Alta Terra di Lavoro

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STORIA DEI FASCI SICILIANI DEI LAVORATORI – LE PROTESTE CONTRO I DAZI E GLI ECCIDI

Posted by on Mag 13, 2024

STORIA DEI FASCI SICILIANI DEI LAVORATORI – LE PROTESTE CONTRO I DAZI E GLI ECCIDI

In questo nuovo lavoro andremo ad esaminare i motivi che portarono allo scoppio dei tumulti antifiscali e che provocarono stragi in diversi centri dell’isola.

Tra il dicembre 1893 e i primi di gennaio del 1894 la Sicilia fu teatro di una serie di accese proteste scoppiate in diverse parti dell’isola, proteste scoppiate principalmente per chiedere la riduzione delle tasse e dei dazi di consumo. Lo sciopero contadino per l’applicazione dei patti di Corleone1, attuato soprattutto nella Sicilia centrale ed occidentale, durato tre mesi (da agosto a novembre), guidato dai dirigenti dei fasci quali Verro e Barbato, dimostrò la capacità organizzativa del movimento isolano, nonostante le numerose lacune nell’aspetto politico. Importanti risultati furono raggiunti in alcuni centri quali Corleone e Villafrati, dove vennero stipulati accordi tra proprietari e contadini e in misura minore in altri luoghi dove i patti vennero accettati. Ciò che però rimaneva un serio problema per la popolazione erano le tasse esose applicate dalle amministrazioni comunali che non colpivano solo la classe contadina, protagonista in quel momento delle lotte agrarie, ma anche le classi artigiane. Su 68 comuni in agitazione, quasi 50 risultavano tali proprio per la questione legata alle tasse.2 Si trattò di tumulti che spesso sfociarono in veri e propri assalti a casotti daziari e uffici comunali, nell’antica maniera ribellistica, quasi sempre come reazioni alle provocazioni delle forze dell’ordine e dell’esercito, coadiuvati dalle guardie campestri sotto ordine dei sindaci. I fasci, nella maggior parte dei casi non erano fautori di quelle proteste e le metodologie con le quali esse avvenivano erano in netto contrasto con quelle applicate dal movimento siciliano dei lavoratori. Lo stesso Verro, nel condannare tali metodi ribellistici, rivoltosi ai contadini e agli artigiani di Villafrati che chiedevano la totale abolizione delle tasse, ebbe a dire: “Qualche tassa deve rimanere. Il Municipio è obbligato a stipendiare il segretario, il medico condotto, il maestro comunale, la levatrice e a provvedere ai servizi pubblici, come quello dell’illuminazione delle strade e via dicendo. Comprendete che i denari s’hanno a pigliare dalle tasse. Calma, dunque, e aspettate tranquilli la decisione del Comitato Centrale.”3 Risulta chiara la matrice spontanea dietro ai tumulti che sconvolsero l’isola alla fine del 1893 – inizio 1894; tumulti che nell’esasperazione popolare (dettata dalla crisi agraria e dall’enorme peso fiscale imposto dai comuni) e nelle strategie di notabili locali interessati a propri tornaconti, ebbero la loro origine. Ma per comprendere più nello specifico il perché si arrivò a questo, bisogna anzitutto andare ad esaminare il contesto politico dell’epoca e prima ancora, capire quali erano le tasse e i dazi in questione e come si svolsero i fatti.

Tra il dicembre 1893 e il gennaio 1894 scoppiarono tumulti che provocarono decine e decine di morti:

Giardinello, 10 dicembre 1893 undici contadini uccisi;

Lercara, 25 dicembre 1893 undici morti;

Pietraperzia, 1° gennaio 1894 nove manifestanti uccisi;

Gibellina, 2 gennaio 1894 tredici persone uccise;

Marineo, 3 gennaio 1894 diciotto morti;

Santa Caterina Villarmosa, 5 gennaio 1894 quattordici morti.

