cittadini. Ma non vi è probabilità di salvezza, quando coloro che sono chiamati ai potere corrono senza riguardi dietro alle esagerazioni, a solo oggetto di sagrificare l’umanità a loro perfidi disegni.
Così negl’infernali politici ritrovi autorizzati dall’epoca agglomeravansi infiammatissimi delle moderne opinioni una gran parte de’ principali agenti del nuovo governo, con molti della camera de’ deputati, e condannavano al pubblico disprezzo tutti gli altri, che moderati e probi avrebbero potuto la macchina sociale al suo retto sentiero ricondurre.
Le imposte per quell’anno non erano state ancora definite, per lo che il ministro delle finanze (Ruggiero) recatosi presso la camera de’ deputati, proponeva istantemente la provvisoria continuazione di quelle che trovavansi anteriormente stabilite, sino a quando con maturità non si fosse al novello stato discusso provveduto; ma o che lo stesso ministro dopo gli avvenimenti del 15 maggio 1848, preso forse da ambizione nella carica che occupava, avesse voluto mostrarsi tutt’altro da quello che sino allora erasi manifestato; o che tutto il ministero, per aver contribuito energicamente a dissipare diffidenze ed apprensioni sparse senza posa dagli agitatori, era già venuto in odio della camera, il certo si fu che la più parte de’ deputati presero ad avversarlo, giudicando esserne appunto quella la favorevole occasione. Ricevuto adunque freddamente nella sala del parlamento, ivi pieni di sdegno taluni deputati, con diverse studiate interpellanze chiedendo conto degli atti del ministero del 16 maggio 1848, con tutta l’ira del cuore ne maledicevano la condotta. Sorpreso il ministro, per non trovarsi a tanto preparato, niuna soddisfacente risposta rendea; epperò concitatisi viemaggiormente gli animi degli esaltati della camera, formulavano di accordo tra loro, poiché la maggioranza costituivano, il seguente indirizzo al Re:
«Sire —La camera de’ deputati volendo provare a Vostra Maestà ed al paese intero ch’è suo costante desiderio di prestare al potere esecutivo il suo franco e leale concorso, nel silenzio de’ ministri, à votato spontaneamente la riscossione provvisoria delle imposte.»
«Ora sente il dovere e la necessità di rivolgersi alla Maestà Vostra, e con fiducia ella si rivolge al principe, che primo inaugurava nella penisola italiana gli ordini costituzionali, e con fiducia ella attende una voce che riconduca l’armonia tra i poteri costituiti, ed impedisca che uno statuto liberamente dato sia da’ supremi agenti responsabili più oltre manomesso.»
«Sire i deputati della nazione persuasi che i veri bisogni del principe si confondono con quelli del popolo, di cui è capo e vindice supremo, non dubitano di manifestare francamente a Vostra Maestà, che l’attuale ministero noni la fiducia del paese, e ch’esso falsando le istituzioni, tradisce ad un tempo gl’interessi del principe e quelli del popolo. Cosifatti bisogni ed interessi si riassumono, S i re, nell’attuazione sincera e piena del regime costituzionale consentilo dal principe, legittimo dritto del paese, vo t o precipuo de’ suoi rappresentanti.»
«Non è dubbio, o Sire, che il ministero à contro di sé quasi unanime la riprovazione della camera elettiva; riprovazione giustificata abbastanza dal tenore ch’esso à serbato, e serba tuttora.»
«Il ministero ostinatamente à celato alla camera tutto ciò che riguarda l’interna politica del governo di V. M, facendo sembianza di crederla ostile ad ogni ragionevole ed onorata proposta; le à negato ogni ragguaglio intorno alle condizioni economiche ed amministrative del paese, à trascurato colpevolmente ogni iniziativa di leggi, di cui suprema era la necessità ne’ primordi del nuovo reggimento; né contento di ciò interamente, prorogando le camere e fino impedendo che la loro voce giungesse innanzi al trono, à renduto impossibile ogni salutare provvedimento, né à temuto, fatte silenziose le camere, di sostituir la sua. voce a quella de’ rappresentanti della nazione, usurpando la potestà legislativa con atti aggravanti sopratutto la condizione della finanza e de’ contribuenti. Infine à trascurato e trascura, con gravissimo danno del paese, di adoperarsi a spegnere le funeste cagioni de’ dissidi che àn turbato l’amorevole accordo tra il militare ed il civile, accordo che non sarebbe mai mancato, e che la camera sarà lieta di veder ristabilito tra’ figliuoli della stessa patria aventi bisogni, gloria, sventure e speranze comuni.»
«Che più? Gli stessi dritti scolpitamente assicurati alla nazione dallo statuto, non furono pel ministero oggetto di religiosa osservanza, ma di ludibrio. Vostra Maestà voleva garantita la libertà individuale, libera la manifestazione del pensiero, inviolabile il domicilio, indipendenti i giudizi, egualità innanzi alla legge: ma invece il ministero non uno solo di questi sacri dritti lasciava inviolato» a E ben poteva qui la ca m era ritrarre agli occhi di V. M. un quadro doloroso di sofferenze e di angosce indicibili; le carceri riboccanti d’imputati e di Sospetti per opinioni politiche; innumerevoli famiglie vedovate de’ loro più cari, astretti a’ dolori dell’esilio, e l’universale mestizia inacerbita dal ministero che indugia a V. M. la gloria e l e gioie del perdono.»
«Sire la camera non può sperare ornai che un ministero, tante volte indarno censurato, si ritraesse dalla sua via; né dall’altra parte essa stima convenire alla propria dignità ed agl’interessi della nazione consumare il tempo in una sterile lotta per combattere la illegalità e la ignavia de’ ministri. Contro le colpe di costoro ben sente ella di avere dritti severi ad esercitare, ma per temperanza civile antepone oggi di rivolgersi al principe. Collocata Vostra Maestà nell’alta sfera di quelle sublimi attribuzioni costituzionali, che spogliandola di ogni possibilità di fare il male, le lasciano l’onnipotenza di operare il bene, non tarderà a profferire quella regia parola, medicina suprema a’ travagli dello stato: come dal loro canto i deputati sono stati sempre, e saranno parati a dare al governo di Vostra Maestà quel pieno e costituzionale appoggio, che le frutterà non men sostanza di forma, che amore e riverenza de’ popoli» In tanta divergenza tra la camera ed il governo lo strapotente partito esaltato che in quella esisteva non tralasciava in questo mentre di viemaggiormente inveire. Voci insidiose né punto, né poco risparmiava in ogni rincontro: il popolo sempre era per mezzo ai suoi discorsi, e lo diceva sovrano: voleva tosto conto di tutto, e spesso anche di quello che non rientrava nella sfera del potere legislativo: incessantemente insisteva sulla immediata riorganizzazione della guardia nazionale e sulla libertà della stampa, per aver meglio il destro a sconvolgere nuovamente l’ordine riprodotto, e niuna occasione trascurava per rimproverare incessantemente al governo gli sforzi che faceva per ricondurre la calma da per tutto. Così covrendo con melate parole rei disegni, insidiava, anzi incitava il popolo ad agitarsi.
Mostrando adunque apertamente queste pratiche, come si cercasse di coordinare tutti gli amminicoli di distruzione, affrettavasi il ministero ad esporre al Sovrano tanta insopportabile condotta, e ad interessarlo al tempo stesso per quei salutari provvedimenti, che nella sua sapienza avesse meglio stimato adottare. Erano questi i termini della rispettosa protestazione:
«Sire Nella mancanza di ogni possibile accordo fra il ministero e la pluralità della camera elettiva, in tempi ne’ quali, per le tristissime vicende in cui gli stati confinanti sono miseramente travolti, questo reame divenuto segno da ogni parte ai più malvagi tentativi di sovversione rimane perplesso ed agitato nella incertezza de’ suoi destini, non altro spediente offrivasi a noi, suoi fedelissimi sudditi e ministri, se non quello di rivolgersi alla inevitabile alternativa, o che fosse a noi dato di ritirarci tutti, o che la suddetta camera fosse sciolta. Nella gravità di sovrastanti casi, la inefficacia de’ nostri voti, perché la Maestà Sua si appigliasse al primo de’ due proposti partiti, ci rende unanimi nel richiamare la Sua Sovrana attenzione sulla imperiosa, urgentissima, invincibile necessità di ormai ricorrere al secondo. Conceda quindi la Maestà Sua, che a meglio indicamele i prominenti motivi, noi percorriamo di un rapido sguardo gli avvenimenti a cui si riannoda l’attuale stato delle cose da quello che per lo innanzi ci percossero, fino a quelli che tuttavia ci premono e c’incalzano.»
«La Maestà Sua inaugurava un era novella in questa patria dilettissima con la costituzione, che spontaneamente concedeva il 10 febbraio dello scorso anno ai suoi popoli: ed esser già stato il primo a formolarne il dettato in Italia, è una gloria che niuno le può contendere. Se non che mentre a questo inatteso mutamento di civil comunanza le masse applaudivano a gara con leal rendimento di grazie al cielo, un pugno di audaci, avidi a far mercato delle lagrime nostre, concepirono sordamente il reo disegno di avvelenare la publica gioia colle loro immonde passioni. Le collisioni, le turbolenze, i tumulti già scoppiavano da ogni canto: e sotto le violenze che lo stringeano, il ministero che avea contrassegnata la costituzione, dopo di essersi modificato in parte, si discioglieva interamente sulla fine di marzo. Allora ogni argine fu rotto al torrente che straripava: i dritti non ebbero più limiti: la santità de doveri fu profanata: le milizie cittadine, preposte al mantenimento dell’ordine, vennero trascinate nel disordine: l’ambizione, il raggiro ed il privato interesse, prevalendo a contaminar tutto, menarono al fine al memorabile conflitto del 15 maggio: e siccome nel precedente intervallo crasi proceduto alla prima elezione de’ deputati con regole sovversive della legge fonda mentale che ci reggea, ne risultò una camera, la quale per giustificar la sua origine, si mostrò impaziente in usurpar poteri che non le competeano, anche prima di essersi costituita; ed in quel giorno fatale si trovò leggiadramente collocata dal canto de’ faziosi.»
«Or non è da obliarsi che il ministero attuale onorato della fiducia della Maestà Sua in momenti disastrosi, nei quali sarebbe stata viltà il rifiutare di obbedirla, prendea le redini dello Stato dopo la spaventevole catastrofe del 15 maggio, la quale benché compressa nelle strade di Napoli, pur prorompea in cento altri luoghi, pari a fuoco sotterraneo che cercasse violentemente un uscita; e dopo di aver commosso tutto, balzando di provincia in provincia, si dilatava con nuovo e più efferato mugghio nelle Calabrie ove minacciò irreparabile una generale conflagrazione. Vidersi allora fra cittadini e cittadini, come se ogni vincolo sociale fosse andato in pezzi, attentati all’onore, e tutto rimescolato e confuso in una congerie di orribili ed inaspettati disordini. In questo convulsivo stato di cose, il dover primo e più sacro del ministero attuale era quello di richiamare il governo a’ suoi principi, e preservar la costituzione dagli attacchi di chi avea voluto lacerarla: esso la riguardò come l’albero della vita, intorno a cui tutti, calmata la effervescenza delle passioni impure, si sarebbero un giorno riordinati e raccolti. Se questo non produsse immediatamente i suoi frutti, non fu colpa del ministero, ma fu suo merito che in mezzo alle tempeste di esterminio esso non rimanesse schiantato fin dalle sue radici, perché oppose alle percosse che il crollavano una resistenza in gran parte passiva, ma sempre ferma e perseverante. Convinto che, mercé la costituzione, la libertà si era identificata colla corona, il ministero, per serbare ad entrambe la loro integrità e la loro inviolabilità, si collocò intrepido fra la corona ed i pericoli che le sovrastavano, affinché divenuto esso solo bersaglio a tutti i colpi, quest’arca dell’alleanza si rimanesse invulnerata per la futura prosperità de’ popoli. Tutto. quello che à operato nell’intervallo, è stato in vista di quello eminente obietto, e forte della sua coscienza, il ministero sene applaude, aspettando la retribuzione di giustizia non da’ suoi contemporanei, ma dalla imparziale posterità»
« I primi nostri provvedimenti governativi portarono in fatti la duplice impronta della fermezza, e della più riconciliante moderazione. Poiché mentre dall’un canto, a tutelare la interna sicurezza dello Stato, e così preservar di rimbalzo il resto della minacciata Italia dalla funesta dissoluzione d’ogni ordine sociale, noi non fummo perplessi a richiamar subito nel reame quella parte del napolitano esercito che già preparatasi a combattere pugne gloriose in regioni esterne, mostrammo dall’altro che non dovendosi eriger trofei alle civili vittorie, ogni rincrescevo le classificazione tra vinti e vincitori, dovea sparir senza ritardi: per cui oltre a 600 individui, presi nella maggior parte con le armi alla mano, e ancor luridi e fumanti del terribile conflitto del 15 maggio, vennero il dì appresso tutti rilasciati, e questo atto di longanimità in un consimile clamoroso avvenimento, che avrebbe dovuto comporre immediatamente a stabil concordia le anime più ostinate nel mal operare, non ci riusciva malagevole quando trattandosi di perdonare, il nobil cuore della M. S. precorrea di gran lunga fino alle nostre intenzioni più occulte. Né le altre simultanee misure che adottar ci convenne a garantia della tranquillità pubblica furono suggerite da spirito men temperato ed indulgente; lasciando noi alla rigida storiai! decidere con facili confronti , se lo stato di assedio, a cagion di esempio, in cui fu dichiarata la città di Napoli, fosse stato più di nome che di fatto.»
«Fermi così nel preconcetto nostro politico sistema di rianimar la devozione per l’augusta persona della M. S. ed il rispetto dovuto alla costituzione accordataci dal suo grande animo, noi ci rivolgemmo a pacificare per gradi le agitate provincie senza insoliti rigori, senza persecuzioni cieche, senza spargimento di sangue. E siccome in talune di esse o f fria perenne incitamento alle turbolenze lo stato di anarchia deplorabile in cui la contigua città di Messina si trovava, noi non fummo irrisoluti a spinger fin la i mezzi di disperdere a comun vantaggio i perturbatori dell’ordine, e ricongiunger di nuovo la intera isola al rimanente del reame: al che bastarono pochi bravi di un esercito eminentemente intrepido e devoto, che in breve spazio affrontando con valore ogni specie di pericolo, restituirono alla desiderata calma quella derelitta contrada. Indispensabile, quanto salutare impresa, che unita sempre alla franca lealtà ed alla costante buona fede della politica del governo, ci meritò al punto la stima dell’Europa, che due grandi potenze vollero esse, ad attestato di antiche benevoli relazioni, delegar due rinomati ammiragli a portar parole di pace,,di libertà e di perdono a tutti gli altri abitanti della già insorta e desolata Sicilia.»
«Se non che le passioni sovvertitrici eran represse, ma non disarmate negl’indomabili faziosi che avean tentata la rovina di tutti: e divenute impotenti a sfogarsi perle antiche vie, si gittarono, sotto le ippocrite apparenze dell’esercizio di un dritto, a macchinar più iniqui attentati ne’ collegi elettorali che si convocavano per la novella camera, dopo che restò sciolta la precedente. Le liste degli elettori eran già compiute, perché in tanta generai commozione i più timidi si ritrassero dal farvisi comprendere. Ciò malgrado la fazione audace, cui offrivasi propizia l’opportunità di risommergere il reame ne’ tumulti, abusando della generosità del governo, il quale si astenne da qualunque atto che potesse inceppare la libertà de’ suffragi, stimò che fosse ancor troppo esteso il numero di coloro che vi si trovavano iscritti, e pose tutto in opera per allontanarne la maggior parte, col turpe mezzo delle menzogne, delle frodi, delle calunnie, delle minacce, e delle violenze di ogni specie. E che i successi rispondessero all’intento, lo provano geometricamente i fatti, poiché a Napoli di 9384 elettori iscritti, soli 1491 intervennero alla elezione; ad Aversa di 2822, ne comparvero soli 482; a Lagonegro di 3448, se ne mostrarono soli 652; a Catanzaro di 5853, soli 1148; a Nicastro di 3623, soli 932; a Foggia di 4608, soli 1300; a Bovino di 2108, soli 421; a Lecce di 3508, soli 508; a Bari di 9652, soli 2175; ad Altamura di 2301, soli 478; e così di tutti gli altri. Né mancarono dei collegi che o non si riunirono affatto, o che facendosi giudici essi delle più alte prerogative della corona,dichiararono illegalmente sciolta la precedente camera, e ne confermarono senza forma di elezione i deputati.»
«Frutto di tante inique pratiche e di una sì scandalosa minoranza di elettori fu l’attuale camera de’ deputati, la quale, con poche onorevoli eccezioni tra coloro che ne fan parte, rappresentata da personaggi che intimamente convinti non potersi la vera libertà disgiungere mai dall’ordine, si fecero dell’uno come dell’altro ardenti e leali propugnatori, spregiando i biasimi che loro ne venivano da una turba facinorosa ed insolente di spettatori, non parve riunirsi nella capitale del reame se non per mettere in piena mostra la impurità della sua origine; poiché nella verifica de’ poteri si lasciò trarre ad introdurre nel suo seno taluni individui, a’ quali mancavano i requisiti richiesti per sostenere un sì alto mandato; ed avvertita dell’errore, sdegnò fieramente di emendarlo, dando così l’esempio di un consesso, che delegato a concorrere alla formazione delle leggi, cominciava esso medesimo dal conculcarne i più aperti dettati. Ed indi si organizzava in assemblea legislativa, fingendo di obliar nettamente, che innanzi di prender seggio nei suoi recinti, primo ed indispensabile dovere di ciascun deputato era quello di prestare alla costituzione in vigore quel giuramento tenuto che rappresenta un atto, non sol di religione, ma di probità civile, e fingeva di obliarlo come obbietto di pochissima importanza, e come se Iddio e la virtù non dovessero esercitare la menoma influenza sulle sue future ispirazioni; mentre la Maestà Sua e tutta la sua regai famiglia sin da primi giorni la giuravano con lealtà di benevoli affetti a piè degli altari, e la giuravano i pubblici funzionari negli svariatissimi rami dell’amministrazione dello Stato, e la giuravano l’esercito e l’armata nelle loro più infime classi.»
«Al certo nell’indirizzo con cui rispose al discorso della corona, la camera non trascurò d’inserire per la Maestà Sua talune vaghe proteste di devozione, le quali prive di quella ingenuità espansiva, che le indicasse fatte dal profondo del cuore, vennero smentite immediatamente da’ fatti, essendosi visti alcuni fra coloro che la compongono andar senza maschere suscitando brighe, e fuori e dentro il reame, sia per mettere in brani la monarchia, sia per sovvertirla o venderla bruttamente ad altri. E per impadronirsi del potere supremo, di che aveva fatto innanzi sì tristo sperimento, rifulsero fin d’allora i lampi di quella irrequieta sua impazienza di allontanarne sotto qual siasi pretesto l’attual ministero; cui ai suoi occhi eran gravissime colpe di essere pervenirlo con la sola perseveranza de’ mezzi temperati a ricondurre la calma nel paese, a reprimere sempre rinascenti tumulti, a soffocar le perverse tendenze che àn posto due vicini Stati sull’orlo di un abisso, a serbar la costituzione intatta e ne’ soli precisi termini onde ei fu largita, a sostener financo con saldo ani mo, senza temerità e senza bassezza, la dignità e la indipendenza dello Stato in faccia allo straniero.»
«E la Maestà Sua non ignora quante volte per solo amore di pace noi l’abbiamo sollecitata umilmente a degnarsi di accogliere la nostra dimissione. Ma quando la camera tradita nella sua fremente ambizione si lascia trascorrere in maligne accuse, che uomini d’intemerata vita non si abbasseranno mai a combattere; quando con novello stranissimo indirizzo, trascendendo essa i mezzi che la costituzione le offre, osa fare alla indipendenza de’ poteri del principe apertissima ed irriverente violenza, per così dischiudersi le vie a riaccendere le collisioni onde il reame fu per lo innanzi contristato; quando ad accrescere le perturbazioni e i pericoli, osa implicitamente, ma con arroganza intimargli, che terrebbe in poter suo le chiavi del tesoro pubblico, fino a che le sue superbe insistenze non restino soddisfatte; quando alfine la Maestà Sua francamente sia risoluta di continuarci quella fiducia che noi abbiamo la coscienza di non aver demeritata, mentre ogni ulterior contatto colla camera de’ deputati è per noi divenuto impossibile, allora è di necessità imperiosa ed urgente che quest’ultima venga sciolta, e che altra ne sia convocata, richiamando a’ loro veri principi le leggi dell’elezione, affinché i turbolenti fautori dell’anarchia non riescano più oltre a falsarle co loro perversi raggiri ed improbi attentati.»
«È questo il voto che noi presentiamo unanimi a piè del suo trono, con quegl’invariabili sentimenti di rispetto, di riconoscenza e di pienissima devozione, onde abbiamo l’onore di raffermarci».
Ilpartito a scegliersi non poteva essere al certo problematico. La camera elettiva venne subitamente sciolta, né pi ù d’allora videsi un’altra volta aperto il parlamento. A tanto menarono le smodate passioni: per aver voluto gli esaltati prendere il vantaggio de passi, restò vana la loro fatica ed il desiderio de novatori.
CAPITOLO XXIV
Si accresce il disordine nell’Italia centrale, ed una nuova politica comincia a mostrar l’Inghilterra. L’Imperatore d’Austria abdica al trono a favore del nipote, che dà fondate speranze a rafforzare le scosse fondamenta di quel Stato. Le milizie napolitano si dispongono ad escire da Messina per sottomettere il resto della Sicilia ribellata, nell’alto che il Re dà un altro attestato, ma invano, della sua magnanimità a’ ribelli. Muove di nuovo Piemonte la guerra all’Austria, ed il suo esercito vi resta pienamente sconfitto.
Quantunque nella parte meridionale d’Italia, per la fermezza e la prudenza del re Ferdinando, la demagogia fosse stata colpita nella sua parte vitale, pure invelenita e proterva dibattevasi nell’Italia centrale. Alla costituente in Toscana era dapprima succeduta la fuga del gran duca, e quindi l’arrivo di Mazzini a Livorno, ove tosto la repubblica si era proclamata. In Roma era accaduto ancor di peggio, essendosi passato dalla costituente alla repubblica, perlochè il Papa protestava altamente dal suo asilo di Gaeta, e tutti principi della cristianità chiamava a difesa de’ suoi conculcati dritti. E per ultimo lord Palmerston, copertamente approvando quanto accadeva in quegli stati scomposti, solo volgeva il suo misterioso linguaggio contro la costituì italiana, considerandola come una sorgente inesauribile di complicazioni politiche, e di sventure per l’Italia, annunziando formalmente, che ne avrebbe combattuta l’attuazione a tutto potere, che non avrebbe mai riconosciuto nelle relazioni internazionali la legalità di siffatta costituente, non potendo ammettere il principio di una lega di popoli senza il concorso spontaneo de’ loro rispettivi governi, e che quando anche per ipotesi i governi italiani fossero concorsi ad una lega, questa non avrebbe dovuto avere che un carattere difensivo per respingere l’evento di una invasione straniera, e non mai divenire offensiva per cangiare colle armi alla mano la divisione territoriale dell’Italia alta. Questa era dunque la novella politica a ritroso spiegata dall’Inghilterra quando, sfuggitole di mano il protettorato della Sicilia pel rifiuto dell’ ultimatum , vedeva invece probabile contro i suoi interessi la riunione di tutti gli stati italiani.
Ma non ostante che la maggior parte di Europa si trovasse fatalmente involta in quel fitto buio politico, pure improvvisamente appariva un raggio di speranza a dissipare il nembo rendutosi cotanto, minaccioso. Negli stati austriaci l’imperatore Ferdinando, di cagionevole salute, ed avvezzo ad una vita placida e regolare, con grave difficoltà sosteneva le dure pru o ve riserbate alla sua corona. Epperò ad assicurare a se stesso quella tranquillità ch’era suo costante desiderio, e tutelare i grandi interessi del paese, per quanto le imponenti circostanze dettavano, generosamente abdicava a favore del nipote l’arciduca Francesco Giuseppe (figlio del di lui germano l’arciduca Francesco Carlo) che nella sua età di dieciannove anni appena, avevasi, per la fermezza d’indole e per le doti dell’intelletto, acquistata una grande reputazione in tutto l’impero, e specialmente nell’armata.
Mentre però tanto altrove accadeva, trovandosi ormai ri mosse tutte le difficoltà al. proseguimento della campagna di Sicilia per ispegnervi le tracce della seguita rivoluzione, avrebbe potuto opportunamente il Re spingere immantinente innanzi le di lui truppe per continuare i suoi trionfi nella sottomissione del resto di quell’isola; ma inclinando sempre il suo animo alla clemenza, e nella lusinghiera speranza di evitare lo spargimento di nuovo sangue, con una generosità rara nella storia offriva alla ribellata Sicilia tali condizioni governative, che mai la stessa, anche col favor delle armi, avrebbe potuto sperare. L’editto era così concepito:
«Siciliani – Se gli errori di pochi àn potuto per un momento far traviare qualcuno fra voi dallo avito vostro attaccamento alladinastia , che con tanto affetto presiede ai vostri destini da più di un secolo, Noi che avemmo culla fra voi, e non abbiamo mai cessato di amarvi con tenerezza di padre, vogliamo non indugiare più oltre a dirvi, che soddisfiamo ad un bisogno del Nostro cuore, adempiamo al più caro de’ doveri che impone a Noi l’augusta, la santa nostra religione, assicurandovi che dimentichiamo e riguardiamo come non avvenuti, e non mai commessi i fa tt i ed i reati politici, che tanto male vi. ànno recato dallo incominciamento dello scorso anno 1848 in poi.»
«Ritornate quindi alle private vostre bisogne, coltivate in pace i vostri ubertosi campi, restituite alle terre di C e rere, mercé il vostro assiduo lavoro, l’antica loro fertilità, il che sempre la Divina Provvidenza concede all’uomo come ricompensa di prescritto travaglio; ridonate alla vostra industria, al vostro traffico, ai vostri commerci, alla vostra navigazione mercantile la pristina attività, chiudete le orecchie alle seduzioni di coloro che cercano d’illudervi per menarvi alla sedizione, alla ribellione, e di la all’anarchia, che di quelle è la inevitabile conseguenza.»
«Dopo mature riflessioni ed accurate indagini de’ vostri bisogni, e de’ voti che possono con equità utilmente e praticamente soddisfarsi, ritenendo come non avvenuti, e nulli di dritto e di fatto tutti gli atti i quali ànno avuto luogo in Sicilia dal 12 gennaio 1848 in poi, concediamo alla stessa uno statuto , di cui è base la costituzione del 1812, salvo le modificazioni richieste dalle mutale condizioni della vigente legislazione.»
«Cotesto statuto , che ci riserbiamo di formulare ampiamente prima della fine di giugno del corrente anno, conterrà nella parte sostanziale le seguenti disposizioni.»
«1° La religione sarà unicamente e ad esclusione di qualunque altra, la cattolica, apostolica, romana.»
«2° La libertà individuale è garentita, nessuno potendo essere arrestato o processato, che nei casi preveduti dalle leggi, e nelle forme da esse prescritte.»
«3° Nessuno può essere costretto a cedere la sua proprietà, se non per causa di utilità pubblica, e previa indennità» c Una legge speciale sarà fatta dal parlamento di accordo col Re per determinare la competenza e la forma delle espropriazioni forzate per causa di utilità pubblica.»
«4° I siciliani ànno il dritto di pubblicare e fare stampare le loro opinioni, conformandosi alle disposizioni che debbono reprimere gli abusi di questa libertà.»
«Il Re riserba a se nella pienezza de’ suoi poteri di emanare siffatte disposizioni, con una legge speciale.»
«5° La Sicilia continuando a far parte integrante dell’unità del regno delle due Sicilie, sarà eretta a monarchia costituzionale, con la divisione de’ poteri nel modo che segue.»
Del potere esecutivo.
«6° Il potere esecutivo si appartiene esclusivamente al Re. La sua persona è sacra ed inviolabile.»
«7° Il Re rappresenta la nazione presso le potenze este’ re. Egli à il dritto di far la guerra o la pace, e di proporre o conchiudere qualsivoglia trattato di pace, di alleanza e di commercio con le potenze estere.»
«8° Esercita collettivamente col parlamento la potestà legislativa, sanziona e promulga le leggi, e fa i regolamenti e le ordinanze necessari per la esecuzione delle leggi, e per la sicurezza dello Stato.»
«9° Convoca, proroga e scioglie il parlamento.»
«10° Comanda e dispone di tutte le forze di mare e di terra.»
« 11 ° Sovraintende al commercio interno ed esterno della Sicilia, ed a tutte le opere ed istruzioni pubbliche.»
«12° Nomina ed elegge i funzionari pubblici, e gl’impiegati delle amministrazioni dello Stato.»
«13° Conferisce i titoli di nobiltà e le decorazioni, ed esercita il pieno dritto della grazia.»
«14° Conferisce tutti i benefici ecclesiastici di regio patronato, e fa le soli t e altre provviste e nomine ecclesiastiche.»
«15° Esercita secondo i concordati la legazìa apostolica ereditaria.»
«16° L’atto solenne per l’ordine di successione alla corona dell’augusto Re Carlo I II del dì 6 ottobre 1759, confermato dall’augusto Re Ferdinando I. coll’articolo 5° della legge degli 8 decembre 1816, gli atti sovrani del 7 di aprile 1829, del 12 di marzo 1836, e tutti gli alti relativi alla real famiglia rimangono in pieno vigore.»
«17° Allorché il Re non vorrà risedere in Sicilia, sarà rappresentato ivi da un viceré, con quelle attribuzioni, e con quei poteri che verranno da lui determinati.»
«18° Vi saranno in Sicilia de’ ministri nel numero sufficiente, fra’ quali saranno divisi i compartimenti di grazia e giustizia, dell’interno, delle finanze, de’ lavori pubblici, dell’agricoltura e commercio, degli affari ecclesiastici, della istruzione pubblica e della polizia.»
«La costituzione serbando al Re la disposizione delle forze di terra e di mare, e la direzione suprema delle relazioni estere, non saranvi per tutta la monarchia che un sol ministro di guerra e marina, ed un sol ministro di affari esteri, entrambi residenti presso del Re. Le quistioni militari o internazionali, che potessero presentarsi,sarebbero trattate per delegazione del Re, sia dal viceré, sia da uno de’ ministri.»
«19° Risederà inoltre presso il Re un ministro per gli affari di Sicilia.»
«20° I ministri comporranno il consiglio privato, al quale è in arbitrio del Re di aggiungere uno o più consiglieri di Stato.»
«21° l predetti ministri contrassegneranno, o collettivamente, o ciascuno per gli affari del proprio ministero tutti gli atti del potere esecutivo.»
«22° I ministri saranno responsabili.»
«23° 11 Re non potrà far grazia a’ ministri condannati, se non sulla esplicita domanda di una delle due camere legislative.»
«24° L’amministrazione della giustizia, e tutte le altre amministrazioni pubbliche saranno regolate con le leggi organiche in vigore, salvo al parlamento, d’accordo col Re, di portarvi quelle modificazioni che saran credute necessarie per coordinarle col presente statuto, o per migliorarle.»
«25° Fino a che queste modificazioni non saranno fatte, le leggi, i decreti, e gli atti sovrani di presente in vigore saranno pienamente osservati tanto intorno alle circoscrizioni territoriali e competenze giurisdizionali, dipendenze gerarchiche e guarentie, quanto in tutte e singole parti delle loro disposizioni.»
«26° L’ordine giudiziario sarà indipendente. I magistrati collegiati saranno inamovibili dopo tre anni di lodevole esercizio, a contare dalla data della loro elezione definitiva.»
«27° Gli agenti del pubblico ministero presso le corti ed i tribunali sono essenzialmente amovibili.»
«28° I giudici anche eletti a vita potranno essere traslocati.»
«Il tutto in conformità della legge organica del 7 giugno 1819.»
«29° Cessata ogni promiscuità d’impieghi tra Napoli e Sicilia, i ministri, i funzionari pubblici, e tutti gl’impiegati delle amministrazioni saranno siciliani, come anche tutti i benefici e dignità ecclesiastiche, i quali si avranno d’ora innanzi a provvedere, saranno conferiti a’ soli siciliani.»
«30° Lo stato discusso sarà interamente separato, eie spese comuni alle due Sicilie rimangono ripartite fra le due parti del reame nella proporzione numerica de’ loro abitanti, oppure verranno fissate a tre milioni annuali di ducati.»
«31° Inoltre gli esiti straordinari a carico della tesoreria di Napoli, cui ànno dato luogo gli avvenimenti degli anni 1848 e 1849, valutandosi molto al di sotto del l’im porto, fissatisi a cinquecento mila once. Unendosi tale somma a quella cui va creditrice la tesoreria stessa di Napoli, formeranno queste somme un debito della Sicilia, il quale venendo consolidato, mercé la emissione di una rendita iscritta, con la corrispondente dote di ammortizzazione, darebbe il capitale necessario per saldare siffatti avanzi del tesoro napolitano. Parimenti i debiti della Sicilia anteriormente al dì 12 gennaio 1848 contralti, e quelli posteriori restano a carico del tesoro della Sicilia stessa.»
«32° I siciliani concorreranno nella proporzione medesima della popolazione agl’impieghi diplomatici. Gli altri impieghi pagati sulle spese comuni saranno indistintamente conferiti ai siciliani ed ai napolitani.»
Del Parlamento
«33° Il parlamento di Sicilia sarà composto di due camere, una detta de’ pari, e l’altra de’ comuni.»
« 34° La sua durata sarà di quattro anni dal giorno della sua convocazione. Al compir de’ quattro anni cesserà di dritto» £ «35° Nel caso di scioglimento o di proroga, il parlamento sarà convocato entro un anno.»
«36° Le due camere saranno convocate nel tempo medesimo, e cominceranno e finiranno nel tempo stesso le loro sessioni.»
«37° Il parlamento eserciterà collettivamente col Re la potestà legislativa. Esso avrà il dritto d’imporre nuove tasse di ogni specie, e di alterare quelle già stabilite. Le imposizioni dirette si votano annualmente dalle camere legislative. Le imposizioni indirette possono avere la durata di più anni.»
«38° Qualsia proposta del parlamento, comprese quelle delle tasse e de’ sussidi, non avrà forza di legge, se non dopo la sanzione del Re.»
«39° La formola del placet esprimerà la sanzione: quella del veto esprimerà il rigetto.»
«40° Le proposte non saranno sottomesse alla sanzione del Re, se non dopo di essere consentite dalle due camere.»
«41° Una proposta rigettata in una delle due camere, non potrà essere riproposta che nella sessione dell’anno seguente.»
«42° Ciascuna delle due camere giudicherà inappellabilmente delle condizioni di eligibilità de’ suoi membri.»
«43° Le discussioni delle camere saranno pubbliche, tranne che si costituissero in comitato segreto.»
«44° Nessun membro delle due camere potrà essere molestato, processato, o punito per qualunque cosa sia stata detta, fatta, discussa, o deliberata nella rispettiva camera, analogamente alla costituzione, e senza violazione dello statuto, salvo alla camera medesima di prender conoscenza degli eccessi che i membri potessero in essa commettere, e di punirne gli autori con voto di censura, e nei casi più gravi col divieto d’intervenirvi.»
Della camera de’ pari.
«45° I pari saranno nominati a vita dal Re. Il loro numero sarà illimitato.»
«46° Nessun può essere eletto pari, se non avrà compiti gli anni quaranta.»
«47° La camera de’ pari in seguilo di un’ordinanza reale si costituirà in alta corte di giustizia per conoscere dei reati di alto tradimento e di attentato alla sicurezza dello statuto, di cui possono essere imputati i componenti di ambedue le camere legislative. Il Re destinerà il magistrato che dovrà funzionare da pubblico ministero.»
«48° Qualunque assembramento della camera de’ pari fuori il tempo della sessione della camera de’ comuni, è illecito e nullo di pieno dritto: tranne il caso contemplato nell’articolo precedente» Della camera de’ comuni.
«49° La camera de’ comuni si comporrà de’ deputati de’ ventiquattro distretti, de’ deputati eletti dalle tre università di Sicilia, Palermo, Messina e Catania, e da’ deputati de’ comuni secondo il numero stabilito nella costituzione del 1812.»
«50° I comuni i quali per la lor cresciuta popolazione avessero acquistato il dritto di eleggere un rappresentante, o pure di eleggerne più d’uno, e quelle popolazioni che dopo il 1812 essendo state erette in comune, ànno il numero di abitanti stabilito dalla predetta costituzione, potranno indirizzare la loro domanda alla camera de’ comuni, la quale riconoscerà ne’ modi legali la verità dell’esposto.»
«51° Concorrendo le due camere nel voto favorevole, ed ottenuta la sanzione reale, il ministro dell’interno darà gli ordini per le operazioni di risulta.»
«52°Il modo di effettuarsi le elezioni de’ rappresentanti sarà quello stesso che fu stabilito dalla costituzione del 1812, se non che essendo già aboliti e soppressi gli uffizi pubblici, per organo de’ quali si procedeva alle elezioni, il Re si riserba di designare i funzionari pubblici che ne faranno le veci.»
Degli elettori
«53° I rappresentanti di un distretto nella camera dei comuni saranno eletti da tutti coloro i quali possederanno nello stesso distretto una rendita netta vitalizia almeno di once dieciotto all’anno, sia che la stessa provvenga da diretto od utile dominio, o per qualunque censo, rendita iscritta immobilizzata, tande, o simili sorte di proprietà.»
«I rappresentanti della città di Palermo saranno eletti da tutti coloro i quali possederanno nella stessa città, o suo territorio una rendita netta vitalizia almeno di once cinquanta all’anno, sia che pro vv enga da diretto od utile dominio, o per qualunque censo, o per rendita iscritta immobilizzata, tande e simili sorte di proprietà.»
« I rappresentanti di ogni altra città e terra parlamentaria saranno eletti da tutti coloro i quali possederanno nella stessa città, o terra, e suo territorio una rendita netta vitalizia almeno di once dieciotto annuali, sia che pervenga da diretto, o utile dominio, o per qualunque censo, o rendita iscritta immobilizzata, tande e simili sorte di proprietà.»
«54° Dal possesso dell’anzidetta rendita,. e dall’obbligo di giustificarla sono solamente dispensati i professori delle tre università, di Palermo, Messina e Catania, per la elezione de’ rappresentanti delle stesse.»
Degli eligibili
«55° Potranno rappresentare un distretto quelli soltanto i quali avranno in Sicilia una rendita netta e vitalizia, che prowenga da diretto od utile dominio, da censo, da rendita iscritta immobilizzata, da tande e simili sorte di proprietà, di once 300 all’anno.»
«Potranno rappresentare la città di Palermo quelli soli i quali avranno in Sicilia una rendita come sopra di once 500 all’anno.»
«Potranno rappresentare una città, od una terra parlamentaria quelli soltanto i quali avranno in Sicilia una rendita come sopra di once 190 all’anno.»
«Se per rappresentare una delle università venissero eletti de’ cattedratici, costoro soltanto saranno esenti dall’obbligo di giustificare la rendita per tutti gli altri prescritta.»
«56° I funzionari pubblici non potranno essere eletti rappresentanti nei distretti e nei comuni compresi nell’ambito della loro giurisdizione.»
«Tali concessioni s’intendono come nominai avvenute, né promesse, né fatte, qualora la Sicilia non rientri immediatamente sotto l’autorità del legittimo sovrano, poiché se dovesse il reale esercito militarmente agire per ricuperare quella parte de’ reali domini, la stessa si esporrebbe a tutti i danni della guerra, ed a perdere i vantaggi che le assicurano le presenti concessioni.»
Gaeta 28 febbraio 1849.
«FERDINANDO»
Neppure a quest’altra paterna chiamata i ribelli di Sicilia si scossero, sia che molto fondassero sulle proprie forze e sull’appoggio straniero, sia che assai sperassero da una seconda mossa cui teneasi preparato l’esercito piemontese contro l’armata austriaca in Lombardia, che inebriava a tal segno alcune fantasie, da farle credere con certezza che l’Italia tutta sarebbe tosto addivenuta libera ed indipendente.
Erasi di fatti a Torino l’esaltazione contro l’Austria di tanto inoltrala, che non potendo più il governo contenere il partito della guerra, annunciava il giorno 10 marzo alla camera de deputati, che le ostilità si sarebbero immancabilmente ripigliale tra poco. Anzi per dare a questa nuova sfida iattanza e formalità, recavasi il giorno 11 presso il quartier generale austriaco in Milano un uffiziale superiore del genio piemontese, ed in nome del Re Carlo Alberto formalmente denunciava la cessazione dell’armistizio conchiuso in agosto 1848 tra le due potenze belligeranti. E perché poi le trame ordite si avvicinassero meglio al loro compimento, univasi alla dichiarazione di guerra un memorandum del governo piemontese, col quale addebitandosi alle autorità austriache mille svariati torti, per la occupazione specialmente dei ducati di Parma e di Modena, e pel blocco di Venezia, conchiudevasi, essere divenuto indispensabile il ricorrere novellamente alle armi. Ma se sconveniva all’Austria, come il provocatore diceva, la occupazione di quei ducati, effettui t a nel solo fine di ricondurvi l’ordine e la tranquillità, e per riporre su’ troni rispettivi i due sovrani che la ribellione ne li aveva scacciati, non tornava certamente molto ad onore del governo piemontese l’aversi voluto per lo innanzi, profittando della rivolta, appropriare i due stati, della cui indipendenza ora mostravasi cotanto geloso. Ed in quanto poi al blocco di Venezia, se l’Austria cercava usare di un legittimo dritto di guerra per sottomettere una sua provincia ribellata, con ciò non pregiudicava certamente al governo sardo, e tanto meno attentava ad alcun suo dominio. Rincrebbero acerbamente al generalissimo austriaco i rimproveri del governo sardo, epperò stimando indispensabile a dover mostrare solennemente sino a qual punto avesse il governo austriaco tollerate le oltranze del Piemonte, e quale in sostanza fosse la vera sorgente della novella dichiarazione di guerra, pubblicava una manifestazione espressa cosi:
«Nel momento in cui debbo un’altra volta trarre la spada per difendere i dritti dell’imperatore mio signore, e per mantenere l’integrità della monarchia, vado debitore alla mia valorosa armata ed alla santità della causa che difendo di gittare uno sguardo sul procedere del mio avversario, non che sul mio.»
«Il possesso dell’Italia fu l’esca, a cui fu preso il Re sardo. Mentre le sue note diplomatiche contenevano le più amichevoli ipocrite espressioni di buon vicino, le colonne della sua armata varcavano il Ticino, e marciavano in Lombardia.»
«Dimentico de’ vincoli di parentela che legano la sua casa alla casa imperiale, obbliando quanto spesso la casa di Savoia dovette all’Austria la conservazione della sua corona, calpestando la santità di tutt’i trattati, ed ogni legge sprezzando che i popoli, da che uscirono dalla barbarie sempre rispettarono, irruppe col suo esercito sul nostro territorio, pari al ladro che coglie la occasione dell’assenza del padrone per compiere con sicurezza il suo furto.»
«È nota l’origine di questa guerra. Protetta da vari governi italiani, sera formata un’associazione, il cui scopo palese era l’unità d’Italia, ed il mezzo onde conseguir la caduta della dominazione austriaca; imperocché senza la cacciata dell’Austria dalle pianure della Lombardia divenisse impossibile l’avveramento di quel progetto. Chi conosce l’Italia, la sua storia, l’origine dei suoi stati e delle sue costituzioni, i suoi popoli ed il loro carattere, potrà convincersi che i capi stessi di quel movimento, di cui que’ governi erano trastullo, non potevano credere al conseguimento dell’unità italiana, ma che loro primo pensiero era la rovina di ogni governo legale, e dell’austriaco in particolare, per far forse nascere più tardi dal sangue e dalle rovine una repubblica rossa. A Carlo Alberto fu assegnata la prima parte in questa farsa politica; facevasi assegnamento sulla sua armata, sulle sue velleità guerresche, non che su’ mezzi che potev’accordare al meditato movimento.»
«Il concentramento delle mie forze, voluto dalla sollevazione generalmente scoppiata, fu da Carlo Alberto riguardato come una fuga, come un abbandono della Lombardia. Fu grande errore. Io disponeva ancora di mezzi bastanti da far pentir Milano della sua ribellione; ma non ne feci uso; io sapeva che lo scioglimento della quistione non consisteva nella distruzione di una città che io volevo conservare al mio imperatore e signore.»
«Carlo Alberto attraversò come in trionfo la Lombardia senza incontrare alcuna resistenza, e tenevasi già per padrone di quella, perché non conosceva la differenza che àvvi tra l’occupare ed il mantenere un paese.»