Eccidi perpetrati dall’esercito e dalle guardie campestri che reagirono nel peggior modo possibile alle proteste popolari che nacquero da un profondo odio verso le amministrazioni, colpevoli di far gravare le tasse unicamente sulle classi contadine e artigiane, aizzate quest’ultime da una borghesia avversa a quella al potere e che si servì della disperazione della povera gente per trarre successo e mettere sotto accusa gli acerrimi nemici ed inoltre dalla mafia che agiva per conto dei padroni. Le esplosioni dei tumulti ebbero come capro espiatorio i fasci, accusati dalle forze governative e dai prefetti e questori di essere responsabili delle agitazioni con il chiaro intento di screditare i fasci che fino a quel momento avevano dimostrato una matura organizzazione, evitando qualsiasi tipo di violenza: “Il fiorire di Fasci antagonisti di quelli esistenti o di pseudo Fasci, che spingevano le masse ai mezzi estremi, offriva al Governo centrale materia e occasione sufficienti per scatenare la reazione e procedere allo scioglimento dei Fasci. Il sorgere di fasci fittizi e le provocazioni poliziesche erano stati preordinati per attuare quel disegno? Diversi dirigenti del Comitato Centrale e diversi collaboratori di esso ne erano convinti, e i giornali, quelli socialisti soprattutto, fornivano al proposito notizie interessanti. A Casteltermini gli incidenti erano stati preparati, si diceva, in Prefettura; a Partinico i tumulti avevano tratto occasione da un incidente fra le guardie e i soci di un Fascio antagonista di quello aderente alla organizzazione di Palermo; a Palma di Montechiaro il tumulto era stato eccitato da un tizio, in cui a De Luca sembrò riconoscere un brigadiere in borghese; a Giardinello gli incidenti avevano avuto inizio per l’atteggiamento sprezzante del Sindaco e le parole ingiuriose sue e dei suoi familiari nei riguardi della folla; a Lercara, a Giardinello e in più luoghi, risultava che erano state le guardie del Municipio, le guardie campestri o la guardia del Sindaco che avevano cominciato a sparare sulla folla.”4 Nonostante il Comitato si mostrasse contrario a quelle forme di protesta, attestandosi su un socialismo di tipo riformista che in maggioranza rifiutava l’opzione insurrezionale, non mancò di esprimere solidarietà alle popolazioni colpite dalle stragi, accusando la mafia e la borghesia municipale d’essere i colpevoli degli eccidi.5

Nonostante ciò, è verosimile affermare che lo sviluppo dei fasci e la loro diffusione abbiano instillato nelle popolazioni rurali l’idea di una grande rivoluzione che avrebbe cambiato le loro condizioni, specie nelle convinzioni di dirigenti importanti quali ad esempio De Felice. Come asserì lo storico Salvatore Francesco Romano “Certi effetti visibili della propaganda e dell’azione di alcuni dirigenti sembravano potersi riscontrare specie nel diffondersi in strati sempre più estesi della convinzione di una imminente rivoluzione. Una attesa di eventi del genere era indubbio che si era ormai diffusa in larghi strati della popolazione ed anche in una parte degli associati ai Fasci. […] A Piana si riferiva che molti dicevano: “Questo anno a Natale il bambino nascerà con la bandiera rossa”.”6

Dal canto loro, le autorità erano consapevoli delle tragiche condizioni della popolazione, degli zolfatari e dei contadini, nonché delle cattive amministrazioni che gestivano i comuni; di conseguenza comprendevano lo sviluppo massiccio del movimento isolano “Molte sono le cause latenti, le quali da un moto isolato e circoscritto potrebbero far nascere una rivolta che gli stessi capi non potrebbero né reprimere, né disciplinare. Il disagio e il malcontento delle masse contro i proprietari, gli amministratori locali e il governo si confonde in un unico rancore e in un unico desiderio di rivolta, sentimento reso temibile dall’indole irrequieta e fiera e brutale del popolo siciliano.”7 Le popolazioni rurali erano colpite dai dazi di consumo sui cereali che li costringevano a togliersi dalle già vuote tasche quei pochi spiccioli guadagnati con il duro lavoro nelle campagne; le tasse sul focatico (ovvero sul fuoco domestico, la casa per intenderci) e quella sugli animali da lavoro gravano quasi interamente sui contadini. Quest’ultima, in special modo, era estremamente odiata; il possesso di un solo asino, vitale per il lavoratore della terra, voleva dire pagare una gravosa tassa ma allo stesso tempo, i grossi proprietari di mandrie riuscivano senza problemi a spostare i loro animali fuori dai confini comunali, evitando così di pagare le tasse. Nessuno, ovviamente denunciava queste azioni. Al contadino che non pagava, veniva tolto l’animale, fondamentale per il suo lavoro.8 Si trattava, dunque, di condizioni impossibili da sostenere per le classi umili siciliane. E di contro, per i notabili locali e i grossi proprietari terrieri, coadiuvati dalla mafia, il percorso d’emancipazione iniziato con i fasci doveva essere represso, in difesa del proprio potere.