«Al Mincio soltanto incontrò egli l’armata imperiale, e qui ebbe anche fine la sua corsa trionfale. Battuto, ripassò la Lombardia fuggendo più velocemente di quando l’attraversava senz’aver d’avanti a se alcun nemico.»
«Ancora una volta tentò egli, dinanzi a Milano, di resistere alla vittoriosa mia armata; stretto nella città, era in mio potere di costringerlo a render le armi. La mia armata era padrona delle sue comunicazioni; e due giorni avrebbero bastato a rendergli impossibile la fuga da quella città.»
«Gli avanzi dell’armata nemica erano in disorganizzazione; io poteva star sicuro di non incontrare sulla mia marcia alcun imponente ostacolo, e tuttavia accordai al mio avversario un armistizio. Lasciai che tutti coloro i quali s’erano compromessi, che volevano togliersi al nostro dominio, s’allontanassero; e Milano non faceva certamente conto di essere da me trattato qual fu, con tanta indulgenza. Ma usando tal moderazione, credetti operare collo spirito del governo del mio imperatore e sovrano.»
«Io sapeva che l’Austria voleva sostenere il suo buon dritto, respingere un attacco sleale senza esempio, ma non volea far conquiste, né dar motivo ad una guerra generale in Europa. E perciò ordinai che le vittoriose mie truppe s’arrestassero alle sponde del Ticino.»
«Non sì tosto Carlo Alberto si riebbe dal primo spavento delle sue sconfitte, ed in certo modo ebbe nuovamente raccolte ed ordinate le sue truppe, si tornò da capo coll’antico giuoco degl’intrighi.»
«Sotto i più futili ed indegni pretesti non fu eseguita la evacuazione di Venezia, e non si diè compimento all’articolo quarto dell’armistizio. Mi vidi obbligato e costretto ad usar di rappresaglia, a trattenere cioè il parco di artiglierie di assedio che trovavasi in Peschiera, fino a che Venezia fosse sgombrata dalle truppe piemontesi, e la flotta avesse abbandonato il mare adriatico. Alla perfine la flotta lasciò bensì le acque di Venezia, non però per ritornare giusta l’articolo quarto dell’armistizio negli stati sardi, ma per recarsi ad Ancona, donde proseguì ad appoggiare la sollevata Venezia.»
«Carlo Alberto consideravasi ancor sempre siccome legittimo padrone della Lombardia; di fuggiaschi lombardi formò egli una consulta governativa, ch’emanò decreti, quasi foss’ella il governo legittimo del paese. I più sozzi e bugiardi bullettini erano stampati al quartier generale del re, e con ogni mezzo diffusi nella Lombardia a fine di mantenere nel popolo l’acciecamento e l’agitazione.»
«Uomini scellerati, agenti di provincie sollevate dell’impero vennero trattati dal re e dalle sue camere quali inviati di potenza amica. Costoro propagarono i più menzogneri ed incendiari eccitamenti alla diserzione fra le mie truppe; disertori ed arruolatori illeciti rappresentavano quindi una parte importante al quartier generale del re.»
«Se avessi presentito che la dignità reale dovea in Carlo Alberto cadere in tanto avvilimento, non gli avrei mai risparmiato l’onta di farlo prigioniero in Milano; per rispetto ad un principio che in faccia alle tendenze antimonarchiche del tempo io credeva di proteggere anche nel mio nemico, non avrei dimenticato che fra la dignità e la persona esiste ancora una gran distanza.»
«Gli avvenimenti politici furono cagione che l’armistizio si traesse più in lungo di quello che si prevedeva al momento della sua conclusione. Questo tempo fu dal Piemonte utilizzato a fare incessanti apparecchi di guerra. Fu un inganno, una frase, e nulla più, allorché il re domandava un armistizio, protestando intenzioni di pace.»
«Egli non avea per anco obbliato la perdita della corona ferrea, che già credea di tenere stretta in pugno; non imparato a sostenere il pensiero di vedersi così rapidamente precipitato dal grado di gran capitano.»
«Gli uomini moderati, di provati sentimenti patri ed affezionati alla dinastia furono allontanati dal gabinetto; al loro posto successero i più esaltati repubblicani fantastici, di nessuna abilità pratica, e milanesi intriganti i quali spinsero ii re, meritevole di compassione, a’ passi più estremi e rovinosi, talché ora, trascinato dall’ambizione e dall’accecamento, arrischia la prosperità delle sue provincie ereditarie, l’esistenza della sua propria dinastia.»
«La casa di Savoia, con una politica tutt’altro che onesta, à spesso colto il momento di gravi lotte di cui l’Austria era occupata, come avvenne nella guerra di successione austriaca, per trarre a se frazioni della Lombardia. Ma al possesso di tutto il regno fu primo Carlo Alberto che osò pretendere. E su quali dritti appoggiò egli le sue pretensioni? Su nessuno. L’Austria possiede la Lombardia in forza di quegli stessi trattati, a cui fa casa di Savoia va debitrice del titolo e del possesso dell’isola di Sardegna. Forse sul dritto di conquista? Carlo Alberto non à mai conquistata fa Lombardia; egli à colto un istante che il paese era sguernito di truppe, per irrompere slealmente in esso, ma ne fu vergognosamente scacciato. Forse adunque sul dritto della libera elezione del popolo, della così detta fusione? Codesta fusione altro non è che una ribellione, un atto estorto illegalmente e violentemente ad un partito, un atto di cui tre quarti della popolazione anche adesso non ànno alcuna cognizione, alcuna idea. Carlo Alberto non à mai goduto le s im patie della Lombardia, né al presente le gode. Lo confessano gli stessi suoi generali. Si faceva assegnamento sulla sua armata, sul suo aiuto, e si lusingava perciò fa sua vanità, la sua ambizione, ed allorché l’armata fu battuta, le simpatie degenerarono in odio e nelle più indegne villanie. Chi vuol conoscere l’amor de’ lombardi per Cario Alberto visiti il palazzo Greppi in Milano, e troverà le tracce di quell’amore nella soffitta dov’era Carlo Alberto, traforata dalle palle; legga fa vergognosa fuga di notte buia dalla capitale de’ suoi fedeli alleati lombardi, e domandi poscia, se un re tanto disprezzato possa essere un re per elezione del popolo.»
«Giammai re fu trattato sì indegnamente qual fu Carlo Alberto da’ milanesi, e come può mai aver esistito, o può per l’avvenire esistere amore ed attaccamento fra lui ed i lombardi? Ambe le parti s’ingannano: uno spera di sopraffar l’altro, e quando sia vinto il temuto austriaco,facilmente sbrigarsi dell’influenza l’uno dell’altro.»
«Carlo Alberto lavora alla rovina del suo trono e della sua dinastia, quasi fosse il principale agente di Mazzini; egli un giorno il più assoluto de’ monarchi che mai fosse, crede forse con una politica da trivio rafforzare il suo trono? Onestà e giustizia sono virtù di cui, men che ogni altro, non può far senza un monarca: la storia non o ff re esempio che colla slealtà e lo spergiuro si consolidassero i troni, ed anche Carlo Alberto non assicurerà il suo, dopo averlo somminato colla brama di conquista, e colla sua smisurata ambizione.»
«Fidando nella giustizia della nostra causa, nel valore della mia armata, vado incontro al nemico; se la moderazione nella vittoria non potè indurlo alla pace, decida un’altra volta la spada: il possesso di Torino renderà forse facili le pratiche di pace» A questa risentita dichiarazione tosto successero i fatti. Mossero gli austriaci allo incontro de’ piemontesi, e con grandissimo ardore corsero ad attaccarli. Con uguale virtù i piemontesi si difesero in sulle prime; ma o caso, o necessità, vacillate alcune loro schiere poco appresso, ebbe tutto l’esercito a toccare una compiuta disfatta a Novara. Si accorse Carlo Alberto, ma troppo tardi, de’ suoi errori, e vedendo svanite in un baleno le lusinghiere speranze della sua gloria, colpito altamente nella immaginazione , abbandonava, disperato, scettro e corona al suo primogenito figlio, duca di Savoia, per sottrarsi in lontane contrade dall’abbonito ed ingannevole teatro di una seducente ambizione. Così spezzavasi d’un tratto quella spada, a cui tempo innanzi sembrava che tanti destini affidar si dovessero, e cosi pure mancato il mezzo al partito esaltato di riscuotersi novellamente, doveva ormai ritenersi di essersi approssimato il tempo in cui sarebbe rimasta all’intutto schiacciata in Italia l’idra della rivolta.
CAPITOLO XXV
Muovono da Messina le milizie del generale Filangieri per sottomettere il resto della Sicilia. Scontri ed azioni di poco rilievo. Presa di Taormina. Nuovo scontro a S. Giovanni la Punta. ostinata resistenza de’ ribelli, e vittoria de’ regi compiuta colla presa di Catania. Tremano le città vicine, né tardano affatto a sottomettersi. Proseguono le truppe regie verso Palermo, ed a mezza via una deputazione di quella capitale dell’isola si presenta al generalissimo per far atto di sommissione. Nondimeno gli esaltati cercano tuttavia resistere, e da nuovi disordini è agitata Palermo. Vi si approssimano intanto le milizie napolitano, le quali dopo di aver fugati i ribelli presso Misilmeri, e distrutte le terre del Mezzagno e di Abate, entrano pacificamente in Palermo, ove il generalissimo sollecitamente provvede a quanto bisogna per la tranquillità e la prosperità di tutta la Sicilia.
Svanita la mediazione anglo francese e le speranze di ravvedimento cui accennavano gli ultimi tratti della sovrana magnanimità, determinavasi finalmente il Re ad affidare allo stesso generale in capo Carlo Filangieri in Messina la continuazione della campagna per sottomettere il resto della Sicilia, ovvero per vincere e disperdere quella fazione, che insaziabile e crudele, manteneva tuttavia sotto la più spaventevole oppressione i popoli ingannati.
Sapeva il generale Filangieri che i siciliani si erano potentemente preparati a resistere, che dalla Francia e dall’Inghilterra la Sicilia si era provveduta a ribocco di armi e di munizioni, che molti stranieri avean preso servizio fra le milizie dell’isola, che un generale polacco (Mierowlaski) avea ottenuto il comando delle forze siciliane riunite in Catania, e che questa città non solo era stata diligentemente barricata in molti punti, ma che altresì trovavasi tutelata da un campo trincierato in tutta regola costruito. Epperò il condottiero supremo ponendo ogni studio a disporre le sue schiere, ed a fornire il naviglio messo a’ suoi cenni di quanto a quella spedizione abbisognava, lo spirito e l’attitudine del nemico spiava, per regolare le sue mosse al conseguimento di novelli trionfi. Nulladimeno frenando il nobile impulso, non trascurava di sperimentare per l’ ultima volta i mezzi conciliativi ad evitare lo spargimento di nuovo sangue. Rammentava alla Sicilia i benefizi della pace, la prosperità goduta per lo passato sotto un governo saggio e paterno, e le sovrane affettuose dichiarazioni. Venire, diceva, a liberarla dall’anarchia e da un truculento dominio di pochi arditi faziosi; inviolate rimanere le persone tranquille, intatte le proprietà; trattarsi di utili ordinamenti, tutto presagire, tutto promettere un felice avvenire; badassesi a non perdere il bene universale, badassesi che ove regna la licenza in luogo della legge, ivi non essere più sicure né le proprietà, né le vite; considerasse ognuno quanto fosse malvagio consiglio, nei tempi di concordia, sparger semi di nuove perturbazioni; avere più compassione che sdegno pe’ traviati; ascolterebbe ogni onesta querela; farebbe ragione ad ogni discreta domanda, ma non sarebbe mai per tollerare il disprezzo della legge, né che fossero offesi la dignità della corona, ed i dritti inviolabili del Re.
Ma poiché continuava tuttavia l’ostinazione de’ ribelli nella sua maggiore operosità, ed invano avrebbesi sperato reazione dagli oppressi, privi di mezzi a combatterli, il duce supremo traeva infine la sua spada per costringere cogli argomenti della forza tutti coloro che insino a quel tempo eransi costantemente sordi alla voce della ragione e del l’ indulgenza addimostrati. Intanto egli con. solerte previdenza muniva Milazzo, affidata ad un abile comandante; assegnava a Messina una competente guarnigione, a’ cenni dell’intrepido generale Giuseppe Diversi; indicava a comandanti della Cittadella e de’ forti Gonzaga e Castell uccio , ben provveduti ed armati, i modi da contenere e castigar la città qualora per gli eventi della guerra di bel nuovo sconsigliata insorgesse; sottraeva dal seno della stessa un buon migliaio d’infermi soldati distinti per onorevoli ferite, facendo con sollecitudine tramutare di la a Seggio quel militare ospedale; ed unendo poi al corpo de’ carabinieri quello de’ volontari siciliani, dava al comandante del primo istruzioni per tenere a bada con queste forze emico, laddove appresso alla dipartita delle truppe da Messina questi uscito fosse da Patti e Castroreale avido di taglieggiare le contrade che di già al legittimo potere del Re trovavansi restituite.
Adempitosi a tali prescrizioni, il generale in capo seguilo da distinti uffiziali del suo stato maggiore passava a rassegna in bella mostra l’intiero corpo di esercito in Messina, disposto in linea col fronte al mare tra l’edifizio di Portofranco e la fontana del Paradiso.
L’accuratezza e la disinvoltura onde quelle truppe vestivano la grande divisa, l’entusiasmo che in esse destava l’aspetto di colui che sapeva condurle alla vittoria, ed il contegno imponente che dimostravano, erano tali circostanze da muover l’animo a considerarle ben degne del celebrato maestro di guerra cui ubbidivano. E poiché mar ci ando esse in ordine di colonne per restituirsi a propri alloggiamenti, a drappelli che sfilavano venendo concesso per allora di poter aggiungere al saluto che facevano colle armi anche quello della voce, udivasi successivamente dagli stessi ripetere il grido guerriero di viva il Re, il quale pronunziato con forza e spontaneità ravvivava in tutti fra le ombre degli estinti commilitoni la fede del giuramento, e disponevali ad affrontar la sorte de’ bravi per vincere, o morire da gloriosi.
Tali furono gli auspici che precedettero il 31 marzo destinato al ricominciamento delle ostilità, e nel quale muovevano ripartite in due divisioni le truppe da Messina u na brigata della seconda divisione, agli ordini del brigadiere Busacca, imbarcata su diversi piroscafi, volgeva a settentrione dell’isola e minacciava Cefalù, per distrarre l’attenzione, del nemico; tutto il resto del corpo di spedizione marciava a scaloni per la parte opposta, avvicinandosi a Catania, fiancheggiato sempre da’ legni della squadra, che seguivano lungo la costa lo stesso movimento, per concorrere in ogni maniera allo scopo designato.
Nella sera di questo dì l’antiguardo giungendo a Scaletta fugava i pochi avversi che vi stavano. Nel giorno appresso, in seguito ad una leggiera avvisaglia succeduta presso la fiumara Savoca, le truppe serenavano sulla spiaggia; ed al nuovo sole, senz’altra molestia, passavano Santalessio, posizione militare ben condizionata per naturali difese, posta sul taglio di scabrosa rupe, d’onde i difensori che la tutelavano, spaventati dall’effetto di una bomba lanciatavi nello stesso giorno dalla corvetta a vapore lo Stromboli, della regia squadra, erano fuggiti.
Al 34° miglio da Messina la consolare che mena a Catania comincia ad elevarsi a svolte praticate a mezza costa nel monte, mentre al culmine della sua erta guadagna il piede di Taormina, per discendere nell’opposto versante. Taormina allora guardata da una forza di circa 4000 armali, composta di squadre e guardie nazionali, scorgeva dall’alto delle sue balze e dirupi l’esercito regio, che per l’ora inoltrata del giorno soffermavasi, onde serenare sulla spiaggia di Letoianni. Superba di quella tutela, tranquilla perla inaccessibilità della sua posizione, attendeva nella coscienza della propria forza l’esito di diversi attacchi alla spicciolata che su’ sottostanti contraforti eransi impegnati fra i regi e le forze mobili de ribelli. Un battaglione del 6°di linea, ed il t° e 5° battaglione cacciatori, destinati a garentire la destra del campo, respingevano frattanto col fuoco i nemici, obbligandoli a risalire sulla sommità delle alture; quindi tra il cader del giorno, la minuta pioggia e la nebbia scorgevasi appena il progredimento de’ regi per gl’incendi cui venivano al solito dannate le casine conquistate. Né potendosi tener d’occhio le diverse frazioni di quelle milizie, che guadagnando sempre terreno, spiageansi arditamente su per gl’impraticabili versanti di quelle rocce, il duce supremo, a prevenire i sinistri che col sopraggiungere della notte avessero potuto succedere, dava dalla spiaggia di Letoianni il segnale di riunione, e con successivi messi mandava ordini agl’indicati battaglioni di sostare dall’attacco, ed ivi rimanere in posizione. Le trombe ripetevano sulle alture un tal comando, e già quei bravi stanchi e trafelati riedevano, allorché densi globi di fumo improvvisamente annunziavano coll’incendio la presa di Taormina.
Non immaginavano punto i difensori di Taormina, che le masse mobili ribelli, nei siti dominanti che occupavano, e naturalmente difese dalle immense difficoltà che presentava ai regi l’asprezza di quei monti, avessero potuto retrocedere, e molto meno che confuse e disordinate si fossero ridotte verso Mola, terra d’assai soprastante a Taormina. Nondimeno tanto accadeva, poiché le milizie regie incalzando per quelle balze incessantemente i ribelli, mostravano di volersi porre tra Mola e Taormina, per troncare cosi ogni comunicazione tra queste due città. La qual cosa spaventava a tal segno i numerosi armati di Taormina, che con una precipitanza non mai vista a quel modo, cercavano fuggendo del pari anticipata salvezza sulle al t ure di Mola. Non ostante questo sinistro pe’ ribelli, forse il segnale di riunione dato da’ regi, ed il silenzio che doveva succedere al fuoco presso a cessare per le tenebre che cadevano, avrebbero calmata l’agitazione de’ fuggenti e de’ fuggiti, per farsi di nuovo a riannodare tra loro, e spingersi uniti al comune impegno; ma ben altrimenti doveva andar la cosa. Nella fluttuazione di tanti opposti consigli, e nello sbalordimento che eccessivamente agitava quelle masse armate, una mano di soli venticinque cacciatori, guidati dall’animoso alfiere Be ll ucci, non udito il comando trasmesso dalle trombe, avventuravasi sempre più verso lo scopo principale, ed inerpicatasi su per le impraticabili rocce del versante sottoposto a Taormina, audace e minaccevole prossima appariva; in guisa che creduta dai ribelli rimastivi antiguardo di numerosa soldatesca, spaurivali siffattamente, che appena tratte poche archibusate, abbandonavano con precipitanza armi e munizioni, e del pari a Mola fuggendo ritraevansi. Così entrava in Taormina quel pugno di cacciatori, a’ quali sollecitamente riunivansi nuove forze, aprendosi diretta comunicazione col campo.
Una batteria di nove pezzi, magazzini ben provveduti di polvere e di munizioni da guerra, di vettovaglie e di vestimenta, venivano in potere de’ reg i , e durante quella notte le profonde tagliate inutilmente preparate dal nemico sulla consolare, ben tosto, mercé l’opera di una compagnia di pionieri, sparivano.
Laonde il dì seguente senz’altra apprensione l’esercito passava Taormina, ed a’ Giardini univasi alle milizie del generale Busacca, il quale dopo aver accennato a Cefalù uno sbarco di milizie, erasi secondo le istruzioni ricevute dal generalissimo colà recato, per assalire contemporaneamente Taormina da quel lato, qualora procedendo da Messina le reali truppe avessero dovuto colla forza impadronirsene.
Da’ Giardini seguendo sempre la consolare insino ad Aci Buonaccorso il cammino de’ regi veniva festeggiato dalle popolazioni ansiose di ritornare sotto la legittima potestà, perché stanche dalle passate sventure. Anzi per dare maggior forza alla sincerità di quelle dimostrazioni, fra le acclamazioni di viva il Re Ferdinando II; viva il glorioso generale Filangieri, il nostro liberatore; viva la truppa napolitano , confusi in una sola massa tutti gli ordini de’ cittadini, presentanti rami di ulivo, e stringendosi attorno al vincitore, versavano il pianto della riconoscenza per l’augusto regnante, e nelle chiese principali dove il generalissimo recavasi ad orare e porgere umili ringraziamenti all’Eterno, le più affettuose espressioni per tanta grazia concessa uscivano dal labbro loro, protestando altamente contro la tirannia sofferta della ribellione. Diveniva poi oltre ogni credere commovente lo spettacolo al vedere quelle genti a gara offrire a’ vittoriosi soldati quanto mai sapevano immaginare che potesse ristorarli dalle durate fatiche, e come se tali sollecitudini e si cordiali acc o glienze non avessero abbastanza misuralo l’eccessivo contento del popolo, vedevansi ed uomini e donne, spesso trasportati dalla gioia, abbracciarsi e baciarsi l’abbronzi t o soldato, il quale mentre per quegli atti sollevava l’animo suo alla stima di se medesimo, commosso, dava anch’egli una lagrima per tributo di tenerezza al pianto di comune letizia.
Così lo sgombramento de ribelli dalle città attraversate da’ regi permetteva libero sfogo al sentimento universale, ed offriva sempreppiù argomento a persuadere, che se per lo addietro lo spirito pubblico era stato ingannevolmente distolto dalla dipendenza del suo buon Re, le angosce sofferte nel tormento delle esigenze rivoltuose, avevano dovuto rimetterlo sotto l’impero della ragione.
Concentratesi intanto le orde de’ ribelli ne’ dintorni di Catania, preparavano resistenze di ogni genere per impedire a’ regi il conquisto di quella città, né trascuravano di spiare l’intenzione del generalissimo, il quale arrivando in Aci Reale sceglier dovea nello avvanzarsi o la strada della marina, o l’altra delle montagne, che passa per Aci S. Antonio, Aci Buonaccorso, S. Giovanni la Punta, e Battia t i. Ma l’ingegno felice di Filangieri lungi dal trovarsi imbarazzato in quella scelta, tirava partito dalla circostanza, ingannando maestrevolmente l’attenzione nemica. Quindi a bella posta soffermavasi col suo corpo di esercito in Aci Reale, e quantunque né le truppe fossero stanche, né il sole avesse ancora raggiunto il meriggio, nondimeno ordinava consumarsi in lungo riposo il resto di quel giorno e tutta la notte che seguiva, accennando però al nemico prossimo il movimento per la strada della marina, sulla quale faceva innoltrare ed accampare le sue milizie. Cosi mentre a due miglia da Aci Reale serenavano le regie truppe, ne correvano ripetuti avvisi a’ ribelli, i quali si affrettavano a compiere difese , ed a far oste sulla strada medesima innanzi all’entrata di Catania, nella speranza che, e per la disposizione topografica, e per l’impraticabile qualità vulcanica della contrada, i napolitani pervenendovi, ristretti nell’angusto spazio della consolare, e ridotti alla impossibilità di spiegarsi, sarebbero stati senza meno distrutti.
Con tali lusinghe sorgeva per l’oste siciliana l’alba novella del 6 aprile; ma le milizie reali, lungi dall’avvanzarsi, secondo avevano accennato il giorno innanzi, per la via della marina, volgevano inopinatamente per quella delle montagne, e perciò rimanevano inutili allo scopo tutti gli apparecchi fatti dal nemico sul lato che mostravasi minacciato, ed incompiuti gli altri che allora, pel cambiamento avvenuto, divenivano assolutamente importanti. Laonde stretti dal tempo, e delusi, correvano essi a far testa sulla stanca; e spingendosi innanzi Porta di Aci sino a S. Gregorio, Battisti e S. Agata, animati da cieca speranza, il primo cozzo attendevano.
Le forze de ribelli che in allora trovavansi radunate in Catania sommavano a circa ventiduemila combattenti, cioè quindicimila tra guardie nazionali ed individui di squadre, seimila di truppa di ordinanza e da mille dugento della legione straniera, oltre molte bocche a fuoco in posizione e da campo. Le situazioni occupate da essi tanto prossime a S. Giovanni la Punta ne avevano talmente spaventali gli abitanti, che all’arrivo delle prime colonne de’ regi erano quasi tutti fuggiti; e sia per tale indizio, sia pe’ segreti avvisi che rivelavano le disposizioni e le apparecchiate difese del nemico per profonde tagliate, mine e batterie eseguite lungo quella via, facevasi quivi il generalissimo a disporre compatte le sue forze, e spingere innanzi per allora soltanto tre battaglioni in ordine aperto.
A distanza di doppio tiro di moschetto impegnavasi già il fuoco d’ambe le parti, se non che colla solita tattica i ribelli esercitavano le offese acquattati e nascosti dietro ad ogni cosa che loro offriva riparo, e nelle casine specialmente, delle quali il fitto trarre de’ raccoltivi numerosi difensori diveniva oltre ogni credere micidiale. Cosi a grado a grado l’esercito avvanzava, ed ora rafforzando la sua fronte, or girando quelle formidabili posizioni, riusciva a respingere gli avversi, che ripiegando su’ propri sostegni, e tutelandosi per novelli ricoveri, nuove resistenze opponevano.
Ma mentre più oltre combattevasi, la dove più fiera erasi manifestata la pugna, a sfogo di giusto sdegno fumavano preda delle fiamme campestri edilizi caduti dopo lungo contrasto in potere de’ regi; giacenti tra i bruni materiali disordinati del vulcano, vedevansi estinti e morenti; risarcivansi profonde tagliate sulla consolare; raccogiievansi abbandonate e mute artiglierie, ricche di attrezzi e munizioni; e spesso infine, praticate da penoso lavoro nel masso di durissime lave, un tempo ardenti dell’Etna, incontravansi non compiute ma costose mine, segni di sollecitudine e di operosità perdute per difetto d’animo de’ ribellati. Epperò seguitando essi àd arretrarsi, raccoglievansi sempreppiù strettamente su Catania, dove batterie, barricate, armamenti, ostacoli, e difese d’ogni maniera loro davano conforto a sperare certa più che probabile una compiuta vittoria.
Ridottisi per tal modo sulla via Etnea i ribelli, quivi, tra pe’ pronti e copiosi soccorsi che ricevevano, tra per la serie sempre crescente de’ fabbricati laterali gremiti di difensori, e tra per le barricate che a brevi distanze si succedevano, e dalle quali più viva resistenza opponevasi, la pugna addiveniva oltremodo sanguinosa. Simili ad altrettanti espugnati castelli magnifici palagi il furor militare dannava alle fiamme; e mentre fra le rovine degl’incendi, il fitto trarre delle artiglierie e la strage che ne derivava, le inasprite milizie napolitane, al grido di viva il Re, da un lato superavano barricate, toglievano alla corsa pezzi di posizione, e più innanzi progredivano nell’interno della città, dall’altro assalendo con incredibile ardore gli estremi edifici di essa, obbligavano gli scoraggiati nemici a cercar salvezza colla fuga.
Nelle sue tante varietà che il conflitto offriva, quando la maggior confusione mesceasi alla rapidità de’ movimen t i degli assalitori e degli assaliti, la serenità del generalissimo era il più sicuro indizio di un prossimo trionfo. Osservava la successione degli eventi, valutava le sofferenze e le perdite toccate a’ diversi corpi impegnati nel conflitto, calcolava sempre il tempo necessario a soccorrerli, e quando l’istante supremo della lotta approssimavasi, spingea, presago del successo, quei battaglioni tenuti in riserva per assicurarsi il favore della vittoria.
Irritati i vincitori dalla resistenza, dalle ferite proprie e dalla morte di presso a dugentocinquanta de’ loro migliori compagni, fecero quello ch’è solito a vedersi nelle guerre civili e nelle piazze prese d’assalto; e se non fosse sopraggiunta la notte al conflitto durato dieci ore, e per la spossatezza delle forze non si avesse avuto d’uopo di riposo, forse la incominciata distruzione della città, e la strage di coloro che non se n’erano fuggiti, al colmo sarebbero giunte.
Durante quella notte di terrore, la fuga de’ difensori de’ quattro forti situati sulla costa, che esercitato aveano vigorosa difesa contro il bombardamento della regia squadra, compiva la caduta della città ribellata; per lo che il duce supremo affrettavasi di rapportare per la via telegrafica al Re a’ primi albori del giorno appresso, essere stata Catania dalle reali truppe a viva forza sottomessa.
Venivano in potere de’ regi, per la conseguita vittoria, cinquanta cannoni in buono stato, e numerose munizioni abbandonate da’ ribelli, i quali per non cadere sotto il ferro del vincitore, si erano fra le tenebre velocemente ritratti alla parte opposta della città, d’onde, pria che il sole apparisse novellamente, con più precipitanza fuggivano alla volta di Palermo.
Restituita per tal modo la popolosa Catania alla sua legittima dominazione, tosto il generalissimo, a tutela del l’ ordine, prescriveva: 1° che chiunque fosse sorpreso nella flagranza o quasi flagranza di furto, verrebbe tradotto innanzi un consiglio di guerra, giudicato con forma subitanea, e condannato a’ sensi delle leggi eccezionali come per gli scorridoi di campagna: 2° e che tutti gli abitanti della città e de’ luoghi circonvicini dovessero, nel termine improrogabile di tre giorni, consegnare le armi di qualunque specie e le munizioni da guerra, venendo i contravventori giudicati da un consiglio di guerra subitaneo, e quali ribelli presi colle armi alla mano condannati. Al tempo stesso invitava tutti gli onesti e pacifici cittadini, che a causa della succeduta fazione avevano stimato di allontanarsi da Catania, a rientrare sollecitamente in città, restando essi e le loro sostanze sotto la salvaguardia delle leggi. E per ultimo a stabilire la sicurezza nelle campagne e nelle terre di quest’altra provincia riacquistata, per l’urgente bisogno che ne sentivano le popolazioni, il generale Filangieri ordinava; che in ogni comune venisse immediatamente organizzata, per le cure degli antichi sindaci e capi urbani, una guardia urbana provvisoria per tutelare i paesi dalle aggressioni dei malviventi, e per difendere la vita e le proprietà dei cittadini; che l’organizzazione si stabilisse sulle antiche basi, e sulle norme anteriori ai rivolgimenti del 1848; e che i sindaci e capi urbani fossero personalmente responsabili della scelta degli individui stimati meritevoli di appartenervi.
La vittoria per l’ordinario si ottiene colla celerità dei movimenti; epperò il generalissimo giudicando che il terrore già sparso fra le città vicine per la caduta di Catania in potere de’ regi importasse moltissimo al conseguimento di novelli trionfi, tostamente spediva per la via di mare una porzione della squadra, con truppe da sbarco, nelle acque di Augusta e di Siracusa; e queste piazze forti, al solo apparire di quei legni, inalberavano il vessillo reale, ed immantinenti venivano occupate da’ regi. Così del pari per la via di terra mandava l’animoso maresciallo Nunziante, con alquanti battaglioni di fanti, due squadroni di cavalli e due batterie, alla volta di Adernò; nell’atto che il brigadiere Zola, con un’altra colonna di fanti e cavalieri, ed una batteria da montagna traeva per Caltagirone. L’effetto non poteva essere più rispondente, poiché nel mentre le masse de’ ribelli fuggivano per tutt’i versi, le città e le terre, all’appressarsi delle milizie napolitane laccano a gara nel sottomettersi.
Quando parve il tempo al generale Filangieri, dopo di avere in pochi giorni tutto riordinato tanto nella provincia di Catania, quanto nell’altra di Siracusa, voltò coi resto delle sue milizie i passi la dove teneva tuttavia il suo seggio principale la ribellione.
Movevano adunque le schiere napolitane, per la via di Piazza, alla volta di Palermo, poiché le bande de’ ribelli, credendosi mal sicure in Castrogiovanni, ove si erano di nuovo ragunate, l’avevano celeramente abbandonata. Uffiziali e soldati intanto si rallegravano dell’avvicinarsi a Palermo, e considerando al genio ed alla costanza del generalissimo, delle future imprese felicemente auguravano. Pareva loro, che chi avea trionfato negli scontri di Messina e di Catania, ogn’altro pericolo dovesse superare nel resto della Sicilia. Tutti gridavano, Palermo. Quei che v’erano stati innanzi, con discorsi espressivi, propri del carattere napolitano, Io descrivevano a’ nuovi; in quei si riaccendeva, ed in questi si manifestava un mirabile desiderio di vendetta: la esperienza ricordava il vero, la immaginazione il rappresentava; già mostravasi negli animi di tutti che Palermo fosse conquistato; solo pensavano alla vittoria.
Questo ardore che i regi mostravano ad attaccar Palermo, e le conseguenze che ne sarebbero di necessità risultate, richiamarono l’attenzione del generalissimo; epperò dopo di aver rivolte alle sue genti i debiti elogi per le combattute fazioni, espressamente loro raccomandava,che ove il destino avesse fatto incontrare ulteriore ostinazione nei ribelli, volessero sempre rispettare i pacifici cittadini, le proprietà di tutti, e serbare la dovuta moderazione verso de’ vinti.
Intanto in Palermo nel giungervi la nuova de’ casi di Catania, un generale scoramento era succeduto fra’ compromessi; e non ostante che gli esaltati avessero, per rincorare i spiriti abbattuti, spacciato a bella posta, aver l’esercito siciliano ricuperato un’altra volta Catania, pure molti, anzi i principali fra essi, quasi che le truppe regie stassero alle porte di quella capitale dell’isola, avevano cercato in tutta fretta ottenere un ricovero sulle navi straniere ancorate nel porto.
Stava tutto il corpo d’esercito nel 26 aprile riunito pressoCaltanissetta per proseguire la marcia alla volta di Palermo, allorché giungeavi da questa città una deputazione composta da monsignor Gilluffo, arcivescovo di Adana e giudice della regia monarchia, dal principe di Patagonia, dal marchese Rudinì e dal dottore D. Giuseppe Napolitani; accompagnati dal tenente colonnello Nunziante, spedito espressamente dal Re in Palermo sulle istanze del ministro di Francia e dell’ammiraglio Baudin, che avevano interessata la sua generosa clemenza. Accoglieva il generalissimo dignitosamente que’ signori, e nel manifestar loro schiettamente che la magnanimità del Principe faceva grazie a tutti, meno agli autori della seguita ribellione, espressamente raccomandava, che ritornati a Palermo, si fossero senza indugio adoperati a ristabilire l’ordine nella città pel prossimo arrivo delle sue milizie.
Tanto dispostosi, ritornava il tenente colonnello Nunziante innanzi Palermo per ricevere l’atto di sottomissione del municipio. Trovava egli quivi di fatto la maggioranza di tutti gli ordini de’ cittadini più che mai preparata all’atto che richiedevasi; se non che il municipio era stato cangiato, e la pubblica calma alterata dagli avanzi tumultuanti e fuggiaschi delle orde facinorose colà raccoltesi, gente abbietta della plebe, e sopra tutto condannati sottratti per le rivolture alla espiazione della pena.
Per riparare a questo inatteso incidente, una novella deputazione della città presentavasi sollecitamente al tenente colonnello Nunziante, e nell’accertarlo quanto dalla maggioranza de’ cittadini venisse riprovata quella condotta, rinnovava le più solenni proteste di devozione al Re, e di attaccamento all’ordine pubblico, implorava dalla Sovrana clemenza un’amnistia pe’ troppo numerosi condannati, iquali temendo di ritornare alla pena col ritorno dell’ordine erano la principale cagione del turbamento che la città soffriva, ed istava perché a coloro che venivano minacciati dal saccheggio e dalle violenze de’ perturbatori, fosse concesso a scampo un libero passaggio per la via di mare, trovandosi la regia squadra di già in crociera dinnanzi Palermo.
A quest’ultima dimanda fu acconsentito. Quanto all’invocato sovrano indulto, il tenente colonnello promise, dalla maestà del Re implorarlo; e per tanto fare, partiva immediatamente da quel porto dirigendosi a Gaeta. Egli raggiunse il Sovrano a Velletri, ed ottenuto con effetti la desiderata amnistia, tostamente ritornava nell’isola, e per la via di Termini affrettavasi a raggiungere il supremo condottier o nel suo quartier generale di Misilmeri, per tenerlo ragguagliato di tutto.
In questo mentre molti de’ più vivi esaltati in Palermo, avendo in odio ogni freno ed ogni governo, viemaggiormente infierendo, riuscivano ad accendere di novella baldanza le masse ribelli, ed a spingerle colla legione straniera ad assalire le milizie regie sopra i monti di Misilmeri. E perché in estremo tanto pericoloso avessero potuto ottenere un favorevole successo, ricorrevano alla più iniqua pratica per trarre nell’agnato i regi. Facendo prima occupare da migliaia di armati tutte le case all’intorno della via del Mezzagno, per dove le milizie napolitane dovevano marciare, obbligavano quel parroco a farsele incontro col Santissimo Sacramento in mano per assicurare il generalissimo della pacifica accoglienza che in quella terra il suo esercito avrebbe incontrato. Sentiva con orrore il reverendo ecclesiastico quanto a lui chiedevasi, ma non potendo apertamente opporsi ad un desiderio cotanto scellerato, per non arrischiare la sua vita, recavasi al quartier generale de’ regi, e coscienziosamente rivelava al supremo condottiero l’ordita trama.
Non giunge potenza di parola ad esprimere l’ira de’ regi all’annunzio della immaginata ribalderia; per lo che spingendosi arditamente innanzi ad attaccare i ribelli negli abituri occupati, con grandissima strage di questi se ne impadronivano. Procedendo più oltre verso Villa Abate, anche quivi trovarono i regi forte resistenza; ma quando i ribelli si accorsero che l’ardore de’ loro avversari non aveva più termine, e che invano avrebbero essi continuato a resistere, abbandonando due cannoni, e la più parte delle loro armi, fuggendo velocemente, poterono solo in tal modo sottrarsi da un compiuto sterminio. Anzi fu tanta la foga de’ vincitori ad inseguire i vinti, che poco mancò che non entrassero alla mescolata con essi nella vicina Palermo.
Non rimanendo, dopo quest’altro successo, alla ribellione siciliana che il profondo scoramento per essersi oramai fiaccato l’ultimo suo temerario orgoglio, nel giorno 9 maggio il console francese ed il comandante del piroscafo il Descartes accompagnavano al bordo del legno dove trovavasi il tenente colonnello Nnnziante una novella deputazione della città di Palermo, per rinnovare l’atto di sommissione, impetrare l’amnistia pe’ numerosi condannati e sollecitare l’ingresso delle milizie per calmarvi l’agitazione. Il tenente colonnello Nunziante rispose; che l’amnistia concessa risguardava tutt’i siciliani, e comprendeva non solo i reati comuni di qualunque natura, ma pure i reali politici in generale, colla esclusione in quanto a questi ultimi degli autori e capi della rivoluzione, cioè di coloro che l’avevano architettata; che fosse ciascuno tranquillamente e sicuramente rientrato nell’ordine, il che avrebbe fa ttoraggiungere la tanto desiderata tranquillità; che le truppe sarebbero intanto rimaste negli accantonamenti, e quando il municipio si fosse messo di accordo col generalissimo, si sarebbe tranquillamente occupato Palermo.
Ilgiorno appresso, (10) dopo di aver deposte le armi, abbandonavano Palermo, muniti di salvacondotto, molti di coloro che avevano fatto parte delle bande armate, per recarsi in seno delle proprie famiglie; e le debite misure stabilivansi onde la legione straniera potesse sollecitamente essere condotta ove meglio convenisse fuori dell’isola. Contemporaneamente una deputazione di notabili cittadini recavasi presso il generalissimo in Misilmeri ad interessarlo, perché volesse compiacersi, per la sicurezza de’ cittadini, di affrettare l’occupazione di quella capitale dell’isola.
Disposte adunque le cose in tal modo, nel mentre che il corpo d’esercito prepara vasi ad entrare in Palermo, il generale Filangieri vi faceva pubblicare la seguente proclamazione:
«Siciliani – Sua Maestà il Re nostro Signore, animata sempre dal sentimento di portare a questa parte de’ suoi reali domini una pace completa ed un balsamo che sani le piaghe che l’ànno sì crudelmente afflitta per lunghi mesi, è venuta nella spontanea magnanima deliberazione di amnistiare tutti i reati comuni di qualunque natura commessi sino al giorno d’oggi.»
«Questo atto generoso della sovrana munificenza non potrà non iscuotere dal fondo del petto le anime più dure, e ridurre nel sentiero dell’onore e dell’onestà tutti coloro che lo avevano smarrito. Questo atto, che la storia registrerà tra i fatti più magnanimi della umanità, raccoglierà intorno al trono del migliore de’ principi tutt’i suoi sudditi, de’ quali non à egli desiderato che la pace e la prosperità, fondata non sulle chimere, ma su’ bisogni reali della società e sulle leggi di Dio.»
«Sua Maestà vuole però essenzialmente, che questa amnistia si abbia come non data e non avvenuta per coloro i quali torneranno a delinquere. Rientrino dunque tutti alle loro case, sicuri e tranquilli, attendano ai loro antichi uffizi, vivano da fedeli sudditi e da onesta gente, e non abbiano più nulla a temere sotto la parola del sovrano perdono. Ma se taluno commetterà novello reato, allora alla nuova pena vi si dovrà aggiungere quella che doveva espiare. Il che la Maestà del Re nostro signore non vuol temere che avvenga, poiché non vi sarà nessuno, il quale dopo tanto soffrire non senta tutta la forza del sovrano beneficio. »
«A togliere anche ogni equivoco, ed a rinfrancare meglio gli spiriti, è carissimo al mio cuore il far conoscere, che nell’atto di amnistia, già pubblicato a 22 aprile ultimo in Catania, non ò inteso dare doppia e varia significazione alle parole di autori e capi della rivoluzione, che debbono essere esclusi dall’atto della sovrana beneficenza, sibbene una sola che colpisce unicamente quelli che architettarono la rivoluzione, e sono stati la funesta cagione di tutt’i mali che ànno travagliato la Sicilia. Essi sono: Ruggiero Settimo; duca di Serra di Falco; marchese Spedalotti; principe di Scordio; duchino della Verdura; D. Giovanni e D. Andrea Ondes; D. Giuseppe la Masa; D. Pasquale Calvi; marchese Milo; conte Aceto; abate Ragona; D. Giuseppe la Farina; D. Mariano Stabile; D. Vito Beltrani, marchese di Torrearsa; Pasquale Miloro; cavaliere D. Giovanni Santonofrio; Andrea Mangeruva; Luigi Gallo; cavaliere Albata; Gabriele Carnazza; principe di S. Giuseppe; Antonio Miloro; Antonio Sgobes; D. Stefano Serdita; D. Emmanuele Sessa; D. Filippo Cordova; D. Giovanni In ter donato; Piraino di Milazzo; Arancio di Pachino; D. Salvatore Chindemi di Catania: barone Pancali di Siracusa; D. Giuseppe e D. Giacomo Navarra di Terranova; D. Francesco e D. Carmelo Cammarata di Terranova; D. Gerlando Bianchini di Girgenti; D. Mariano e D. Francesco Gioieni di Girgenti; D. Giovanni Cramitto e D. Francesco de Luca di Girgenti, e D. Raffaele Lanza di Siracusa.»
Con tali apparecchi, come termine delle durate fatiche della guerra, gloriosi per la fedeltà serbata al loro Re, il giorno 15 maggio del 1849 i napolitani entravano pacificamente in Palermo, contrapponendo la dignità della propria disciplina a] silenzio di quella popolazione, la quale, come al cessare di un’orrenda bufera trovandosi tuttavia sbalordita, col cuore, anzi che colla voce sembrava benedire la mano che appressavasi a soccorrerla.
Molte disposizioni si diedero per tutelare la pubblica tranquillità, cominciando dal bando, col quale imponevasi la sollecita consegna delle armi, colla minaccia di morte a’ trasgressori. Né queste misure di pubblica sicurtà fecero punto trascurare le altre occorrenti a lenire le profonde piaghe rimaste dalla ribellione, mostrando in tutto questo il generalissimo, come alle qualità di un gran capitano andassero pure in lui congiunte quelle di un sagace amministratore.
Si arrendevano in questo alle armi regie Modica, Terranova, Alicata, Girgenti, Castelvetrano, Marsala, Trapani, Cefalù, Termini; e cosi tutta la Sicilia tornava all’antica soggezione, ma rotta, lacera ed insanguinata. Piange ancor’essa, e piangerà lungo tempo gli effetti della ribellione , e ricorderà sempre con vituperio coloro che la fomentarono e la mantennero.
Nel riordinamento del governo molte ribalderie si scopersero fra le tante che distinsero le persone elevate ne’ tempi calamitosi al potere. Toccheremo di una sola, che sarà sempre con orrore dal mondo incivilito rammentala.