Ma come avvennero le stragi? In che modo esse si svolsero?

A Giardinello, il 10 dicembre 1893 la protesta venne repressa con l’uccisione di undici persone. La miccia venne innescata dal Sindaco Caruso e dalle sue guardie campestri; inviso dalla popolazione, egli si mostrò sempre indisposto verso i bisogni dei contadini.9 Qui il fascio dei lavoratori era stato inaugurato il 13 novembre; Giuseppe Piazza ne fu il Presidente. Sin da subito il fascio si dedicò quasi esclusivamente alla lotta antifiscale chiedendo la riduzione delle tasse e dei dazi, l’abolizione delle guardie campestri e inoltre chiedeva l’uso della sorgiva Scorsone come fonte per attingere l’acqua; la sorgiva si trovava all’interno dei territori del Duca d’Aumale che in maniera piuttosto energica si rifiutava di dare la concessione. Piazza e altri delegati del fascio si recarono più volte dal sindaco per sensibilizzarlo circa queste problematiche ma ricevettero sempre e solo rifiuti, avvertendo (o piuttosto minacciando) il Piazza di lasciar perdere la questione legata alla sorgiva.10 Quella domenica la popolazione si riuniva in piazza così come avvenuto nei giorni scorsi. Finita la messa, decisero di recarsi davanti al Municipio per continuare le proteste antifiscali. Dopo aver minacciato la distruzione degli uffici comunali, la folla si spostò davanti casa del sindaco che frattanto aveva liquidato alcuni rappresentanti dei fasci, che cercavano inutilmente di calmare le acque, sostenendo che per lui era impossibile operare qualsiasi tipo di riduzione fiscale e che la colpa era del consiglio comunale. Detto ciò, si chiuse in casa con la moglie e le guardie campestri appostate in attesa di ordini. Dalle zone limitrofe, Montelepre nello specifico, arrivò una squadra di bersaglieri chiamata in soccorso nelle ore precedenti, comandata dal Tenente Cimino. La protesta che vedeva in prima linea le donne con immagini raffiguranti il re tra le mani, si accese ancora di più.11 Si trattava di momenti pieni di tensione: da una parte si ritrovarono i bersaglieri schierati e dall’altra la folla. Si cercò di arrivare ad una soluzione pacifica. Ad un tratto però si udì un colpo che diede il via al massacro “Improvvisamente, mentre i popolani speravano che la truppa si ritirasse, per poi fare altrettanto (questo era l’oggetto della trattativa), partì un colpo in direzione dei civili. Non fu chiaro da dove fosse partito e neppure chi l’avesse fatto esplodere. Secondo un primo rapporto di PS stilato il giorno stesso, a sparare sarebbe stato un soldato che aveva chiuso in modo errato l’otturatore. Il che fu interpretato dai suoi commilitoni come l’esecuzione di un presunto ordine di far fuoco dato dal comandante. Ne seguì una terribile carneficina. Caddero al suolo, per non più rialzarsi, undici persone. Altre furono ferite, non in modo mortale.”12

La spiegazione della strage riportata dalle forze dell’ordine stonava da tutti i lati, soprattutto perché vennero ritrovati bossoli di proiettili del tipo Wetterly, non in dotazione all’esercito, usati nei fucili di tipo lupara. Chi sparò per primo furono le guardie campestri appostate nella casa del sindaco.13 Nei giorni seguenti venne ritrovato il corpo di un impiegato comunale, tale Nicosia, infiltratosi tra la folla, ucciso con tutta probabilità per vendetta. Nonostante le indagini dimostrassero chiaramente le colpe del sindaco Caruso e delle guardie campestri, nessuno pagò mai per quelle morti.

La dinamica dei fatti di Giardinello è simile a quella delle altre stragi dove alla folla in protesta si rispose con fucili e provocazione, fino all’eccidio.

A Lercara, grosso centro zolfifero del palermitano, il potere era concentrato in gruppi politico – mafiosi che di fatto dominavano incontrastati in paese. Anche qui il sistema fiscale fatto di tasse e dazi che colpivano principalmente i lavoratori delle miniere e i contadini, portò la popolazione ad esplodere. La Vigilia di Natale del 1893 una folla nutrita si riunì nella piazza principale al grido abbasso i dazi, abbasso il municipio; una buona parte era composta da donne14. Dopo aver distrutto qualche casotto daziario, la folla decise di sciogliersi per riprendere il giorno dopo. Frattanto i militari di stanza a Lercara ricevettero rinforzi e il 25 dicembre si schierarono contro il popolo che aveva ripreso la protesta, coadiuvati dalle guardie campestri, alcune delle quali posizionatesi nel campanile della chiesa madre. Così come avvenuto a Giardinello, anche qui i due schieramenti si trovarono frapposti l’uno di fronte all’altro. D’un tratto, una serie di colpi partiti dall’alto (ovvero dal campanile) davano inizio ad un’altra strage che lasciava sul selciato undici morti.15

Che anche a Lercara vi fossero lotte tra notabili locali per il potere, era indubbio. E che i nemici dell’amministrazione al potere avessero spinto la popolazione a quegli episodi di ribellismo, è ormai fatto accertato, così come la presenza del fascio che però di fatto non seguiva quelle che erano le direttive del Comitato Centrale del movimento, mostrandosi più che altro come strumento del partito antagonista. La strage fu il risultato di uno scontro interno alla borghesia municipale che non ebbe mai nessuna considerazione per la popolazione contadina e zolfifera.

Pietraperzia, piccolo paese agricolo in provincia di Enna, ebbe il suo fascio il 10 settembre 1893 per opera di Francesco Tortorici Cremona, impiegato comunale, che ne fu Presidente.16 Su 306 soci, 294 erano contadini.17 Considerato come un covo di delinquenti dalla borghesia agraria, il fascio di Pietraperzia fu uno dei pochi a non avere una nutrita presenza femminile al suo interno. Già il 15 ottobre si segnala una passeggiata organizzata dal fascio come dimostrazione di forza: “Ieri ore pomeridiane fascio lavoratori di Pietraperzia in seguito a regolare avviso dato a quel delegato, fece passeggiata percorrendo corso principale a circa un chilometro strada fuori abitato. Ritornando soci emisero grida acclamanti sodalizio. Ordine perfetto.”18 Il Fascio che rapidamente si sviluppò fu per i notabili locali un pericolo; organizzatisi intorno alla figura più potente, quella del barone Tortorici, chiesero più volte l’invio di truppe di rinforzo al delegato ps e al pretore, rilasciavano multe (tramite il controllo che essi avevano dell’amministrazione comunale) per futili motivi, imponevano divieti. Nonostante le difficoltà e le minacce, il fascio il 15 dicembre 1893 organizzò una nuova protesta inneggiando al socialismo e contro l’amministrazione in carica; con la scusa che tra i soci dell’organizzazione vi fossero anarchici violenti il Tortorici chiedeva nuovamente al prefetto l’invio di truppe: “All’organizzazione subdola di elementi anarchici che si profittano dell’ignoranza popolare eccitandoli all’odio tra le classi, lusingando le perdute speranze di cattivi amministratori che hanno subito la sconfitta elettorale, e promettendo a tutti gli oziosi e vagabondi un’avvenire di rosa colla divisione della proprietà altrui.” 19 Le truppe arrivarono a Pietraperzia pochi giorni prima del 2 gennaio 1894, data della strage. Quel giorno diverse persone si erano riunite all’interno della Chiesa madre per protestare contro il sindaco e l’amministrazione comunale. Spinti da forze vicine agli ambienti notabili in opposizione a quelli al potere e guidati dallo spontaneismo, i manifestanti decisero comunque di non andare oltre alla protesta di piazza, gridando slogan quali abbasso le tasse! Siamo affamati! Poco dopo decisero di spostarsi, giungendo al largo Santa Maria dove ad attenderli vi erano una trentina di soldati comandati da due ufficiali. Decisi a sfondare il blocco, i manifestanti cominciarono a lanciare sassi verso i militari; dopo i tre squilli di tromba, i militari cominciarono a sparare. I morti furono 9.