Sperimentatasi da’ ribelli la insufficienza de’ loro mezzi a resistere dopo la sconfitta di Messina e di Catania, ricorrevano a nuovo, per quanto stolido, altrettanto immorale stratagemma di guerra allorché i regi si approssimavano a Palermo. Il comitato di guerra da essi prescelto dava al presidente della commissione delle fortificazioni questa disposizione, che veramente sorprende.
«Palermo 3 maggio 1849.»
«Signore Questo comitato di guerra in data di oggi stesso delibera ad unanimità ciò che segue.»
«Viste le già mancate forze per sostenere una decisiva guerra tra la libertà e la schiavitù; volendo con mezzi violenti l’esterminio delle truppe nemiche, si è deciso, ch’ ell a qual incaricato delle fortificazioni si accinga prestamente ad affittare in Villa Abate, Ficarazzi e Mezzagno delle casette malte, cd ivi faccia trasportare mezze botti, barili, tinozzi, bicchieri ed altri oggetti ad uso di bettole, ove ripostare del vino che abbia la forza di far perire quei soldati assetali; e perciò resta in sua cura di munirsi del necessario chimico, e di ridurre le dette case a forma di bettole abbandonate. A tal uopo si è scritto oggi stesso al delegato delle finanze per pagare a lei segretamente la somma provvisoriamente di onze cinquanta» Se, e come poi la cosa fosse stata eseguita, all’intutto s’ignora; è certo però che niun sinistro ne avvenne.
Premiava il re la condotta tenuta dal generale Filangieri , poiché oltre al gran cordone del real ordine di S. Ferdinando e del merito in brillanti conferitogli alla occasione della vittoria di Messina, investivalo, allo giungere in Palermo, del titolo di duca di Taormina , trasmessibile a tutt’i suoi legittimi discendenti, colla dotazione di una rendita di annui ducati dodicimila. Ed a mostrare poi all’esercito di spedizione la sua gratitudine, a dippiù di tante decorazioni concesse, appositamente istituiva per tutti una medaglia di bronzo per ricordare ai posteri i nomi di coloro che avevano gloriosamente preso parte nella campagna di Sicilia; anzi per d a re un giusto attestato al merito personale, la qualità del metallo prezioso ne costituiva per distinzione tre classi.
Tale fu dunque il fine della ribellione di Sicilia surta ne l primo di del 1848, quando da per tutto crasi apparecchiato altrettanto per mettere gli stati d’Europa in soqquadro. Di essa si è detto abbastanza: de’ suoi fautori, poco. La storia, più tardi sciolta da qualunque soggezione, assai meglio, e più diffusamente dirà.
CAPITOLO XXVI
Diverse potenze di Europa si accordano a comprimere la ribellione romana. Un corpo francese sbarca a Civitavecchia, e provvedimenti che si prendono anche dal lato de’ repubblicani di Roma. Una prima fazione ne conseguita, colla peggio della parte francese. Una squadra spagnuola giunge a Terracina, ed i napolitani da un lato, e gli austriaci dall’altro si avanzano nello Stato Pontificio. Si sospendono tosto le ostilità tra’ francesi ed i romani, e le truppe, napolitane si determinano a rientrare nel regno. Si affrettano i romani a molestare la ritirata de’ napolitani, e ne riportano triste conseguenze. Svaniscono le trattative tra’ romani ed i francesi; si riprendono le ostilità, e dopo una lolla di molli giorni pervengono i francesi al possesso di Roma. Domano gli austriaci la ribellione nelle Legazioni e nelle Marche, e riducono la Toscana novellamente alla dominazione del gran duca. Spariscono i disordini italiani, e la calma rinasce presso che in tutta la penisola.
Quietata la Sicilia, riassicurata la Lombardia dalle duove complicatoti politiche che le armi piemontesi volevano suscitarvi, altro non rimaneva per la tranquillità del regno delle due Sicilie che a comprimersi la ribellione del limitrofo Stato Pontificio.
Dopo le violenze sofferte in Roma, e le minacce per le quali il Santo Padre erasi determinato a fuggire cercando altrove un asilo, l’universale risentimento era giunto a tal segno, che lo stesso generale Cavaignac, benché stasse per rassegnare la sua carica come capo del potere esecutivo in Francia, aveva avuto il pensiero di promuovere un intervento nel fine sopratutto di punire una iniquità che non poteva andare più oltre tollerata.
Non ostante siffatto comune desiderio, niun provvedimento fu preso in sulle prime, se non che la diplomazia fo incaricata di trattar la quistione, indicando i mezzi corrispondenti a comprimere quella ribellione. Allora le rivalità d’influenza si palesarono e le difficoltà incominciarono. L’Inghilterra specialmente, per le misure che avrebbe voluto adottare, mostrò le solite sue tendenze ((19)), epperò trovatesi inaccettabili, perché incompatibili co’ dritti della santa sede, le trattative si aggiornarono, né pel momento si fece alcun altro passo.
Ma non dovendo una quistione di si alta importanza rimanere in sospeso più a lungo, il Papa nel 18 febbraio, col mezzo di una nota formulata dal cardinale Antonelli pro segretario di stato, erasi fatto a dimandare alla Francia, Austria, Spagna e Napoli il loro soccorso a favore della santa sede; perlocché le quattro potenze cattoliche avevano incaricato i loro rispettivi plenipotenziari residenti a Gaeta per fissare di comune accordo le basi dello intervento reclamato. Il conte Esterhaz y , plenipotenziario dell’Austria, avea progettato a nome del suo governo, che lasciando alla Spagna ed al Re di Napoli la parte principalmente dello intervento armato, la Francia e l’Austria rimanessero in osservazione colle armi al braccio, cioè a dire che mentre le truppe spagnuole e napolitane muoverebbero su Roma, una flotta francese con truppe da sbarco a bordo resterebbe ancorata a Civitavecchia per sostenere moralmente la spedizione ispano napolitana, al tempo stesso che un corpo austriaco si sarebbe tenuto pronto ad occupare militarmente le Legazioni, in caso che le truppe spagnuole e napolitane non fossero bastate a restituire l’autorità del governo papale a Roma.
La principale difficoltà opposta alla adozione del progetto austriaco si fu il trasporto delle truppe spagnuole da Barcellona a Civitavecchia, mancando quel governo di mezzi per effettuarlo, trattandosi d’imbarcare non solo un corpo di dodicimila uomini almeno, ma di condurre altresì cavalleria éd artiglieria, con le munizioni ed attrezzi corrispondenti ad una spedizione di simil fatta. Non vera che la Francia, che avrebbe potuto incaricarsene col mezzo della sua flotta del mediterraneo, giacché le forze navali del regno di Napoli erano impegnate nella spedizione in Sicilia, e la squadra austriaca nel blocco di Venezia.
Il governo francese esitava ad assumere le spese di trasporto, tanto più che si attendeva dall’ assemblea nazionale il rimprovero di aversi accollato gli aggravi di una spedizione destinata a rialzare in Roma piuttosto l’influenza spagnuola, che la francese.
A questo tempo giungeva a Gaeta la nuova della compiuta disfatta dell’esercito piemontese a Novara, mentre i rivoluzionari di Roma cominciavano di già ad inveire contro i vescovi e l’alto clero, accusati da essi di mantenere relazioni segrete colla corte papale. Pio IX temendo che il ritardo delle potenze cattoliche a soccorrere la Santa Sede incoraggiasse vieppiù i repubblicani romani, col peggioramento della situazione già disastrosa degli stati della chiesa, de te rminavasi ad invocare l’intervento dell’Austria sola, spe r ando con questo mezzo rendere l’ausilio straniero più pronto e più certo.
Ma poiché il governo austriaco aveva a più riprese dichiarato, dopo la fuga di Pio IX, di volere negli affari di Roma andar d’accordo colla Francia, così nell’assicurare al Papa un soccorso immediato, affrettavasi ad invitare il governo francese a congiungersi a lui per soddisfare i voti del sovrano Pontefice.
Questa dichiarazione si ritenne in Francia in tult’altro senso, quasi che l’Austria, per conservare la sua preponderanza in Italia, avesse desiderato di agire isolatamente; epperò fattosi il governo francese ad allestire nel porto di Marsiglia numeroso naviglio di fregate a vela ed a vapore, v’imbarcava ottomila combattenti agli ordini del generale Oudinot, e celeremente spedivali a Civitavecchia, ove pervenivano tra le acclamazioni del popolo nel giorno 25 aprile del 1849. Nel di seguente il loro supremo condottiero volgeva agli abitanti del pontificio questa proclamazione:
«Un corpo d’armata francese è sbarcato sul vostro suolo. Il suo scopo non è affatto quello di esercitarvi una influenza oppressiva, né imporvi un governo che sarebbe contrario a’ vostri voti. Questo corpo viene a preservarvi dalle più grandi sciagure.»
«Gli avvenimenti politici di Europa rendono indispensabile l’apparizione di una bandiera straniera nella capitale del mondo cattolico. La repubblica francese portando in Roma la sua, dà una chiarissima pruova di simpatia verso la nazione romana.»
«Accoglieteci dunque come fratelli, e noi giustificheremo questo titolo. Rispetteremo le vostre persone ed i vostri beni. Pagheremo in moneta contante tutte le nostre spese. Ci metteremo di accordo colle autorità esistenti, affinché la nostra occupazione momentanea non vi sia di niun fastidio. Noi preserveremo intatto l’onor militare delle vostre truppe, associandole dovunque alle nostre, per assicurare il mantenimento dell’ordine e della libertà.»
«Romani! la mia devozione personale vi è nota; se voi ascoltate la mia voce, se avete fiducia nella mia parola, io mi dedicherò senz’alcuna riserva agl’interessi della vostra bella patria» 11 preside di Civitavecchia, caldo parteggiano della repubblica, non avendo forze bastanti ad opporsi alla occupazione francese, né sapendo come sottrarsi dall’imbarazzante condizione in cui trovavasi dopo siffatta proclamazione, limitavasi a chiedere al duce francese categoriche spiegazioni sul contenuto di essa, nulla comprendendo, com’egli assicurava, dell’oggetto precipuo della spedizione.
Intanto il generale Oudinot, a non perdere inutilmente il tempo, aveva sin dal giorno innanzi spedito a Roma presso i triumviri, che vi tenevano il potere esecutivo, alcuni negoziatori per dir loro; come fossero stati i francesi accolti in Civitavecchia con i più manifesti segni di fratellanza, e quasi con gioia; essere intenzione del generale marciare sopra Roma; volere perciò sperare che la truppa sotto i suoi ordini venisse ricevuta al modo stesso. Ma i triumviri che, al pari del preside di Civitavecchia, rimanevano perplessi a queste generiche dichiarazioni, interpellando gl’inviati francesi sullo scopo di quel corpo d’armata destinato ad occupare una parte del territorio della repubblica, ne ottenevano in risposta; che tanto a preservare lo stato romano da una invasione austriaca che di già si stava meditando e preparando, quanto per conoscere quali precisamente fossero i sentimenti della popo l azione intorno alla ferina più convenevole del governo, e promuovere altresì una perfetta conciliazione tra Pio IX ed i suoi sudditi, la Francia aveva stimato indispensabile d’inviare le sue forze a Roma.
Messi cosi alle strette i triumviri, dichiaravano pretesto per la Francia il voluto intervento austriaco quando che la medesima dava da per se stessa l’esempio d’intervenire senza una prevenzione neanche, e che laddove pur fosse vero ciò che gratuitamente asserivasi, il popolo romano avrebbe saputo da se stesso difendersi: in quanto poi alla forma ed alla proclamazione del governo in repubblica, come alla dichiarazione di decadenza perpetua de’ pontefici dalla sovranità temporale dello stato, aggiungevano, aver tanto il popolo solennemente pronunziato per mezzo del suffragio universale, né essere perciò altro bisognevole a farsi.
Sarebbe troppo lungo discorso per queste istorie il narrare circostanziatamente quant’altro tentavasi dopo tali contrapposte dichiarazioni; epperò basta accennare, che tornata inutile ogni pratica, il generale francese determinavasi ad entrare di viva forza colle sue milizie in Roma.
In questo perveniva nelle acque di Terracina una squadra di legni spagnuoli, e disponevasi in ordine d’attacco a breve distanza dalla spiaggia, mentre il suo comandante significava per mezzo di un uffiziale al governatore della città, che l’unico oggetto della spedizione a’ suoi cenni era quello di ristabilire la sovrana autorità del Sommo Pontefice, e proteggere le vite e gli averi de’ cittadini pacifici; ma che intanto sperava che una pronta sommessione al governo di Sua Santità lo dispenserebbe di usar la forza per ottenere tanto scopo.
Non appena gli abitanti penetravano l’oggetto precipuo della squadra spagnuola che tosto si spargevano per la città gridando; viva Pio IX, vivano gli spagnuoli, abbasso la repubblica; nò d’altronde fidandosi il governatore di affrontar co’ suoi quasi trecento soldati la popolazione sollevata e le forze spagnuole, sollecitamente usciva con quella truppa da Terracina, lasciando soltanto pochi uomini per guernire le fortificazioni che vi erano. Avvicinatesi allora le lance della squadra, e disbarcati che furono cinquecento uomini allo incirca fra gli evviva del popolo, una parte si avviava al possesso delle batterie e del forte, che ottenevano senza contrasto, mentre l’altra recavasi fuori della città, per respingere qualunque attacco che avessero potuto tentarvi le truppe repubblicane.
In quello stesso giorno il Re Ferdinando, che colle sue truppe avvanzato si era a Fondi verso la frontiera dello stato pontificio, ricevuto avviso dello sbarco de’ spagnuoli in Terracina, facevasi a condurvi le sue milizie, le quali accolte con gli evviva i più clamorosi, ricevevano gli attestati i più lusinghieri. Fatta quindi issare sul forte h bandiera pontificia, salutata con replicate salve di artiglieria, e prese le debite misure per la tutela della città occupata, tosto le disposizioni indicava per proseguire la marcia nello stato romano.
Né diversamente procedevano le cose dall’altro estremo del pontificio, ove un poderoso corpo di austriaci, accennando verso le Legazioni, erasi tanto approssimato a Bologna, che stava già sul punto di occuparla di viva forza, attesa la volontà manifestata da’ repubblicani che la tutelavano di mantenervisi.
Intanto per la soprastante rovina che minacciava questa moderna romana repubblica erano concorsi a Roma da molti luoghi d’Italia, ed anche dallo straniero numerosi stuoli di spacciati repubblicani, di veri speculatori politi ci, i quali concitando un paese già troppo commosso, nella più dura maniera lo straziavano. Rimarchevoli fra tanti, che colla divisa guerriera vi stavano, erano un Manara milanese, un Ferrari, un Arcione, un Mezzacapo napolitani, un Durando piemontese, un Podulak, un Maslowicki, un Dobrowoleskv polacchi, un Hanc austriaco; ma colui che sopratutti figurava, era un avventuriere piemontese , che per lo ardimento mostrato in molte arrischiate imprese, senza mezzi e senza fortuna, per le avversità sofferte a causa de’ suoi voluti sentimenti liberali, e per le grandi cose più favolose che vere, che dicevasi aver operato nelle ultime rivoluzioni in America , gli avevano fiatta acquistare una celebrità nella casta degli agitatori politici. Era costui il famoso Garibaldi, che alle prime nuove de’ rivolgimenti d’Italia, ritornato da lontani paesi con taluni seguaci nella sua patria, era riuscito ad accrescere il numero de’ suoi proseliti, e viemaggiormente vi avea messo il disordine. Al suo nome andava attaccato un meraviglioso prestigio , e coloro i quali unicamente avevano seguito il suo destino, e che ad altro non intendevano che a migliorar fortuna nello avvenire, davano del portentoso a tutte le sue azioni.
Nel mentre adunque che con questa gente cotanto tumultuaria ed agitatrice trovavasi Roma dall’imo al fondo sconvolta, ricevendo il generale Oudinot le più calde istanze dal duca d’Harcourt, ministro di Francia presso la Santa Sede, per muovere sollecitamente colle sue schiere da Civitavecchia verso la capitale dell’orbe cattolico, onde lo sbalordimento prodotto dall’annunzio dello sbarco francese non si andasse prima a dileguare, e si avesse così il tempo a preparare mezzi di resistenza, i francesi si erano di già approssimati alle mura di Roma; ma quivi ributtati aspramente dalle truppe romane, aveano dovuto ripiegare con significanti perdite verso Palo, terra fra Roma e Civitavecchia, per attendervi i nuovi rinforzi che di Francia dovevano indi a poco sopraggiungere.
Tale era lo stato delle cose nel Pontificio, allorché le truppe napolitane, lasciata Terracina, ed inoltratesi insino ad Albano, ricevevano da per tutto proteste di sottomissione alla legittima potestà della Santa Sede. E quantunque non restasse che un breve tratto per arrivare a Roma, non pertanto colà fermavansi, nello scopo di stabilir d’accordo co’ francesi un movimento simultaneo, senza di che né sarebbesi conservata la buona corrispondenza tra il regno di Napoli e la Francia, né potevasi sperare incruenta la sottomissione di Roma.
Ma un avviso scopriva a tempo opportuno che una grossa banda repubblicana, uscita da quella città, si fosse sollecitamente diretta verso Palestrina, col proponimento di attaccare alle spalle l’esercito napolitano; epperò a tutelarsi su quel lato, il giorno 8 maggio il Re facea muovere dal quartier generale di Albano alla volta di Palestrina per Velletri e Valmontone un corpo di due battaglioni di granatieri e nove compagnie di cacciatori della guardia reale, una compagnia di carabinieri a piedi, due squadroni di usseri e quattro pezzi da montagna, agli ordini del generale Lanza, il quale giunto a Valmontone inoltrava i cacciatori ed un pezzo per la via delle colline, e conduceva egli stesso il resto per la consolare, col proponimento di respingere gli avamposti repubblicani, e di riunir tutte le sue forze sotto Palestrina.
Verso le ore meridiane del giorno appresso a qualche miglio da Palestrina sulla consolare un carrettiere, che di la altrove recavasi a procurar foraggi, costrettovi, dichiarava, esser egli al servigio di Garibaldi, e trovarsi costui con cinquemila armati in quella città, difficile ad espugnarsi e per le naturali difese che ne circondavano l’eminente situazione, e per le solide barricate che ne chiudevano gli aditi. Non creduto, restava prigione, e non pertanto il generale Lanza accelerava per la consolare la marcia. Suonavano le ore 22, né la colonna de cacciatori comandata dal colonnello Novi ancora compariva, perciocché attaccata presso alcune boscaglie dalle truppe repubblicane, non aveva potuto raggiungere il punto di riunione disegnato. Lo avventurarsi in quelle ore a vv anzate, tenendo i fianchi esposti al nemico, e senza far precedere una sommaria riconoscenza locale, non sarebbe stato prudente consiglio; ma tuttavia il generale Lanza, sia che fosse sollecitato dal sospetto di vicini soccorsi a favore de’ repuhblicani, sia che lo fosse dal suo ardimento, determinavasi ad attaccare prontamente. Spiegavasi allora la cavalleria verso il principale ingresso di Palestrina, ma gl’immensi colpi a fuoco tratti dalla barricata quivi costrutta e da’ luoghi circostanti, obbligavano que cavalieri a retrocedere. In questo la fanteria e l’artiglieria awanzavano, e sebbene quest’ultima specialmente, agli ordini del capitano Basile, si fosse valorosamente comportata, pure atteso l’insuperabile resistenza, abbandonavasi con più sano consiglio nel corso della notte quella impresa la quale se fosse stata meglio meditata, certo con miglior fortuna sarebbe riuscita. Dopo l’infruttuosa spedizione di Palestrina che determinava la prudenza del generale Lanza a ritirarsi con la sua brigata a Colonna, il Re muoveva con tutte le sue truppe a rinnovar lo scontro. Ma Garibaldi, preso dal naturale sospetto, e giudicando che sarebbe stato senza dubbio nuovamente attaccato e con forze superiori, aveva di già dopo la respinta aggressione, sulle prime ore del giorno appresso interamente abbandonato colle sue genti Palestrina. Laonde le truppe napolitane vi entravano senza contrasto tra le acclamazioni di quegli abitanti, ma non vi si fermavano che due giorni soltanto, e quindi per sopraggiunte combinazioni in Albano riedevano. Così Palestrina in potere de’ repubblicani nuovamente passava, e questi in pena della festevole accoglienza da essa fatta al Re ed alle milizie di Napoli, a durissimi trattamenti la dannavano.
Chiunque si fosse fatto a considerare, che ne’ momenti in cui Roma era cotanto minacciata dappresso dalle truppe francesi una forza considerevole di cinquemila combattenti ne uscisse per portarsi da lontano a molestare l’esercito napolitano, facendo rimaner per tal guisa vieppiù esposta la città all’inimico che le stava a fronte, doveva con fondamento sospettare che segrete pratiche si fossero aperte tra le due parti belligeranti, per le quali le ostilità incominciate avessero dovuto sospendersi. Ma il sospetto diveniva certezza, allorché al cader del giorno 16 divulgavasi nel campo napolitano che il governo francese aveva spedito presso il generale Oudinot un Ferdinando Lesseps per trattare co’ romani un’amichevole composizione, e che questo inviato francese affiancato da un Accursi, italiano più di lui esaltato, avesse allo giungere in Roma tenute delle pratiche con quel governo repubblicano da vieppiù complicare una quistione che ormai doveva volgere al suo termine. Aggiunto |oi a tutto questo, che nel giorno appresso ritornato da Palo il tenente colonnello d’Agostino, speditovi a bella posta dal Re per conoscere esplicitamente dal generale Oudinot con quale temperamento dovessero procedere le milizie napolitane, aveva rapportato, che il duce francese, imbarazzato per l’attitudine presa dall’inviato Lesseps, intendeva agire da se solo, cioè senza la concorrenza altrui, mostravasi apertamente come i francesi volessero in quella bisogna all’intuito schivare la concorrenza degli altri. Epperò non convenendo all’esercito napolitano, nello scarso numero in cui trovavasi, rimanersi più oltre in quell’isolamento, ed esposto a tutte le eventualità, a cui avrebbe potuto soggiacere ove le forze romane, sicure dal lato de’ francesi, si fossero alla parte opposta rivolte, il Re disponeva, che le sue milizie senza indugio si riducessero sulla estrema frontiera del regno per rimanervi a guardia non solo, ma ad attendere sopratutto quelle disposizioni, che le circostanze avessero potuto meglio indicare in appresso.
E perché tale. determinazione non venisse in tutt’altro senso interpetrata, il Sovrano la rendeva di pubblica ragione col seguente manifesto:
«L’accordo indispensabile nelle operazioni militari fra le regie truppe e le forze francesi, che si trovano aver già occupato parte del territorio romano, è venuto meno in conseguenza dell’attitudine spiegata dal governo della repubblica francese nella quistione romana, nella quale la Francia si riserba di agire sola, ed il suo diplomatico autorizzato a trattare colle truppe romane le dà tutto l’agio di agire contro quello stesso corpo napolitano, che in seguito delle conferenze di Gaeta, e gli accordi stabiliti a Palo e Fiumicino dovea concorrere a far causa comune co’ francesi. Per siffatte considerazioni, e per la mancanza di azione delle altre potenze nelle vicinanze di Roma, Sua Maestà à creduto della sua dignità il far ritorno alla frontiera de’ suoi stati, e quivi attendere gli avvenimenti» Nel giorno 17 maggio adunque cominciossi il movimento retrogrado. Da Albano i napolitani mossero per Ariccia , donde nel giorno appresso giunsero a Velletri. Alla dimane, (19) quando già stavasi preparalo a marciare alla volta di Cisterna e Torretreponti, si scorsero quantità di armali sulla via che mena a Valmontone. Era di fatti l’avanguardia di un poderoso corpo repubblicano escito di Roma con molta segretezza nella notte del 16 al 17 sotto la condotta del generale Roselli, onde sorprendere i napolitani nel meglio della loro ritirata. Presentavano quelle schiere repubblicane una forza di cinque brigate di fanteria ed una di cavalleria, con dodici bocche a fuoco, di cui la frazione che costituiva la suddetta vanguardia, guidata dal colonnello Marochetti, potevasi calcolare a circa tremila combattenti. Propagavasi intanto questa nuova con molta confusione degli abitanti, e que’ luoghi solitari e muti da tanti anni risuonavano insolitamente ad un tratto di voci guerriere.
Questa prima schiera nemica, nella quale trovavasi Garibaldi in persona, non ostante che fosse stato egli destinato a guidare il corpo di battaglia, prese posizione ad un miglio da Velletri, ove sostò per attendere il resto della colonna, che avea ritardata la marcia per delle imprevedute circostanze. Intanto il Re, ch’era stato prontamente avvertito della comparsa de’ repubblicani, i più accurati provvedimenti all’istante indicava al generale Casetta per impedire al nemico di avvanzare, e per tutelare le sue milizie da qualunque sorpresa che in quel movimento di ritirata avesse potuto tentarsi a loro danno. Stabilito l’occorrente, recavasi subitamente il generale Casetta fuori Porta Romana, inviando celeremente uno squadrone di dragoni per la consolare a riconoscere le forze nemiche: ed indi a poco spediva il 2° battaglione cacciatori, con un plotone di cacciatori a cavallo, sulle alture della strada, nel fine non solo di molestare da’ fianchi l’oste repubblicana, ma per aversi in tal modo meglio la opportunità di obbligarla a smascherarsi.
Nell’atto adunque che tanto praticavasi, Garibaldi, o che troppo confidasse nel suo valore e nell’ardore della gente che guidava, o che senza ragione poco conto facesse de’ nemici, muoveva subitamente ad attaccare la schiera condotta dal maggiore Colonna, la quale, accettata la sfida, veniva innanzi risoluta ad affrontarla. Cominciatasi la mischia in ordine aperto da’ soldati armati alla leggiera, si trasse poche volte con gli archibusi; poiché spinti dall’emulazione, ed impazienti dì combattere da vicino, s’avventarono gli uni contro gli altri con moltissimo impeto. In questo mentre il maggiore Colonna accortosi di Garibaldi, lo raggiungeva; e quasicché dal certame tra quei due campioni pendesse la sorte della fazione, pareva che tutti gli altri sostassero quasi dal pugnare. Il cavaliere napolitano spingeasi con tanta veemenza sull’audace repubblicano, e con tanta destrezza combatteva, che già la fortuna mostravasi a lui propizia, ed ormai sembrava che il famoso agitatore stasse per perire ne’ campi di Velletri, quando sopraggiungendo a tempo uno de’ suoi più fidi, con un colpo di lancia al suolo stendeva il destriere del maggiore Colonna. Né per questo infortunio il prode napolitano ristavasi dal menare le mani, e Soccorso tostamente da’ suoi, novellamente accinge vasi ad un secondo cimento. Frattanto la squadra repubblicana erasi ingrossata con de’ nuovi rinforzi, ed a tutto potere cercava di circuire quella picciola schiera di cacciatori. A questa pericolosa condizione, successe un momento di contusione, per modo che scompigliatisi alquanto i cacciatori di Colonna, ritraendosi, produssero un certo disordine nell’esercito regio. Accorse subitamente il valoroso generale principe d’Ischitella, ministro di guerra, e spiegando quella bravura che gli anni non ànno ancora potuto spegnere in lui, mostrò in tal rincontro quanto possa operare un gran capitano. Guidò egli stesso le schiere napolitane all’incontro delle falangi repubblicane, e col suo esempio fece rinascere in tutti quel desiderio ardente che avevano di misurarsi co’ loro nemici.
Ma il condottiere repubblicano erasi ormai accorto quanto per le sue genti fosse troppo ardua impresa di cimentarsi sulla pianura; perciocché l’esercito napolitano soprabbondando di cavalleria e di artiglieria, ne avrebbe dovuto sempre riuscire vittorioso. Per la qual cosa ridotte prestamente le sue forze verso le alture della strada di Valmontone, e tra le boscaglie, quivi cercava con molta destrezza di attirare i napolitani. Penetratosi un tal disegno dai regi, e sceltosi perciò il modo adatto a distrarlo, il prode tenente colonnello Rivera di artiglieria spediva tosto quattro obici da dodici in aggiunta a due pezzi ch’erano stati prima situati sul convento de’ cappuccini, con un battaglione di fanti, facendo al tempo stesso piazzare presso al palazzo Lancellotti ed al cancello di ferro innanzi Porta Romana altre bocche a fuoco, per dominare in tal guisa quelle alture, che i repubblicani precisamente intendevano di occupare. Questo mezzo efficacemente corrispose, e tanto contribuì al felice risultato di quella giornata. Si spinsero i repubblicani più volte ad assalire le posizioni tenute dai regi, ma spesseggiando i tiri delle artiglierie di questi u l timi, più rotti che interi furono essi obbligati a ritrarsi. Rimessisi indi a poco un’altra volta, ritentavano con più audacia il cimento; ma le artiglierie di Rivera li guastavano siffattamente da lontano, che con maggiori danni di prima, scomposti e sbaragliali dovevano sostare da ogni altro infruttuoso e micidiale tentativo. Così spariva il trionfo immaginato dall’esercito repubblicano, il quale veduto la inutilità di nuovi sforzi, abbandonava del tutto il pensiero di molestare più oltre l’esercito regio nell’incominciato movimento di ritirata.
La bugiarda fama continuando allora a deformare i fatti, spargeva con le solite arti sinistri ragguagli sugli avvenimenti riferiti; e perché la parte liberale potesse sollecitamente riscuotersi, faceasi segretamente correre per molti luoghi del regno questo manifesto:
«Che aspettiamo più, qual altra vergogna dobbiamo soffrire da questo scellerato governo? Non ci è più costituzione, non ci è più camera, non ci è più guardia nazionale; si è cambiata anche la bandiera, la polizia più feroce ed infame di prima; le persone le più oneste e tranquille sono insultate e carcerate, le leggi sono calpestate, i buoni magistrati destituiti, e messi in loro luogo i carnefici; e Ferdinando credendo di burlare Dio come burla gli uomini, mentre si confessa e si comunica, dà ordini di bombardare, di scannare, di rubare. Non contento di opprimere noi, à condotto i suoi soldati nello stato romano; ma Dio l’à punito. Egli è stato vinto, i suoi soldati sono morti e fatti prigionieri; egli è fuggito vergognosamente. Roma à vinto. Bologna à fatto un macello di tedeschi. Gli ungheresi ànno’ distrutto l’impero d’Austria, e stanno per venire in Italia. E noi che aspettiamo più? Noi soli fra tutti gl’italiani siamo chiamati vili e poltroni, noi soli non siamo italiani.»
«Il tempo è giunto, prendiamo le armi. All’armi o abruzzesi; unitevi al valoroso Garibaldi, che vi chiama: allarmi o pugliesi, o popoli de’ Principati, della Basilicata. All’armi o prodi e traditi calabresi. Allarmi o popolo di Napoli, popolo di Masaniello. Prendete i fucili, i pugnali, le picche, le fascine: chi à cuore, à armi. Ciascun paesetto uccida i suoi oppressori, bruci le case de’ nemici del popolo. Rispettate i buoni cittadini e le loro proprietà. Ai malvagi non usate pietà, né misericordia, perché non l’usano, perché non l’userebbero a voi. Rispettate ed abbracciate i soldati che sono ingannati, e sono nostri fratelli. Il nemico nostro è Ferdinando, e quei grossi scellerati che gli stanno vicini: allarmi che l’ora è suonata. Pochi altri giorni e saremo liberi, ma ognuno sia pronto come se fosse domani. Ad ogni grido, ad ogni colpo, sorgete, elevatevi, che quello è il segno. Ad ogni grido risponderanno centomila gridi: ad ogni colpo centomila colpi. Tutto è ordinato e concertato, che c’ è chi veglia, chi dispone, chi provvede a tutto. Saremo tutti, perché lutti siamo stanchi, e Dio è stanco di tante iniquità. Libertà e Ferdinando II sono cose impossibili: noi vogliamo libertà, e dobbiamo acquistarla, col sangue anche de’ nostri figli, se son traditori. Ormai ci siamo conosciuti: gli scellerati debbono essere uccisi presto, e tutti senza pietà.»
«Allarmi, o popoli, disperatamente all’armi. Non parlate, ma fate. Non gridate, ma uccidete. Ferite, bruciale: alle pietre, alle fascine, ai pugnali, allarmi. Non temete, la vittoria è nostra. Il popolo che vuole, è onnipotente. Morte al tiranno: morte alla polizia: morte agli amici del tiranno. Viva il popolo: viva Dio: viva la libertà.»
Ma o che la massa de’ cospiratori meglio avesse considerato il gravissimo rischio che correa ove si fosse apertamente dichiarata, o che si fossero le popolazioni convinte del fine cui tendessero in realtà quelle pratiche, il certo sìfu che niuno si mosse; e quelle menzognere promesse, quelle affettate esortazioni, quelle ridicole minacce rimaste perciò senz’effetto, posero le autorità del governo sulle tracce del macchinato disordine.
Sebbene quello che si è riferito, e non altro fosse stato r esito della fazione di Velletri, pure al solito i repubblicani di Roma ne menarono gran vanto; epperò inorgoglitosi vieppiù Garibaldi, cominciò ad insolentire verso alcuni punti della frontiera napolitana, dove, pe’ segreti avvisi ricevuti, sapeva che poca o niuna forza vi s t ass e . Aveva sopratutto cercato di sorprendere con quattromila uomini Arci e Rocca d’Arci, per, commetter vi tutte quelle ribalderie che solo da gente cotanto sfrenata poteva attendersi, e niun mezzo trascurava onde spargere più gravi disordini in altri paesi del regno. Per buona sorte il maresciallo Nunziante era stato richiamato espressamente dalla Sicilia per comandare le truppe rimaste ai confini: informato il 26 maggio in S. Germano di quanto accadeva, con una celerità pari al suo ardore traeva immantinente a quella volta, per sorprendervi l’audace nemico. Ma Garibaldi o che fosse stato avvertito dalle spie che tenea da per tutto dello appressarsi delle truppe napolitane, o che tanto avesse da per se stesso sospettalo, tostamente ritraevasi nello stato romano, lasciando a quelle infelici contrade le triste rimembranze del suo tempestoso operato. Né per questo il generale Nunziante, ardente di vendicare tanto insulto, e di affrontarel’ instancabile agitatore, ristavasi dal l’ inseguirlo; se non che essendogli stato per via riferito, che Garibaldi aveva ripiegato verso Roma, lasciando solo la legione di Masi, di mille e più uomini, tra Frosinone e Veroli, quivi cercò di spingersi celeremente il sagace guerriero napolitano, sperando in tal modo almeno raccorre in parte quel frutto, che non poteva del tutto conseguire.
Intanto da quei dintorni tutta la gioventù romana, sull’invito del preside, accorreva a prender le armi in soccorso della minacciata legione di Masi; per lo che il generale Nunziante si decise di attaccare senza ritardo il nemico quando meno se l’attendeva. Per meglio celare le sue mosse, prescelse il giorno 7 giugno, festività del Corpus Domini, che non potevasi mai. sospettare destinata ad un attacco. Concentrata perciò la metà delle sue forze presso Arci nella notte del 6 al 7, prescrisse al generale Lanza in Isola, che con tre battaglioni ed uno squadrone di cacciatori a cavallo attaccasse contemporaneamente Veroli per la via delle montagne.
La mattina del 7 la duplice marcia fu eseguita con tutte le precauzioni necessarie. La colonna del maresciallo Nunziante, diretta a Frosinone per la via di Ceprano, pervenendo in quest’ultimo paese, trovò tagliato il ponte. I lavori necessari furono rapidamente praticati; e fanti, cavalli ed artiglierie passavano, e quindi traevano pel luogo designato.
Agivasi con segretezza, ma non pertanto la notizia di una forte colonna che avvanzava dové giungere i n Frosinone , poiché il preside sollecitamente spediva sulla strada di Ceprano una mano di cavalieri, i quali ritornati tostamente, confermavano l’approssimarsi delle milizie napolitane. Lo spavento da cui furono presi ed il Masi ed il preside all’annunzio di questa nuova, è un fatto che verrà per lunga pezza ricordato; perciocché per quanto si fossero sforzati i più compromessi cittadini, ed i più influenti di quelle bande a dimostrare che non vi fosse alla perfine quel pericolo che l’uno e l’altro credevano, in pochi istanti, vuotate le pubbliche casse, e raccolte le cose le più preziose, precipitosamente con tutt’i loro fuggivano alla volta di Roma, senza più osare di ritornarvi.
Mentre tanto accadeva dalla parte della frontiera napolitana, il corpo d’armata francese stanziato nelle vicinanze di Roma, dopo varie infruttuose trattative per un pacifico scioglimento dell’ast ru so problema politico che agitavasi, e dopo l’arrivo di nuovi rinforzi venuti di Francia, a’ primi giorni di giugno aveva ricominciato le ostilità, e con tal vigore proceduto all’oppugnazione, che quantunque i mezzi di resistenza preparati da quei repubblicani fossero cresciuti a mille doppi, erasi non pertanto, con eroica costanza dalla parte francese, giunto in breve tempo a vincerli tutti successivamente, liberando per tal guisa Roma da quelle catene, che nel più duro modo la tenevano avvinta. E perché poi la occupazione di una parte interessante dello stato romano venuta in potere dell’esercito francese non menasse a novelle complicazioni politiche, il generale Oudinot, al momento stesso in cui la capitale del mondo cristiano cadeva sotto il peso delle sue armi, spediva a Gaeta il colonnello N y el per presentarne rispettosamente le chiavi al Santo Padre.
Quando in tal maniera la romana repubblica scrollava da un lato, già dall’altro le sue vestigia erano sparite del tutto; perciocché le truppe austriache, procedendo con maggiore celerità , non solo avevano in pochi giorni, dietro un sanguinoso conflitto, a viva forza occupata Bologna, ma erano altresì venuti al possesso delle Legazioni e delle Marche, dopo di aver debellati i difensori d’Ancona, e provveduto con vigorosa attitudine al ritorno dell’ordine sì turpemente turbato.
Quietava dal rumor delle armi lo stato romano, e quasi per incanto l’anarchia spariva dal suolo toscano; poiché alla semplice nuova dello avvicinarsi di un corpo austriaco, cui invano la sola Livorno volle opporsi, la Toscana talmente si riscosse da l giogo sofferto, che se gli agitatori non si fossero precipitosamente altrove riparati, neppure un solo fra essi dal terribile risentimento di que’ popoli commossi sarebbesi salvato.
Chiunque alquanto innanzi fosse stato per poco colpito da quelle sonore e vuole parole proferite da tanti nuovi apostoli di libertà, che tutto cioè bisognasse distruggere, e che ogni cosa si dovesse rinnovellare dalle fondamenta, avrebbe senza dubbio creduto, che alle future generazioni si stasse preparando quella felicità spacciata dell’età dell’oro. Ora dunque che gli effetti erano stati tutt’altro, accortisi i popoli dell’artifizio usato, che sotto l’agitazione si nascondeva la distruzione di lutti gl’interessi sociali, e che la insolenza, la rapacità, la violenza a passo uguale erano camminati, si maledissero le novità succedute, e tutto lo sdegno mostrassi contro i novatori.
CAPITOLO XXVII
Prende il governo i necessari provvedimenti a svellere le radici del disordine, ed a riformare il ministero del 16 maggio. Il Papa da Gaeta si tramuta in Portici, e la città di Napoli grande allegrezza ne mena. Gli agitatori meditano nuovi sovvertimenti per la festività di Piedigrotta, e per la benedizione che il Santo Padre nel 16 settembre deve impartire dalla reggia al popolo napolitano: le macchinazioni si scovrono, ed una processura a carico dei congiurali tosto incomincia.
Quantunque nel regno la rivoluzione fosse stata nel suo corso incatenata, non pertanto bisognava bene ribadirne le catene, onde i suoi sforzi non avessero potuto tornar funesti un’altra volta, e precipitare la società in un orribile caos. Vero è che dopo i fatti del 15 maggio, dopo la insurrezione delle Calabrie e le turbazioni del Cilento, essendo i più audaci partigiani per la repubblica, come un Ricciardi, un Lacecilia, un Saliceti, un Romeo, un Pl u tino, un Petruccelli, un Zucchetti, fuggiti dal regno, vi fosse stato poco a temere di novelli sconvolgimenti; ciò nondimeno, rimasti anche molti de’ principali esaltati, tra per l’estese relazioni che tenevano, tra pe’ mezzi di che disponevano, e tra per l’autorità che tuttavia esercitavano, obbligavano il governo alla massima vigilanza, onde non avessero essi potuto e colle parole, e co’ scritti e con altri fa tt i illudere un’altra volta la pubblica opinione, e cercare per tal modo di agitare novellamente lo stato.
Erano fra essi umori diversi. I più paurosi, temendo i castighi cui si sarebbero esposti ove apertamente avessero agito, fingendosi ingannati dalle passate rivolture, mostravansi alquanto più circospetti, anzi disposti a conciliarsi colla parte regia. I più costanti volevano aspettare qualche tempo per vedere a che andassero a finire le fazioni di guerra in Ungheria, le ribellioni di alcuni piccioli stati della Germania, i casi di Francia, e sopratutto le mosse dell’Inghilterra. Ma i più animosi ritenendo per fermo, che la ribellione ungherese stasse già per trionfare, che l’impero d’Austria si trovasse sull’orlo di un precipizio, che la Lombardia dovesse tra poco acquistare la sua indipendenza, e fidati altresì ne’ partiti che agitavano la Francia repubblicana, e nell’appoggio che speravano dall’Inghilterra, non lasciavano cadere la menoma occasione per preparare disordini gravissimi. Mettevano avanti costoro le ricchezze che spacciavano, la gloria che si avrebbero acquistata quegli che li avessero seguiti, gli animi sdegnati di tutte le popolazioni dal Faro al Tronto per le enormità che al governo accagionavano. Promettevano, si offerivano, la potenza loro oltre ogni credere magnificavano.
In tale stato di cose trovossi il governo obbligato a prendere un altitudine conveniente al bisogno: spiare attentamente i passi degli autori dei cessati disordini, senza perdere di vista gl’illusi, o trascinati quasi involontariamente ne’ succeduti rivolgimenti; e sopratutto assicurare nelle mani della giustizia coloro che di bel nuovo macchinavano.
Così cominciarono le processurc politiche, e come conseguenza di esse, in breve tempo le diverse prigioni del regno presentarono un numero di 1610 detenuti politici
Questi primi passi produssero quell’effetto che se ne attendeva, poiché spaurirono siffattamente gli esaltati, che in pochi giorni cessata quella specie d’incertezza, l’autorità del governo fu più avvertita, e l’aspetto politico di tutto il regno ritornò ad essere nello stato normale desiderato.
Per quanto in tali spedienti di pubblica salvezza fossero stati unanimi i ministri, pure nell’ulteriore sviluppo non potevano andare in perfetto accordo tra loro. Il vecchio principe di Cariati, che per la sua prudenza seppe tanto bene conoscere i tempi, ora male misurandoli, volendo applicare ad un male nuovo rimedi antichi non rispondenti alla circostanza, in cui solo colla fermezza avrebbonsi potuto evitare ulteriori agitazioni, negava il suo consentimento alle misure rigorose che richiedeansi. Un altro ministro che, dalla vita oscura che traeva prima del 1848, era dipoi passalo ad esercitare la più grande influenza nel governo ai tempi calamitosi, e che la pubblica fama accennava per uno de’ principali autori dei succeduti rivolgimenti, non osava manifestare il suo avviso, e tenuto in diffidenza, sentiva sfuggirsi dalle mani il potere. Ed un terzo finalmente, al quale addebitavasi, che nel giorno funesto del 15 maggio avesse anch’egli rappresentata la sua parte tra le fila de’ ribelli, quantunque cangiata la insegna avesse poi agito, stante al potere, in tutt’altro senso, neppure avrebbe potuto con animo sincero procedere in quella via che il bisogno indicava.
Divenuto adunque indispensabile la composizione di un novello ministero che avesse dato a sperare con fondamento il perfezionamento delle istituzioni occorrenti a dar forza e sicurezza allo stato, ed a porre il governo su basi più solide da non lasciare il menomo addentellato a qualunque perturbazione, al cader di agosto 1849, meno il principe d’Ischitella, il cavaliere Longobardi ed il brigadiere Carrascosa, della fede e sincerità de quali il Re si era pienamente assicurato, gli altri ministri del 16 maggio erano amossi, e rimpiazza t i, oltre ai tre rimasti, dal cavaliere D. Giustino Fortunato, qual presidente del consiglio, dal commendatore D. Pietro d’Urso, e dal cavaliere D. Ferdinando Troia.