Così descrisse i fatti il giornale nisseno Vita Nuova: “Sin dalle prime ore di eri si cominciò a notare una insolita animazione. Alle 13 circa un gran numero di persone, appartenenti al popolo, si riunì dentro la madre chiesa. Erano uomini e donne, parecchie di queste portanti bambini alle braccia. Nella chiesa si organizzarono dimostrazioni. Infilarono il corso Vittorio Emanuele alle grida abbasso le tasse! Finiti davanti la società dei militari in congedo e di mutuo soccorso, chiesero le bandiere. Alcuni soci si opposero. I dimostranti le presero a viva forza. […] Continuando il cammino giunsero al largo Santa Maria. Ivi erano schierati trenta soldati […] Il delegato e il maresciallo dei carabinieri si fecero incontro ai dimostranti, pregandoli di sciogliersi, ma furono accolti a sassate. La truppa allora suonò i soliti tre squilli.” 20

Essendoci sei iscritti al fascio tra i morti, non si tardò molto ad accusare l’organizzazione d’aver provocato i disordini poi sfociati in tragedia. Il fascio in realtà non organizzò quella dimostrazione che di fatto fu esplosione ribellistica spontanea incontrollata. Il processo per i fatti di Pietraperzia si svolse dal 3 all’11 aprile 1894 presso il Tribunale Militare di Caltanissetta (instauratosi con lo stato d’assedio); su 73 imputati, 53 vennero condannati a ventuno anni di reclusione. Gli iscritti al fascio erano in tutto 30.21

A Gibellina, comune di diecimila abitanti in provincia di Trapani, le condizioni erano pressoché le stesse di quelle viste a Giardinello, Lercara e Pietraperzia. Qui però vi era la presenza di un fascio ben organizzato seppur inquinato da elementi appartenenti alla borghesia avversa a quella al potere; si trattava soprattutto di campieri che rispondevano alla famiglia Di Lorenzo. Ciò nonostante, il fascio, fondato dal farmacista Palermo che ne fu anche Presidente, trovò un largo consenso tra la popolazione contadina.22 Il fascio, fortemente inviso dal delegato di pubblica sicurezza presente a Gibellina, Vincenzo Trani, rivendicava la riduzione degli stipendi di alcuni dipendenti comunali, l’abolizione delle guardie campestri e della tassa sul focatico nonché quella sul bestiame23; formò inoltre un vero e proprio consiglio popolare che comprendeva anche categorie sociali non direttamente coinvolte nelle lotte agrarie e antifiscali; lo storico Mario Siragusa lo definì un vero e proprio soviet ante litteram.24 La piattaforma rivendicativa presentata da Palermo e dai dirigenti locali del fascio al sindaco e all’amministrazione comunale, venne effettivamente discussa. Intanto, il 31 dicembre 1893 venne organizzata una dimostrazione per ribadire le richieste presentate; la mattina del 2 gennaio 1894 una nuova dimostrazione venne organizzata per accogliere i soci del fascio di Salaparuta che stavano recandosi a Gibellina. Una volta tornati, i dimostranti si diressero verso il municipio dove una commissione del fascio era già presente per chiedere le dimissioni del sindaco, dopo aver appreso del rifiuto delle proposte presentate giorni prima. La folla, intanto, che contava quasi tremila persone, ormai giunta nei pressi della piazza principale, venne bloccata da un drappello composto da soldati e carabinieri. Anche qui fu un attimo: i colpi sparati dalle guardie campestri appostate nel campanile della chiesa (come a Lercara) diedero inizio alla strage.25 Tredici i morti, una trentina i feriti.26