Mentre tanto operavasi per la generale tranquillità, le nuove che giungevano sulla compiuta disfatta toccata a’ ribelli d’Ungheria vieppiù contribuivano ad assicurare il regno da ulteriori agitazioni. Peraltro chiunque si fosse fatto con indifferenza a calcolare sull’avvenire, avrebbesi dovuto persuadere, che dal momento in cui la Russia aveva tratta la spada a difesa dell’ordine minacciato in Europa, la rivoluzione ungarica sarebbe stata certamente spenta. È vero che decisa quella lotta parve non pertanto che, per la protezione accordata pe’ consigli dell’Inghilterra dalla Porta Ottomana ai ribelli ungheresi fuggiti sul suo territorio, si fossero mostrati de’ segni di una prossima generale conflagrazione; ma poiché tutti gli altri governi, per troppo buona ventura convenivano, che a costo di qualunque sacrificio, e nel fine di evitare nuove complicazioni, l’armonia tra loro non dovesse affatto turbarsi, così le fiamme animatrici del minacciato vastissimo incendio innanzi tempo disparivano.
Rischiaratosi in tal maniera l’orizzonte politico da per tutto, la più grata novella moveva a grandissima letizia la città di Napoli, poiché il Sommo Pontefice Pio IX, lasciata Gaeta, veniva nelle ore del meriggio del 4 settembre per la via di mare a fermar sua stanza nel real palagio di Portici. Cinque piroscafi, de’ quali uno francese, due spagnuoli e due napolitani s e rviva n di scorta alla fregata a vapore, su cui insieme al Re stava il Santo Padre, il quale fra il tuonare incessante de’ cannoni de’ castelli, dal bordo del legno radente il lido benediceva la Napoli bella, che aveva già per mezzo del suo municipio umiliato ai piedi di Lui il vivo desiderio che sentiva di tributargli dappresso quei sentimenti di filiale devozione, da’ quali veniva pur troppo animata.
Appena il Santo Padre giungeva in Portici, che tosto lutto il corpo diplomatico, che lo aveva seguito in Gaeta, traeva a quella volta, per rinnovare gli attestati di riverenza e di ammirazione, de’ quali insino allora le più belle pruove aveva date. Compiacevasi il Pontefice di cosiffatta sollecitudine, e nuovamente loro dichiarava la riconoscenza che sentiva per la riverenza mostratagli nel colmo delle sue amarezze in Roma. Rammentava al tempo stesso le amorose e previdenti cure del Principe, che l’aveva ospitato, e con viva emozione indicava la immensa gratitudine che verso Re Ferdinando professava. Questa ultima dichiarazione tanto colpiva i personaggi colà raccoltisi, che recatisi prestamente nella reggia di Napoli, per mezzo dell’ambasciadore di Spagna a questo modo manifestavano al Re, che amabilmente accoglievali, i loro sentimenti:
«Sire —Il corpo diplomatico accreditalo appo la Santa Sede, crede compiere un dovere affrettandosi di offrire a Vostra Maestà i suoi rispettosi omaggi. Avendo seguito il Sovrano Pontefice nella contrada che gli è servita di asilo, noi siamo stati testimoni della sollecitudine tutta filiale di Vostra Maestà per fare obbliare al suo ospite venerando di trovarsi Egli sopra una terra straniera. E Vostra Maestà vi sarebbe riuscita se il cuore di Pio IX potesse dimenticare le sventure e le sofferenze de’ suoi popoli. La causa della giustizia, grazie a Dio, è trionfata; e quando nell’avvenire si farà menzione di quest’epoca sempre mai memorabile, dopo aver renduto omaggio alle virtù veramente evangeliche che il Santo Padre à manifestate in questi giorni di pruova, vi si associerà il nome del Sovrano, che gli à dato ne’ suoi stati un’ospitalità sì degna di un monarca» Commosso il pio Re, rispondeva; essere molto sensibile alle manifestazioni che riceveva; in quanto a Lui, per l’ospitalità data al Santo Padre, fatto segno agli insulti ed agli scherni di un popolo traviato, non avere adempito che ad un dovere di ogni cristiano cattolico; esser per tutti consolante, che le amarezze del Sommo Pontefice, sofferte con vera rassegnazione ai divini voleri, ormai volgessero al loro termine; e per Esso poi essere di somma soddisfazione aver potuto apprezzare in tale occasione le qualità di ciascuno, e la sincera divozione mostrata pel Santo Padre da tutto il corpo diplomatico.
Tale essendo lo stato delle cose, e manifesta la intenzione de’ potentati d’Europa a svellere le radici delle ribellioni ovunque si abbarbicassero, sarebbe stata la più grande stoltizia di voler provocare nel regno ulteriori perturbazioni. Ma gli agitatori non si erano peranche stancati, e con nuove macchinazioni preparate speravano di conseguire qualche rilevante successo.
Appressavasi la solennità del dì 8 settembre, sacro in Napoli alla Madonna di Piedigrotta, alla quale il Re, con tutta la real famiglia in ogni anno si reca in forma pubblica, percorrendo in eleganti cocchi, in mezzo a doppia fila di numerose milizie, l’amena strada che vi conduce. E poiché a tal festività una straordinaria moltitudine di popolo, e dalla capitale e da’ paesi circostanti concorre, così coloro che follemente al buio lavoravano, il modo sta
bili vano a poterla turbare. Ad eseguire cotanto reo disegno, nella notte che precedeva quella ricorrenza affiggeano in talune cantonate della città un cartello del tenor che segue:
«Proclama al popolo Probi ed onesti cittadini.»
«Al tradimento, allo spergiuro, oggi si aggiunge lo scherno, l’insulto. Poche centinaia di mascalzoni vestiti alla borghese, a bella posta pagati dal vero partito del disordine faranno una dimostrazione in favore di quel Borbone, sotto il cui brando mille vittime e mille, innocenti e tradite, sono barbaramente cadute. Oggi si conculcherà con gioia e con evviva quella terra fumante ancora di sangue innocente e cittadino. Si esulterà da una fazione in un giorno in cui migliaia e migliaia di cittadini piangono fra i ceppi, e fra le sevizie innocentemente. Popolo soffrirai tu questo insulto? Per Dio che lo potresti far pagar caro ad onta anche di pur centomila baionette! Ma nò, il giorno dell’ira è apparecchiato, non quest’oggi, esso però non è lontano: verrà il giorno della tua vendetta, e la vendetta del popolo, è vendetta di Dio. La truppa non è contro di te, eccetto i famelici svizzeri, che saranno distrutti dal tuo furore. Popolo, oggi non ad altro ti appella la patria, la giustizia, l’onore, che a non concorrere ad una dimostrazione ridicola, ad una festa ingiusta. Percorrerai altre strade più recondite, e dimostrerai per ora che sei forte de’ tuoi dritti. Centomila carcerati ed emigrati, il sangue fumante di tanti eroi estinti a tradimento, dimostrano mai sempre ed ogni giorno, essere i dritti del popolo inviolabili ad onta della forza bruta, delle baionette, e delle ridicole pagate, e procurate cenciose dimostrazioni di lazzari. Popolo sarai unito, sarai forte, e vincerai fra poco. Giuro a Dio, che fra breve sarai libero— Viva il popolo, viva l’Italia, viva la libertà: morte agli spergiuri, morte a’ gesuiti.»
Ma come il legittimo governo erasi in tutto il suo potere ristabilito, così il buon popolo di Napoli ripigliato avea la sua naturale giovialità, con che non curando la sostanza di que’ cartelli sediziosi, ne puniva con disprezzo i disperati autori. Quindi recavasi in folla al largo del real palazzo, ed in tutt’i punti della lunga via che mena al santuario di Piedigrotta, anzioso di rivedere, benedire e salutare con le più tenere dimostrazioni di affetto l’augusto ed amato Sovrano, il quale in questo giorno veniva compensato dall’amore tenerissimo de’ suoi fedeli sudditi di tutti que’ travagli che nella dolorosa epoca del disordine avea dovuto paternamente in difesa di essi affrontare.
Tornato intanto a vuoto siffatto tentativo, preparavano gli agitatori, nuovi, anzi più formidabili mezzi per venire a capo de’ loro disegni, perché tanto più cresce la veemenza del fuoco, quanto più sono brevi i confini che restringono l’incendio. Sapevano che alle pie istanze del Sovrano, il Papa dovesse nel giorno 16 settembre spandere sul popolo napolitano, dall’alto della regia, la piena delle celestiali benedizioni. Un segreto conciliabolo succedeva tosto tra i principali di essi, e persuadendosi essere agevole il profittare di tale occasione per suscitare un tumulto, gittando il popolo nello spavento, sulla scelta de’ mezzi convenivano. Divisi gl’incarichi, taluni dovevano nella notte precedente all’augusta cerimonia affìggere alle principali cantonate della città de’ proclami sovversivi, altri gittare de’ serpi vivi tra l’affollata moltitudine, ed altri per ultimo lanciare in mezzo alla stessa un apparecchio a guisa di bomba, che scoppiando nel cadere, producesse spavento e scompiglio.
Per quanto si fossero adoperati i cospiratori a procurarsi le vipere, non fu per essi agevole il poterle avere; epperò mancato il secondo mezzo, si tennero preparati a menare ad effetto gli altri due.
Allorché la notte del 15 a 16 settembre era già molto inoltrata, uno de’ congiurati, movendo per le solitarie vie della capitale cauto e circospetto, riusciva ad affiggere all’angolo di Porta Alba, a quello del Vico Nunzio a Toledo, all’altro della strada S. Giacomo a rincontro del castello, ed a quello della via Trinità Maggiore, questo sedizioso cartello:
«Al popolo napolitano La tirannide vacilla, e già volge al suo termine: il carro dell’anarchia governativa corre ornai al pendio: il trionfo de’ tristi è crollante; essi cadranno, ma nel sangue. La forza del liberalismo non è abbattuta come si crede; e se ora cercano distruggere l’opinione, l’idea, il progresso, vanno ingannati.»
«Popolo, la voce della reazione ti spinge con ogni mezzo a ricevere la benedizione del vicario di Cristo; ma il Pontefice è un istrumento in mano al Borbone, onde servirsene a’ suoi segreti e perversi disegni, colorire l’infamia, legalizzare il tradimento, lo spergiuro, onestare tanti delitti. Pio IX è prigioniero! Popolo la dolce voce della patria ti scongiura a battere altra via per te più onorata in un giorno in cui un’augusta cerimonia vien profanata dal partito del vero disordine: ti scongiura a non concorrere ad una benedizione, che sarebbe piissima, santissima, se fosse spontanea, e diretta ad un fine santo e giusto; ma che infelicemente non è spontanea, è ipocrita e diretta allo scopo di radunar gente e fare una dimostrazione a quel Borbone, che mille fatti dimostrano infame, traditore e spergiuro, e forse far gridare abbasso quella costituzione, che in realtà non esiste, e che tutti i buoni cittadini vogliono ad ogni costo.»
«Famiglie derelitte, madri desolate, spose infelici, correte voi ad una benedizione fatta dare a bella posta per più opprimere, per più insultare i vostri mariti, i vostri figli, i vostri genitori carcerati, innocentemente perseguitati? No per Dio! Una benedizione che ha lo scopo di opprimere, d’insultare, e ridestare un giusto fremito d’indignazione per l’innocenza tradita, per la virtù oppressa, per l’infamia in trionfo, non può essere la benedizione di Dio, la quale scende solo e sugli umili di cuore, e su i mansueti. Il Dio degli eserciti non permetterà mai una sì terribile profanazione.»
«Restituire a ciascuno i suoi dritti, non ledere alcuno, sarebbero più che le benedizioni. Ma lo scopo è la reazione. E tu, o popolo, calpesterai questa reazione, starai lungi da questa ipocrita cerimonia, e Dio ti benedirà, l’Europa ti giudicherà degno della libertà, e vero popolo italiano. Il consiglio degli empi andrà a vuoto. Viva Dio, viva la religione, viva l’Italia, abbasso l’ipocrisia, morte alla polizia.»
Neppure questo mezzo valse a stornare il popolo religioso a concorrere alla preparata cerimonia, ed il dì 16 settembre, ricorrendo la domenica, sorgeva propizio a solennizzarla.
Erasi fin dalle prime ore di quel giorno raccolta un’immensa moltitudine d’innanzi la regia. Le pie congregazioni, gl’istituti, le religiose associazioni pe’ fanciulli, il numeroso clero, e la più parte de’ pacifici cittadini d’ambo i sessi erano già convenuti con modesto contegno alla sacra cerimonia, per attendere che dal principale verone del real palazzo si fosse a tutti mostrala la sacra persona del Pon t ef iceper versare su’ fedeli la piena delle grazie del Signo recon solenne benedizione. Scoccavano le dieci e mezzo diFrancia, ed il Papa non era ancora giunto dalla sua di mora«di Portici, quando s’intese la esplosione di un col po,che produsse un momentaneo agitamento in que ll’ im mensopopolo. Tosto ne fu arrestato l’autore, e tratto immantinente al posto di polizia del quartiere. Interrogato dall’autorità sull’accadu t o, dichiarava; aver dalla setta no tacol nome unità italiana ricevuto il sacrilego mandato; quelloil mezzo, il subuglio e l’uccisione di molti distinti personaggilo scopo.
Queste erano adunque le nuove trame, che la setta de gli unitari italiani preparava. Come ella fosse sorta, e che cosaavesse nel regno operato, è appunto quello che ora saremoper dire.
CAPITOLO XXVIII
Origine e progresso della setta l’unità italiana; suo scopo, e mezzi adoperali per conseguirlo. Si arrestano parecchi congiurati, e tanto dalle confessioni di alcuni fra essi, quanto dalle dichiarazioni di altri, e dalla scoverta di molti documenti, si viene a liquidare quanto basta sulla tramata cospirazione. Si procede tostamente contro di loro, ed un solenne giudizio indi a poco incomincia. La giustizia punitrice persegue i cospiratori da per tutto, e gli agitatori pertanto spacciano cose le più menzognere. Strana protesta degli emigrati di Sicilia, e cenno de’ danni sofferti nell’isola per la seguita ribellione. Provvedimenti del governo per lenire le piaghe della Sicilia, e perché la gioventù studiosa rettamente procedesse.
Dopo dieci anni, da’ miseri avanzi della setta de carbonari, operatrice nel 1820 della rivoluzione di questo regno e del movimento insurrezionale del Piemonte, sorgeva l’altra della giovane Italia, la quale con più maturo consiglio, con mezzi più misurati e relazioni più estese aspirava alla costituzione popolare di tutta la penisola italiana. Di grande impulso a questa nuova setta furono i rivolgimenti politici del 1830 in Francia, che discacciando da quel soglio Carlo X, proclamavano re costituzionale Luigi Filippo della casa d’Orleans. Colla moda, che tanta influenza commerciale accorda alla Francia, venivano in moda anche que’ principi sovversivi, cosicché in poco volger di tempo ponevano gagliarde radici, e si estendevano in tutte le classi degli stati italiani. Perseguitata da’ governi, trovava nondimeno la giovane Italia assistenza e protezione dapertutto, e specialmente presso i principali agenti de’ governi medesimi che, o col tradimento, o con la debolezza, sempre iniqui o stolti la secondavano. Messa in relazione strettissima con altre sette di Europa che sotto varie denominazioni allo stesso scopo miravano, saliva con quelle in tanto potere da produrre il generale sconvolgimento del 1848. In questo politico sovvertimento la Francia trovavasi innanzi a tutti gli altri stati di Europa, perciocché poneva in fuga il suo sovrano elettivo, precipitava in repubblica, e destava in quelli già agitati dalla tempesta un ardente desiderio d’imitarla. Tale era il novello scopo che faceva irrequieti gl’italiani dopo aver ottenuto ne rispettivi stati un governo monarchico rappresentativo; tale la causa onde col nuovo nome di unità italiana, superba dell’esito favorevole de’ primi suoi moti, con maggior furore tornava al cimento la giovane Italia.
Spandeva la setta dell’ un it à italiana le sue radici in tutte le principali città d’Italia. Roma, Torino, Milano, Venezia, Firenze, Napoli, Palermo, Cagliari, sede si erano di otto circoli generali: sottostavano ad essi i circoli distrettuali; a questi i comunali, e di essi determinava il numero la presente distribuzione territoriale. L’unità dello scopo, richiedeva l’unità dell’opera, ond’è che a capo di questi circoli tutti un consiglio supremo ed assoluto elevavasi. Componevasi esso di sette grandi unitari: comunicavano con lui, mercé la stabilita gerarchia, i circoli diversi delle province, de’ distretti, de’ comuni: un’arcana e convenzionale corrispondenza serviva a ragguagliarlo dell’abilità, dell’età, dell’ingegno, delle fortune, del carattere, del potere, delle relazioni di ciascuno degli associati: divenivano a lui con tal mezzo note le forze della società tutta: partivano da esso gli ordini supremi, ed a questi doveasi cieca e sollecita obbedienza.
A cosi vasto gerarchico ordinamento, che alla moltiplicità delle forze operative accoppiava la unità del potere imperativo, la cui mercé in unica volontà fondevasi quella di tutti i congregati, non mancavano i più avveduti provvedimenti, le più antiveggenti cure, perché ostacolo alcuno non si fosse frapposto ad avversare il desiderato effetto. Il troppo divulgar de’ settari misteri potea innanzi tempo disvelare le segrete mene de congiurati: la imprudenza di un solo avrebbe potuto distruggere il lavoro di tanti anni, le speranze e le ambizioni di tanti uomini. Ad ovviar inconveniente sì grave, distinguevansi i settari per tre diversi gradi, di uniti, di unitari, di grandi unitari. Agli ultimi mezzi, all’ultimo scopo della setta, non partecipavano che i soli grandi unitari: erano essi tra quelli che le sperimentate pruove d’ingegno, di fedeltà e di devozione alla loro causa facean degni di così eminente ed importante grado: non accordavasi agli altri che la sola facoltà del consiglio, ed imponeasi loro in ricambio una cieca e passiva obbedienza. La smodata pluralità de’ suffragi ne’ diversi circoli, le private discordie, i tanti aggregati potevano generar discrepanza di opinioni, e dar campo allo spirito di parte la dove non richiedevasi che unità di mente, di opra, di deliberazione. A queste possibilità sovvenivano le istruzioni della setta: il numero decomponenti i circoli, stabilivasi, non poter eccedere i quaranta: tra essi proibivansi le più lievi inimicizie o discordie, ed al presidente de’ rispettivi circoli imponevasi di conciliarle ove fossero esistite. Per sostentamento delle congregate masse, per gl’infortuni di alcuno degli associati, pel sollecito e regolare andamento del settario lavoro potea talvolta sorgere il bisogno di sopperirvi con mezzi pecuniari; per lo che stabilivansi all’oggetto le volontarie offerte de’ settari a seconda delle rispettive facoltà, designa vasi la persona di un questore che custodisse il raccogliticcio erario, e davasi ad ogni circolo il dritto di ottenerne le abbisognevoli somme. Un nuovo adepto potea spaventarsi innanzi agli orrori dell’esecrabile congiura, e vinto dalla imperiosa voce della coscienza, arrestarne il corso con una salutare rivelazione; epperò pria d’iniziarlo a misteri della setta, al più severo squittinio era egli sottoposto. La educazione, la famiglia, gli amici, la vita anteatta, tutto poneasi a calcolo nel valutare la utilità del nuovo ascribendo, e non vi era egli unito, se non dopo le ripetute pruove della sua capacità ad ubbidire e conservare il segreto. Ad associare un impiegato del governo, il più severo squittinio si operava; ed ove per avventura si fosse trattato di quegli che o per dovere, o per una ambigua condotta, avessero potuto destare sospetti su la loro fede, l’ammissione era all’intutta vietata. Temevasi nel conflitto più che altro la militare resistenza; ed a vincerla e neutralizzarla’, consigliavasi la seduzione delle milizie, e prometteansi ad esse onori, ascensi e speciose ricompense.
A comprendere in poche parole qual fosse lo scopo della setta degli unitari, e quali i mezzi per conseguirlo, basta tener sott’occhio la seguente formola di giuramento, che gli ascritti, sopra il libro del vangelo, un crocifisso ed un pugnale erano obbligati a prestare.
«Nel nome santissimo di Dio Uno e Trino, e nel sacro nome d’Italia, io giuro che questa è la mia credenza, questo il mio esempio, questa la mia arma. Giuro di usare tutte le mie forze per liberare l’Italia da ogni oppres sione interna ed esterna: e se per costruire il grande edifizio della sua unione bisognasse il mio capo, io lo metterò come pietra del grande edilizio. Giuro di tacer sempre e di non dire i nomi de’ componenti il mio circolo, nemmeno a quelli di un altro circolo: giuro di ubbidire ciecamente a quello mi verrà comandato. E se manco al mio giuramento, questo libro mi accusi, questo Dio mi condanni, e tu, o fratello, feriscimi con questo pugnale.»
Questa era dunque quella setta, che ne’ tempi de’ quali facciamo discorso intendeva ad una repubblica federativa in Italia, procurando a tale scopo de’ mezzi che minacciavano alla società una generale conflagrazione.
Intanto la incominciata istruzione sull’attentato del 16 settembre innanzi alla regia svelava sempre più gli arcani ed i segreti della setta, a misura che or l’uno or l’altro de’ suoi componenti andava presso la giustizia assicurato; perciocché alcuni fra essi, o che venissero animati dalla speranza della impunità, o che volessero in certa maniera disgravare se medesimi dall’imputazione ricevuta, circostanziatamente rivelavano le trame ordite, e tutti coloro che n’erano stati gli autori ed i complici.
Difatti un oscuro ligatore di libri, dalla provincia di Basilicata, ove apparteneva, erasi tramutato al volgere del 1848 in Napoli in cerca di un migliore sostentamento, e vi veniva con un grande segreto nell’animo; perciocché da un suo concittadino e lontano parente, che, dopo avere abbandonato il pacifico ritiro del chiostro, a quel tempo reggeva in Napoli un comitato della setta la giovane Italia, ed al quale, siccome spacciava, appartenevano molti ragguardevoli soggetti, era stato assicurato, che qualora avesse voluto anch’egli associatisi, avrebbe potuto senza dubbio trovare un solido punto d’appoggio per migliorare di molto in appresso la sua condizione. Cosiffatte assicurazioni rinfrancavano l’animo di quell’uomo, che andava in cerca di un vantaggioso avvenire: si ascrisse alla setta, ne rilevò i segreti, ne scorse le pratiche, ne conobbe i soggetti; e quando poi dopo breve tempo cadde insieme con altri nelle mani della giustizia, non solo non seppe negare le trame che si ordivano per un generale sovvertimento, ma rivelò altresì tutti quanti coloro che al suo comitato si appartenevano.
Al modo stesso praticava l’autore della esplosione innanzi la regia, il quale facendosi nel suo interrogatorio circostanziatamente a riferire ciò che bisognava conoscere sul concerto preso, su’ mezzi adoperali a riuscirvi, e sul numero e sulle persone de’ congiurati, apertamente indicava le fila della macchinata cospirazione.
Queste confessioni, che non lasciavano più alcun dubbio intorno ai fatti che rivelavano, dopo le dichiarazioni di un altro correo, stato già il più attivo agente della setta, acquistavano tutta quella limpidezza, che una processura di tal fatta richiedeva. E quantunque egli avesse in sulle prime negato ogni cosa, messo poco dopo in contraddizione degli altri, aggiungeva alle rivelazioni de’ suoi compagni le più minute circostanze sulle persone de’ cospiratori, e su’ mezzi preparati a menare ad effetto il reo disegno.
Non rimanendo, dopo le seguite indagini e le raccolte pruove, altro a praticarsi per porre in chiaro aspetto la esistenza di quel reato, la gran corte criminale di Napoli, con rito speciale procedendo, apriva con molta solennità la discussione di una causa cotanto rilevante.
Quando già sull’accennate tracce il giudizio dell’unità italiana progrediva, un altro, anche di attentato a rovesciare il governo ed a proclamare la repubblica, veniva sollecitamente trattato, con rito speciale, dalla stessa gran corte criminale di Napoli.
Sul cominciare di marzo del 1849 era giunta la polizia a scoprire, che alcuni naturali di Gragnano stassero adoperando tutte le arti per associare esecutori al pravo disegno di rovesciare il governo, proclamando la repubblica. Lavoravano a tale scopo in segrete ragunanze, e procedevano ad ampliare la loro setta, anche somministrando a’ popolani giornaliero assegnamento. In seguito di questa scoperta, e di molti elementi dell’iniquo attentato, erano stati assicurati alla giustizia diversi individui, a danno de quali compilatosi con ogni cura il processo, quindici ne venivano sottoposti a giudizio. Il pubblico ministero nelle sue orali conclusioni chiedeva la pena di morte, col laccio sulle forche e col terzo grado di pubblico esempio contro quattro di essi, come capi della cospirazione, attentando alla dignità ed alla vita del Sovrano regnante, ed alla sostituzione di forme democratiche al regime del governo esistente; e dimandava la pena del terzo grado de’ ferri, con multa, malleveria e spese del giudizio in solido contro gli altri undici, come semplici componenti di tale cospirazione in setta. La gran corte, dopo di avere, secondo il rito, ascoltate le difese degli avvocati degl’imputati, accordava la libertà provvisoria a quattro di essi, ordinava più ampia istruzione sul conto di altrettanti, condannava i quattro capi della setta a ventiquattro anni di ferri, un altro a ventidue, ed i rimanenti due a venti anni.
Nella società v’à sempre un certo numero di persone che, o per un riscaldamento di passione, o per malvagi disegni, fanno il possibile per iscreditare chi governa. So f fiano nel fuoco quando sia prossimo a spegnersi; spacciano a tempo cose più favolose che strane, e nulla poi mai trascurano onde alimentare od accrescere lo scontento nei popoli. V’àn pure degli altri che, o portati da amicizia o da parzialità per chi è minacciato, o per un pio e spontaneo impulso di orrore pe’ castighi, con pari ardore e con insistenza pari sogliono, senz’avvedersene, cagionare l’effetto medesimo.
Non senza ragione si è voluto dir questo, poiché allorquando la giustizia punitrice procedeva e nella capitale e nelle province contro gli autori di tanti disordini, le voci le più assurde e le più strane circolavano. I più furbi, pronti sempre alla ferocia ed alla misericordia, alle adorazioni ed alle esecrazioni, secondo che si presenti l’occasione di provare con pienezza or l’uno or l’altro sentimento, trasportando con destrezza le cospirazioni avvenute da coloro che le tramavano contro quegli cui venivano mosse, sostenevano, che tanto per l’appunto il governo praticava, per avere cosi il destro di reagire contro chi aveva più figurato ne’ dolorosi avvenimenti di cui era stato teatro questa terra. Ed i più audaci poi, foggiando crudeltà, sevizie e maltrattamenti a danno degl’imputati, doni e promesse a favore de’ denunciatori, davano del favoloso a tutto quello, che documenti e fatti incontrastabili dimostravano a ribocco. Così non essendovi modo a resistere a tante insidie, le imputazioni che al governo menavansi da per ogni parte, giungevano in breve a colmare la misura.
Mentre in tal guisa le arti e le istigazioni si usavano nel continente per fecondare i germi de’ mali umori, altre pratiche, che non saprebbesi se più maligne o ridicole, si tenevano nella Sicilia. Gli emigrati a Parigi ed a Londra avevano segnata una protesta contro il governo; e perché non venisse ignorata, nascostamente spargeasi in tutti i luoghi dell’isola. Essa era espressa così:
« Il governo napolitano colla minaccia della prigionia e dell’esigilo tenta di ottenere da’ componenti della camera de’ pari e di quella de’ comuni di Sicilia un atto d’individuale ritrattazione al decreto de’ 15 aprile 1848 del generale parlamento, col quale si dichiara decaduto dal trono siciliano Ferdinando Borbone e tutta la sua dinastia. Quel decreto fu pronunziato spontaneamente, liberamente, all’unanimità dalle due camere. Ebbe l’adesione esplicita di tutt’i comuni dell’isola in particolare, e del popolo in generale. Si poggia sul dritto imprescrittibile dei popoli, e non meno che sul dritto scritto della costituzione del 1812, nel capitoloper la successione al trono.»
«I sottoscritti rappresentanti del popolo siciliano, i soli che trovansi attualmente in Francia ed in Inghilterra, protestano innanzi Dio e innanzi le civili nazioni contro questo nuovo atto d’illegalità; protestano contro ogni forza e valore che il governo di Napoli vorrebbe dare ad un atto nullo ed incapace di qualunque siasi effetto, e sono persuasi che altrettanto faranno i loro colleghi della emigrazione, appena giungerà loro la nuova di quest’altro tratto di perfidia e di tirannide Parigi 26 novembre 184 Principe di Granatelli, deputato: Giuseppe Lafarina, deputato della città di Messina: Michele Amari, deputato della città di Palermo: Mariano Stabile, deputato della città di Palermo: Benedetto Venturelli, deputato della città di Partendo: Luigi Scalia deputato.»
«I sottoscritti componenti la emigrazione siciliana attualmente in Parigi ed in Londra aderiscono pienamente alla superiore protesta de’ rappresentanti del popolo siciliano — Il barone di Friddari: Giacinto Carini, colonnello al primo reggimento di cavalleria: Alfonso Scalia, maggiore alla prima brigata di artiglieria di piazza: Carmelo Agnetta, capitano al terzo battaglione: Francesco Venterelli, capitano dello stato maggiore generale: Francesco Stabile, primo tenente del sesto battaglione della guardia nazionale: Antonio Gravina, capitano dello stato maggiore generale.»
Queste erano le improntitudini di quegli ambiziosi, ai quali ciò che veramente angeva era il pensiero di essere costretti ad errare in terre straniere, e di dover abbandonare un’arte, della quale si erano per lo innanzi pur troppo approfittati. E v’era mai bisogno, per chi aveva domata la ribellione, e che avrebbe potuto ben altrimenti ricompensare gli autori di tanti disordini, di procurarsi la ritrattazione di un atto nullo di per se stesso, perché figlio della rivoluzione, e perché superiore ad ogni mandato? Non potevasi certo immaginare una stranezza maggiore di questa! Ma per chi vuol meglio comprendere la vera causa delle tenute pratiche, e conoscere al tempo stesso chi mai fossero coloro ch’erano stati al potere durante il sovvertimento della Sicilia, può ben di leggieri ravvisarlo da questo picciolo quadro delle profonde piaghe che la rivoluzione produsse a quell’isola.
Nel febbraio del 1848, vai dire ne’ primordi della ribellione, il sedicente governo di Sicilia si appropriava ducati ottocento settantamila quattrocento trentasette del danaro dei privati depositato nel banco, e ducati trecento quattromila dugento de’ depositi giudiziari: pel decreto del parlamento de’ 19 maggio 1848, prescrivendo la vendita o l’affrancazione delle rendite dovute allo stato, si dissipavano un milione cento novemila novecento trenta ducati: per virtù del decreto de’ 9 agosto dello stesso anno, dall’appropriazione dell’oro e degli argenti delle chiese, si ricavavano dugentocinquantatremiladugentotto ducati: pel decreto de’ 13 settembre 1848, sulla creazione della carta monetata, si realizzavano tremilioniseicentomila ducati: pel decreto de’ 20 decembre 1848, pel mutuo forzoso, duemilioniseicentosettantaduemilacento ducati: e per soldi non pagati, e per interessi non soddisfatti ai creditori dello stato, unmilionecentoventicinquemilaottocentottantanove ducati.
Ma non furono queste le sole piaghe che afflissero la Sicilia, poiché ben altre più da vicino toccarono le persone e le sostanze de’ cittadini. Eccone le principali fra le tante: 1° contribuzioni al tempo del comitato, pria che il palazzo delle finanze venisse in potere de’ ribelli: 2° contribuzioni in soccorso di Messina: 3° contribuzioni per gli esuli messinesi: 4° contribuzioni per far cannoni (oltre le campane delle chiese, e le statue di bronzo vandalicamente distrutte) 5°contribuzioni di una coltrice, o di tari dieciotto per fornirne la truppa: 6° muli e cavalli che i particolari furono obbligati a somministrare: 7° oggetti preziosi (ed erano essi di molto valore) della Madonna de’ trovatelli offerti dal suo cappellano: 8° sequestri di persone, riscattate in seguito con grosse taglie: 9° scrocchi, volgarmente detti componendo, che in ogni giorno avvenivano in grandissimo numero: 10° quantità di furti per le case e per le strade: 11°furti innumerevoli di animali campestri,denominati tali furti di abigeato, da che ne segui la penuria estrema delle carni e de’ formaggi: 12° abbandono delle campagne e dell’agricoltura : 13° straordinario inceppamento del commercio interno ed esterno: 14° quasi totale cessazione degli affari del foro, onde la miseria della massima parte di quel numerosissimo ceto: 15°nuova ritenuta pel soldo degl’impiegati, obbligati a lasciare una o più giornate, secondo che percepivasi una somma minore o maggiore dall’erario.
Tali furono le conseguenze della rivoluzione! Tale la eredità che gli agitatori lasciavano alla loro patria, della quale si dissero, come tuttavia si spacciano tenerissimi.
Essendo questo lo stato pur troppo deplorabile delle cose quando, compressa la ribellione, la Sicilia ritornava alla sua legittima dominazione, per necessità doveva il governo con molta sollecitudine occuparsi a lenire le profonde piaghe rimaste da’ succeduti rivolgimenti. Quindi con decreto de’ 16 novembre 1849 ordinavasi, che dal 1° gennaio 1850 dovesse venire nell’isola in piena osservanza la legge de’ 2 gennaio 1820 sulla carta bollata, e su’ dritti di bollo, di cui la Sicilia n’era andata esente per lo passato; e con altro decreto de’ 18 del seguente decembre prescrivevasi la formazione di un debito pubblico consolidato di venti milioni di ducati in capitale, per l’annua rendita di un milione, alla ragione del 5 per cento.
Quando così prowedevasi ai bisogni dell’isola, non trascuravasi nel continente un espediente pur troppo indispensabile nelle ricorrenti circostanze. Nelle tre rivoluzioni, cui il regno era andato soggetto nel corso di mezzo secolo, da che la Francia straziata dalle follie de’ libertini aveva dato il segnale diun generale sovvertimento, la più parte della gioventù studiosa, se non aveva contribuito a fomentare i disordini, non erasi però tenuta del tutto indifferente ad accrescerli. Epperò nel fine di coordinare una classe, che tanto potentemente influisce sul destino sociale, il governo sempre intento a prevenire novelle sciagure, prescriveva, che tanto nella capitale, quanto in tutti i capiluoghi di province, una commissione, composta di quattro probi ecclesiastici e di un commessario di polizia, strettamente invigilasse tutti quei giovani che a’ severi studi si sarebbero dedicati; e che a coloro fra essi, che si fossero nelle pratiche religiose mal comportati, dovesse venir negato di concorrere agli esami pe’ gradi accademici.
Cosi tra le intemperanze e le insidie degli esaltati e dei novatori, tra le speranze de’ buoni ed i timori de’ tristi, il governo con fermezza s’apprestava in questo tempo a comporre i desolati avanzi de’ succeduti sovvertimenti.
CAPITOLO XXIX
I governi di Europa, non esclusa la repubblica francese, s’impegnano a ristabilire la calma da per tutto, ma il procedere della Svizzera, per la protezione accordata agli attori principali delle seguite ribellioni, pone in grave rischio la pace de’ potentati. L’Inghilterra spaccia danni contro alcuni stati, e la condotta serbata a tal uopo rispetto alla Grecia muove il risentimento generale. Rientra il Papa ne’ suoi domini, e lasciando il regno, riceve manifestazione della più sincera devozione.
Il bisogno sentito da per tutto di sperdere le tracce dei passati disordini sollecitava principalmente la Francia repubblicana, che più era stata percossa dal flagello delle rivoluzioni. Già quel governo studiavasi a restituire la sua forza ed il suo nome all’autorità, non essendo possibile senza di essa la quiete necessaria alle opere pacifiche, e la sicurezza indispensabile allo sviluppo delle utili istituzioni. Per la qual cosa cominciavasi dal neutralizzare la forza de’ partiti agitatori, ed una riforma della legge elettorale ormai un argine importante opponeva alla eccessiva potenza acquistata dal popolo.
La libertà della stampa non cessava dalle sue improntitudini, né tralasciava di tener sempre desta l’agitazione. A questo male cotanto inoltrato anche portavasi efficace rimedio, il quale quantunque, per la condizione de’ tempi, non avesse potuto del tutto sradicarlo, riusciva non pertanto di grandissimo sollievo al corpo infermo.
La causa di tutti i disordini, degli eccitamenti alla guerra civile, dell’odio e del disprezzo pel governo, nella esistenza declubs principalmente si mostrava. Lunghi e dolorosi sperimenti, antiche e nuove ricordanze pur troppo disvelavano gl’imbarazzi, le miserie, l’orrore ed il terrore cagionati dal tenebroso lavorio degli incessanti perturbatori. Perché adunque la tranquillità non andasse più oltre vulnerata da questo lato viemaggiormente esposto, in piena osservanza si richiamavano le pene per lo innanzi fulminate contro le segrete associazioni.
Per cosiffatti provvedimenti la rivoluzione di febbraio 1848 a poco a poco dispariva; e tra i soggetti che tuttavia rimanevano irrequieti, i più rimarchevoli venivano a preferenza infrenati. Anzi perché la intenzione del governo viemeglio si mostrasse, con bel pretesto abbatteansi in tutte le piazze di Parigi gli alberi della libertà, che ricordando memorie di sangue e di terrore, non erano più tollerabili in quel riordinamento sociale.
Mentre però simultaneamente ed in diversi modi tatti gli stati d’Europa s’impegnavano al ristabilimento della calma, non mancava qualche circostanza capace a ridestare novelle apprensioni. La Svizzera, che sin dallo scorcio del 1846 dato avea il primo segnale dell’insurrezione, raccoglieva nel suo seno, all’entrare del 1850, senza numero profughi ed emigrati provvedenti dall’Italia, dalla Germania, e dalla stessa Francia, i quali ordivano al sicuro a danno degli stati limitrofi nuove sociali perturbazioni. Da Ginevra il protagonista Mazzini, esclamando, diceva, Roma non è più in Roma, ma la dove son io; l’assemblea romana non è sciolta, ella è soltanto dispersa; i triumviri, il cui potere dalle circostanze venne soltanto interrotto, vegliano, e sceglieranno il momento propizio per convocarla di nuovo.
E quantunque il governo della confederazione, desideroso di mantenere la neutralità e la indipendenza del paese, avesse sempre cercato di allontanare quegli ospiti poco leali, pure alcuni cantoni radicali, dove specialmente in maggior numero contavansi le associazioni straniere, e le fucine delle loro macchinazioni, apertamente rifiutavansi, senz’affatto curarsi delle conseguenze spiacevoli che potevano derivarne.
Le potenze di Europa prima dell’ultima guerra civile della Svizzera avevano attribuita alla sua politica interna un’importanza assai minore di quella che realmente meritava. Ben altrimenti però la riguardavano nell’epoca della quale discorriamo, poiché vedutosi chiaramente pericoloso il cangiamento dell’uso in abuso della proclamata neutralità del territorio svizzero, divenuto centro delle cospirazioni europee, l’Austria e la Prussia dapprima, e la Francia dappoi, rivolgevano al governo federale l’espressa dimanda, di bandire dal suo territorio tutti quei turbolenti fuorusciti che vi si erano rifugiati, riserbandosi nel caso opposto di adoperare quei mezzi che la propria sicurezza doveva suggerire.
Ma non ostante questa intimazione la Svizzera niuno spediente adottava; epperò rendutosi indispensabile per le due prime potenze il mostrare quanto fosse per esse agevole di passare dalle minacce ai fatti, di accordo colla Russia forbivano le loro armi per ottenere colla forza ciò che sconsigliatamente veniva loro negato. Quest’attitudine severa e minacciosa produceva indi a poco sorprendenti effetti. La Svizzera piegava interamente, e la più parte degli stranieri agitatori in breve veniva da quello stesso governo costretta ad altrove riparare.
Dopo questa, altra cagione di complicazione preoccupava seriamente l’Europa.
Quando il naviglio inglese, sotto la condotta dell’ammiraglio Parker, ritraevasi da’ Dardanelli, ov’erasi alcuni mesi innanzi recato per far decidere colla sua presenza la Porta Ottomana a respingere le pretensioni della Russia e dell’Austria contro l’accoglienza usata a’ rifugiati polacchi ed ungheresi,improvvisamente ed in modo ostile presentavasi sulle coste della Grecia, chiedendo istantemente la soddisfazione di taluni vantati crediti, l’indennizzo di alcuni danni recati ad un ebreo, la cui casa in Atene era stata da certi popolani in pieno giorno saccheggiata, ed il possesso di alcune isole della Grecia, sulle quali l’Inghilterra antichi dritti di dominio, diceva, di vantare. Ma se un ebreo era tutt’altro che suddito brittanno; se a soddisfare il debito non era possibile l’adempirvi prontamente; e se al preteso dominio sulle isole indicate ostavano antichissimi trattati, non si vedeva forse chiaramente, che in quel tempo la favola del lupo dasse a quell’inglese argomento bastante ad imitarla? Né a queste soltanto riducevansi le esigenze inglesi allorché la pace veniva da tutti i stati europei desiderata; mentre il governo della Gran Brettagna, per la fazione combattuta in Messina nel settembre del 1848 tra le milizie regie ed i ribelli dell’isola, moveva pretensioni contro il governo di Napoli per danni rilevanti, che spacciava a’ sudditi inglesi cagionati; e per la occupazione di viva forza ottenuta di Livorno da parte di un corpo austriaco, contro il governo toscano altrettanto praticava.
Come queste cose si sentissero dalle potenze interessate, ciascuno se l può pensare. Nondimeno per tanta cupidigia mostrata, bisognava aspettare tempi più favorevoli. La Russia però non si rimaneva indifferente alla condotta inglese, e come quella che aveva potentemente contribuito a domare i disordini, riputavasi a giusto titolo la più interessata nella pace generale. Ella adunque con quel piglio severo e dignitoso di chi coglie taluno su l’intraprendere di una ribalderia, per mezzo del suo ministro in Londra comunicava al governo inglese la seguente nota diplomatica:
«Erano appena allontanati i pericoli minacciati alla pace di Europa dalla precipitazione con cui l’ammiraglio Parker aveva superato i Dardanelli, che all’apparire della sua squadra sulle coste della Grecia venne a farli rinascere. La Russia non sa comprendere questa preoccupazione a creare complicazioni nell’oriente, quando nell’occidente d’Europa esistono tanti altri pericoli.»
«Ciascuno è il miglior giudice della sua propria dignità, e la Russia non pretende di contrastare all’Inghilterra il dritto di apprezzare e tutelare il suo onore come le piace; ma l’Europa più imparziale giudicherà se i mezzi di cui si valse in questa circostanza fossero degni di una grande potenza, come l’Inghilterra, verso uno stato debole e senza difesa.»
«Ma ciò che abbiamo il dritto di notare, e ciò di cui abbiamo il dritto di lagnarci, è la mancanza assoluta di cortesia dimostrata verso le due potenze che sono al pari dell’Inghilterra parti interessate ne’ trattati che costituirono la Grecia, e le quali dal 6 luglio 1827 in poi non avevano cessato di agire con perfetto accordo in tutto ciò che riguarda gli affari di quel paese. La Russia sapeva senza dubbio che l’Inghilterra avea certi motivi di lagnanza contro la Grecia, e che nel 1847 sotto l’amministrazione del signor Coletti era stata sul punto di prendere de’ provvedimenti per ottenerne giustizia. Ma da quell’epoca non avea più udito parlar di nulla, e pensava che interessi più gravi attraessero altrove l’attenzione della Gran Brettagna; in una parola non credeva che una quistione di simil natura potesse sembrare abbastanza urgente per giustificare l’impiego di mezzi si estremi.»
«Se la Russia avesse ricevuto la minima nota a questo proposito, non avrebbe mancato di consigliare alla Grecia di prendere in considerazione i reclami annunziatile, e se quest’ultima potenza avesse rifiutato di soddisfare alle sue domande, la Gran Brettagna avrebbe potuto adottare quei provvedimenti da lei giudicati convenienti per ottenere giustizia.»
«Ma l’Inghilterra à agito altrimenti, e non badò a far conoscere i suoi disegni alla Russia ed alla Francia; nessuna comunicazione fu fatta per sua parte sia a Pietroburgo, sia a Parigi, ed è soltanto quando il male fu fatto e l’attentato consumato, che la Russia e la Francia ne furono istrutte. Due volte il ministro russo ad Atene offerse i suoi buoni uffici al signor Wvse (ministro d’Inghilterra) che gli à rifiutati, dicendo che non potev’accettare l’arbitrato delle due potenze in un affare che non le riguardava.»
«La Grecia non è uno stato isolato: essa non può dire di essere un potere che non deriva che da se stesso. La Grecia è uno stato costituito dalla Russia e dalla Francia in virtù degli stessi dritti e nelle stesse condizioni dell’Inghilterra. Le tre potenze la crearono in comune, e s’impegnarono, ciascuna d’esse verso le due altre, a rispettare la sua indipendenza, a conservare l’integrità del suo territorio ed a sostenere la dinastìa che posero sul trono ellenico.»
«Certo nessuna delle tre potenze può arrogarsi il dritto d’infrangere l’opera comune, di minacciare l’indipendenza della Grecia, di frazionare il suo territorio, di scuotere l’esistenza della sua dinastia , umiliandola in faccia al mondo, esponendola agli assalti de’ partiti, incoraggiati dalla presenza di una flotta inglese, ed agli orrori di una guerra civile.»
«La Russia e la Francia sono essenzialmente e sventuratamente interessate alla conservazione della pace in Grecia: esse fecero a quella nazione anticipazioni di somme ed ànno il dritto di desiderarne il pagamento quando può farlo l’Inghilterra, e devono disapprovare chiunque tenta a porre la Grecia fuor di grado di far onore ai suoi impegni finanziari. Per conseguenza esse ànno il dritto di ricercare le cause di una vertenza che può aver per essa le più gravi conseguenze, ed immischiarsi in un affare, il quale, checché ne dica il ministro inglese, non riguarda esclusivamente l’Inghilterra, ma interessa egualmente la Russia e la Francia.»
« E’ vero che l’Inghilterra comunicò alla Russia uno stato de’ suoi reclami, ma ascoltando dall’altro lato le spiegazioni della parte avversaria, puossi giudicare che queste lagnanze sono alquanto esagerate, ed in ogni caso, esaminandone la importanza, non si può negare ch’essa sia fuori di ogni proporzione co’ mezzi impiegati per ottenere ragione.»
«La stessa cosa può dirsi, a for t iori, delle due picciole isole contigue al continente ellenico, e che l’Inghilterra rivendica come appartenenti alle isole ionie. Questa diventa una quistione territoriale, e la Russia e la Francia ànno il dovere di domandare, in virtù di qual dritto l’Inghilterra abbia la pretensione di mutare lo stat u quo che dura da 18 anni, di assumersi la responsabilità di rifare la carta della Grecia, e di appropriarsi una parte, per picciola che sia, del suo territorio? Questa quistione dev’essere esaminata dalle tre potenze.»
«La Russia, l’Inghilterra e la Francia avendo assegnato alla Grecia una certa estensione di coste, considerata come sufficiente alla sua difesa, voi dimanderete se questo scopo possa essere ottenuto nel caso che l’Inghilterra avesse un dritto di tenere un piede in quelle picciole isole, una delle quali è posta ad un ottavo di miglio dalla costa. L’imperatore v’incarica di far queste gravissime rappresentanze ài governo inglese, ed invitarlo a far cessare uno stato di cose, che nulla rende necessario o giustifica, e che espone la Grecia ai pericoli ed ai disastri della più grave natura.»
«Il modo con cui saranno accolte le vostre osservazioni getterà gran luce sulla natura delle relazioni che noi potremo sperare dimantenere d’ora innanzi coll’Inghilterra , ed aggiungere, col suo contegno verso tutte le altre potenze, grandi o picciole, le cui coste sono esposte ad improvisi assalti.»
«Ciò ci porrà pure in grado di conoscere se l’Inghilterra, abusando della posizione della sua immensa superiorità marittima, intenda di seguire per l’avvenire una politica d’isolamento, senza tener conto degl’impegni che l’avvincono verso gli altri governi, liberarsi da qualunque obbligo comune, da ogni solidarietà d’azione, e d’autorizzare ognuna delle grandi potenze, quando lo credono opportuno, a non riconoscere verso i deboli altra regola che la loro volontà, altro dritto che la forza materiale» In tale stato di cose la diplomazia discuteva, la Francia assumeva un’attitudine di dispiacenza degna della sua grandezza, e nello stesso parlamento inglese, non ostante che, quando trattasi di guadagnare, quasi sempre spariscono le rivalità di partito, e toris e Wighs significano la stessa cosa, pure la maggioranza apertamente si pronunziava contro le usate prepotenze. Impegnato adunque lord Palmerston a giustificare la sua condotta, dandosi la qualità di sostenitore degl’interessi e della dignità della Gran Brettagna, sorgevano nella camera de’ comuni a contrariarne i detti molti onorevoli deputati, tra’ quali lord Cochrane, noto per la sua filantropia, che con questo breve discorso le più belle verità faceasi a rilevare:
«Avendo parlato più volte alla camera delle cose di Grecia, ebbi corrispondenza con personaggi di quella nazione, ì quali mi scrissero, essere colà generale credenza che la Grecia sia stata rovinata dalla politica del nobile lord che presiede alle esterne relazioni. 0’ sempre creduto che fosse intenzione del nobile lord l’operare a pro del popolo in odio alla tirannide che lo aggrava, ma ne risultò il trionfo del re Ottone.»
«La partita del re fu giuocata da lord Palmerston, ed il paese fu rovinato. Il re fu per nulla pregiudicato dalla politica inglese, ma il reame ne fu profondamente offeso, e la rendita diminuita presso che della metà pe’ provvedimenti adottati contro di esso.»
«Visitai da poco altri stati d’Europa, dove provai una gran pena: quella di ascoltar le lagnanze rivolte contro la Gran Brettagna che da ogni parte pervenivano. Domando qualche spiegazione della politica che tanto ci è materialmente dannosa, e tanto diminuisce l’influenza nostra.»
«Il nobile lord dovrebbe dire quali fossero le sue mire nel mandare lord Minto in Italia, nello sconvolgere ogni regno di quella penisola, Napoli, Roma, Toscana, Pie monte. Allorché lord Minto suscitò il partito rivoluzionario in tutti quegli stati, fu detto, che così operava per dar libere istituzioni alle popolazioni, ed esercitare la giusta influenza della Gran Brettagna in Italia. Buon Dio! Quale ne fu il risultato? Dov’è ora l’influenza dell’Inghilterra? La politica di lord Palmerston à tolto ogni probabilità di liberali istituzioni, e di libero governo in quei paesi, rendendoli incapaci di goderne.»
«Avrei desiderato che siffatta quistione fosse stata portata in campo da qualche membro ragguardevole di questa camera, ma spero che mi sarà perdonato se in mancanza di altri l’ò sollevata francamente, riferendo quanto mi dissero persone pienamente informate. Spiacemi dover accennare al dissapore colla Francia, ma non posso fare ameno di domandare, se la Francia non era la nostra sola alleata? Era massima di Napoleone: la Francia e l’Inghilterra contro il mondo intiero.»
«Il nobile lord à perduto la Francia, e noi siamo isolati senza un alleato od un’amica potenza. A tale ci ridusse la politica del ministero degli esteri. Desidero che in questa camera venga maturamente discussa la nostra politica estera, giacché l’appoggio di lord Palmerston alle opinioni rivoluzionarie degli altri paesi porrà in trambusto l’Europa. La sola sua scusa può stare in ciò, che l’Inghilterra rimase tranquilla quando gli altri stati erano in preda alla rivoluzione. Ma di questo beneficio non dobbiamo esser grati che al generoso sentire del popolo. Era forse consentaneo a questo l’invio di agenti per disseminare all’estero dottrine repubblicane? »
«Il ministro disse ieri, che noi dobbiamo esser pronti a riconoscere ogni governo in Francia, ed egli batté tal via da farci vedere in Francia il governo di Barbes e di Sobrier. In ogni contrada di Europa lord Palmerston è riguardato come il propugnatore de’ principi repubblicani, ed il suo intervento e la missione di lord Minto come fonti di rivoluzione. Spero che un giorno o l’altro il nobile lord tratterà la quistione della politica esterna in modo pieno, chiaro e sincero. È oramai tempo che la camera se ne occupi più che non l’abbia fatto sin’ora, poiché questa comprende i nostri più vitali interessi, ed à già a mio credere compromesso il nostro onor nazionale»Mentre tali doglianze si menavano nella camera de’ comuni sulla politica del governo inglese, assai più vivamente la cosa procedeva nella camera alta, poiché l’eminente oratore, lord Stanley , la celebrità del parlamento britanno, e che ora, caduto lord Palmerston ed i suoi colleghi, occupa il primo seggio nel ministero, con queste gravi parole favellava.
«La camera ammettendo pienamente che il governo deve assicurare a’ sudditi di Sua Maestà residenti in esteri stati l’intiera protezione di questi stati medesimi, disapprova alcuni de’ documenti che le furono comunicati, da’ quali costa, che vari reclami contro il governo greco, dubbiosi dal lato della giustizia, ed esagerati nella quantità, sono stati appoggiati da misure coercitive contro il commercio e contro il popolo della Grecia, misure tali da compromettere le amichevoli relazioni della Gran Brettagna colle altre potenze.»
«Non so se l’appianamento delle nostre differenze con la Francia rapporto alla Grecia siasi o no realizzato. Avrei desiderato che questo affare si fosse terminato, ma checché ne sia, non saprei differire più oltre la mia mozione, tanto più che io credo che l’ultima dilazione cui aderì, abbia arrecato più mal che bene alla soluzione della quistione.»
«lo fo gran conto della continuazione di buone relazioni colla Francia, né credo che la mia proposizione possa essere a ciò contraria, perché la prima volta che ò sentito parlare di questa cosa, annunziai che avrei presentato una mozione a questo riguardo. Aggiornai la mia mozione quando lord Lansdowne annunziava che l’intervento della Francia appianerebbe la differenza, mentre ora si vede che l’à fatta più grave. Vi risparmierò la fatica che mi à costato la lettura di tutti questi documenti, e vi dirò solo che mi anno fatto arrossir di vergogna pel mio paese svelandomi le stravaganze innumerevoli che riboccano in tal negoziato.»
«La condotta del governo fu sconveniente, ingiusta, tendente a rompere senza necessità l’armonia che deve regnare tra le potenze europee. Molti de’ reclami fatti contro uno stato così debole, com’è la Grecia, non sono forse esagerati, senza fondamento, e presentati in modo da rendere necessario un rifiuto? Io non vò qui farmi l’apologista de’ torti della Grecia, ma sostengo che questi torti trovano in certo modo una scusa nel tuono imperioso con cui questi reclami furono presentati.»
«Il tuono de’ reclami dev’essere più riservato e cortese, se è possibile, con uno stato debole, che con una grande potenza. Il governo della regina deve certo guarentire ai sudditi inglesi residenti all’estero ogni protezione legale; ma è dovere di ogni straniero residente in altro stato d’obbedire alle’ leggi municipali di questo paese. Se queste leggi sono male amministrate, ei deve ricorrere al rappresentante del suo paese per ottenere che gli sia fatta giustizia in modo imparziale; ma nessuno straniero può ricusare la giurisdizione de’ tribunali ordinari, né richiedere l’intervento diplomatico del suo ministro. In un paese dispotico, oin uno stato ove le leggi siano male amministrate ponno occorrere circostanze in cui il suddetto straniero abbia dritti di rivolgersi alla protezione del suo ministro non contro la legge, ma contro coloro che non l’eseguiscono. Èutile il considerare le circostanze particolari in cui si trova la Grecia.»
«Questo regno costituzionale che esiste da 14 anni è sotto la protezione collettiva dell’Inghilterra, della Francia e della Russia, che ànno guarentito la sua indipendenza. Questo regno à con tutte de’ debiti, il che per mala ventura lor dona il dritto fatale d’intervenire nelle sue interne differenze, intervento assai funesto agl’interessi di un paese, dove una gran parte della popolazione è in uno stato di anarchia, e dove sventuratamente i rappresentanti delle altre potenze si son dati a maneggi per assicurare la preponderanza ora dell’Inghilterra, or della Francia, ed or della Russia, invece di concorrere di comune accordo ad assicurare la stabilità del governo Greco. Da Colletti in poi l’influenza francese à predominata, e sir Edward Lyons giunse al punto di riguardare i ministri greci come agenti francesi che si dovevano in certo modo convenire in giudizio, anzi che tenerli come ministri del re greco.»
«Di tal modo il governo greco si mostrava poco disposto ad accogliere con favore i reclami di sir Edward Lyons. Che ne venne da ciò? Relazioni irritatissime, ed irritabilissime colla Grecia. Né l’irritazione si limitò a sir Lyons solo, ma fu sanzionata ed adottata dal nobile lord segretario di stato per gli affari esteri.»
«In una parola la politica de’ nostri ministri si compendia in questo: Denari! Denari! e di nuovo denari! Fu danneggiato un suddito ionio? Portatelo in nota, il conto è fatto, pagheranno venti ster l ini per testa. Non si può parlare sul serio di tali cose, ma non si può non ìsdegnarsi pensando che si fa dipendere da tali quistioni la pace dell’Europa. Da ora una rapida occhiata allo stato delle relazioni ar resterò a seguito di questa politica superba. Credete voiche la Russia vegga di buon occhio le nostre pretese rapporto ai sudditi inglesi residenti all’estero? Credete voi chele approvi? Che sia in buona relazione con noi? Dirò lostesso dell’Austria. Già sa il nostro gabinetto che, dietro questi fatti, vari governi stranieri vogliono imporre delle condizioni al soggiorno de’ nostri sudditi ne’ loro stati. Ma ciò non è tutto, milordi, voi avevate un amico, un amico sincero, vò dire il governo francese. Qual fu il suo contegno in tale circostanza? Il più amico e sincero che si potesse. Tocchiamo le cose dal suo principio. La Francia si è dimostrata ostile? No! Si è lamentata di aver noi trascurato i suoi reclami, di non essere stata consultata, come aveva dritto di esserlo intorno a ciò? No! Anzi vi offerse i suoi buoni uffici come mediatrice tra voi e la Grecia. Isuoi buoni uffici furono accettati, è vero, ma in modo che non se ne poteva aspettare un buon esito.»
«Eccovi ora, milordi, la nostra posizione rapporto ai magri possedimenti di Sapienza e Cervi. Voi faceste una domanda positiva, rifiutaste l’intervento russo e francese. Per buona ventura i vostri ufficiali furono più prudenti di voi; essi non ànno eseguito i vostri ordini; ed ora sottol’impressione d’una dichiarazione umiliante da parte della Russia, il paese sarà obbligato a recedere dalla posizione inopportunamente ed imprudentemente presa dall’uffizio degli esteri.»
«Credo, milordi, d’aver provato: 1° che la somma reclamala in tale occasione non à alcuna importanza: 2° che il reclamo è dubbio in dritto: 3° che l’aver appoggiato questo reclamo con misure coercitive, mise in pericolo le nostre relazioni coll’estere potenze. Dio ci preservi dalle naturali conseguenze di questo stato di cose. Se la pace del mondo non è turbata, non ne dobbiamo certo saper grado ai nostri ministri.»
«Milordi, se adottate la mozione che io vi ò proposta, proverete di disapprovare questi fatti. Io non chiedo di più. Ma se realmente ci siamo fatti rei d’ingiustizia, se abbiamo fatto de’ strani reclami, se opprimemmo il debole, se irritammo il forte, è dovere di questa assemblea augusta, è dovere della legislazione inglese di far conoscere a sua volta, che l’uffizio degli esteri d’Inghilterra non è l’Inghilterra, che i sentimenti generosi di questo gran popolo sono in opposizione colle misure adottate dal governo, che la nostra giustizia, e la nostra buona fede è diversa dalla sua. »Queste cose apertamente smascheravano la politica inglese, la quale dopo di avere scommossi gli stati italiani, proferendo parole di libertà per fraude, promettendo aiuti per inganno, e vendendo armi ed argomenti guerreschi per guadagno, permettevasi con impero, e quasi per raccogliere il frutto della maledetta semenza, quando già il nembo delle rivoluzioni era dissipato, affacciar pretensioni in compenso delle proprie colpe. Epperò fatto segno alla universale indegnazione il ministro che le cose straniere regolava, artifizioso piegava suo malgrado a pacifiche soluzioni le suscitate vertenze.
Rimosse per tal modo le dubbiezze sulla pace generale, e ricondotto l’ordine, mercé le armi francesi ed austriache, nello Stato Pontificio, il Papa, cedendo alle vive istanze de’ suoi sudditi, ed alle sollecitudini della Francia specialmente, risolveasi a ritornare nella capitale del mondo cri stiano, ove la sua presenza doveva cancellare le tracce residuali de’ passati disordini.
Approssimandosi la partenza di Pio IX, il corpo diplomatico accreditato presso la corte di Napoli al 1° di aprile recavasi in Portici per umiliare al Sommo Pontefice l’espressione del suo rispetto, ed esternargli i più felici auguri pel suo viaggio. Lo stesso praticavano e ministri, e distinti personaggi nazionali e stranieri, cui veniva concesso tanto onore.
Nel giorno 4 aprile adunque il S. Padre lasciava il ridente soggiorno di Portici, e quella devota popolazione agitata dalla gioia che sentiva pe’ grandi benefici che sarebbero a tutto l’orbe cattolico derivati dalla presenza del Pontefice in Roma, e dal rammarico per la di lui dipartita, preparava» a quella dolce melanconia, che sempre lascia il sole al suo tramonto. E sì che tanto esprimevano gli abitanti di Portici colle luminarie della sera del 3, e con le lagrime del giorno 4, allorché il Supremo Pastore commosso alla loro commozione, paternamente bene dicevali, e partiva.
Alla principale stazione della strada ferrata di Napoli, Pio IX, ricevuti i debiti onori dalle reali milizie, benediceva il popolo napolitano quivi affollato, desideroso di tributargli così dappresso inalterabili sentimenti di filiale devozione. Dalla stazione di Caserta, ove il convoglio da Napoli giungeva, il Santo Padre, onorato dal Re e da tutt’i reali principi, degnavasi trasferirsi in quella regia.
La mattina del dì seguente (5) dopo di avere il Pontefice dal principale verone del real palazzo di Caserta benedetto il popolo straordinariamente affollato nell’amplissimo spianato sottoposto, toglieva commiato dalla pia Regina e dalla più parte della real famiglia, ed al pari di loro commosso, i più affettuosi sentimenti dichiarava a tutti, in a t testato della sua gratitudine. Partito in magnifica berlina col Re e col Duca di Calabria, seguito da molte carrozze, nelle quali sedevano cardinali, prelati e distinti personaggi della real corte, indi a poco perveniva a Capua, ove fra il tuonare incessante delle artiglierie della fortezza, adorato il Santissimo nella cattedrale, ed impartita alle truppe in gran mostra ed all’immenso popolo concorsovi la pontificale benedizione, alquanto dopo il meriggio per Sessa traeva. Alle prime ore del giorno appresso l’augusta compagnia, fra una moltitudine immensa di popolo che ad ogni istante incontravasi, e che il Santo Padre non tralasciava di benedire, muoveva per Mola, ove appena giunta, volgendo lo sguardo alla fortezza di Gaeta, sentiva Pio IX il vivo desiderio di visitare quelle mura, tra le quali sperimentato aveva la protezione del Cielo nelle virtù del principe a conforto delle sue patite sventure.
Pervenutovi adunque, festeggiato dalle ivi raccolte popolazioni, ricevuta la benedizione del Santissimo nel duomo, ed impartita la pontificia dal palazzo arcivescovile all’affollata moltitudine, dopo una fermata di qualche ora, seguito dallo stesso corteo, lasciava Gaeta, ed indi al cosi detto Epitaffio, monumento sepolcrale di Sergio Galba, sul limitare del regno giungeva. Colà separavansi Re Ferdinando e Papa Pio IX, cioè il figlio dal padre, l’ospitato dall’ospite, l’amico dall’amico, fatti ancora più stretti dalle sventure di 16 mesi, fra timori e speranze, amarezze e conforti.
Inchinavansi il virtuoso Monarca e l’angelico suo figliuolo, devotamente chiedendo la santa benedizione. Sì (loro diceva il Santo Padre) vi benedico; benedico la vostra famiglia: benedico il vostro regno: benedico il vostro popolo. Non saprei che dire ad esprimervi la mia riconoscenza per l’ospita li t à che mi avete data. Non ad altro adempii, rispondeva il religioso Monarca, che ai doveri del cristiano. Sì , ripigliava il Pontefice con voce commossa, la vostra filiale attenzione fu grande e sincera. Poi rialzato il Re, e strettolo al cuore, amorevolmente baciavalo; e per ultimo risalito nella sua carrozza, ricevuto da’ reali principi e da tutto il numeroso seguito quegli attestati di devozione, che al Vicario di Gesù Cristo in terra convenivano, separavansi, e partiva.
Cosi il Santo Padre ritornava glorioso nei suoi stati, e la città eterna nuovamente rifulgeva di tutto quello splendore, dal quale rimangono oscurate le sue grandezze pagane; e così pure le triste ricordanze del passato venivano per la gioia di quei solenni momenti dalla esultante cristianità dimenticate del tutto.
Il ritorno del Pontefice in Roma è un fatto che sarà sempre ricordato dalla storia, perciocché a gara il popolo e le francesi milizie ricevevano il Supremo Gerarca con tale amore e rispetto da confondere sempre più la sagrilega voce di coloro, che tanto contro l’autorità temporale del Papa avevano predicato.
Qui cade in acconcio ricordare, che quando il Pontefice Sommo, abbandonata Roma, riparava nel regno di Napoli come ad asilo sicuro ed ospitale, la democrazia gridava, essere Pio IX prigioniero di Ferdinando Borbone. Quando dalla solitaria dimora di Gaeta, protestando contro i saturnali di Roma, indirizzava ai suoi popoli parole di dolce rimprovero, la democrazia spacciava, trovarsi Pio IX prigioniero in Gaeta. Quando dopo dieci mesi tramutavasi in Portici, la democrazia replicava Io stesso. Ed allorché poi il prigioniero di Gaeta e di Portici restituivasi nei suoi domini, e ripigliava l’esercizio di tutti quei dritti, che la democrazia specialmente aveva voluto usurpare, che cosa mai essa ne diceva? Che la volontà del Santo Padre trovavasi alla triplice forza de’ cardinali, de’ diplomatici e dell’armata francese sottoposta! Ma ben altrimenti la cosa procedeva, perciocché le nequizie della infausta epoca della rivoluzione di Roma erano apertamente distrutte dall’opera di quel Dio, da cui ogni sovranità deriva, ed innanzi al quale tutto cede, quando arriva la pienezza de’ tempi da lui preordinati.
CAPITOLO XXX
Nuovi provvedimenti del governo per tutelare la tranquillità riacquistata: legge sulla stampa: elezione di nuovi professori per le università ed i licei: riforme nel personale delle amministrazioni: decreto pel giuramento a prestarsi. Doglianze de’ liberali, e dispotismo che si accagiona al governo. La religione è minacciata in Piemonte: protestazioni del Sommo Pontefice a tal riguardo, mostrando al tempo stesso al cospetto del mondo cristiano le virtù del Sovrano di Napoli, e lo zelo dell’imperatore d’Austria a pro della Chiesa.
La sfrenata libertà come mezzo, il crudele dispotismo come fine, un passato deplorabile, un avvenire incerto e calamitoso, avevano gettato nello squallore tra l’oppressione e la miseria gli abitatori di questa florida terra, sì che in tanta desolazione appena ripristinavasi il potere, provvido vi stendea il suo braccio a ristoro. In questa epoca gli agitatori si nascondevano discreditati, sebbene pochi tra essi saliti al potere ne’ tempi tumultuosi, tuttavia artifiziosamente vi si mantenevano; perciocché dopo di avere odiata e maledetta la monarchia quando era crollante, ora risorta più forte di prima, mostravano di maledire quello statuto, ch’essi medesimi avevano potentemente sollecitato.
La vigilanza però di tutt’i governi europei su’ democratici sempreppiù cresceva, e la Francia, quantunque costituita a repubblica, spiava da per tutto, e tanto bene, che, mercé i suoi agenti, riusciva ad avvertire tutt’i stati stranieri della riproduzione dell’elemento rivoltuoso, il di cui centro trovavasi a Londra, esercitato specialmente da profughi francesi, tedeschi ed italiani, colà presenti. Dalle complicazioni misteriose, e però minaccevoli, che appo costoro scovrivansi, prendevano le loro mosse i governi. Quello di Napoli passava da una inattesa ed insufficiente moderazione ad un giusto e necessario rigore, e se dapprima cercava con paterna generosità dimenticare i falli de’ traviati, sperando in essi ravvedimento, vedevasi in seguito costretto a gastigarne la ostinazione, abbandonandoli al potere della giustizia. Così mentre le autorità sorprendevano coloro che, tuttavia irrequieti, non meritavano perdono, alla correzione degli abusi alacremente procedevasi per non lasciare più alcun addentellato a malvagi.
La stampa licenziosa, strumento attivissimo di perturbazioni, offriva già un primo argomento di correzione; per lo che il ministero, giudicando ch’ormai fosse tempo a doverla infrenare, supplicava a tal uopo il Sovrano ne’ termini che seguono:
«Sire La stampa, il più grande e più utile trovato onde perfezionare la mente ed il cuore umano, infelicemente a’ dì nostri, lungi di servire a sì lodevole scopo, quà ed altrove non è stata intesa che a corrompere i costumi, e ad ottenebrare gl’intelletti, invece di rischiararli. Di qui nella massima parte le rivolture che àn travagliala quasi intera l’Europa, e che dove più, dove meno, continuano a mantenere gli animi in agitazione; e di qui lo studio, e e la incessante cura de’ governi, in ispecie di quello della stessa Francia onde ricondurre la stampa al suo primo e dritto sentiero.»
«A conseguire un tanto bene ci è parso, che il solo compenso della punizione de reati per la stampa, ancorché grave, non sarebbe sufficiente; e quel che più monta apporrebbe al governo di Vostra Maestà la taccia di crudele, e d’inumano, come quello che avendone il potere, antepone il gastigo de’ relitti all’impedimento di essi.»
«Dalle quali considerazioni deriva l’assoluta ed indispensabile necessità di circoscrivere la libertà della stampa, alle produzioni ed opere tutte, le quali anziché dirette a turbare la pubblica e privata quiete, servono ad esse di potente ed efficace sussidio, e valgono a vantaggiare la umana condizione, richiamando in vita i forti e severi studi che disgraziatamente veggonsi scambiati con la lettura de’ romanzi e de’ giornali, capaci solo ad ingenerare la più stolta ignoranza, e la più impudente e sfacciata temerità, e protervia ne’ loro lettori, donde il convincimento loro di esser abili a dare in tutto, e di tutti pronta ed inoppugnabile sentenza.»
«Inspirati noi dalla nostra coscienza, e testimoni de’ mali cagionati dalla stampa perversa (mali, che non potrebbero venir ricordati senza il maggiore raccapriccio) in un medesimo che ci siamo attentamente occupati a divisare i modi onde impedirne ilrinnovellamento, con la stessa, anzi con più attenzione, abbiamo ponderati, e tenuti in conto quelli che ci son sembrati più adatti a rimuovere ogni ostacolo alla stampa, ed alla pubblicazione di tutte le produzioni dell’umano ingegno, profittevoli alla religione, alla morale, alle scienze, alle lettere, alle arti, ed alle industrie. Ad ottenere il che non saremmo giunti, senza determinare le norme, per distinguere le buone produzioni dalle ree, e però soggettare le une e le altre ad un preventivo esame, onde autorizzare solamente la stampa e la diffusione delle prime. Né paghi noi del solo giudizio della pubblica istruzione, quantunque composta dir agguardevolissimi personaggi, anche avverso del medesimo, abbiam credulo conveniente che coloro i quali crederanno di aver ragione da querelarsene, potessero farne sperimento reclamandone al ministro della pubblica istruzione.»
«Donde conseguita che tutte le maggiori possibili concessioni alla libertà della stampa delle opere non ree, tutte sono state da noi par t itamente contemplate, e consentite; sicché abbiam fede che il nostro lavorio, lungi dal venir considerato come d’intoppo alla diffusione de lumi, sarà reputato del tutto alla medesima rispondente, e come tale, benignamente accolto dagli amatori del vero sapere, che tanto distingueva i nostri maggiori dagli uomini del tempo presente.»
«Non nuova, né solamente appo noi è l’altra distinzione da noi posta fra le autorità, alle quali ci è sembrato di doversi appartenere l’autorizzazione della stampa. La giunta della pubblica istruzione, gravata di serie ed infinite cure, ancorché il volesse ed avesse alla sua dipendenza un numero infinito di revisori, non potrebbe compiere l’ esa m e e ’l giudizio di tutte le produzioni che vorrebbonsi mandare a stampa; e impropria cosa sarebbe stata quella, d’imporre il debito di occuparsi di produzioni, le quali non rimirassero a promuovere il pubblico insegnamento, come appunto sono i giornali, le opere teatrali, i fascicoli non maggiori di dieci fogli. La revisione di queste produzioni apparterrà alla polizia, e sarà in facoltà della medesima di concedere, o pur nò, l’autorizzazione sulla stampa ed alla pubblicazione.»
«Da ultimo, conservata agli arcivescovi ed ai vescovi del regno la facoltà di potere, a’ termini del concordato, mettere a stampa le proprie encicliche, abbiam creduto di restituire ai collegi giudiziari ed amministrativi, ed ai corpi consultivi dello stato, il giudizio e l’autorizzazione per la stampa delle memorie concernenti le liti,che presso de’ medesimi si agitano.»
«Sono queste, o Sire, le ragioni moventi del progetto di legge sulla stampa, che abbiamo l’onore di sommettere alla sua sovrana sanzione. Voglia Vostra Maestà umanamente accoglierlo, e con esso i nostri voti per la prosperità della Maestà Vostra, alla quale con il più profondo rispetto c’inchiniamo.»
Da ciò la legge de’ 13 agosto 1850, colla quale venne stabilito: 1. ° che senza preventiva autorizzazione fosse vietata in tutt’i regi domini la pubblicazione di opere, di scritti, opuscoli, giornali, fogli volanti, effemeridi, non chela formazione e diffusione di rami, incisioni, litografie, sculture cd oggetti di plastica: 2.° che in niun caso si potesse accordare l’autorizzazione alle stampe, agli scritti ed a tutti gli altri accennati lavori, co’ quali potesse recarsi offesa alla religione, ai suoi ministri, alla morale pubblica, alla sacra persona del Re, alla real famiglia, al governo, ai sovrani esteri, ai loro rappresentanti, ai pubblici funzionari, all’onore ed alla stima de’ privati: 3.° che alla commissione di pubblica istruzione restasse affidata la facoltà di concedere l’autorizzazione a stampare, ed ove a tanto si denegasse, fosse permesso ne’ domini continentali il richiamo al ministro degli affari ecclesiastici e della istruzione pubblica, ed al ministro presso il luogotenente generale a riguardo della Sicilia: 4.° che in quanto alla pubblicazione degli scritti, opuscoli, giornali, fogli volanti, effemeridi, che non oltrepassassero fogli 10, nonché alla formazione e diffusione de’ rami, incisioni, litografie, scolture, ed oggetti di plastica, l’autorizzazione dovesse venir concessa, per Napoli dal direttore del ministero dell’interno, ramo di polizia, per Palermo dal ministro presso del luogotenente, e per le province da’ rispettivi intendenti: 5.° che per la pubblicazione di allegazioni per dispute forensi, l’autorizzazione dovesse venir accordata dagli agenti del ministero pubblico; per le controversie ne’ consigli d’intendenza, dagl’intendenti; e per gli affari a trattarsi ne’ corpi consultivi dello stato, da’ rispettivi presidenti: 6.° che l’accordata autorizzazione non dovesse mai ledere l’azione di chiunque fosse staso offeso o pregiudicato dalla eseguita stampa: 6.° e che i contravventori alle norme prescritte fossero puniti come autori o complici, ai termini delle disposizioni delle leggi penali.
Ma queste acconce e sensate misure sarebbero state anche poco profittevoli ove non si fosse provveduto con pari diligenza all’insegnamento; perciocché dalle più celebrateuni versità di Europa, dagl’istituti scientifici di maggior grido, nelle fatali commozioni avvenute, erano escite numerose legioni di giovani traviati, che pugnando per iscomporre la macchina sociale, avevano da impavidi affrontata la morte.
L’educazione è una specie di seconda creazione, diceva un dotto pubblicista; essa difatto quando è Sennata, esercita le facoltà morali e fisiche dell’uomo, e indirizzandole allo scopo cui paiono tendere, lo ammansa, ingentilisce, ammaestra e ne centuplica le forze, quasi trasformandolo in un altro essere, e dell’uomo della natura, ne fa l’uomo della società. Eppure queste verità sì antiche, sì ripetute, sì confermate dall’esperienza, pare che si fossero sconosciute, o non curate negli ultimi tempi; poiché se è innegabile che la educazione domestica è base della pubblica, siccome la famiglia è il principale elemento della società, da’ recenti schiamazzi politici fattisi in piazza, massime dalla gioventù, deesi necessariamente inferire, che l’educazione o sia stata del tutto negletta in moltissime famiglie, o che abbia deviata dalla giusta sua meta.
Per ottenere adunque lo scopo designato, oltre alle misure di disciplina e di censura, delle quali abbiamo parlato alquanto innanzi, il governo provvedeva alle cattedre vacanti nella università di Napoli, ed in quelle di Catania e di Palermo, come pure a tutte le altre, che ne’ diversi licei del regno restavano ad occuparsi, prescegliendo a tali gelosi incarichi uomini, che per probità e dottrina dovevano a giusto titolo tanta fiducia meritare.
Al modo stesso cercavasi di riordinare tutte le altre branche delle amministrazioni dello Stato, la maggior parte delle quali troppo sentiva di quel fecciume, che tanto avea contribuito ad accrescere gli avvenuti disordini, mentre dopo la restaurazione della monarchia, bisognava che la riforma del personale da ben altre sorgenti scaturisse.
Altro provvedimento indispensabile nelle sopraggiunte circostanze mostravasi appunto quello che al giuramento de pubblici funzionari riferivasi, poiché la formola che per lo statuto era stata surrogata all’antica, e per Io scopo cui il giuramento tendeva, e per le conseguenze che ne risultavano, non poteva al certo andar più oltre tollerata. Colla formola introdotta dallo statuto dovevasi non solo giurare obbedienza al Re ed alle leggi, ma bensì alla costituzione. Ciò importava non piena ed assoluta obbedienza al Re, e perciò poneva, nell’epoca del riordinamento sociale, in cui il Principe avea ripiglialo l’esercizio assoluto de’ dritti della sovranità, in molta difficile e delicata posizione non solo coloro che erano stati obbligati a prestare siffatto giuramento nell’epoca del sovvertimento, ma lutti gli altri che a causa del proprio ufizio erano tenuti per l’avvenire a tale religioso atto. Quindi non solo a tranquillare le coscienze, ma sibbene a disingannare quegli che tuttavia s’illudevano sul vero stato delle cose, ordinavasi, dovere ogni pubblico funzionario coll’antica formola, pria che lo statuto avvenisse, novellamente prestare, il suo giuramento di obbedire al Re, alle leggi esistenti, ed à quelle che sarebbe alla Maestà Sua piaciuto di pubblicare in appresso.
Intanto non tralasciavano le autorità, si ecclesiastiche, che secolari nelle diverse province del regno, con tutta quella dolcezza che la circostanza precisamente suggeriva, di far intendere ai loro amministrati ciò che la Provvidenza, arbitra delle divine ed umane cose, aveva voluto operare per un Principe così pio, per un popolo cosi devoto. Sarebbe felice il mondo, dicevano, se tutti s’accordassero ad un vivere onesto e tranquillo; rotta, sanguinosa, desolata essere la umanità: tutti aver sofferte comuni sventure; si ricordassero tutti la licenza, l’anarchia, il dispotismo sopportato per quei pochi regoli che ogni cosa volevano abbattere, ogni cosa distruggere: principiare ora un’era novella con sicure e fortunate sorti; questi essere gli auguri, queste le arre date visibilmente dal Cielo; doversi ad esso mostrare riconoscenti, e nutrirsi troppo fondata speranza, onde gli uomini venissero ricondotti, con una religione che non perseguita, e con delle leggi che non opprimono, a quel retto sentiero, a quello stato normale, a quella felicità insomma che ognuno si sforza di conseguire.
Quali effetti queste esortazioni partorissero, la sincerità is t orica ci obbliga a dire, che quantunque per l’opera di pochi altri ardili agitatori rimasti dal governo inosservati, molti vivessero nella opinione, che le violenze patite ed i danni sofferti unicamente derivassero dalle pratiche del governo stesso, e fossero la necessaria conseguenza del dispotismo che accennavano, pure in generale se ne ottenne tanto frutto, che mol t i de’ tanti travia t i sinceramente ritornarono pel retto sentiero.
Ma il dispotismo, dove per l’ordinario si è mostrato, e si mostra nella società, fra’ governi assoluti, come sostengono i novatori, o fra’ governi popolari, siccome credono i conservatori? Quando una questione storica è divenuta una disputa di partito, i lettori sono per lo più disposti a supporre mire di partito in chiunque si faccia a trattarla di nuovo: e questi avrà ancor più difficoltà a sciogliersi dal sospetto di parzialità, quando la sua opinione sia assolutamente favorevole ad una delle parti. Tal è il caso nostro; ma che fare? Dire la cosa propria come la si pensa, e lasciare poi che ognuno la intenda a suo modo.
Per formarsi un giudizio storico, bisogna dare un’occhiata ai fatti: toccheremo i principali con tutta quella brevità che si può conciliare con una certa esattezza, tanto che si abbia di che decidere a quale delle due cause debba darsi il voto, non già da ognuno, ma da qualsivoglia amico della giustizia.
Senza rimontare ai tempi delle antiche repubbliche di Roma e di Atene, senza toccare quelle di Venezia e di Genova, nelle quali al certo non imperavano né principi d’uguaglianza innanzi la legge, né di filantropia;. e tralasciando pure di parlare delle attuali repubbliche di America, ove non solo la schiavitù si riconosce, ma una permanente dittatura à luogo in molte parti, fermiamo solo per poco l’attenzione alle repubbliche moderne di Europa, da che la prima rivoluzione francese faceva, come in allora spacciavasi, alle tenebre sottentrare la luce. E chi non sa che la repubblica francese del 1793 non degenerasse in atti di dispotismo, non secondi a quelli de’ governi più tirannici dell’antichità? Mettendo da banda gli atti rivoluzionari che àn potuto forsetalvolta essere giustificati da circostanze eccezionali, non abbiam veduto per semplice effetto della legge de’ sospetti dannare a morte stuolo di vittime, cui non era conceduto né di difendersi, né di appellare? Non abbiam veduto assumere dal solo Danton, nella qualità di ministro della giustizia, la responsabilità degli eccidi di settembre, senza che ne avessero avuto sentore i suoi colleghi, tra quali Rolland ministro dell’interno, da cui dipendevano le prigioni, dove eseguivasi a sangue freddo la terribile strage? Non abbiam veduto commissari della convenzione destituire i generali che comandavano gli eserciti, coi né un Gustine, un Biron, un Westermann ed altri, e far loro subire la pena capitale quasi senza forma di processo? Ed i matrimoni repubblicani nella Loira ordinati da quelli stessi commessari della convenzione, e la demolizione di Lione, seconda città della Francia, e gli orrori della Vandea, ed il potere assoluto de’ Marat, de’ Robespierre, de’ Couthon, poteri che ànno esercitato con ferocia maggiore de’ mostri più assetati di sangue umano che ci additano gli annali delle storie? E discendendo a’ dì nostri, ai rivolgimenti del 1848, che non si è messo in operadall’anarchia in fatto di violenze, di soprusi, d’infrazioni? E delle misure repressive, chi ne à dato il primo esempio, altro che i governi a forme costituite? La prima repubblica francese inventava lo stato d’assedio colla sua legge di Brumale anno IX, e la seconda repubblica del 1848 l’à messo ripetutamente in vigore. E i disordini di Germania, d’Ungheria, d’Italia non àn dovuto forse esser compressi da leggi eccezionali, da continuali stati d’assedio, per parte de’ governi costituiti? V’è dippiù. Colle libere forme governative non si annullarono forse prepotentemente le schede degli elettori toscani? Non si proclamò violentemente la repubblica in Roma? Non si trovò un ministero cui non ripugnò faccettar portafogli intrisi del sangue dell’assassinio? Non si esercitò una stampa la più sfrenata da per tutto?A queste si potrebbero aggiungere molte più altre osservazioni, le quali s’intralasciano, pensando che, se il fermarsi lungamente nel dubbio è un dolore; fermarsi lungamente su l’evidenza produce un altro dolore, di quel genere che si chiama noia. Potranno adunque i nostri buoni lettori coscienziosamente giudicare, se a ragione od a torto ritenghiamo, che il dispotismo più opprimente ed iniquo sia quello che provviene dalla sovranità popolare, appunto perché esercitato da intriganti od ambiziosi in nome del popolo, che soffre materialmente tutte le loro improntitudini.
Sebbene in questo tempo l’orizzonte politico si fosse presso che da per tutto rischiarato, restava non pertanto la Chiesa esposta a crudeli sofferenze. Ritornato in Roma il Santo Padre, e provveduto che ebbe alla creazione di nuovi pastori, di cui l’ovile del Signore abbisognava, sentì non poca amarezza, che il governo piemontese avesse promulgata una legge, per la quale i dritti della santa sede, l’autorità de’ vescovi e la disciplina ecclesiastica, ne venissero in molta parte pregiudicati, e che come conseguenza di si improvvide misure l’arcivescovo di Torino il primo fosse divenuto bersaglio della più fiera persecuzione. L’usare inflessibilità a quei tempi, non era certo cosa conducente, né della natura di Pio IX per altro, viemaggiormente che tanti fedeli in quello stato, distratti tra gl’interessi e la coscienza, non sapevano affatto dove meglio rivolgersi. D’altronde il protestare contro l’avvenuta usurpazione era cosa indispensabile: epperò convocati i cardinali, implorato l’aiuto divino, siccome quegli che da lui pienamente ripe t eva ogni evento o prospero, o avverso, il Santo Padre con queste gravi ed affettuose parole loro favellava:
«Venerabili fratelli.»
«Se dovemmo sempre convincerci, venerabili fratelli, non essere mai venuta meno l’ammirabile provvidenza di Dio in difesa del cattolicismo, in questi ultimi anni scorgemmo al certo risplendere mirabilmente quella forza celeste con la quale Dio à promesso di assistere la chiesa sua fino alla consumazione de secoli. Sono note appieno all’intero orbe cattolico le dolorose vicende dalle quali grandemente travagliati, fummo costretti per oltre sedici mesi andare esuli da questa Nostra sede, come del pari è a lutti palese la tristezza non mai abbastanza deplorabile de’ recenti giorni in cui con indicibile dolor Nostro e di voi ancora, e di tutti i buoni, si vide il principe delle tenebre vomitare la sua rabbia contro la chiesa e la sede apostolica, ed infuriare in questa stessa metropoli centro della cattolica verità. Ed ognuno sa come Iddio giusto e misericordioso, che percuote e sana da morte e rende vita, conduce al sepolcro e fuori ne tragge, con prodigiosi e manifesti segni della sua bontà Ci abbia consolato nelle tribolazioni, ed accogliendo con volto propizio e sereno le preghiere Nostre, i Nostri sospiri, ed i voti della chiesa tutta, degnò sedare la fiera tempesta scagliatasi dall’inferno, e sottrarre i dilettissimi popoli del Nostro stato pontificio dall’infelice condizione in cui miseramente giacevano, e ricondurci in quest’alma città con tripudio de’ popoli stessi, e con esultanza di tutto l’orbe cattolico. Pertanto dopo il Nostro ritorno dovendo parlarvi per la prima volta, ci è d’uopo principalmente rendere grazie infinite all’Onnipotente per tanti benefici compartitici, e lodare meritamente quelle illustri nazioni e principi, che mossi da Dio medesimo furono ben lieti nel rendersi benemeriti di Noi, e di questa sede apostolica, e nel tutelare e difendere con le loro forze, col loro senno e con le loro armi i domini temporali di santa chiesa, e ridonare la quiete e l’ordine a Roma, ed allo stato pontificio.»
«Giustamente esige la Nostra gratitudine e il Nostro encomio il carissimo figlio Nostro in Gesù Cristo Ferdinando II Re del regno delle due Sicilie. Imperocché per l’esimia sua religione, fatto appena consapevole del Nostro arrivo in Gaeta, senza frapporre indugio, insieme all’augusta sua sposa Maria Teresa corse a Noi, e pieno di gioia per l’occasione offertasi di dare al Vicario di Cristo in terra argomenti di sua singolare pietà, e di Aliai devozione ed ossequio, Ci albergò generosamente né mai si restò, durante il tempo della nostra dimora nel suo regno, di ricolmarci con ogni maniera di officiosità, siccome foste voi stessi testimoni di vista, venerabili fratelli. E poiché altre nazioni ancora concorsero a difendere il civile principato di santa sede, la Maestà di quel Re volle eziandio capitanare le sue truppe. I quali singolari meriti verso Noi e la sede apostolica di sì religioso Principe sono talmente impressi nel Nostro cuore, che la loro memoria non si cancellerà giammai per volgere di tempo. Ora poi c’incombe nominare con grande onore e con perenne riconoscenza la chiarissima nazione francese per militar gloria, per ossequio verso questa sede apostolica, e per tanti altri titoli illustri, dalla quale sperimentammo e benevolenza e favori. Conciossiacché cotale nazione e l’inclito presidente di quella repubblica accorrendo alle afflizioni Nostre e dello stato Pontificio, senza risparmiare spesa veruna, decretò laspedizione di valorosi comandanti e soldati, che affrontando ogni sorta di pericoli, in ispecial modo liberarono e rivendicarono dall’infelice stato in cui miseramente giaceva questa città, e si gloriarono di qui ricondurci. La qual lode e dimostrazione di Nostro grato animo vogliamo del pari tributare al carissimo figlio nostro in Gesù Cristo Francesco Giuseppe imperatore di Austria, e re apostolico, che per l’avita sua pietà e reverenza verso questa cattedra di S. Pietro, apprestando con ogni alacrità la valevolissima sua opera e soccorso, per difendere il civile principato di questa Sede apostolica, liberò con le vittoriose sue truppe le province, specialmente dell’Emilia, del Piceno e dell’Umbria da un ingiusto e duro dominio, restituendole al legittimo governo Nostro e della santa Sede. Inoltre dobbiam pure con particolar memoria di gratitudine ricordare i meriti della Nostra carissima figlia in Gesù Cristo Maria Isabella regina cattolica di Spagna, e del suo governo, che siccome ben conoscete, appena apprese le Nostre calamità, ebbe a cuore di eccitare premurosamente la comunità de’ fedeli, e di spedire quindi le valorose sue truppe a rivendicare i possedimenti di santa Chiesa. E qui, o venerabili fratelli, non possiamo passare sotto silenzio la somma benevolenza dimostrataci dagli altri illustri sovrani anche cattolici che, sebbene non concorressero colla loro forza materiale, pur tuttavia procurarono d’influire colla loro forza morale per sostenere i dritti e i temporali interessi Nostri e della Chiesa romana. Il perché rendiamo ad essi ancora le dovute e meritate azioni di grazie, e Ci professiamo loro grandemente obbligati. Nel che devesi da ognuno ammirare la infinita provvidenza di quel Dio, che tutto regola e dispone con fortezza e con soavità, e che in tanto sconvolgimento e tristezza di tempi fece sì che anchei principi non cattolici sostenessero il civil principato della santa Sede medesima, di cui da tanti secoli per singolare disposizione della divina provvidenza gode legittimamente il romano Pontefice, affinché nel governo della Chiesa universale da Dio affidatogli possa esercitare nel mondo cattolico il supremo suo spirituale potere con piena libertà, tanto necessaria all’esercizio del sommo ponteficato e alla salute del gregge di Cristo. Dobbiamo inoltre rendere testimonianze di lode ed onore a tutti gli ambasciadori e ministri degli stessi sovrani e nazioni accreditati presso di Noi e presso la santa Sede, che interpe t ri della propensione dell’interessamento per Noi delle loro corti e governi, difesero la persona Nostra prima della partenza, e Ci furono compagni nell’esilio e nel ritorno. Tante poi e si grandi furono le prove di singolar pietà, d’intenso amore, di devotissimo ossequio e di larghissima liberalità dateci dall’universo orbe cattolico, che avremmo assai desiderato ili questo vostro consesso, ringraziare di nuovo, e lodare non solo le città, e i paesi ad uno ad uno, ma tutti singolarmente, se il Nostro discorso non andasse più in lungo di quel che si conviene. Però non possiamo tacere gl’illustri ed ammirabili contrassegni di fedeltà, di pietà, d’amore e di liberalità datici da’ venerabili fratelli vescovi dell’orbe cattolico, che Ci furono di grandissima allegrezza. Eglino in fatto, sebbene posti nelle più gravi angustie e strettezze, pur tuttavia non si ristettero mai con sacerdotale zelo e fortezza di adempiere il proprio ministero, e di combattere nel buon arringo, e con la voce e con gli scritti, e con le loro adunanze difendere impavidi la causa, i dritti e la libertà della Chiesa, e provvedere alla salvezza del gregge loro affidato. Né possiamo astenerci dal protestare anche a voi, venerabili fratelli cardinali di S. romana chiesa, la Nostra viva gratitudine, essendoci stato di sommo conforto e sollievo, mentre compagni e partecipi della Nostra sventura, sopportando con animo invitto ogni sorta di disagio, e pronti a subire per la Chiesa di Dio pene anche maggiori, non tralasciaste mai con ogni virtù di sostenere l’eminente grado di dignità che occupate nella Chiesa stessa, e di giovarci co’ vostri consigli e fatiche nelle gravissime lotte sostenute. Essendosi ora per sommo beneficio dell’Altissimo cambiate le cose, per modo che fra il giubilo non solo di quest’alma città, ma ancora de’ popoli tutti, potemmo restituirci a questa Sede apostolica, nulla certamente deve esserci tanto a caro quanto nella umiltà del cuor Nostro rendere continue ed infinite azioni di grazie al Dio delle misericordie, di che Ci fu prodigo, ed alla SS. Madre di Dio Maria Vergine Immacolata, dal cui validissimo patrocinio ripetiamo la nostra salvezza.»
«Fin qui, o venerabili fratelli, toccammo rapidamente quelle cose che Ci furono di gioia; ora per dovere del supremo Nostro apostolico ministero non possiamo a meno di parlarvi di ciò che travaglia, opprime e strazia il cuore Nostro.»
«Sapete già, o venerabili fratelli, la terribile ed inesorabile guerra suscitata fra la luce e le tenebre, fra la verità e l’errore, fra il vizio e la virtù, fra Belial e Cristo, né ignorate con quali arti e macchinazioni nefande i nemici di Dio e della società si sforzano per attaccare ed abbattere gl’interessi di Nostra santissima religione; svellere dalle radici il germe di ogni cristiana virtù; propagare ovunque la sfrenata ed empia licenza di pensare e di vivere; con ogni sorta di perversi e perniciosi errori, corrompere la mente e il cuore della moltitudine, specialmente imperita, e dell’incauta gioventù; di conculcare i dritti divini ed umani, e se fosse possibile, rovesciare dalle fondamenta la Chiesa cattolica, ed espugnare la cattedra santa di Pietro. Ed ognun vede quali e quanti mali, non senza grave dolore dell’animo Nostro, per opera del potere delle tenebre affliggano e travaglino l’ovile di Cristo a Noi affidato, e la stessa umana società.»
«Pertanto, venerabili fratelli, se mai sempre per lo innanzi, ora certamente e Noi e voi dobbiamo coraggiosamente adoperarci insieme uniti, e con ogni vigilanza,zelo e vigore, sia con opere, sia con parole, sia coll’esempio, per combattere impavidi le battaglie del Signore, opponendo un muro per la casa d’Israello. Noi al certo quantunque consapevoli della Nostra pochezza, pur tuttavia abbandonati al divino aiuto, per dovere del supremo Nostro apostolico ministero non taceremo per amor di Sionne, né Ci daremo posa per amor di Gerusalemme, e tenendolo sguardo sempre fisso nell’autore della fede, e nei consolatore Gesù, né cure, né fatiche risparmieremo per sostenere la casa di Dio, ristorare il tempio, riparare le rovine della Chiesa, provvedere alla comune salvezza, pronti e disposti a dar volentieri la vita stessa per Gesù Cristo, e per la sua Chiesa. E da questo luogo indirizzando il discorso a tutti i venerabili fratelli vescovi dell’orbe cattolico chiamati a partecipare delle Nostre sollecitudini, mentre grandemente Ci congratuliamo delle illustri loro fatiche per la maggior gloria di Dio, e per la salvezza delle anime, torniamo ad incoraggiarli, perché in questa orribile lotta contro la divina nostra religione, concordi ed animati dagli stessi sentimenti, confortati nel Signore, e nella potenza della sua virtù, prendendo lo scudo inespugnabile della fede, ed imbrandita la spada dello spirito, che è la parola di Dio, continuino vieppiù, siccome fecero finora, con episcopale valore, con costanza e prudenza a combattere intrepidamente per la religione, ad opporsi agli sforzi de’ nemici, ribatterne i dardi, romperne l’impeto, difenderne il gregge dalle loro insidie e violenze, e condurlo nelle vie della salvezza. Chiediamo inoltre dagli stessi venerabili fratelli, che non tralascino mai di avvertire, di esortare e di eccitare gli ecclesiastici specialmente, affinché con assidue orazioni, col fervore dello spirito, e con la pietà e santità della vita si mostrino in ogni cosa esempio di buone opere, ed accesi dello zelo per la gloria di Dio e per la salute delle anime, stretti fra loro col saldo vincolo di carità, prendano l’armatura di Dio, concordi e riuniti escano in battaglia, e sotto la guida del proprio vescovo alzino giorno e notte la voce sacerdotale, e annunzino al popolo come si conviene la legge santa di Dio, e i precetti della Chiesa sua sposa. Proseguano ancora gli stessi venerabili fratelli ad inculcare agli ecclesiastici di svelare ai fedeli gl’inganni e le frodi degl’insidiatori, d’insegnare al popolo, esser sempre derivale e derivare dal peccato le miserie e le calamità che affliggono il mondo, e nel solo adempimento della legge di Cristo consistere la verace solida felicità: e perciò non risparmino cure affinché tutti aborrendo il male e seguendo il bene, vadano pel sentiero de’ comandamenti di Dio, escano i traviati dalle tenebre degli errori, dal lato de’ vizi, e si convertano.»
«Ora poi, o venerabili fratelli, vi comunichiamo una consolazione alcerto grandissima che provammo tra tante angustie, allorché Ci fu data contezza de’ decreti emanati dal Nostro carissimo figlio in Gesù Cristo, Francesco Giuseppe imperatore di Austria e re apostolico, co’ quali giusta la specchiata sua religione, appagando i voti e le domande Nostre, e de’ venerabili fratelli vescovi del vasto suo impero, con grandissima gloria del suo nome, e con vera esultanza de’ buoni, ivi aprì volenteroso, in un co’ suoi ministri, l’adito a quella libertà della chiesa cattolica, che tanto desideravasi. Laonde tributiamo allo stesso imperatore e re le meritate lodi per un fatto così insigne del tutto degno di un principe cattolico, e con esso lui ci congratuliamo grandemente nel Signore, e speriamo non invano che lo stesso religiosissimo monarca pel suo amore alla Chiesa cattolica voglia proseguire a compiere un’opera si ragguardevole, e porre il colmo a’ suoi meriti verso la cattolicità.»
«Mentre però eravamo immersi in siffatta consolazione, Ci sopraggiunse un dolore, al certo amarissimo, che assai Ci affanna e Ci strazia, scorgendo in qual modo gl’interessi della nostra Santissima religione ora si abbattino in un altro regno cattolico, e si conculchino i sacri dritti della chiesa e di questa Santa Sede. Già ben vedete, venerabili fratelli, che Noi qui intendiamo parlarvi del Piemonte, ove siccome tutti, e da lettere private, e da pubblici fogli già conoscono, fu promulgata una legge avversa a’ dritti della Chiesa ed ai solenni trattati conchiusi con questa Sede apostolica; ed in questi giorni poi con sommo dolore dell’animo Nostro il ragguardevolissimo arcivescovo di Torino, il venerabile fratello Luigi Fransoni, fu tolto da mano militare alla sua sede arcivescovile, e con grave lutto de’ buoni della città di Torino, e di tutto il regno venne tradotto in luogo di reclusione. Noi pertanto, siccome lo esigeva la gravezza delle cose, e il dover Nostro di tutelare i dritti della Chiesa, rimosso ogni indugio, per mezzo del Nostro cardinale pro segretario di stato immantinente reclamammo presso quel governo, primieramente contro la enunciata legge, di poi contro l’ingiuria e la violenza usata all’egregio arcivescovo. Intanto mentre speriamo che la Nostra amarezza sia rattemperata dal desiderato esito de’ Nostri reclami, non ometteremo di tenervi proposito con altra allocuzione degli affari ecclesiastici di quel regno, e rendervene consapevoli, allorquando il giudicheremo opportuno.»
«Dopo ciò non possiamo astenerci del Nostro paterno affetto verso l’illustre nazione belgica, che sempre si distinse nello zelo della cattolica religione, dall’esprimervi il Nostro dolore, vedendo ivi sovrastare pericoli agl’interessi cattolici. Ma Ci confidiamo che quel serenissimo re e tutto il suo ministero, riflettendo nella loro saggezza quanto la Chiesa cattolica e la sua dottrina contribuiscano ancora alla temporale tranquillità e prosperità de’ popoli, vogliano mantener salda la salutare influenza della Chiesa, e proteggere e difendere i sacri pastori e ministri della Chiesa stessa, e la loro opera sopra ogni dire giovevole.»
«Siccome poi quell’apostolica carità con la quale abbracciamo in Gesù Cristo e popoli, e nazioni, Ci conduce a tale di null’altro desiderare, fuorché tutti concorrano nell’unità della fede e della cognizione del figlio di Dio, indirizziamo con tutto l’affetto del cuore le Nostre parole a tutti gli acattolici, e li scongiuriamo nel Signore che, dissipata la caligine degli errori, veggano la luce della verità, e riparino nel seno della santa madre Chiesa, ed in questa cattedra di Pietro, in cui Cristo gettò le fondamenta della sua Chiesa medesima.»
«Finalmente, venerabili fratelli, non tralasciamo giammai col maggior possibile fervore d’innalzare umili preghiere a Dio clementissimo dispensatore d’ogni bene, affinché pe’ meriti dell’unigenito suo figlio Signor Nostro Gesù Cristo, e della Sua Santissima Madre Immacolata Vergine Maria, de’ beati apostoli Pietro e Paolo, e di tutti i santi, sottragga la sua Chiesa da ogni avversità, dall’austro all’aquilone, di sempre nuovi e più chiari trionfi, e c i ricolmi ogni giorno più di copiosi doni della sua bontà, conceda a’ sovrani ed alle nazioni di Noi benemerite l’ampiezza di ogni vera felicità, ed accordi all’orbe universo la sospirata pace» Queste gravi querele sulle tribulazioni della Chiesa in Piemonte non produssero alcun effetto, perciocché predominando ivi a quei tempi il partito esaltato, non era facile sperare la ritrattazione di atti, che menti accese avevano partoriti. Perseverò adunque il Pontefice nelle sue protestazioni, e perseverarono pure tutt’i vescovi di quello stato nelle risoluzioni prese a tutela de’ dritti della Chiesa. Da ciò la persecuzione contro il clero vieppiù si accrebbe, e le cose a tal riguardo si ridussero a molto mal punto.
CAPITOLO XXXI
Pratiche tenute all’estero dagli emigrati delle due Sicilie per suscitare nuovi sconvolgimenti nel regno. Osservazioni del ministero inglese sulla politica di Napoli: risposta del governo. Complicazioni in Germania svanite per l’ingerenza di Pietroburgo. Messaggio del presidente della repubblica francese in difesa dell’ordine e della pace di Europa.
Irrequieto e protervo, riparato a Londra, uno de’ più furenti agitatori siciliani, che per opulenza di fortuna, per altezza di natali e per una bastante istruzione stringeva a se d’intorno numerosi rifugiati italiani, adoperavasi, ma senza effetto, a ridestare le speranze de’ faziosi nel regno delle due Sicilie. Esauriti tutt’i mezzi, che mercé la voce, le segrete corrispondenze e la stampa sapeva maneggiare, rivolgeasi rabbioso contro le novità di riordinamento sopravvenute alla rivoluzione, e con una sfrontatezza pari all’audacia addebitava al governo di Napoli una politica inumana, affatto eterogenea a’ lumi ed al progresso dell’epoca. Senza farsi strumento secondario, e però più vile delle private mire di un inglese, in cui l’odio per la corte di Napoli era anche maggiore della stolta pretensione, colla quale infruttuosamente aveva cercato procurare alla Sicilia una insidiosa indipendenza, ed alla Gran Brettagna un profittevole protettorato su quell’isola, forse le pratiche del siciliano patrizio sarebbero state meno indegne della burbanza che le moveva; ma fortunatamente a disinganno de’ visionari, che tutto credono facile e giusto quando trattasi di far prepotenze, impegna vasi nel rincontro quel lord Palmerston, che sino allora giuocaloavea di destrezza, tenendo la Sicilia come il banco del prestigiatore. Qual ministro degli affari stranieri della Gran Brettagna facevasi adunque il nobile lord a segnare una nota diplomatica, con cui protendendo le solite protestazioni di umanità, e di vivo desiderio per la pace generale, con molto risentimento dichiarava; meravigliarsi di quei provvedimenti, di quelle misure prese dal governo di Napoli dirette apertamente a distruggere una politica con tanta solennità proclamata, essersi abbastanza proceduto a danno di onesti e pacifici cittadini, non di altra colpa accusati, che di aver caldeggiati per una libertà ormai nel loro paese riconosciuta, non comportare i tempi asprezze nelle risoluzioni, persecuzioni avvanzate; richiedersi più moderati consigli, occorrere ben altre misure; vi si pensasse, vi si riparasse, vi si provvedesse; quando no, la Gran Brettagna non si sarebbe ripromessa di ciò che avrebbe potuto succederne.
L’inconvenienza di un simigliante linguaggio, che quando anche non fosse stato animato da uno spirito di parzialità, rivelava sempre una politica insana, appunto perché non indagava scrupolosamente l’indole de’ popoli, e non ne valutava da vicino i peculiari interessi, mostravasi da per se stessa apertamente, senza bisogno d’investigarne la cagione. Se ogni governo dovesse limitarsi ad essere un pallido riverbero dello straniero, si crearebbe senza dubbio ostacoli troppo difficili a sormontarsi, rinunzierebbe per questo solo fatto ad una esistenza propria, e porrebbe soprattutto a cimento quell’autorità, che si à un dovere precipuo a tutelare. I popoli ànno costumi, religione, abitudini, pregiudizi diversi gli uni dagli altri, né possono venir mai governati con sistemi identici. Sarebbe in vero cosa assai strana ed assurda il voler dare all’italiano, all’inglese, al tedesco, al francese, al musulmano, le istituzioni stessere leggi medesime. Ciascuno stato deve tenere una esistenza interna tutta propria, e serbare una politica esterna conforme al dritto delle genti; e quel governo che si lasciasse trascinare ciecamente da una politica straniera, verrebbe solo per questo fatto a rinunziare a quella indipendenza, ed a quella dignità, che costituiscono l’essenziale elemento delle nazioni.
Quant’amarezza sentisse il cavaliere Fortunato, ministro degli affari esteri, a questa novella oltranza inglese, per torre al governo di Napoli non solo la forza, ma benanche i mezzi ad operare, è assai facil cosa a concepirsi. Non pertanto, compresso lo sdegno, con accento grave e con tuono solenne, rispondendo al ministro inglese, faceasi innanzi tutto a rammentare quanto praticato si fosse dal governo di Napoli pel sollievo de’ popoli, e come a malgrado di tante sollecitudini, spiriti sediziosi e perversi avessero sempre cercato di volgere a ribellione una moltitudine di persone, parte ree, parte imprudenti, riempiendo per tal modo lo stato di confusione, di terrore, di rapine: come, mercé la divina Provvidenza, e coll’aiuto di milizie coraggiose, e di sudditi fedeli, fossero stati frenati i turbatori, ed interrotto il corso alle indegne opere loro: come fuggiti a’ meritati gastighi tanti cospiratori, avessero dipoi trovato ricovero soprattutto nei domini di sua maestà brittanica, ove per l’eccessiva protezione ricevuta, senza tralasciare novelle macchinazioni, avessero sempre rivolto l’animo loro alla distruzione del trono di Napoli, e cercato di menare ad effetto tanti rei disegni. Il governo, aggiungeva il ministro Fortunato, procedere con lealtà e rettitudine ne’ suoi provvedimenti, e questi prendersi in conformità de’ tempi e delle circostanze, per salvare lo stato da quell’abisso, cui avrebbesi voluto ridurre da’ novatori: essere pur troppo doloroso scorgere una straniera ed amica potenza, una gran nazione, gelosa della indipendenza degli altri stati, voler portare a sindacato certe determinazioni, che un altro governo stimava indispensabili per tutelare la sua tranquillità interna, senza ledere affatto alcuno di quei dritti, che tra nazioni e nazioni debbono andar rispettati: qual interesse poter mai avere la Gran Brettagna in quelle risoluzioni, in quelle misure, che pel bene della giustizia, pel vantaggio de’ suoi popoli il governo delle due Sicilie era obbligato di adottare? esser bene a meravigliarsi come tali dottrine potesse un ministro inglese professare, e l’uso che di loro volesse farsene da chi continuamente aveva in bocca parole di filosofia e di umanità: se mai alcun’altro potentato, proseguiva a dire, volesse menar rimprocci al governo inglese sul modo con cui egli regge i suoi popoli d’Irlanda, degli abusi che vi esistono, del generale scontento che ne deriva, de’ rigori usati, della insopportabile gravezza delle imposizioni, che cosa ne direbbe l’Inghilterra? Non si risentirebbe forse a tanta tracotanza? Laonde, conchiudeva, se la giustizia è il primo dovere delle grandi nazioni, ove non vogliono rimanersi alla trista gloria di dominar colla forza, la giustizia domandare, anzi comandare, che non si molestasse per sinistri fini il reame delle due Sicilie, che avea cercato sempre evitare di offendere gl’interessi e la dignità della Gran Brettagna’, e che non poteva giammai consentire ad una dimanda che vulnerava la sua indipendenza, e tendeva manifestamente a distruggere quella sicurezza, della quale ogni potenza amica avrebbe dovuto al sommo lodarsi.
Ma in sostanza tutto dipendeva dal modo come gli alti potentati di Europa avrebbero riguardata questa strana condotta della politica inglese. A tal fine il governo di Napoli efficacemente rivolgevasi alla Francia, all’Austria, e soprattutto alla Russia, a cui l’umanità andava specialmente debitrice della pace, mostrando quanta dura condizione fosse quella di uno stato indipendente l’essere ad ogni istante esposto a proteste e minacce per parte di una potenza amica.
Intanto, sia per l’influenza di tali pratiche, i di cui buoni effetti non lardavano a manifestarsi, sia per le apprensioni che la riunione di tanti sovvertitori della pubblica quiete naturalmente destavano nel suo seno, l’Inghilterra finalmente desisteva, ed il governo di Napoli Iiberavasi da tutte quelle complicazioni, che suo malgrado il mantenevano cotanto agitato. Non ostante tutto questo, poiché il veleno era stato con isquisita arte propinato, indubitato rendeasi, doverne i primi sintomi tosto apparire.
Dalla Malta inglese, dove precisamente stanziava la più parte de’ compromessi nella ribellione di Sicilia e nei rivolgimenti di Napoli, giungevano, a misura che l’opportunità si presentava, segreti messi nell’isola, i quali non cessando dall’eccitare viemaggiormente con lusinghevoli speranze, i modi ed il tempo convenivano per un nuovo preparato movimento. Erano a tal riguardo le menti di quei cospiratori a siffatto segno stravolte, che senz’affatto ricordarsi del passato, e senza neppur calcolare sul presente, stimavano cosa facilissima, come se nelle stesse condizioni si stasse di tre anni innanzi, di poter menare ad effetto i loro rei disegni.
Scrivevasi adunque incessantemente da Malta: l’Europa è stanca di più soffrire la tirannide che l’opprime: la Germania è nella più parte commossa: la Prussia è minacciata da’ stessi suoi più antichi collegati, poiché tende a favorire la causa della libertà in tutt’i stati tedeschi: la Francia non dorme, ed è alla vigilia di spezzare le dorate catene con cui vorrebbe avvincerla l’ambizioso Bonaparte: stiate dunque strettamente uniti, se volete esser forti; ed appena che avrete da qui ricevuto il segnale del convenuto generale movimento, dovrete tosto apertamente insorgere come un sol uomo, perché la tirannide sarà immancabilmente da per ogni dove schiacciata.
Né meno attive pratiche si tenevano nel continente, ove da Marsiglia e da Genova, depositi principali degli agitatori italiani, di tratto in tratto pervenivano, sotto finti nomi, raffinati campioni di disordini, ed avvisi segretissimi; ma per quanta industria adoperata si fosse nel corso di tali macchinazioni, non potevano certo restare tanto occultate, che non venisse a saperle la vigilante polizia. Ciò fu cagione che messi alle segrete i più compromessi nelle tenute pratiche, facile riuscisse a porre in chiaro le persone e le cose attinenti alla ordita tela. E siccome tali misure non potevano andare a garbo del partito del disordine, così le gazzette di questo colore altamente se ne lamentarono, scrivendo cose più pazze che stravaganti contro il governo di Napoli.
In Francia avveniva altrettanto, e forse peggio. Era cosa nota a tutti, che Lione e Marsiglia fossero i punti centrali di operose corrispondenze con Ginevra, co’ dipartimenti dell’est, e coll’Italia. La polizia avea occhi ed orecchie in tutt’i conciliaboli; ne scovriva il fine ed i mezzi, ed attendeva per operare opportune occasioni. Da ciò molti compromessi venivano senz’alcun riguardo simultaneamente assicurati su vari punti, e tra essi pure alquanti rappresentanti del popolo sovrano.
Rotte queste altre fila delle preparate turbazioni, e svanite tante insidiose pratiche, non rimaneva alla demagogia che la lusinghiera speranza di vedere, per le rivalità suscitale a bella posta tra l’Austria e la Prussia, ardere in mezzo ad una guerra fratricida l’intera Germania, e quindi esposta l’Europa alle lagrimevoli conseguenze che avrebbero potuto derivarne.
Le commozioni politiche del 1848 non avevano incontrato minor favore in Germania, ove la demagogia coltivata artifiziosamente nelle scuole, trovavasi più ordinatamente preparata. In Prussia soprattutto l’elemento democratico avea preso maggiore sviluppo, poiché non solo la nobiltà, ma anche gli alti funzionari del governo n’erano stati potentemente percossi. Da ciò la causa di tante inconsiderate provvidenze, e la origine di quelle fatali complicazioni che ora ci facciamo succintamente ad esporre.
Nel maggio del 1849 un consigliere della corona prussiana, assalito anch’esso dal morbo di utopistiche riforme, con artifizioso parlare faceasi a proporre la riunione di tutti gli stati alemanni, eccetto l’Austria, in una federazione sotto il protettorato della Prussia; e ciò nel doppio scopo, di ripristinare l’impero germanico per farlo centro di movimenti progressisti, e contrapporlo alla potenza dell’Austria, irremovibile nel provvedimento di conservar l’ordine e la pace, ed irremovibile pure da’ solenni trattati del 1815. Il re esitava a questo duro passo, ma divenuto più insistente l’astuto ministro, cadeva finalmente nell’aguato, non accorgendosi affatto, che acquistando maggior potenza a quei tempi ed a quel modo, divenivasi tanto più servo della demagogia.
Cominciatosi adunque dal menare ad effetto il concepito disegno, parecchi de’ piccioli stati della Germania di già assentivano all’altero invito del governo prussiano per la vagheggiata federazione; ma i stati più grandi, ove precisamente con più sano consiglio procèdevasi, accortisi al pari dell’Austria del vero scopo delle tenute pratiche, apertamente riprovavano quanto la Prussia erasi fatto a pretendere.
Ad impedire che il male vieppiù s’innoltrasse, il gabinetto austriaco affrettavasi, per mezzo dell’ambasciadore a Berlino, a significare al governo prussiano il suo profondo rammarico per quei provvedimenti, che la politica, i tempi ed i trattati altamente riprovavano; né punto trascurava di rilevare, come la nuova costituzione che voleasi procurare alla Germania fosse un’opera impossibile, che avrebbe trovata una barriera insormontabile non solo nella ferma volontà del governo austriaco di non lasciarsi escludere, ma benanche in mille altre difficoltà basate sulla natura degli affari alemanni. Ogni cosa, diceva, risolverebbesi facilmente, se l’Austria e la Prussia unite strettamente come prima nello spirito di una sana politica, mettessero mano in comune alla grande opera: esser ben lontana l’Austria dal voler concedere la sua adesione a delle forme che non potrebbero mai tollerarsi, ed esser pronta a concorrere al ristabilimento dell’ e difizio, ma su le basi antiche, serbando un certo riguardo alla esigenza de’ tempi. Vane proteste; dapoiché la Prussia persisteva nel dire, che non si offrirebbe a trattative ulteriori sulle quistioni della costituzione germanica, se non a patto che venisse riconosciuto il suo dritto di continuare a battere la via della sua lega separata da rendere impossibile ogni confederazione generale.
In tale stato di cose rendevasi urgente di stabilire un organo comune ad agire, perciocché le disposizioni passaggere prese insino allora, a niun risultamento avevano menato: bisognava riconvocare immantinente la dieta federale, prescegliere l’autorità destinata a trattare gli affari, e stabilire il suolo legale, in cui si potesse provvedere con successo. Fu dunque convocata a Francoforte la dieta federale, e la Prussia e gli stati che alla stessa intendevano separatamente confederarsi, non solo rifiutarono d’inviare alcun loro rappresentante, ma altresì formalmente protestarono contro quei dritti che la dieta intendeva per l’appunto esercitare.
Poteva quest’aperta discordia fra le due principali potenze tedesche essere sopportata insino a tanto che la cosa si fosse limitata a spiegazioni teoretiche, a rifiutare l’applicazione pratica delle decisioni federali unicamente sul territorio de’ governi collegati nella così detta unione. Però essa doveva condurre necessariamente a conflitti di seria natura tostoché la Prussia si fosse opposta all’azione della dieta federale anche fuori del territorio della lega separata. E tanto per l’appunto accadeva per due gravissime quistioni sopraggiunte, nelle quali la Prussia, presa dalla sua febbrile condotta, altamente minacciava la pace di tutta la Germania, e con essa quella di Europa.
Il re di Danimarca, membro della confederazione germanica, qual duca d’Holstein e di Laneburgo, e rappresentato nella dieta di Francoforte, era ricorso alla medesima affin di pacificare i ducali da un’aperta ribellione scoppiatavi in danno de’ dritti della sua corona; e quando la dieta affrettavasi, per le molte ragioni che ne aveva, ad appagare la ricevuta dimanda, la Prussia dichiarava, di non volere affatto soffrire un tal procedere della confederazione.
Per un’altra ribellione avvenuta nell’Assia elettorale, quel principe, obbligato a fuggirsene, chiedeva il soccorso della confederazione, la quale posta nel dovere di non pregiudicare alle leggi fondamentali della sua esistenza, e di non dare il triste esempio che le rivoluzioni tedesche fossero con indifferenza sopportate, non potev’af fa tto rifiutarsi. Ma puranche in questo la Prussia opponevasi apertamente, non volendo permettere che un principe tedesco impiegasse nel territorio del proprio stato le forze de’ suoi collegati conforme ai doveri federali.
Ridotti a questi estremi cotanto pericolosi i casi della Germania, il Cielo, continuando a mostrarsi propizio alla causa dell’ordine, permetteva che il potente Czar di tutte le Russie, atterrata la ribellione ungherese, e tenendo raccolto sulle frontiere polacche un esercito di 300 mila combattenti, quando già la Prussia minacciava, dichiarasse suo nemico chiunque il primo osasse impugnare le armi in Germania. E tanto bastava, perché indi a poco la Prussia cedesse, l’impudente ministro, autore de’ minacciati disordini, sparisse, che i due principali monarchi tedeschi subitamente si riconciliassero, ed ogni rivalità Ira loro del tutto cessasse.
Mentre vani sforzi sovversivi da un lato, ed energiche repressioni dall’altro promettevano ristoro alla travagliata umanità, un messaggio del presidente della repubblica francese, de’ 12 novembre 1850, diretto a quei rappresentanti del popolo, assicurava apertamente all’Europa il trionfo dell’ordine e della pace. Ecco i tratti principali di quella elaborata manifestazione, che tanto dolore produsse a’ turbatori, e sdegno grandissimo agli autori di violenze e di fraudi:
«Quando voi siete venuti, il paese era tuttavia agitato dagli ultim’ istanti della costituente. Molti imprudenti voti avean creati grandi imbarazzi al potere. I trasporti della tribuna si erano, come sempre, tradotti in agitazioni nella piazza, ed il 13 giugno vide scoppiare un novello tentativo d’insurrezione. Comunque facilmente repressa, essa fece ulteriormente sentire l’imperiosa necessità di riunire i nostri sforzi contro le cattive passioni. Per vincerle, bisognò dappria provare alla nazione che tra l’assemblea ed il potere esecutivo regnava la migliore buona intelligenza, imprimere all’amministrazione una direzione unica e ferma, battagliare risolutamente le cagioni di disordine, ravvivare gli elementi di prosperità.»
«Le importanti leggi che la gravità degli avvenimenti obbligò di adottare, contribuirono potentemente a ristabilir la fiducia, perciocché mostrarono la forza dell’assemblea e del governo quando son essi in perfetto accordo.»
«L’amministrazione, dal suo canto, raddoppiò di vigore, ed i funzionari che non sembravano non abbastanza capaci, né abbastanza devoti per disimpegnare la difficile missione di conciliare senza debolezza e di reprimere senza spirito di partito, furono destituiti; altri, all’opposto, elevati in grado, o ricompensati.»
«L’autorità municipale cotanto salutare, allorché la sua azione si accoppia con franchezza a quella del potere esecutivo, si attirò giustamente in molti comuni rimproveri g ravissimi: Quattrocentoventuno maires e centottantatrè aggiunti dovettero essere destituiti; e se tutti quelli che son rimasti al di sotto delle loro funzioni non sono stati colpiti, è perché l’imperfezione della legge vi si è opposta.»
«La guardia nazionale, utile ausiliaria contro i nemici interni ed esterni, quando è ben ordinata, non à agito che troppo spesso in un senso opposto allo scopo della sua istituzione, e ci à costretti a scioglierla in centoquarantatré città o comuni, ovunque insomma essa à presentato il carattere di un corpo armato deliberante.»
«La giustizia à degnamente secondato il potere. La magistratura à spiegato una grande energia per far eseguire le leggi e punire coloro che le violano.»
«Per assicurar l’ordine nelle province più agitate, sono stati stabiliti grandi comandi contenenti molte divisioni militari, e poteri più estesi sono stati affidati a generali sperimentati. Da per ogni dove l’esercito à prestato il suo concorso con quell’ammirevole devozione che gli è propria, da per ogni dove del pari la gendarmeria à disimpegnata la sua missione con uno zelo degno di elogi.»
«Si è di molto calmata l’agitazione delle campagne mettendo un freno alla detestabile propaganda ch’esercitavano gl’institutori primari. Numerosi purgamenti sono stati fatti. I maestri di scuola non sono più oggi strumenti di disordine.»
«Dopo il mio ultimo messaggio la nostra politica esterna à ottenuto in Italia un gran prosperoso successo. I nostri eserciti ànno abbattuta a Roma quella demagogia turbolenta, che in tutta la penisola italiana avea compromesso la causa della vera libertà, ed i nostri bravi soldati ànno avuto l’insigne onore di rimettere Pio IX sul trono di SanPietro. Lo spirito di partito non giungerà ad oscurare questo fatto memorabile, che sarà una pagina gloriosa per la Francia. Lo scopo costante de’ nostri sforzi è stato d’incoraggiare le intenzioni liberali e filantropiche del Santo Padre. Il potere pontificio prosegue la realizzazione delle promesse contenute nel motu proprio del mese di settembre 1849.»
«Alcune leggi organiche sono state già pubblicate, e quelle che debbono compiere l’insieme dell’organizzazione amministrativa e militare negli stati della chiesa, non tarderanno ad esserlo. Non è inutile dire che il nostro esercito, necessario ancora alla conservazione dell’ordine a Roma, lo è pure alla nostra influenza politica, e che dopo esservisi illustrato pel suo coraggio, esso si fa ammirare per la sua disciplina e moderazione.»
«Su diversi punti in cui la nostra diplomazia à dovuto intervenire, essa à nobilmente mantenuta la dignità della Francia, ed i nostri alleati non àn mai reclamato invano il nostro appoggio.»
«In Grecia, dal tempo in cui ci furon note le vie di fatto colle quali l’Inghilterra appoggiava i suoi reclami, siamo intervenuti co’ nostri buoni uffici. La Francia non poteva restare indifferente alla sorte di una nazione, alla cui indipendenza avea tanto contribuito: essa non esitò ad offrire la sua mediazione. Malgrado le difficoltà insorte durante il corso delle negoziazioni, pervenimmo ad addolcire le condizioni imposte al governo di Atene, e le nostre relazioni con la Gran Brettagna ripresero subito il loro solito carattere.»
«In mezzo alle complicazioni politiche che dividono l’Alemagna, noi abbiamo osservato la più stretta neutralità, tanto che gl’interessi francesi e l’equilibrio dell’Eu ro pa non saranno punto compromessi; noi continueremo una politica che attesta il nostro rispetto per l’indipendenza de’ nostri vicini.»
«Tal è, signori, la rapida esposizione dello stato de’ nostri affari. Non ostante la difficoltà delle circostanze, la legge, l’autorità àn ripigliato in siffatta guisa il loro impero, che nessuno crede ormai al trionfo della violenza. Ma pure, a misura che svaniscono i timori pel presente gli spiriti si abbandonano con trasporto alle preoccupazioni dell’avvenire. Intanto la Francia vuole innanzi tutto il riposo. Commossa ancora da’ pericoli che la società à corsi, ella rimane straniera alle querele de’ partiti e delle persone, sì meschine al paragone de’ grandi interessi che sono in movimento» Questo era un grande atto di quel tempo, non potendosi al certo negare la immensa lode dovuta a Luigi Napoleone Bonaparte, che colla sua politica energica e conciliante al tempo stesso, avea assicurato all’Europa quella tranquillità, alla quale rivolgeansi i desideri di tutti.
Chi ora sotto un solo sguardo si facesse a comprendere le varie parti d’Europa già sconvolte nel 1848 dal turbine rivoluzionario, vedrebbe forse spettacolo unico nella storia de’ tempi: i movimenti diretti da una stessa intelligenza, tendenti al medesimo scopo, in perfetta armonia fra loro, come quelli delle varie membra di essere vivente, tutti coordinati alla conservazione della vita: da per tutto leggi uniformi regolatrici dell’insegnamento, e refrenalive della stampa: da per tutto le stesse misure di pubblica salvezza a prevenire i disordini, a disperdere gli assembrati; e la stessa Svizzera, un tempo centro di movimentò, nido de’ principali turbatori stranieri, ora ammaestrata dal fatale sperimento di tale acquisto, aborrire questi uomini scaltri e sospetti, esollecita e rigorosa espellere dal suo seno sì perniciosa gema.
Adunque dal pieno e since ro accordo stabilito fra tutti i potentati per la conservazione della pace, a chiari segni mostravasi, come i politici rivolgimenti, con tanta foga cominciati nel 1848, stessero già per toccare, al volgere del 1850 il loro ultimo termine.
CAPITOLO XXXII
Giudizi espletati contro alcuni uffiziali disertori al nemico, e contro gli autori de’ succeduti disordini e degli eccitatori alla guerra civile. Digressione sul nolo Carducci. Continuazione degli accennali giudizi.
Trascorsi quei turpissimi tempi rotti ad ogni freno, nei quali le più violenti passioni sottoponevano i popoli alla loro dittatura, la legge, reintegrata nel suo potere, facevasi a rintracciare gli autori di tante ribalderie, per infliggere ad essi quelle pene, chel’ oltraggiata società, pe’ mali sofferti, altamente reclamava.
Durante la lotta tra la monarchia e la ribellione non furonvi, né la prudenza sapeva consigliarli, giudizi contro a politiche reità, tranne un solo, che un abominevole tradimento di due uffiziali disertori era stato dalle leggi militari, e dalla indegnazione di tutto lo esercito sollecitato. Riferimmo come tra i cinquecento siciliani concorsi nella insurrezione delle Calabrie, catturati nella loro fuga verso Corfù su due legni da traffico, dalla real bandiera, vi si fossero rinvenuti trenta de’ principali condottieri, e tra questi Giacomo Longo e Mariano delli Franci, tutti deportati in Napoli appena venuti in potere della forza. Il 19 luglio 1848 il comando generale delle armi esigeva dal coman dante la piazza di Napoli, che a termini delle leggi penali militari tanto gli accennati Longo e delli Franci, quanto Francesco Guccione e Francesco Angherà, i primi tre tenenti, Fui timo sergente delle artiglierie, rinvenuti tra i catturati siciliani, fossero nel castello di S. Eramo, dove già trovavansi guardati, sottoposti al giudizio di un consiglio di guerra subitaneo. I documenti, e la pubblica discussione, nella quale aringarono a difesa i principali avvocati della capitale, facevano riassumere i seguenti fatti a ciascuno accusato relativi.
Il Tenente Longo trovavasi stanziato in Palermo quando in agosto dell’anno 1847, unitamente al tenente Vincenzo Giordano Orsini, e ad altro uffiziale, veniva sottoposto al giudizio di quella gran corte speciale come imputato di cospirazione contro il legittimo governo del Re. Assoluto, forse più da una male intesa prudenza, che dalla giustizia, trovavasi il 20 gennaio 1848 tuttavia co’ suoi consorti detenuto nelle prigioni civili (quinta casa) prossima ai quartieri de’ quattroventi, allorché il generaleDesauget quivi accampato riceveva in quel giórno ordine preciso di tramutarli tutti, fuori di ogni contatto, da quelle prigioni a bordo di un piroscafo, e spedirli in Napoli. Riguardi inopportuni determinavano il generale a trattarli da amici, rendendo loro piena libertà sulla parola di onore. Traditori e felloni, calpestando la promessa d’onore, Longo ed Orsini in luogo d’imbarcarsi per Napoli, disertavano per Palermo, unendosi agl’insorti, vi ricevevano il grado di colonnelli, e si adoperavano poscia in tutt’i modi a favore della ribellione. Longo a Messina contro la cittadella era il cane alla luna. L’impossibilità di stringerla d’appresso consigliava l’insurrezione delle Calabrie nel doppio scopo d’isolar quella, ed attirare sul continente del regno gravi sventure.
Longo dapprima cospiratore, poi disertore e ribelle, diveniva allora un brigante. Nel dì 11 giugno 1848 passava a Villa S. Giovanni, confabulava, apparecchiava l’infame orditura della rivolta, e ritornato a Messina riunivasi a Ribotti per piombare sulle Calabrie colla masnada de’ galeotti siciliani. In quella breve incursione comandava da generale. Avvilito e depresso per infelici risultamenti, fuggiva con tutti, e quando già credevasi salvo in alto mare, la giustizia arrestavalo.
Il tenente Mariano delli Franci interino comandante di una compagnia di artiglieria in Reggio, il 10 giugno 1848 preveniva le conseguenze della sua pessima amministrazione disertando per Messina. Distintosi fra i principali ribelli, passava a Milazzo. Nominato colonnello, sbarcava a Paola il 16 dello stesso mese colla spedizione composta dalla feccia degli uomini i più abietti e rilasciati, come capo dello stato maggiore, sotto gli ordini dell’improvisato generale in capo Ribotti. Di mente audace, di modi poco cortesi, non coraggioso al pericolo, invano fuggiva una all’incomposta massa ribelle la cattura, il giudizio.
Minacciato lo stabilimento metallurgico di Mongiana dagl’insorgenti siciliani, il tenènte Guccione delle artiglierie ivi stanziato veniva dal proprio comandante deputato a trattare col nemico. Adempito con tutta lealtà, ma senz’effetto, alla missione tendente a rimuovere da ostile proponimento il suo antico compagno divenuto colonnello Giacomo Longo, conduttore di quella banda, ritornava al suo posto. Sorpreso indi a poco, come tutti gli altri militari colà residenti, dalla banda stessa, non riusciva a svignarsela, e quindi rimaneva prigione. D’allora mai più libero, seguiva il movimento fuggitivo de’ suoi custodi, imbarcavasi con essi, e riguardato dopo la cattura come complice, subiva giudizio.
Francesco Angherà un tempo sergente della compagnia d’artiglieria stanziata in Mongiana, veniva a 26 gennaio 1848, dopo lunga prigionia militare per manifestate idee sovversive, congedato dal real servizio. Associatosi indi a poco alla sopraggiunta insurrezione nelle Calabrie, e specialmente alla sicula masnada, distinguevasi tra i principali aggressori dello stabilimento anzidetto. Fuggito coll’orda malvagia, aveva colla stessa comune il destino.
Tal essendo il puro stato delle cose, che la causa offriva, niuna speranza di salvezza, meno pel tenente Guccione, potevasi mai avere dagli altri giudicabili. Posta adunque a nudo la verità de’ fatti, l’eloquente destrezza degli oratori non trionfava punto a danno della legge, e però il giorno 21 luglio 1848 pubblicavasi la seguente sentenza.
I primi tenenti D. Giacomo Longo e D. Mariano delli Franci, come disertori al nemico, e ribelli armati contro il proprio Sovrano, condannati alla pena di morte colla fucilazione.
D. Francesco Guccione, come non colpito da reità, in libertà provvisoria.
Francesco Angherà, come pagano, rimesso al tribunale competente.
Riferivasi prestamente al Re la profferita condanna, che al giorno appresso doveva esser mandata ad effetto. Ed ecco rivolta alla regia l’attenzione di lutti, che nel più cupo silenzio, fra la giustizia del giudicato, la clemenza del Principe e la rassegnazione de’ due condannati, trepidavano. Lo stesso Sovrano trovavasi da mille pensieri violentemente agitato» poiché la memoria di tanti benefici obliati, anzi corrisposti colla ingratitudine, facevano il più duro contrasto col suo cuore magnanimo. In questa ardua lotta tra la giustizia e la clemenza, il nipote di S. Luigi e di Errico IV finalmente ricordavasi di se stesso, cedeva ai sensi di pietà, e dimenticando la gravezza di quel misfatto, qual novello Tito, segnava ad un tratto la grazia della vita de’ due colpevoli.
Ilcaso del misero barone Marasca, in sì barbaro modo sagrificato dall’odio e dalla vendetta, aveva di che atterrire qualunque più animoso ed intrepido spirito. La giustizia n’era irrequieta, e tutt’i sforzi facea ad assicurare i colpevoli. L’ombra dell’estinto parea che sempre chiedesse vendetta, e gli stessi spettatori dell’orrendo misfatto sembravano, per quella trista rimembranza, sollecitare un giudizio che che a tutela de’ buoni rendeasi urgente. Il protagonista della seguita tragedia, il famoso Carducci, aveva già reso conto al giudice supremo di tutt’i suoi falli, ed il fabbro di tanta nequizia, sparito da molto tempo, perché altrove riparato, non cessava neppur da lontano di mantenere in quelle contrade, fumanti ancor di sangue, sempre viva l’agitazione. Rimaneva un sol altro degli autori della terribile strage, qual’era appunto un tal de Mattia, che raggiunto con altri de’ suoi compagni d’arme, era già caduto in potere della giustizia Le precipue circostanze di quell’accaduto funesto, la ribellione che n’era stata la causa, e le tante altre ribalderìe che ne furono la conseguenza, richiedevano senza dubbio riparazione sollecita. Compilavasi adunque celeremente il processo, e con le debite forme aprivasi la pubblica discussione. La gran corte criminale di Salerno, procedendo con rito speciale, dopo aver’accuratamente liquidati tutt’i fatti, ed udite a ribocco le speciose difese presentate da parte degl’imputati, sentenziava nel capo il principale accusato, e dannava a’ ferri tutti gli altri suoi complici. Si venne tostamente alla esecuzione capitale, e l’imm ensa moltitudine accorsa al terribile atto potè di leggieri comprendere a qual fine conducono gli atroci delitti.
L’orditura di quella trama, e la parte che vi prese Costabile Carducci, l’uomo dell’audacia e della ferocia, che al cominciare del 1848 pose a rumore il Cilento, tempestando insino alle rive del Se l e, e che in giugno del 1848 tanto figurò nella insurrezione delle Calabrie, ci conducono ad una breve digressione a di lui riguardo, tanto più utile, in quanto che rivela taluni essenziali della sua condotta, e del tristissimo fine che ebbe a toccare.
Per le tradizioni del liberalismo la fama di Carducci sarebbe senza meno quella di un eroe che à incontrato generosamente la morte combattendo per la libertà, se l’imparzialità della storia non togliesse a rappresentarlo senza riguardi quale i fatti lo dichiarano.
Quando dopo il 1837 l’ odio per la legittimità de’ governi veniva in moda, quando il manifestare scontentezze, predicare insidiose utopie, macchinare rivoluzioni, procurar proseliti al disordine costituivano elevatezza di mente, purità di principi, progresso di civiltà, ed a questa opinione s’inchinavano vilmente gli stessi agenti del potere, allora Carducci tramutavasi da Capaccio, sua patria, in Napoli, vi acquistava relazioni, affiliavasi alla setta , sino a che divenuto in età di anni 44, centro di pensieri e di azioni, slanciavasi il primo alla ribellione nel mese di gennaio 1848.
Come principale eccitatore alla guerra civile aiutato da non pochi faziosi suoi dipendenti, percorreva i paesi del distretto di Vallo, moltiplicava le orde rivoltuose, e spingevate dovunque in persecuzione di tutti coloro, che amici dell’ordine avevano dato inalterabili pruove di attaccamento a’ dritti ed alla persona del Sovrano regnante Ferdinando II. Così nella notte del 17 una di quelle masnade, a’ cenni de’ luogotenenti di Carducci, Antonio Leipnecher , negoziante di fiori di Siracusa, e Filadelfo Sodano, farmacista di Celso, invadeva il comune di Casalicchio, vi disarmava la guardia urbana, s’impadroniva con inganno del capo di essa Gennaro de Feo, e seguendo le prescrizioni di massima, sagrificavalo crudelmente all’odio implacabile spiegato contro i fedeli sudditi del Re.
Due giorni dopo Carducci colla sua banda perveniva in Sala di Gioì, vi faceva fucilare un Rosario Rizzo, e ne lasciava a pubblico terrore esposto il mozzo capo in cima ad un palo piantato innanzi alla chiesa del comune.
Nel dì 24 Carducci passava in Ascea, confabulava col suo ospite ed emulo agitatore D. Ulisse de Dominicis, traeva prigione, una al capourbano barone D. Andrea Maresca, il sotto capo Pasquale lo Guercio, conducevali in Pisciotta, ed il mattino del 26 disponeva che dopo tre ore di cappella venissero fucilati. Approssimavasi il terribile istante, e le pratiche de’ buoni, i gemiti della sventura non trovavano ascolto, se non che la desolata moglie del lo Guercio non desisteva sino a tanto che le sue lagrime ottenevano per intercessione del de Dominicis la grazia pel marito. Solo il disgraziato barone Maresca, cui concedevasi appena di vergare un breve testamento, vittima di antico ed implacabile odio privato, soccumbeva barbaramente sotto i colpi de’ suoi spietati assassini.
Questi ed altri fatti consumati da Carducci come ribelle per vaghezza, sarebbero stati sufficienti alla storia per tramandarne a’ posteri il nome aborrito, se a viemaggiormente stabilirne la giusta opinione, non ci avesse egli stesso lasciato per documento indubitabile una lettera da lui scritta in sullo scorcio di quel nefasto mese di gennaio, che fa pregio dell’opera diligentemente riferire.
«Pisciotta 27 gennaio 184 – Comando generale delle truppe in massa della indipendenza italiana – Al sig. comandante Pavone del circondario di Gioi».
«Trovo positivamente punibile la sua oscitanza nel non avermi data conoscenza delle sue operazioni sin dal giorno che ci divisimo da Vallo. Voglio augurarmi che le mie disposizioni siano state da lei eseguite, cioè di aver fatto in Gioi fucilare quel giudice regio, il sindaco di Salella ed il comandante urbano di Cicerale, giusta le mie prescrizioni; del pari porre a sacco ed a fuoco Ogliastro e Prignano, cioè tutte quelle famiglie le quali conoscerà aver favoreggiato per le truppe regie. Son certo ancora che si sarà portato ad occupare Castellabate ; che se poi non l’à fatto, si porrà Subito in movimento, seco portando tutte le sue forze disponibili, non toccando però le sue guarnigioni stabilite in Monteforte, Gioi, Monte ed Ogliastro. Disporrò intanto che il sig. comandante Ferrara si unisca alle sue forze per soggiogare Castellabate, ove terrà le stesse norme precisatele per Ogliastro. L’esorto a non risparmiare il sangue e far danaro, se vuol vedere progredita la causa nostra».
Per queste gloriose gesta, e per la resistenza fatta in Laurino alle regie forze, garantito poco appresso dallo indulto del 29 del mese stesso, Carducci raccoglieva le distinzioni accordategli dalla depravazione dell’epoca. Nominato colonnello delle guardie nazionali del Principato citeriore, ed eletto da fautori dell’anarchia a deputato al parlamento nazionale, diveniva prototipo tra i più operosi nemici della società e del trono. Preparava intanto, e raccoglieva con molta cura armati nella medesima provincia a tutela degli eventi, in attenzione di una catastrofe, allorché nel rientrare che faceva in Napoli, i deplorabili casi del 15 maggio sopraggiungendo, io spaventavano. In quegli estremi commetteva a Pasquale Lamberti l’insurrezione del Cilento, cercava salvezza, ad esempio di tutti gli altri furbi dello stesso conio, nella fuga, e riparatosi su’ legni francesi, il 29 perveniva a Roma, il 4 giugno seguente passava in Messina, ed il 14 dello stesso mese da Milazzo sbarcava a Paola, innestato alla spedizione della masnada sicula, obbediente a’ cenni del supremo duce Ribotti. Riunitosi al giorno appresso in Cosenza ai più esaltati suoi colleghi fuggitivi rappresentanti della nazione, ed a’ più tristi arrabbiati di quelle contrade, partecipava in quel comitato centrale di salute pubblica e come alto commessario civile, e come funzionante da generale nel comando della 4. brigata dell’esercito Calabro-siculo, che il comitato medesimo affidava al generale in capo Ribotti.
Durante quella funesta insurrezione improvisava piani di attacchi e di difese, prodigava consigli, sognava vittorie; ma la sua operosità non lo spingeva mai a procurarsi uno scontro colle regie truppe ridotte talora a perigliose condizioni! Istigato sin dal 28 giugno da precedente invito, che venivagli da una specialità di quella massa, e sollecitato da imminente rovescio, la notte del 3 al 4 luglio separavasi da’ suoi consorti, a’ quali poco appresso toccava, come si è alquanto innanzi accennato, la fuga e la cattura; e muovendo con pochi armali dalla marina di Scalea, col proponimento secondo la bisogna, o di nascondersi, o di portar lo scompiglio nella provincia di Salerno, defilato toccava l a spiaggia di Maratea, ed approdava dopo poche ore alla marina di Acqua—fredda.
Esiste una strada un tempo rotabile, che dal fortino (picciola casa a feritoie) posto sulla linea che divide il Principato citeriore dalla Basilicata dipartendosi dalla consolare passa per la giogaia di Monte Cocuzzo, e discende a Sapri per Torraca.
Sono già decorsi quarantasei anni da che le truppe napolitane cedevano alla francese invasione, ed i principi reali Francesco e Leopoldo, figli di Re Ferdinando 1°, facendo inutili prove di ultimi. sforzi per la difesa del regno, disbarcavano a Sapri, battevano quella strada, e passando per Lagonegro pervenivano nelle Calabrie. D’allora l’attaccamento degli abitanti di quelle contrade alla casa regnante si è sempre conservato, e la tradizione de’ fatti d’armi avuti co’ francesi, agli ordini del generale Lamarque nel 1806, à aggiunto al sentimento della loro devozione verso il sovrano legittimo quello di una capacità atta a ripetere gli stessi sagrifici in ogni altra consimile occasione. La rivoluzione del 1848, alla quale essi non fecero affatto buon viso, sorgeva intanto come un nemico estraneo al calcolo delle di loro probabilità; e poiché inutile sarebbe tornata ogni resistenza all’impeto di essa, prudentemente dissimulavano, e sempre più riannodandosi, una severa, ma destra sorveglianza esercitavano su’ pochi traviati di quelle terre.
In questo mentre i centri di dipendenza e di pensiero, come quei che già molto innanzi tolto avevano a conservare quel fuoco sacro, e che tuttavia viventi raccontavano alla terza generazione i fatti meravigliosi ne’ quali avevano avuta tanta parte a difesa della legittimità, sempre più si moltiplicavano, ed a misura che si accrescevano le apprensioni per la maggiore estensione che?rendea la ribellione nelle vicine Calabrie, viemaggiormente si consolidavano, ed anche più vigili teneansi pronti sempre a versare il loro sangue combattendo i ne mici del paese e del trono.
E senza parlare di altri, unode’ più influenti fra tutti quei devoti sudditi, e neperciò riputavasi in quelle contrade un saldo sostegno dell’adottata bandiera, era il settuagenario corpulento sacerdote D. Vincenzo Peluso da Sapri, il quale, avendo parteggiato per la causa regia nel 1799, e dipoi emigrato in Sicilia perseguire i destini della corte nel tempo della occupazione francese del regno, era stato da Ferdinando 1°, alla restaurazione del 1815, in premio di sua fedeltà, ricompensato di una pensione sul debito pubblico, che tuttavia conserva.
Quando dopo il gennaio del 1848 le agitazioni della capitale ponevano in grave periglio coloro tra gli abitanti di essa, che maggiore attaccamento mostrato avevano alla regia potestà, il prete Peluso provvedendo alla propria salvezza erasi ritirato in una sua casina posta a cavaliere tra il villaggio di Acquafredda e la marina adiacente, nella speranza di trarre ivi quei giorni di crescente universale agitazione, se non tranquillamente, almeno inosservato. Intanto la bugiarda fama, serva della demagogia, che non tralasciava con arte raffinata di recare da per tutto spaventevoli nuove, sostituendo immaginarie repubbliche a troni distrutti, celebrava con la stessa impudenza le sognate vittorie dell’anarchia nelle Calabrie; epperò sempre più tormentava la travagliata immaginazione di lui, abbozzando orribili quadri Ai prossime inevitabili ruine. Così agitato in cuor suo faceva egli in sulle ore 23 del giorno 4 luglio un chilo agro e stentato di un cibo mangiato al solito di poca voglia, allorché tutta ansante e trafelata entrava con furia in quella solitaria dimora unadonna per avvertirlo sollecitamente, in nome di un suo agente, essere disbarcato nel vicino lido Costabile Carducci, sfuggo con pochi segnaci alle vittoriose armi del Re in Calabria, es ser diretto a Torraca per proclamarvi arditamente un governo sua dipendenza, sapersi con certezza, per udita trama, volere anzi tutto est in guere la vita di lui, sia per soddisfare ad un suo desiderio costantemente vagheggiato, sia per rimuovere gli ostacoli, che quella vita avrebbe al certo opposto alla riuscita de’ suoi malvagi progetti.
Sbaldanziva a sì terribile annunzio il prete, misurava d’un guardo l’abisso apparecchiato ad ingoiarlo, e non pertanto, implorata la protezione del Cielo, a se d’intorno in soccorso chiamava, mercé la sollecita donna, tutti coloro che stretti a lui per sentimenti ed accordi, comune sorte correvano. A quei tempi, a quell’ora, gl’infedeli custodi della pubblica quiete, le guardie nazionali di Sapri e di Acquafredda, per faccende, per vizi, sperperate e sicure aggiravansi per vie diverse e lontane, sicché facile addiveniva a’ primi, ritirati e guardigni, uscir dalle domestiche mura, ed armati a tutela dell’ordine e del minacciato prete, presso la casina di lui riunirsi. Superiori di numero, animosi al pericolo, confidenti ai cenni di quello, disponevansi ad armi preparate, e marciavano dominanti sugli aggressori già mossi per l’erta a quella volta. Se non che a distanza di offesa soffermavansi, e gridando viva il Re, ad istantanea scelta, tra la resa ed il conflitto, imperiosamente i nemici costringevano. Ma non v’è dubbiezza alcuna, quando l’eterna giustizia di Dio opera a danno degli scellerati. Una mano invisibile già spingeva Carducci al suo destino, allorché co’ suoi rispondeva, viva la repubblica, e traeva archibugiate, e quando sotto ai colpi de’ regi, impegnati con accorgimento e valore nell’azione, venivano essi siffattamente bersagliati, che già due ne morivano, ed allo stesso Carducci toccava in un braccio ferita non lieve.
Epperò scoraggiati ne fuggivano quattro, mentre i restanti, tra’ quali il famoso Lamberti, cadevano insieme al ferito Carducci in potere de’ loro vittoriosi avversari.
Quando il prete Peluso vedeva al suo cospetto condotti assai bene assicurati quei cinque prigionieri, dalla rabbia de’ quali la Provvidenza erasi degnata salvarlo, non poteva alla vista del sangue, che copiosamente sgorgava dalla ferita toccata a Carducci, trattenere quei sensi di pietà, che una rilevante sventura suol sempre produrre. E quantunque inebriato dalla vittoria avesse generosamente prodigato al ferito assistenza e soccorso, pure un pensiero aspramente tormentava l o, che cioè non dovesse tra poco cangiarsi quella scena, qualora altri non pochi ribaldi, al famoso agitatore indubitatamente devoti, fossero accorsi per aiutarlo, colla distruzione in conseguenza di chi salvava il paese da un imminente sciagura. Laonde rotti gl’indugi, irrequieto, spediva sotto buona scorta Carducci a Lagonegro, gli altri a Maratea, e provvedendo a se stesso, muoveva sollecitamente per altra via, sollevando alla meglio sulla punta de’ piedi la sua massa tremolante, e quindi in luogo sicuro ed inosservato riparavasi.
A notte buia e per ignote vie procedeva intanto il prigioniero Carducci, a lento passo, confortato solo dalla speranza di vedersi ben tosto da’ suoi parteggiani raggiunto e liberato; epperò oltrepassati campi e vigneti, piani ed al t ure, la perveniva, dove più incerto, tra l’alpestre monte e la franosa valle, serpe il sentiero. Ivi, o che disperato si abbandonasse alla fuga, o che eventi tutt’ora ignoti fossero a danno suo sopraggiunti, spariva fra il silenzio e le tenebre, per dipingersi, or rimpianta, or maledetta ombra biforme nell’incertissimo campo delle umane congetture.
Per si misteriosa sparizione, la sfrenata stampa e la voce dell’idra rivoltuosa, àn di già lungamente schiamazzato, spaziandosi senza misura, sino ad accreditare con rara im pudenza le più strane ed assurde assertive; perlocché non fia meraviglia se gli errori relativi al racconto di questo fatto abbiano potuto facilmente passare anche nella mente e nelle opere di probi e valenti stranieri, avidi di conservare alla verità istorica tutto lo splendore della sua luce. Che un Gladstone abbia voluto scrivere a suo modo, a noi non cale, atteso la niuna speranza di gloria che ne tornerebbe a contraddirlo dopo le altrui confutazioni a difesa del vero, e per le quali egli, d’assai scapitando nella pubblica opinione, à per le mille giustamente sofferto. Ma che poi tuttavia, se non certe, per lo meno probabili avessero a ritenersi le immaginarie difformità che per difetto di notizie ci offrono in proposito non meno l’Italia Rossa del visconte d’Arlencourt, che le lettere di Carlo Mac farlane, e di Giulio Gondon, ecco tutto ciò che ne spiace, sembrandoci tanto ingiuste e calunniose a danno di quel prete, per quanto naturali e necessari scorgiamo intorno a lui tutt’i mezzi di salvezza, che egli in que’ terribili istanti seppe con troppo accorgimento, tra la sorpresa e lo spavento invocare.
Ritornando ora a’ giudizi, toccheremo brevemente solo di quegli, che per la importanza de’ politici reati meritano di essere dalla storia ricordati.
La causa della setta l’ unità italiana , e dell’attentato innanzi la regia, per le cose che rivelava, doveva altamente eccitare lo zelo della giustizia. Quarantadue erano gl’imputati presenti in giudizio, ma per cinque soltanto , i più rimarchevoli, terremo per brevità parola, apponendo a ciascun di essi rapido cenno biografico.
Il barone Carlo Poerio, promotore acerrimo di liberali riforme, era stato innanzi il 1848 sottoposto più volte alle dure pruove del carcere. Nominato su’ primordi del rivolgimento direttore di polizia, aveva mostrato in quei difficili tempi senno e prudenza. Promosso indi a poco a ministro della istruzione pubblica, dimettevasi, passando tantosto a far parte del consiglio di stato. Eletto deputato, per l’esuberante suo zelo a pro della libertà, era costantemente comparso fra l’opposizione. Sciolto il parlamento, la fama accennavalo punto di ragunamento de’ principali novatori, sia per la sua operosità ne’ lavori della setta degli unitari cui appartenevasi, sia per quella che spiegava sollecitando per lo stato rilevanti mutazioni. Vigilato perciò attentamente dalla polizia, e venuti in potere della stessa alquanti argomenti delle serbate pratiche, a 20 luglio del 1849 se ne assicurava, trasmettendolo indi a poco in potestà della giustizia.
Conosciuto per la sua irrequietezza a prò della sovranità del popolo, e della italiana indipendenza mostravasi un altro imputato, Nicola Nisco, il quale a riuscire in tali suoi divisamenti, precipuamente designava la provincia del Principato Ulteriore, dove la sua origine, le sue vistose proprietà, le sue estese relazioni, la opportunità gli fornivano a potenti maneggi. Né il velo dell’arcano copriva le sue trame, che anzi menandone pubblicamente alto vanto, apertamente annunziava una prossima repubblica. E sebbene il 16 maggio sorgesse come aurora di giorno di disinganno, non pertanto nel cuore di lui l’audacia non abbattessi. In quella stessa sera partiva da Napoli, in cui già trovavasi, e difilato traeva per Sangiorgio la Montagna, sua patria, ove giungeva in sul tardi della notte. All’alba del seguente giorno la sua casa brulicava di armi e di armati, e mentre egli ne eccitava di tutti l’audacia, dipingendo sotto falsi colori gli avvenimenti della capitale, ed il prossimo arrivo d’immensi soccorsi da tutt’i punti del regno, osando la stessa arte, affrettava il ragunamento delle milizie cittadine di quei dintorni. Svaniti quei disegni di muovere per Napoli, e per le sopraggiunte nuove, e per lo scoraggimento delle masse a fronte del pericolo che si sarebbe corso, non però desisteva. Associavasi alla setta degli unitari, e ben presto vi otteneva l’eminente grado di principale tesoriere. Accintosi a far proseliti, soprattutto fra le onorate milizie regie, simulando promesse e ricompense, per sì oltrante stoltizia accelerava il suo destino, venendo tra i primi catturato nel 13 novembre del 1848, e messo a disposizione della giustizia punitrice.
Agitatore per vaghezza, il giovane avvocato di Salerno, Michele Pironti, non aveva mai cessato dal 1848 di mostrarsi uno de’ più ardenti difensori della causa democratica: ricevuto perciò nella setta degli unitari, ed asceso bentosto ad eminente dignità, per industria ed ardimento mostrato nell’operare attivamente ad accrescere sempre più il numero de’ congiurati, ed a destare nel pubblico novelle agitazioni, nel meglio delle sue trame ad un tratto la polizia di lui, e degli argomenti insiaiosi cne conservava, assicuravasi.
Repubblicano alle apparenze, ambizioso nel fondo, un Filippo Agresti già uffiziale delle artiglierie, dopo di avere per politiche imputazioni vagato per molti anni fuori del regno, rimpatriava al cader di febbraio 1848. Riguardato altamente da’ novatori, primeggiava in tutt’i politici ritrovi. Promotore dell’ unità italiana , otteneva per dritto l’onore a presiederla; e benché innoltrato negli anni, con sorprendente operosità attendeva al tenebroso lavorio della setta. La polizia intanto spiava attentamente le sue trame, ed allorché sulle sue ree pratiche non v’era più luogo a dubitare, a’ 17 marzo del 1849 il faceva imprigionare, per sottoporlo immantinente ad un regolare giudizio.
Salvatore Faucitano, pel quale consumavasi la somma del sedizioso lavoro, l’uomo per la cui volontà non solo, ma per l’opra altresì, la cospirazione assumeva un carattere peculiare, ed in attentato tramutavasi, l’autore della composizione infiammabile, l’affiliato nella setta, il repubblicano deciso in sostanza, era colui che l’antesignano mostravasi fra tutti gli accusati. Né il sacerdote Barilla, né il siculo Luciano Margherita, né un Francesco Catalano, un Lorenzo Vellucci, un Cesare Braico, tralasciando parlar degli altri, erano da meno colpevoli. Agitatori per eccellenza, settari e congiurati, non avevano mai cessato di macchinare, né dopo molti saggi scoccati a vóto si erano punto rimossi dal suscitare novelle sociali tempeste, e di menare ad effetto rilevanti disordini.
Questi erano adunque i principali soggetti fra gl’imputati, che la processura accuratamente compilata, per nemici della società e del trono dichiarava, e che messi sotto il pondo di accuse sì gravi, non potevano in vista di tante irrefragabili pruove raccolte onninamente evitare la meritata condanna.
Epperò la gran corte speciale di Napoli, dopo lunga disamina, ritenendo a carico di Faucitano di aver provocato la strage fra’ cittadini, ed eccitati i sudditi ad armarsi contro l’autorità reale; e per Agresti, Settembrini, Nisco, Barilla e Pironti di avere come capi della setta l’unità italiana, insieme a Poerio, Margherita, Catalano, Ve ll ucci, Braico ed altri, semplici componenti della medesima, cospirato contro la sicurezza interna dello stato, ed applicando il disposto delle leggi penali a’ diversi gradi di reità riconosciuti per ciascun imputato, condannava alla pena di morte Faucitano, Agresti e Settembrini; all’ergastolo il sacerdote Barilla e Mazza; a’ ferri per anni trenta Nisco e Margherita; per anni venticinque Catalano, Vel l ucci e Braico; per anni ventiquattro Pironti, Poerio e Romeo; ad una minor durata alquanti altri, ed accordava la libertà provvisoria a nove soltanto fra’ quarantadue accusati.
Intanto il Re, temperando il rigore della giustizia colla sua inesauribile clemenza, degna vasi di far grazia della vita ai tre condannati nel capo, commutando la pena di morte ad essi inflitta in quella dell’ergastolo.
Ecco il frutto delle cospirazioni: chi più si sforza di montare in cima, tanto più presto precipita nel fondo.
Accennammo molto innanzi del subuglio del 5 settembre 1848, in cui i popolani del rione di S. Lucia, sospinti dall’invincibil sentimento di vera devozione al monarca, incedendo pacificamente per le vie principali di Napoli alle grida di viva il Re, e sventolando bianchi lini, venivano aggrediti a colpi di pietre e di armi bianche da altri popolani in maggior numero, prezzolati dal partito del disordine, fra gli evviva la repubblica, viva la libertà; e dicemmo, come i secondi al comparire della pubblica forza, accorsa a sedare quel grave tumulto, avessero cercato, ma invano, di respingerla co’ stessi mezzi delle pietre ed armi bianche. Null’altro menzionammo a tal riguardo, perché tornava più profittevole di parlarne a suo tempo. Ora dunque aggiungiamo, che sebbene rimasti gravemente feriti in quel conflitto un uffiziale della guardia reale ed un guardia di polizia, cadde nondimeno in mano della forza uno de’ più ardenti della tumultuante masnada, di mestiere tipografo. Guidati da un Vincenzo Bruno, giovane flebotomista, sforzavansi i sediziosi, menando aspramente le mani, a liberare il catturato compagno; ma compressa tanta audacia dalla operosità della pubblica forza, sempre crescente, i congiurati si scioglievano , e fuggendo sottraevansi per allora dal potere della giustizia.
Cessato questo disordine, e quando già le autorità diligentemente operavano a liquidarne i colpevoli, in due sere del seguente novembre nella via Speranzella, ed in quella di S. Pasquale, molte grida si udirono da lontano di viva la repubblica, viva la libertà, morte a Ferdinando IL( 0) Erano presso a poco quei medesimi, come fu alquanto dopo comprovato, che nel giorno 5 settembre avevano nell’enarrato modo proceduto; e poiché l’audacia de’ perturbatori era di gran lunga scapitata, a misura che l’energia governativa aveva a gran passi progredito, cosi all’apparire della pubblica forza, non fidandosi affatto quei forsennati popolani di affrontarla comunque, in quel pieno scompiglio tre ne cadevano in potere della stessa.
Predominati da sentimenti cotanto malvagi, ed eccitati semprepiù da’ principali cospiratori, non pur si fermavano quei ribaldi a menarne trionfo nelle pubbliche vie, ma portavano altresì il loro esaltamento fino ne’ luoghi della prostituzione e dello stravizzo. Il lupanare di una lasciva, dove spesso abbandonavansi alle più impure e sfrenate passioni, era divenuto uno de’ loro principali ritrovi, e le volte di una bettola avevano puranche echeggiato delle loro stolte e minacciose voci. Vi convenivano, tra le altre, in una notte molti di quei congiurati, i quali, evaginate ad un tratto le loro armi bianche, e ripercossene replicatamente, durante la gozzoviglia, le scranne ed il desco, fra i strepitosi evviva la repubblica, viva la libertà, indicavano vicino lo sterminio del Sovrano, della truppa e della polizia.
Né passava lungo tempo che quei ribaldi non commettessero novello attentato, dal quale speravano miglior successo. I principali agitatori aveano designata la sera del 29 gennaio del 1849 aduna solenne manifestazione: era quella la ricorrenza di un giorno troppo nefasto, e la memoria di mille illusioni: era l’occasione opportuna ad operare per quelle menti vulcaniche, che non si erano punto scorate alle replicate disfatte che avevano subite. £ vero che la truppa per essi mostravasi come un gravissimo ostacolo a sormontare, poiché alla sua immensa superiorità aggiungevasi l’ardore che animava l a per la causa del trono. Ma i stolti popolani non si scoraggiavano allatto, e’ l’oro che ad essi largamente prodigavasi, vieppiù contribuiva ad accrescerne la esaltazione.
Nella sera adunque del 29 gennaio la turba forsennata ragunavasi nelle prossimità di Toledo, e volgendo per quei dintorni, altamente gridava: viva la libertà, viva la costituzione, viva la bandiera a tre colori, abbasso la polizia. Il popolo si spaventava, gli usci si chiudevano, le vie sgombravano, ed un tetro silenzio succedeva ad un tratto da per tutto. Ma la pubblica forza non si lasciava attendere lungo tempo, che anzi accorsa prontamente, otteneva colla sua presenza a disperdere immantinente la massa cospiratrice.
Frattanto le indagini a scoprire i colpevoli di siffatti attentati pienamente riuscivano: la polizia in breve tempo ne arrestava parecchi, e rimettevali in potestà della giustizia, la quale proseguendo le ricerche incominciate, poneva in piena luce tutte le circostanze di quegli atti criminosi. Procedeva indi a poco la gran corte speciale di Napoli a danno di quei ribaldi, la illusione dei quali prestamente spariva. Venticinque erano gli accusati: tutti venivano condannati alla pena di lunghi anni di ferri. A tanto menano le imprudenze volgari: senza neppur comprendere che fosse libertà, divenivano quei sciagurati vittime de’ più scaltri ed ambiziosi novatori.
Altrove dicemmo, che allorquando nel 15 maggio, combattuta e schiacciata la rivolta, sognando i cospiratori quei trionfi, che non avevano potuto ottenere in quel giorno funesto, riannodando le forze perdute, ritentavano con maggiori conati nel mese appresso novelli disordini sopra vari punti del Principato Citeriore. E siccome quei casi segnarono un’epoca rimarchevole pur troppo delle nostre civili discordie, così l’ordine della narrazione ci obbliga a rilevare la sorte che toccarono tutti quanti coloro che se ne resero colpevoli.
Col divisamento adunque di muovere da per tutto la rivolta, il già mentovato Pasquale Lamberti, facendo teatro delle sue inique pratiche la provincia di Salerno, era su la metà di giugno del 1848, partendo furtivamente da Napoli, penetrato nel distretto di Sala, e quivi preparava tutt’i mezzi ad insorgere. A lui associavansi sulle prime due altri ardenti democratici, cioè l’abate Serino, accorso anch’esso alquanto innanzi dalla capitale, ed un tal Pessolano, che colà trovatasi, ed uniti procedevano al concertato movimento. Gli animi di tanti ambiziosi già predisposti ad irrompere, le fole a bella posta spacciale da quegli apostoli di ribellioni. la fortuna fatta sognare a migliaia di proletari, lusingavano quei sciagurati a segno tale da ritenere per certo un completo trionfo.
Mentre così da un lato macchinavasi, con maggior operosità procedevasi per un altro verso. Un agiato proprietario del distretto di Vallo, a quel tempo deputato al parlamento, incapace a discernere le scaltrezze del secolo, viveva in quella opinione, ed in quella stolta credenza, comune a molli per altro, che i mali in generale che l’umana società soffriva, solo da’ governi regi derivassero. Stravolto a quel modo l’innominato deputato vedevasi sempre inclinato ad approvare qualunque partilo tendente a mutare l’andamento ordinario delle cose, e per questa sua fatale caparbietà determinavasi, cedendo alla spinta di ambiziosi progetti, a spedire da Napoli in quello istesso mese di giugno pel distretto di Vallo un suo fidato agente, con istruzioni e danaro, per concordare con un Giambattista Ricci, ed altri, per quanto sfrenati, altrettanto influenti di quelle contrade, il modo onde porre tosto in soqquadro tutto il Cilento.
Cominciavano le mosse ribelli con una circolare, che questi ardenti parteggiani del disordine volgevano a’ comandanti delle guardie nazionali, così formulando il sagrilego invito:
«Nella santissima guerra portatasi dalla Calabria contro le nequizie di un governo traditore, la provincia di Salerno à creduto suo essenzialissimo dovere concorrervi. Il Cilento il primo à alzato il grido della rivolta, e da tutt’i punti giungono colonne di guardie nazionali in questo campo in Ogliastro. Si raccomanda perciò al suo zelo ed al suo patriottismo di raccorre prontamente quanti più suoi dipendenti potrà riuscirle, e condurli sollecitamente in questo campo, ove riceveranno il dovuto trattamento.»
Con queste arti diveniva quel moto importante, poiché accorsi armati da ogni parte, prestamente si radunavano nel designato luogo circa a due mila ribelli. Né potendo bastare i mezzi apparecchiati a mantenere tutta quella gente sfrenata, risolvevano i capi a sequestrare immantinente le pubbliche casse; per lo che a danno del regio erario con questo ritrovalo appropriavansi gl’insorti non meno di ducati seimila. Ma la immensa cupidigia della massa proletaria non ne restava pienamente soddisfatta, e perciò convenne ricorrere a più efficaci mezzi. Molle oneste famiglie, come che devote alla causa regia, erano state ne primi istanti adocchiate da quei ribaldi, i quali per viemeglio straziarle, cominciarono dal taglieggiarle nella più dura maniera. Né frattanto si risparmiavano ben altri attentati: il sacco e l’incendio distruggevano il resto. Il Cielo però a tempo riparava, poiché al rumore di questi nuovi casi muovendo sollecitamente da Napoli due battaglioni di milizie regie, non appena questi si appressavano alle ribellate contrade, che di già gli accampati in figliastro si disperdevano. Rimaneva nonpertanto di essi un avvanzo de’ più audaci, ma inseguiti vivamente per monti e per piani, dopo leggiera resistenza puranche sparivano. Finiva in tal maniera miserabile quel movimento rilevante, al pari di tanti altri dello stesso genere; e siccome la tranquillità non si era pienamente rassicurata, poiché la Sicilia teneasi ancora ribellata, e l’Italia trovavasi in pieno sovvertimento, cosi per allora non conveniva affatto procedere a danno di tanti, riserbando a miglior tempo l’azione della legge.
Rimesse alquanto dopo le cose nel loro stato normale, acquistatosi dal governo la sua legittima possa, la giustizia cominciava subito ad assicurarsi di tutti que’ traviati, e diligentemente accingevasi ad istruirne il processo. Degli autori principali dei disordini innanzi tutto occupavasi, e Lamberti, Ricci, Senno e Pessolano erano appunto quegli che per tali le pruove raccolte a ribocco rivelavano. Indi operava attentamente ad indagare su gli altri, tenendo sempre di mira i più rimarchevoli. Cosi a suo tempo ne seguiva presso la gran corte speciale di Salerno solennemente la causa, nella quale trovavansi quarantuno imputati presenti. Lunga ne fu, come doveva essere per altro, la disamina, in esito della quale venivano dannati a morte i quattro principali colpevoli. Degli altri, quattordici erano pur condannati a diverse pene, ed i restanti ottenevano la libertà provvisoria. Ma neanche questa volta una stilla di sangue versavasi, poiché il magnanimo principe graziava della vita que’ quattro, pe’ quali già teneasi preparato il patibolo.
Anche un tale Aletta figurava tra i principali turbatori del Principato Citeriore, poiché ne’ disordini di giugno 1848 alla testa di un gran numero di audaci erasi messo a bandire, per dovunque giungeva, apertamente la repubblica. Sottoposto a giudizio, veniva sentenziato nel capo, eppure quel Sovrano, che la demagogia indicava sempre tiranno, generoso rendeva a quest’altro ribaldo la vita.
Altrove un prete, il quale faceva professione di repubblicano vivo, e che teneva pratiche con tutti gli esaltati, montato sul pergamo in giorno solenne cercò d’infiammare quegli che l’ascoltavano: popoli della terra, diceva, e voi massimamente patriotti ed amici sinceri dell’umanità e della libertà, ascoltatele mie voci: l’Ente supremo à puniti i tiranni, e sta per rovesciare tutt’i loro troni: questi miracoli à egli operato, poiché era stanco di tante ingiustizie. Indi a non molto quel balordo veniva assicurato, e la giustizia punitrice severamente colpivalo.
Un altro ecclesiastico aveva le cose le più empie pubblicate, mostrando con imperterrita audacia, che il vangelo contenesse massime democratiche. Sottoposto a giudizio, sdegnava scusarsi, e la pena che riportavane, lo stolto sentivala con disprezzo.
Così la libertà voleasi alle cose più sacre innestare, ma coloro che la predicavano invano sforzavansi a cosiffatto scellerato connubio.
La ribellione essendosi molto più spaziata nelle Calabrie che altrove, grandissimo era il numero dei compromessi. Ora se di tutti si avesse voluto giudicare, la cosa sarebbe andata certo tropp’oltre; epperò ad evitare l’immenso cordoglio che le famiglie di tanti sciagurati avrebbero toccato, con maggiore riserba procedevasi. Dei soli principali giudicavasi fra i tanti che venivano accusati, per modo che niun altro ebbe a sopportare la più lieve molestia. Pochissime furono le condanne capitali, né mai alcuna ue fu mandata ad effetto.
Gli Abruzzi erano stati pure alquanto turbati, e l’Aquilano specialmente aveva soprattutto sofferto. Un intendente esaltato, stato sempre un ardente democratico, vi aveva eccessivamente operato, ed opportunamente erasi a tempo altrove riparato, co principali che avevano al par di lui cospirato, allorché stavansi appressando le regie forze. Non pertanto giudicavasi di tutt’i restanti, de’ quali parecchi riportavano le pene fulminate dalle leggi.
Nella Basilicata erasi pur troppo macchinato, poiché lo stendardo della rivolta stava già per issarsi dall’uno all’altro estremo della provincia. Una federazione si era formalmente organizzata, ed altro non attendeva, che la ribellione calabra vieppiù consistenza prendesse. I più compromessi erano alquanto dopo spatriati; e perciò rimaneva a procedersi soltanto sul conto degli altri colpevoli. Non pochi ne venivano condannati; e se qualcuno giunse destramente a salvarsi, colpa non fu certo di coloro, che amministravano la giustizia.
I torbidi avevano puranche agitato il Principato Ulteriore, ma la presenza di un’imponente forza militare aveva arginato a tempo il torrente devastatore. I malfattori indi a non molto erano tutti processati, e diversi fra essi subivano poco dopo il meritato gastigo.
Int utto il resto del regno le reità politiche erano state meno rilevanti, e però considerate come leggieri trascorsi, ci dispensiamo discorrerne.
Molti adunque furono gli agitatori giudicati nel continente del regno: quarantatréi condannati nel capo , tutti graziati della vita peraltro, e poco più di trecento quegli che andarono a’ ferri.
Dovrebbero tutti questi esempi ammaestrare gli uomini traviati, e richiamarli una volta per sempre al retto sentiero. I turbatori nella più parte àn pagato lo scotto dell’imprudenza mostrata; e quantunque alcuni emigrati specialmente si fossero per ora opportunamente salvati, alle sofferenze di una vita errante debbono certamente aggiungere lo strazio di contemplare la sorte toccata a tanti condannati loro compagni di ventura. Ogni altro colpevole vive poi fra’ palpiti, poiché scorge pendere tuttavia sul suo capala tremenda spada di Damocle.
CAPITOLO XXXIII
Osservazioni sullo stato morale e materiale delle due Sicilie all’epoca de’ cessati rivolgimenti, e sulle conseguenze che le turbazioni cagionarono. Indirizzi al Re, e voti del popolo di Napoli.
Da che la Sicilia fu sottomessa, e surse l’amore dovunque l’incertezza spariva, risorgeva essa a poco a poco più bella di prima. L’agricoltura usciva da quell’abbandono, in cui la rivoluzione l’aveva condannata; l’industria e le arti ripigliavano la loro antica operosità; il commercio rimettevasi nella sua pienezza, e per ultimo le persone e le proprietà venivano potentemente tutelate, per quanto appunto indicava la forza governativa al suo giusto punto ricondotta. Dovevasi adunque adorare un reggimento, il cui capo coprendo con lo splendore della sua magnanimità le colpe che ne’ tempi agitati avevano l’onor nazionale offuscato, e scordando da franco il passato, indistintamente servivasi di chiunque offriva lealtà e sincero desio di concorrere alla prosperità pubblica. E se tutto questo neppur fosse bastato a benedire quella mano che aveva salvata la Sicilia, l’essere andata in franti quella verga di ferro, frutto della ribellione, che la tenea oppressa, doveva al certo destare nel cuore di tutti sensi di gratitudine per sì rilevante beneficio conseguito. Soltanto il governo mostrava la sua severità contro quegli emigrati, dannabili da vero, que’ figli parricidi della patria, ch’erano andati da luogo in luogo accattando oltraggi e nemici contro il paese natio: essi, come si è visto, non si ristavano dal macchinare, ma screditati qual erano, non più trovavano aiuto.
Chi avesse visitato la Sicilia nel 1848 e parte del 1849, si sarebbe inteso,all’entrare nelle principali città, oppresso da un atmosfera carica di miasmi rivoluzionari, e sollecitato per conseguenza ad uscirne. Ora la scena è intieramente cangiata; quell’aspetto tetro e minaccioso non più si offre allo sguardo come per lo addietro; le scienze, il commercio, le industrie e le arti, risorte a nuova vita, e la memoria de’ tempi di Scordia, di Settimo e di Stabile si vede sempre aborrita, dannata e maledetta.
Lo stesso accadeva nelle terre e ne’ villaggi, dove schiacciati, o fuggiti quei piccioli regoli, quei veri tiranni, che sotto le sembianze ipocrite di libertà avevano tutti oppressi, ed ogni cosa manomessa, godeasi alla pur fine quella pace cittadina, che da due anni più non sapeasi che cosa fosse. I tempi adunque per la Sicilia sono intieramente mutati, e lo stato di una duratura prosperità ormai si annunzia pur troppo sicuro.
Nel continente però sebbene fosse accaduto tutt’altro, e la tranquillità pubblica si fosse assai prima dell’isola ristabilita, rimaneva tuttavia quella lena affannosa, che suol’essere la conseguenza di un superato gravissimo pericolo. Delle macchinazioni poi, che avevan tenuto per lo innanzi preoccupati tutti gli animi, ridotti scienziati, letterati ed artisti ad un silenzio ingrato, distrutto il commercio, sospeso il lavoro, scemato il traffico, restava puranche un fosco lampo, poiché alcuni essendo ancora ab bagliati dal’fantasma della potenza popolare, e dagli assurdi principi di una uguaglianza politica, ((a)) per questa illusione fatale, stata cagione di gravissimi mali, e principal motivo di spingere il carro sociale all’orlo di un precipizio, davano sempre a sospettare alla vigilante polizia, che attentamente spiavali da per tutto. Temeansi pur di alcuni le insidiose pratiche, stante che ne’ tempi del disordine avevano mostrato un carattere ardente. Di costoro adunque in una notte la polizia assicuravasi, riducendoli in tal maniera nella impossibilità di qualunque tentativo. Alquanto dopo nella capitale ne furono alcun’altri imprigionati, e tutti sommarono a poco più de’ trenta. Amaramente fu sentito questo fatto dalla parte liberale, la quale lo definì per un eccesso. Ma ben altrimenti della cosa giudicarono altri, poiché un rimedio violento per un male mollo grave, dissero, doversi piuttosto agl’infermi, anziché a chi teneva l’obbligo di curarli, attribuirsi.
Intanto tutt’i comuni del regno, e le corporazioni diverse presentavano rispettosi indirizzi al Re, supplicandolo che per la dimostrata incompatibilità col benessere sociale dello statuto del 10 febbraio 1848, si volesse degnare di rivocark», ritornando le cose allo stato primiero. Taluni di quegli atti rilevavano il tristo sperimento fatto da per tutto delle moderne istituzioni liberali, e come quegli stessi che si erano mossi a predicarle avessero appena dopo a ribocco mostrato ambizione e cupidigia. Altri poi rammentavano le nequizie commesse da tutti gli esaltati, e come coll’industria e coll’audacia avessero bruttato di tutte le loro sozzure il suolo delle due Sicilie. Il Sovrano dignitosamente accoglieva le deputazioni che a tal riguardo a lui si presentavano, ma nella vastità de’ suoi concepimenti, riserbava a tempo opportuno il da farsi pel vantaggio de’ suoi sudditi, e per la tranquillità dell’intero reame.
Ma i fati assalivano da tutt’i lati l’idra rivoltuosa. La vigilanza de’ potentati su i principali autori di tutt’i disordini toccava ormai il punto culminante, poiché non solola( ) Francia avea raddoppiate le cure a tal riguardo, ma finanche l’Inghilterra cominciava a ricredersi da quella sua pur troppo fatale illusione. Gl’innumerevoli emigrati avevano già dato molto a sospettare, mentre in parecchi luoghi apparivano de’ segni di prossime turbazioni. La polizia inglese era giunta a scovrire alcune segrete pratiche, e già le fila dell’ordita trama erano in suo potere. Il governo adottava misure eccezionali, ed ormai dalla terra d’Albione sgombravano molti di quegli ospiti infedeli. Così quel nembo minaccioso dalla parte della Gran Brettagna dissipavasi ad un tratto, assicurando per tal modo viemeglio la calma del continente di Europa.
Peraltro le armi potenti della Russia teneansi sempre al bisogno apparecchiate, ed al pari quelle dell’Austria mostravansi pronte ad ogni eventualità dello stesso genere. L’Italia d’altronde trovavasi pienamente assicurata; il solo Piemonte soffriva acerbe turbazioni. Laonde ne conseguitava che, con un sistema fermo ed energico, ma non opprimente al tempo stesso, poteasi sperare nel regno delle due Sicilie di conservare quella tranquillità pubblica, che si era pienamente riacquistata, e di accrescere quella prosperità nazionale, che sempre più a gradi progrediva.
Se la costituzione fu desiderata sulle prime da alcuni, fu certo poco dopo odiata da molti, a causa specialmente della ciarliera ed ambiziosa potestà popolare. L’antica sapienza seppe trovare migliori rimedi a governare i popoli, e se qual cosa non fu bene ordinata, colle buone leggi che si successero in processo di tempo, la moderata libertà andò sempre d’accordo con la temperanza de’ governi regi. L’allettare i popoli colle lusinghe, per renderli poi più schiavi in appresso, è stata sempre astuzia di coloro che a’ tempi nostri sotto forme liberali àn cercalo d’ingannarli; e le pruove abbondanti che ne ànno lasciate, non potrebbero al certo farne più dubitare ad alcuno.
Nella rivoluzione del 1799 fumarono di molto sangue le terre napolitane, e l’erario ebbe a soffrirne per circa quindici milioni di ducati. In quella del 1820 pochissime vite si spensero per l’intero reame, ma il danno in numerario toccò i sessanta milioni. Nell’ultima poi del 1848 non solo il sangue fu copiosamente versato, ma le spese sopportate dallo stato traboccarono i cento milioni. Non fia adunque perduta la lezione che emerge da tutti questi fatti, i quali finalmente dovrebbero rendere gli uomini più accorti in appresso.
Quantunque per tutto il regno fossero come per incanto sinanche sparite le tracce delle sofferte agitazioni, e colla calma ricomparsi tutti gli amminicoli della pubblica prosperità, non pertanto un sincero sentimento di affetto tormentava il buon popolo di Napoli, desideroso di rivedere in mezzo ad esso il magnanimo Principe, il quale, a respirare un’aria più sana, ed a rinfranco di tante cure sostenute nel corso degli ultimi tre anni, tratteneasi nella regia di Caserta. Quando le prime volte apparve per le contrade della Capitale, la sua popolarità crebbe ancora, e spettacolo più tenero di quello che offerse Ferdinando II( 0) in mezzo al popolo di Napoli, non offerse Trajano giammai in mezzo a’ romani.
Non è a memoria d’uomo alcuna rivoluzione, in cui il dito provvidenziale sia stato così visibile quanto in quella del 1848. I sentimenti perversi che l’ànno prodotta, e coloro che in momenti di sorpresa ànno esercitata la tirannia popolare, sono stati istantaneamente colpiti nel meglio de’ loro trionfi da quella giustizia suprema, che governa le nazioni, e che spesso è lenta a punire. Dopo il 15 maggio le sue condanne sono state rapide come la fólgore, e tutti quei novelli Attila, che ànno sconvolta e manomessa la più bella parte d’Italia, sebbene trionfanti per pochi istanti, son dispariti immantinente sotto una mano vendicatrice. Questo sì ch’è stato il dito provvidenziale che abbiamo accennato, e quella la pienezza de’ tempi profetizzata appunto dalla Chiesa.
CAPITOLO XXXIV
Conchiusione
Molti ànno svariatamente ragionato intorno alle cagioni della rivoluzione del 1848, e mossi ancor noi dallo stesso impegno, ne dicemmo tanto quanto esser potea bastante allo sviluppo del concetto che ne facemmo. E siccome nel corso del lavoro si sono presentate ben altre circostanze relative allo stesso argomento, abbiam creduto utile accennarle, trattandosi di cose pur troppo indispensabili a sapersi.
Quando la Francia nel 1830 risvegliava per la seconda volta in Europa lo spirito democratico, una scuola d’incredulità cominciava a smaltire le più assurde dottrine in fatto di religione. Non si badò da principio a ripararvi, e tanto meno avvertissi la trappola in cui stavasi per cadere. Il male intanto da pertutto serpeggiava, e quantunque allora i governi si fossero in certa maniera sforzati a disperderlo, non per tanto le autorità procedendo con molta leggerezza, e camminando ora a rilento, ora a ritroso, non corrisposero affatto all’obbligo che tenevano. Tacerò di quanto praticava un uomo reputato, che ora scriveva contro i preti, ora contro i frati, ora contro i governi, ora contro i governati, buttava ogni giorno nel pubblico sue spiritose massime, per vieppiù accendere il fuoco quando era prossimo a spegnersi. Chi non seppe penetrarne l’umore, non cercò di frenarlo, tanto che fu lasciato lungamente dire a sua voglia.
Così aperta la breccia al cattolicismo fatto bersaglio dell’incredulità, sorgeva e si aumentava una setta, la quale travolgendo con arte raffinata il senso delle scritture sante, tanto si sparse, che giunse in breve, seguita da migliaia di proseliti, a mostrarsi con sorprendente audacia a viso scoperto.
Ma lo spirito religioso non per questo sgomentavasi, che anzi tutt’i sforzi volgeva contro quei turbatori della fede. Costoro, diceasi, aver somminato altra volta la Francia, e costoro appunto ora preparare la ruina de’ reali seggi: per costoro imperversare una libertà scapestrata, e per la filosofia di costoro volersi dissolvere ogni buon ordine sociale.
Fra intanto facile l’immaginare che uomini così falsati nella mente e nel cuore, facendo giuoco di lor setta le cose divine, non dovessero serbare per le umane rispetto alcuno; e che valendosi della religione sol come mezzo per giungere alla loro meta desiderata, fossero sempre pronti a torsi d’innanzi tutto quello che sarebbe per essi diventato di peso e d’inciampo.
In verità chi non iscorgeva oltre il suo volere alcun’altra legge, senza speranza e timore di un mondo posto al di la della tomba, riconcentrato nel presente, che cercavasi fecondare, per trarne tutto il vantaggio a suo tempo, di che non sarebbe stato capace per dar corpo all’ombra, e per allettare tante splendide larve? Tali erano appunto quegli uomini, che avendo uno scopo comune, perché astretti da un comune bisogno, collegavansi nelle tenebre, e congiurando contro i governi allora esistenti, attentamente spiavano il tempo opportuno a rovesciarli.
Il Papa fu il primo a rimanerne colpito, e la immensa pietà verso tutti addimostrata, altro frutto non ottenne che la più amara ingratitudine. La sua suprema potestà venne ben per tempo contrastata, non ostante gli sforzi ch’egli facesse dalla Cattedra di Pietro. Invano il Pontefice Magno querelavasi di tutti quegli oltraggi, ed invano rilevava come contro il padre si volessero armare i figli. A questo modo, diceva, volersi la pace? Così dunque tormentarsi la Chiesa di Dio? Adorerebbe sempre i decreti del Cielo, e consolerebbesi soltanto al pensare, che Dio fosse il padre di tutti, e che tutto dovesse cedere al suo divino volere. I novatori frattanto non si arrestarono, e sempreppiù macchinarono la ruina della Chiesa.
L’ordine religioso de’ gesuiti in Italia, come quello che più eflìcacemente contribuiva a tutelar la fede, smascherando il falso cattolicismo predicato insidiosamente dagli utopisti,era di stimolo a tutti quei disordinati,e cagion di timore pe’ loro aderenti. Pareva ad essi cosa insopportabile, che i governi costituzionali dovessero tenere quel fuscello negli occhi. Ciò importava a doversene non solo sbarazzare, ma disperderne le vestigia per quanto più si potesse. Prestamente passavasi dal pensiero al fatto, e quasi nel tempo stesso la caccia si dava da per tutto. Ciascun potrasai rammentare quel che ne successe in Napoli, praticandosi altrettanto per altrove. Il trattamento usato fu veramente vandalico, ed è quello che più ricorda l’epoche luttuose.
Né i vescovi si sottrassero a’ colpi di que’ ribaldi, e quasi da per tutto ebbero a sopportare le più dure vessazioni. A qualcuno fu fatto personale oltraggio, e parecchi obbligati sinanche ad abbandonare le loro sedi. Undici di
1 questo regno dovettero ripararsi in Napoli, per meglio tutelarsi dalle insidie de’ sfrenati novatori; ed allora solo si ripatriarono, quando i disordini vennero interamente compressi.
Al modo stesso venerandi ecclesiastici furono da per ogni dove tormentati, e chi più elevavasi in sostegno della fede, viemaggiormente si oppresse. Venticinque per l’Italia ne rimasero trucidati, non per altro riguardo, che per aver mostrato più zelo per la Chiesa. Molti, scorto vicino il pericolo, si tennero per lungo tempo occultati, ed a questo salutare rimedio andarono debitori della loro salvezza. In somma la crociata fu bandita apertamente contro ai preti ed ai frati, e per meglio infiammare gli animi pur troppo rilasciati, la demagogia scrisse a bella posta una composizione poetica, e la fece popolare, ((a))Per maggiore angoscia i tormenti colpirono finanche le claustrali, che ebbero in Toscana, in Sicilia ed in Roma soprattutto a supportare i più iniqui trattamenti. Per sì imperiose circostanze, molte altrove si ritrassero, ma le cose che di meglio possedevano ne’ chiostri furono nella più parte manomesse.
Pubblicossi a quei tempi la Bibbia tradotta dal Diodati nel senso voluto dal protestantismo. E perché il velenoso umore avesse potuto meglio filtrarne, si volle smaltirla per pochissimo prezzo. Quando la Sicilia venne dalle armi regie riacquistata, Diodati stava per le mani di tutti; ma per le cure indefesse delle autorità se ne raccolsero in pochi giorni non meno di ottomila copie. Così della rivoluzione la Chiesa diveniva bersaglio: questo era il frutto della libertà moderna. 0 limpida e semplice religione, o tu che tutti gli uomini diligi, e che di tutti esser dovresti la diletta, per qual trista fatalità sonosi pel tuo nome torrenti di lagrime versati? Mentre così la Chiesa da per tutto veniva straziata, le più dure pruove doveva ella sopportare nel Piemonte, dove lo scisma apertamente pronunziavasi, e pubblicamente insegnavasi il protestantismo. Ed o che il governo per diminuire tanto male avesse stimato ricorrere a mezzane misure, o che per arrestare il torrente che a quel modo minacciava, avesse cercato deviarlo con destrezza, sollecitava dal parlamento pel mezzo del ministro Siccardi una legge, tanto per l’abolizione del foro ecclesiastico, quanto per la restrizione di alcune festività religiose. Queste determinazioni intanto erano amaramente sentite dalla più parte de’ prelati piemontesi, i quali ponderatamente di quello stato di cose giudicando, già prevedevano imminenti sciagure per la Chiesa romana.
L’arcivescovo di Torino fu il primo a rizzelarsene, poiché avendo consultato una commissione di valenti teologi sul da farsi, bandiva censure ecclesiastiche contro tutti coloro che avessero cercato promuovere o favorire la proposta legge. Né a questo rimaneasi il venerando prelato, che anzi disprezzando con apostolico coraggio le proteste e le minacce che gli venian fatte, dignitosamente insinuava a tutti i religiosi della sua diocesi l’esatta esecuzione di quanto loro prescritto aveva. Quindi molti gravi casi ivi si maturarono, pe’ quali traboccarono gli eccessi. Per brevità ne riferiremo taluni soltanto, che saranno pur troppo bastevoli a far conoscere a qual grado di disordine le idee religiose in quello stato fossero pervenute.
Moribondo il ministro Santarosa, chiedeva gli estremi conforti della religione. Il padre Pittavino, curato della Chiesa S. Carlo, tenuta da’ padri serviti, all’invito ricevuto, affrettavasi d’informarne l’arcivescovo di Torino, monsignor Fransoni, che allora trovavasi a Pianezza, poco discosto da quella dominante. Semplicissima fu la risposta del prelato: allora soltanto potesse il parroco prestarsi, quando il ministro formalmente ritrattasse ciò che dal canto suo praticato avea intorno all’accennata legge. Con tali istruzioni adunque il padre Pittavino presentavasi all’infermo, significandogli con la più dolce maniera quanto bisognava che facesse nel rincontro. Santarosa, senz’accettare o ricusare, rispondeva che vi penserebbe, ed intanto il parroco invitato ritiravasi.
Dopo due giorni, preso il morente ministro da repentino sfinimento, venne il parroco sollecitato a portarvisi un’altra volta; e siccome mancava tuttavia la risposta che gli si era fatto sperare, protestò, con tutto quel rispetto dignitoso che nella ricorrenza conveniva serbare, contro sì lungo e colpevole silenzio. Intanto il tempo sempre più incalzando, il padre Pittavino affettuosamente appressavasi al Ietto del moribondo. Interrogatolo, se volesse morire nel seno di quella Chiesa dove era nato ed allevato, lo spirante ministro con un sì rispondeva, dettando per quel che aveva operato nella sua pubblica qualità una ritrattazione del tenor seguente:
«Dichiaro di aver partecipato con piena coscienza, come persona pubblica, agli atti del governo, persuaso di non violare le leggi ecclesiastiche, che altrimenti non viavrei preso parte, e qualora ciò fosse avvenuto (cioè di averle violate mio malgrado) intendo ciò di riprovare, volendo morire, come vissi, nella comunione della Chiesa cattolica apostolica romana, sottomettendo il mio giudizio alla medesima, ed al suo augusto capo visibile, il Vicario di Gesù Cristo, il romano Pontefice»Appena il Santarosa compiva la dettatura del riferito atto, che la eccessiva estenuazione di forze gli faceva duo tratto mancare la vita; e siccome era un fatto indubitato, che nei suoi momenti estremi si fosse riconciliato colla Chiesa, niuna difficoltà avrebbe mai il parroco incontrato a concedere al defunto gli onori della sepoltura religiosa.
La mattina seguente (6 agosto 1850) all’avvenuta morte, senza prima sapersi se l’autorità ecclesiastica ripugnasse, o pur no a tale ufizio, due ministri premurosamente recavansi presso l’arcivescovo, sollecitando gli ordini di lui per la sepoltura del compagno estinto. Rispondeva il prelato; ignorare le circostanze dell’accaduta morte, ed intanto sembrargli strano, quanto inusitato, il pretendere che il vescovo mandasse ordini per seppellire ogni cristiano che muore; ciò doversi dal parroco esaminare, il quale nel rincontro era certamente informato, se Santarosa fosse morto in grembo della Chiesa. Questa risposta a’ due ministri non piacque, epperò un di essi trasmondando, osò minacciar aspramente l’arcivescovo qualora non avesse fatto correre al parroco gli ordini opportuni per la richiesta sepoltura. Replicava il prelato, niun timore destargli le violenze umane, né avrebbe egli mai tradito la sua coscienza. E quantunque il ministro continuando a minacciare avesse suggerito all’arcivescovo esser meglio per esso di rinunziare alla sua sede, monsignore pacatamente osservava, volerci pensare, per quindi risolversi, non occorrendoquegli inopportuni consigli. Irritati i ministri, ritiravansi, determinati a provvedere violentemente in quell’emergenza.
Alquanto più tardi il parroco, che pur troppo conosceva come fosse morto Santarosa, disponeva quanto il costume religioso dettava, sia col far suonare a lutto le campane, sia col mandare ad apporre i tappeti neri sulle soglie della casa del defunto.
Intanto per la città correvano le novelle più strane, quella soprattutto, che il parroco Pittavino avesse fatto morire d’angoscia l’ottimo ministro, sia minacciandolo della privazione di sepoltura, sia accennandogli l’abisso che l’avrebbe per sempre ingoiato, qualora non avesse firmato quell’infamante ritrattazione. Ora tanto bastava ad eccitare gli esaltati, desiderosi di operare qualche atto rilevante a disprezzo della Chiesa di Dio.
Gli arrabbiati adunque in gran numero immantinente si radunarono, e verso sera trassero innanzi alla casa religiosa de’ padri serviti; ivi cominciarono smodatamente a strepitare, ma non osarono per allora d’irrompere, come alcuni volevano, sin dentro il monastero.
Il mattino seguente (7) il padre Pittavino atterrito dalla violentissima dimostrazione della sera innanzi, affranto dall’angoscia, e mal reggendosi sulla persona, volendo togliere ogni apparenza di provocazione per gli esaltati democratici già preparati ad irrompere, prudentemente avvisavasi di non comparire in pubblico per gli onori funebri stabiliti per quel giorno. Non pertanto gli venne ingiunto autorevolmente di andare, ma senza provvedersi affatto alla sicurezza della sua persona.
Divenuto impossibile a sottrarsi dall’imperioso invito, il parroco ed i padri avviaronsi modestamente alla casa del defunto, e da quanto gli occorse di sinistro nell’andata, già prevede vasi quel che sarebbe seguito al ritorno.
II convoglio funebre cominciò ad avviarsi in mezzo ad una calca di popolo, e quantunque vi alassero ad accompagnarlo ministri, municipio, notabilità, militi nazionali e carabinieri, tutti nella indifferenza la più rimarcata lasciarono che cominciassero e proseguissero gli eccessi della sfrenata moltitudine. Urli, fischi e bestemmie contro i sacerdoti ed il parroco, furono i primi atti di quel giorno memorabile, e de’ dovuti riguardi ad un personaggio, che la carica e l’epoca almeno per tale indicavano.
Procedendo cosi, giungevasi prima in piazza S. Carlo, indi alle soglie della Chiesa. Allora le violenze traboccando, parve già suonata l’ora estrema per quei religiosi. Un grido fu il segnale di più rilevanti oltraggi, e l’investire del parroco ne fu immantinente l’effetto. Assalito da tutt’itati, co’ bastoni e colle mani, il venerando ecclesiastico ormai sembrava vicino a finire: invano egli sforzavasi ad implorar pietà, mentre niuno fra tanti curavasi di prestargli soccorso.
Stava già per soccombere il parroco sventurato, quando una mano invisibile il sottraeva all’eccidio. Per colmo di sventura in quel subuglio un tristo gittava contro di lui un secchio d’acqua, ma per isbaglio ne restavano bagnate altre persone. Fu creduto che i serviti avessero tanto operato dalla loro attigua casa, per distrarre gli aggressori dallo inveire sul padre Pittavino. Viemaggiormente allora sfrenossi la bordaglia, la quale già volea porre il fuoco al monastero: fu notato che niuna finestra sporgeva sulla strada, donde l’acqua si avesse potuto gittare, come si era dato a credere. Così sosta vasi dall’incendio minacciato, ma ben altri motivi riaccendevano le fantasie. Le campane non avevano a latto suonate, né i cerei dellaitar maggiore erano stati accesi. Queste omissioni dovevano facilmente spiegarsi, perché quel tristo accaduto a tutt’altro pensar faceva. Non pertanto quella casa religiosa era all’istante devastata, e le mani vandaliche facevano in breve tutto sparire. I religiosi venivano al tempo stesso assicurati, onde l’autorità stabilisse l’occorrente intorno al loro destino.
Questi furono adunque gli onori funebri che al ministro Santarosa praticavansi, la cui memoria sarà sempre dalla storia ricordata colle infamie che si commisero in quel giorno a danno della Chiesa.
Profanata in tal modo quella cerimonia sacra, nello stesso di prowedevasi alla sorte de’ padri serviti. Per tutti, il municipio pronunziava il bando, ed all’istante il ministero approvava siffatta sentenza. Momenti dopo giungevano le carrozze per trasportarli, ed allora ricominciarono gli eccessi. Ad un padre, scambiato col parroco, mentre saliva in vettura, una sassata aprivagli la testa. Da ciò sarà agevole giudicare, con quanta umanità fossero stati quei religiosi trasportati, e qual insulti avessero avuto a soffrire durante il cammino.
Mentre così sotto gli occhi della stessa suprema potestà apertamente profanavasi quella religione cattolica che Io statuto dichiarava unica ed inviolabile, altri eccessi pur seguitavano da mostrare semprepiù come procedessero i novatori. Nella sera istessa in cui i serviti ricevevano quel sì garbato trattamento, ed a quel modo venivano menati in bando,un distaccamento di carabinieri era spedito a Pianezza, ove l’arcivescovo di Torino per l’appunto si trovava. Si frugò da per tutto, ma invano, e quantunque la notte fosse di molto innoltrata, pure affrettavasi la pubblica forza di condurre monsignore nella fortezza di Fenestrelle. Nel corso de l viaggio le più dure pruove ebbe il venerando prelato a sopportare, ed a Pinerolo specialmente divenne segno agli oltraggi delja plebe. Nella fortezza poi fu aspramente trattato, ma sostenuto dalla forza di quella religione che eminentemente professava, si rese sempre superiore a qualunque sventura.
Né qui terminavano quei strani casi, poiché la persecuzione alla Chiesa continuava tuttavia con maggior furore. Assalivasi a Torino la casa de padri domenicani per cacciameli, sotto il pretesto che fossero ligi dell’arcivescovo; e quando già stavasi per mandare ad effetto questo nuovo bando, l’interposizione di un soggetto del tempo, faceva sospenderlo con istupore di tutti.
Diversamente trattavansi i padri della Consolata, i quali circondati in un bel mattino da numerosi carabinieri, erano da per ogni parte con tale arte frugati, che non l’avrebbero fatto i più raffinati doganieri. Accusavansi che fossero dipendenti dell’Austria, e che serbassero corrispondenze segrete con quel governo. E sebbene nulla si fosse trovato intorno a quanto spacciavasi, furono non pertanto tutti nel giorno appresso espulsi nella più scandalosa maniera.
Veniva poco dopo tormentato l’arcivescovo di Sassari, il quale al pari di quello di Torino erasi mostrato inf less ibile alle minacce che gli esaltati gli facevano. Però non si ardì mai di mandarlo in bando, pel timore che il popolo, a lui eccessivamente devoto, e stanco di sopportare più oltre della demagogia gli oltraggi, non si commuovesse con fondate speranze di successo.
Intanto il Pontefice vivamente protestava, e solo la sua immensa pietà il tratteneva di ricorrere ai fulmini del Vaticano, ed alle censure della Chiesa.
Due altri casi abbiamo a raccontare, perché viemeglio si comprenda a quali condizioni volessi ridurre la Chiesa.
Io Toscana i l monaco predicava, ed era l’argomento il trionfo della religione. L’oratore rilevava con isquisita arte, come le violente, gli eccessi e le fraudi avessero spesso attentato alla cattolica fede; e per qual modo dal mezzo delle sofferte burrasche ne fosse sempre uscita illesa la navicella di Pietro. Gli esaltati credettero che con tal parlare si avesse voluto apertamente screditarli, accennando alla persecuzione contro il Pontefice. S u bito il monaco fu preso e ligato, e fra’ maltrattamenti condotto in un carcere schifoso.
Altrove un curato sorpreso da tante enormità che sotto gli occhi suoi commettevano alcuni ardenti democratici, con bel garbo si pose ad esortarli, onde ritornassero al retto sentiero. I scellerati credettero che questo fosse per essi un oltraggio, e che la moderna civiltà non ammettesse tali importuni consiglieri. Con molticolpi risposero ai veglio venerando, il quale poco mancò che non visoccombesse.
Colmava la misura un giornale, l’ op inione denominato, che pubblicava» a Torino in questi tempi. Contro il Papa scriveva cose tanto immoderate, ch’evidentemente mostrava come l’attacco del tutto accennasse alla Chiesa. Cosi la demagogia, che sulle prime si era servita della religione per somminare i troni, tentava in appresso con tante invereconde assurdità, secondo che le sue ambizioni dettavano, di stimolare i popoli contro i preti, il Papa e gli altari. E siccome la oltranza di quel giornale era divenuta pur troppo insopportabile, la Francia e l’Austria, menandone aspre doglianze verso il governo sardo, l’obbligavano alla fine a bandire dal Piemonte lo scellerato scrittore.
Quando così la religione veniva da per ogni dove apertamente avversata da novatori, chi mai avrebbe potuto un solo istante dubitare, che la rivoluzione sostenuta dall’alleanza delle più sbrigliate passioni, non fosse stata dall’irreligiosità soprattutto macchinata, per affralire quei principi, su’ quali è fondato da secoli ogni più bello ordinamento civile? Però quel Dio che agguaglia ai bisogni i provvedimenti, in niun tempo quanto in questi d’orgogliosa incredulità moltiplicò le maravigliose vicende di private e pubbliche sorti, e rese talmente visibile l’opera sua provvidenziale, che nessuno infine l’à potuto sconoscere. Quelle sociali moli, che la rivolta erasi affaticata ad innalzare, d’un soffio della sua potenza sono rimaste all’intutto distrutte; e ciò che più durabile mostravasi, d’un tratto è sparito dall’aspetto di tutti.
La Francia diveniva repubblicana, ed era fra le prime ad infrenare i turbatori dell’ordine. L’impero d’Austria crollava da tutt’i lati, e quasi per incantesimo risorgeva indi a poco più forte. La Prussia era per ogni dove somminata, ma il trono di Federico non cedeva punto. La Germania ridotta tutta in soqquadro, eppure il suo orizzonte politico rischiaravasi a poco alla volta. La strepitosa repubblica romana dopo i più iniqui attentati, pe’ quali era giunta a minacciare insino la cattedra di Pietro, d’un tratto interamente rovinava, ed il Pontefice magno, dal mezzo de’ sofferti strazi, ritornava al Vaticano irradiato di luce novella. I piccioli troni d’Italia erano tra’ flutti scomparsi, ma in breve riapparivano più belli. E per ultimo il reame delle due Sicilie, quantunque fosse stato il primo a cedere a quell’idra che tutti spaventava, avventurosamente era il primo riuscito ad incatenare l’infernale mostro. E tutto questo che cosa à mai dimostrato? Oh meravigliosa Provvidenza, io non pretendo più oltre spiegarti: tu pur troppo ti riveli, e ciò mi basta. dunque che la rivoluzione è rimasta in siffatta maniera schiacciata, e le profonde piaghe cagionate sono state nella più parte guarite, non resta che la trista rimembranza de’ mali incalcolabili che si ebbero alla sopportare, e delle conseguenze che ne avvennero in appresso. La lezione è stata abbastanza fatale, ed i presenti ed i futuri potrebbero profittarne con successo. I governi soprattutto àn dovuto rimanerne pur troppo ammaestrati; e se essi àn saputo domare l’anarchia, sapranno certamente prevenirne il ritorno.
FINE DEL SECONDO VOLUME
INDICE
CAPITOLO XX Sguardo retrospettivo sugli accaduti in Messina: il maresciallo Landi è sostituito dal brigadiere Cardamone, e perché? condotta del novello comandante; le circostanze si complicano, gli affari peggino, ed oltremodo pericolosa addiviene la condizione delle milizie rinchiuse in cittadella: s’ invia sollecitamente il maresciallo Pronio al comando di quella fortezza prossima a cadere, e lo stato di essa tosto si rileva. Si raduna a Reggio l’esercito di spedizione destinato al riacquisto della Sicilia, ed ai 3 settembre cominciano le prime fazioni: s’interpongono, ma inutilmente, i comandanti delle squadre inglese e francese, e dopo due giorni di continuato combattere, Messina è conquistala, con grave suo danno. Si spaventano le città vicine, e subito volontariamente si sottomettono | 1 |
CAPITOLO XXI Lieve disordine in Napoli: macchinazioni degli agitatori, e provvedimenti governativi che si adottano. Interposizione della Francia e dell’Inghilterra tra il governo di Napoli ed i ribelli di Sicilia, per arrestare la marcia delle vittoriose truppe: corrispondenza diplomatica, ed effetti che se ne ottengono | 2 6 |
CAPITOLO XXII Congresso federale italiano a Torino: insurrezione a Vienna: disordini a Roma; uccisione del conte Rossi, e fuga del Pontefice | 4 0 |
CAPITOLO XXIII Formale protesta del Papa: ultimatum sulla vertenza siciliana, non accettato: cenno sul dominio della Sicilia, e sulla sua spacciata indipendenza: apertura delle camere legislative in Napoli; disaccordo tra la camera dei deputati ed il ministero: indirizzi al Re: chiusura del parlamento | 5 0 |
CAPITOLO XXIV Si accresce il disordine nell’Italia centrale, ed una nuova politica comincia a mostrar l’Inghilterra. L’imperatore d’Austria abdica al trono a favore del nipote, che dà fondate speranze a rafforzare le scosse fondamenta di quello Stato. Le milizie napolitane si dispongono ad escire da Messina per sottomettere il resto della Sicilia ribellala, nell’atto che il Re dà un altro attestato, ma invano, della sua magnanimità a’ ribelli. Muove di nuovo il Piemonte la guerra all’Austria, ed il suo esercito vi resta pienamente sconfitto.. | 74 |
CAPITOLO XXV Muovono da Messina le milizie del generale Filangieri per sottomettere il resto della Sicilia. Scontri ed azioni di poco rilievo. Presa di Taormina. Nuovo scontro a S. Giovanni la Punta. Ostinata resistenza de’ ribelli, e vittoria de’ regi compiuta colla presa di Catania. Tremano le città vicine, né tardano affatto a sottomettersi. Proseguono le truppe regie verso Palermo, ed a mezza via una deputazione di quella capitale dell’isola si presenta al generalissimo per far atto di sommissione. Nondimeno gli esaltati cercano tuttavia resistere, e da nuovi disordini è agitala Palermo. Vi si approssimano intanto le milizie napolitane, le quali dopo di aver fugati i ribelli presso Misilmeri, e distrutte le terre del Mezzagno e di Abate, entrano pacificamente in Palermo, ove il generalissimo sollecitamente provvede a quanto bisogna per la tranquillità e la prosperità di tutta la Sicilia, | 94 |
CAPITOLO XXVI Diverse potenze di Europa si accordano a comprimere la ribellione romana. Un corpo francese sbarca a Civitavecchia, e provvedimenti che si prendono anche dal lato de’ repubblicani di Roma. Una prima fazione ne conseguita, colla peggio della parte francese. Una squadra spagnuola giunge a Terracina, ed i napolitani da un lato, e gli austriaci dall’altro si avvanzano nello Stato Pontificio. Si sospendono tosto le ostilità tra’ francesi ed i romani, e le truppe napolitane si determinano a rientrare nel regno. Si affrettano i romani a molestare la ritirata de’ napolitani, e ne riportano triste conseguenze. Svaniscono le trattative tra’ romani ed i francesi; si riprendono le ostilità, e dopo una lolla di molli giorni pervengono i francesi al possesso di Roma. Domano gli austriaci la ribellione nelle Legazioni e nelle Marche, e riducono la Toscana novellamente alla dominazione del gran duca. Spariscono i disordini italiani, e la calma rinasce presso che in tutta la penisola | 12 6 |
CAPITOLO XXVII Prende il governo i necessari provvedimenti a svellere le radici del disordine, ed a riformare il ministero del 16 maggio. Il Papa da Gaeta si tramuta in Portici, e la città di Napoli grande allegrezza ne mena. Gli agitatori meditano nuovi sovvertimenti per la festività di Piedigrotta, e per la benedizione che il Santo Padre nel 16 settembre deve impartire dalla reggia al popolo napolitano: le macchinazioni si scovrono, ed una processura a carico dei congiurati tosto incomincia | 137 |
CAPITOLO XXVIII Origine e progresso della setta Vanità italiana; suo scopo, e mezzi adoperati per conseguirlo. Si arrestano parecchi congiurati, e tanto dalle confessioni di alcuni fra essi, quanto dalle dichiarazioni di altri, e dalla scoverta di molti documenti, si viene a liquidare quanto basta sulla tramata cospirazione. Si procede tostamente contro di loro, ed un solenne giudizio indi a poco incomincia. La giustizia punitrice persegue i cospiratori da per tutto, e gli agitatori pertanto spacciano cose le più menzognere. Strana protesta degli emigrati di Sicilia, e cenno de’ danni sofferti nell’isola per la seguita ribellione. Provvedimenti del governo per lenire le piaghe della Sicilia, e perché la gioventù studiosa rettamente procedesse | 148 |
CAPITOLO XXIX I governi di Europa non esclusa la repubblica francese, s’impegnano a ristabilire la calma da per tutto «ma il procedere della Svizzera, per la protezione accordata agii attori principali delle seguite ribellioni, pone in grave rischio la pace de’ potentati. L’Inghilterra spaccia don ni contro alcuni stati, e la condotta serbala a tal uopo rispetto alla Grecia, muove il risentimento generale. Rientra il Papa ne suoi domini, e lasciando il regno, riceve manifestazione della più sincere devozione | 161 |
CAPITOLO XX Nuovi provvedimenti del governo per tutelare la tranquillità riacquistata: legge sulla stampa: elezione di nuovi professori per le università ed i licei: riforme nel personale delle amministrazioni: decreto pel giuramento a prestarsi. Doglianze de’ liberali, e dispotismo che si accagiona a! governo. La religione è minacciata in Piemonte: protestazioni del Sommo Pontefice a tal riguardo, mostrando al tempo stesso al cospetto del mondo cristiano le virtù del Sovrano di Napoli, e lo zelo dell’imperatore d’Austria a pro della Chiesa | 180 |
CAPITOLO XXI Pratiche tenute all’estero dagli emigrati delle due Sicilie [per suscitare nuovi sconvolgimenti nel regno. Osservazioni del ministero inglese sulla politica di Napoli: risposta del governo. Complicazioni in Germania svanite per l’ingerenza di Pietroburgo. Messaggio del presidente della repubblica francese in difesa dell’ordine e della pace d’Europa | 201 |
CAPITOLO XXII Giudizi espletati contro alcuni uffiziali disertori al nemico, e contro gli autori de’ succeduti disordini e degli eccitatori alla guerra civile. Digressioni sul nolo Carducci. Continuazione degli accennati giudizi | 216 |
CAPITOLO XXIII Osservazione sullo stato male e materiale delle due Sicilie all’epoca de’ cessati rivolgimenti, e sulle conseguenze che le turbazioni cagionarono. Indirizzi al Re, e voto del popolo di Napoli | 242 |
CAPITOLO XXIV Conchiusione | 248 |
CONSIGLIO GENERALE DI PUBBLICA ISTRUZIONE Napoli 16 aprile 1851 Vista la domanda del tipografo Raffaele Marotta con che à chiesto porre a stampa l’opera intitolata:Storia de’ rivolgimenti politici nelle Due Sicilie dal 1847 al 1850 per l’avvocato Giovanni Giuseppe Rossi. Visto il parere del signor D. Giulio Capone. Si permette che la suindicata opera si stampi; però non si pubblichi senza un secondo permesso che non si darà se prima lo stesso signore D. Giulio Capone non avrà attestato di aver riconosciuto nel confronto esser l’impressione uniforme all’originale approvato. Il presidente interino Francesco Saverio Apuzzo Il segretario interino Giuseppe Pietrocola |
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1Queste precise parole venivano spesso ripetute in Sicilia da qualche principale funzionario e consigliere del governo allorché maggiormente abbisognava un linguaggio ed un agire diametralmente opposto.
2L’Intendente della provincia sin dagli ultimi giorni di maggio di quel l’ anno 1847 aveva da un prete ricevuta le denunzia di una rivolta che di breve doveva scoppiarvi, e sebbene ne avesse sollecitamente riferito, a’ suoi rapporti non fu prestalo alcun credito.
* “Castelluccio del Molo, piazzetta del Mand. Molo. Fuori porta S. Giorgio, via del Borgo, via del Molo. Al lato orientale di questa piazza havvi una piccola fortezza, intesa volgarmente Castelluccio, che ha dato il nome a questa località. Questo piccolo castello nel 1545 fu fatto riformare da Ferdinando Consaga Vicerè di Sicilia; e nel 1621, dal Vicerè Conte Francesco De Castro vi fu aggiunto un bastione munito di artiglierie.” Dizionario delle strade di Palermo preceduto da una corsa per Palermo e suoi dintorni Carmelo Piola, Palermo, 1870. [N. d. R. ]
3 Vascello inglese ancorato nella rada di Palermo.
4 Dopo due giorni vi successe, per la rinunzia di Cianciulli, il cavaliere Bozzelli, il quale vantava molti anni di esilio per la rivoluzione del 1820, ed il merito di aver contribuito all’ultimo rivolgimento politico.
5 Tutt’i membri di quel consesso intimoriti cedevano alla necessità, tranne un solo (militare distintissimo) che come unico mezzo conciliativo proponeva il cannone. Il tempo à dichiarato quanto ragionevol fosse stato quell’avviso.
6 A questi avvenimenti Napoli corrispose con un novello tratto di di sordine, poiché in una sera numerosa comitiva di agitatori recavasi all’abitazione ministro d’Austria, e da forsennati procedevano a bruciarne lo stemma. La diplomazia intera se ne protestò all’istante, e. gli esaltati non solo si opposero a qualunque soddisfazione , ma vietarono altresì che lo stemma operiate si rialzasse.
7 Se n’escludeva il Re, e la camera de’ pari .
8 Cioè il Re, pari ed deputati.
9 Espugna t o il palazzo Girella, conveniva atterrare le porte della chiesa S. Ferdinando per impadronirsi de’ ribelli si foggiativi. Ma la pietà del re ligio sissimo Sovrano proibì assolutamente che si violasse la santità del luogo.
10 Tu tt i gli altri deputati moderali, vedendo tornali vani i loro sforzi, abbandonata l’assemblea sin dalla notte precedente, non più vi tornarono.
11 Volle la fama, che sbarcando le truppe a Pescara il brigadiere Nicotelli che comandava la divisione, non volendo compromettersi in quella impolitica spedizione, si fosse finto indisposto, onde così avere il destro di esonerarsene.
12La sera del di II agosto un drappello di gente l’estiva, senza impulso |i passione politica, lungo la via di Montoliveto si fece a gridare viva il Re . Alcuni uffiziali del treno usciti fuori da! loro quartiere dissiparono gran parte di quella turba, che così menomata procedette innanzi, ripetendo a quando a quando quel grido. Giunta ai banchi nuovi s’incontrò in una numerosa ronda di soldati svizzeri comandati da un uffiziale; il quale avendo chiarito come non altro si fosse gridato che viva il Re, tenendo per fermo esser quello un grido disgiunto da intenzione sediziosa, e scorto il picciol numero soltanto, invitò quella gente a ritirarsi. Dipoi le particolari ostilità dralcuni individui del mercato , e la temeraria e bugiarda garrulità di taluno, che credette farsi bello di disegni neppur sognati, accreditarono la temenza, che una maggiore dimostrazione dovesse aver luogo il dì 15. Ma fatti rientrare nel dovere gli autori di quelle private ostilità, ed imposto silenzio a chi propagava il panico timore, lo spauracchio di quel vano fantasma svanì al lutto, e bastò far mostra delle necessarie misure di precauzione per rassicurare pienamente gli animi degli abitanti della capitale.
13Erano la maggior parte ergastolani, quelli per lo appunto delle bande di Ribolli.
14 Il cav. D. Luigi Ciancioni consigliere di stato.
15Fu questo carro immaginato da un individuo che colpito da sventura e da condanna, non lice nominare. Percorse, in funereo corteo, il lo ledo insino alla reggia nella sera in cui il Re prestato aveva il giuramento alla costituzione, e per la stessa via ne ritornò fra gli scherni dell’universale. Indicava in figure de’ soggetti, che spenti per la rivoluzione repubblicana del regno di Napoli del 1799, destavano vieppiù l’esaltazione degli agitatori.
16 Lodevole sotto ogni rapporto fu la condotta di Landi in Messina, specialmente dopo il movimento sedizioso del 1 .° settembre. Rivestito di alti poteri, manifestava co ll’ usata sua franchezza al governo la necessità di premunirsi contro nuovi tentativi, e sorvegliava la process ur a a carico degli imputati, affidandosi alla integrità di un giudice delegato per quella istruzione. Non fu però felice nel raggiungerne i risul t amenti; operava contro la lealtà de’ suoi desideri la corruzione di parecchi agenti del governo divenuti ligi de’ motori del pensiero rivoluzionario. Mentre da un lato le concepite speranze di un migliore ordinamento difensivo di quelle fortificazioni venivano dal ministero aggiornate, dall’altro un magistrato sleale destramente richiamava a sé l’ accennata processura, per salvarne g li implicati. Per la maliziosa orditura di quella tela, la insurrezione si qualificò come una gradassata, od un movimento di pochi controbandieri; perloché il credulo luogotenente, caduto nella rete, facevasi senza critica a ripetere e riferire, essere indispensabile pel bene di Messina rimuoversi da quel comando il generale Landi. Cosi l’innominato magistrato, aggiungendo a’ precedenti meriti novelli allori, veniva a ll’ epoca del maggior fermento de’ rivolgimenti di Napoli elevalo sullo scudo della rivoluzione alla sublime carica di ministro.
aIl fuoco delle artiglierie della cittadella mosse caldissime doglianze da parte de’ consoli stranieri stabiliti a Messina, i quali nel dì seguente recatisi in corpo, colle rispettive divise, presso del generale Cardamone, presenti il generale Nunziante e vari uffiziali superiori, altamente se ne protestarono. Nel calore della discussione il console francese, trasportato dal suo accendibile carattere, giunse ad atti siffattamente incomportabili, che sguainala la spada, spezzolla con rabbia, mostrando così rotta ogni amichevole relazione col suo governo. Questo sconvenevole procedere lungi dallo imporne ad uomini fatti a disprezzare simili bravate, se non alterò il rispetto dovuto alla nazione francese, mosse non pertanto personale risentimento verso Fautore; epperò il capitano Demetrio Andruzzi delle artiglierie, la cui memoria debb’essere sempre gloriosamente rammentata, volgendo a lui dignitose parole di giusto sdegno, lo chiamava, ma senza effetto, al risarcimento dell’offesa.
17 Il capitano Malta.
18 I tenenti colonnelli Afan de Rivera e Picenna, ed il maggiore Tramazzi.
aNon ignoravano come principali sollecitatori i siciliani in quel tempo» che la flotta napolitana in aprile del 1848 transitava lo stretto per trasportare in Lombardia una divisione delle milizie regie in soccorso de’ romantici liberatori d’Italia. Eppure dalla batteria di Torre di Faro questa desiderala spedizione fu salutala con vari colpi di cannone a palla in onore della indipendenza italiana. Belle virtù di quei tempi!
19Scriveva lord Palmerston ai primi giorni di gennaio 1849 a lord Normanby ambasciadore d’Inghilterra a Parigi, tra l’altro così «Il Papa deve dare garanzia di buon governo ai suoi sudditi; l’intervento armato per sostenere un cattivo sistema di governo non potrebbe essere giustificato».
a L’uguaglianza debb’essere nell’esercizio de’ dritti civili, non mai dei dritti politici, ed essa appunto consiste nella uguale protezione delle leggi, tanto a riguardo delle persone, che delle sostanze di tutt’i cittadini.
a Rivela di questa poesia tutta la scelleraggine l’intercalare che riportiamo qui appresso:
L’estrema è già suonata.
Tutt’i neri àn da morir.