Il Giornale di Sicilia così commento l’accaduto: “Nell’animo del popolo non v’era alcuna volontà di commettere atti vandalici […]. Tuttavia, un lago di sangue si vide scorrere per quella strada, mille voci di strazio, di dolore e di rabbia furono emesse dal popolo.”27

A Gibellina la colpa dell’eccidio di tredici persone non è imputabile unicamente alle guardie campestri e all’amministrazione; le pressioni degli agrari e dei loro uomini nel fascio per la rimozione della tassa sul bestiame (che colpiva alcuni di questi notabili, da intendere però come ripicca da parte dell’amministrazione) e i tentativi di creare tensioni in paese, furono aspetti che determinarono l’evolversi della strage. Modalità, come già detto, simili anche negli altri paesi teatri di eccidi. A Gibellina però il fascio ebbe un ruolo importante nei fatti, anche se mai alcun atto violento venne commesso dalla popolazione, proprio in virtù della metodologia organizzativa del movimento. Pochi giorni dopo il pretore Casapinta venne trovato morto. La colpa venne data ad un gruppo di donne presenti durante l’eccidio ma in realtà, come riporta Salvatore Francesco Romano, l’esecutore fu tale Accardi, un capraio totalmente estraneo al fascio e alle vicende legate al 2 gennaio.28

Anche Marineo, paese di quasi diecimila abitanti, nel palermitano, visse giornate tragiche. Borgo che, come tanti in Sicilia, soffriva di una grave arretratezza sociale. Dominato da famiglie borghesi definiti i cappeddi che detenevano il potere. In particolare la famiglia Calderone che dal 1881 faceva il bello e il cattivo tempo in paese, sostenuta da guardie campestri stipendiate dal comune e fedeli all’amministrazione comunale.29 Inviato a Marineo il delegato di PS Stanislao Rampolla, nel 1887, egli s’impegnò nel riferire al questore di Palermo le ingiustizie e le malefatte che l’amministrazione Calderone commetteva; la relazione di Rampolla venne inoltrata al Ministero dell’Interno con una nota aggiuntiva nella quale si chiedeva lo scioglimento dell’interno consiglio comunale; ma a pagare fu in realtà lo stesso Rampolla che venne immediatamente trasferito a Castelbuono30. Lo stesso, dopo aver subito pressioni, si suicidò. Solo nell’ottobre 1892 si decise per lo scioglimento, nominando un regio commissario.31 Marineo, sede di pretura e di notariato, fu un centro attivo durante il Risorgimento; la popolazione contadina, seguendo l’antico sogno della terra, partecipò con la speranza di vedere redistribuite le terre. Nonostante i decreti garibaldini, i governi italiani non s’impegnarono mai realmente in questo, lasciando di fatto la Sicilia nelle uguali condizioni preunitarie. Le terre rimanevano in mano a pochi grossi proprietari (siano essi aristocratici o borghesi), subaffittate dai gabellotti mafiosi che si rifacevano su mezzadri e braccianti imponendo contratti angarici e stipendi da fame. In un contesto del genere, non stupisce l’adesione massiccia al fascio dei lavoratori sorto a Marineo nei primi giorni di maggio 1893 e che da subito si legò con quello di Piana dei Greci.32 Un mese prima le elezioni comunali videro la vittoria di Michelangelo Triolo, rappresentante del partito avverso a quello dei Calderone ma che di fatto non fece nulla per migliorare le condizioni della popolazione. La lotta del fascio si concentrò quindi non solo sulla questione agraria e sulle condizioni nelle campagne, ma anche contro i dazi imposti nel luglio del 1893 sui cereali, farine, gas, olio, organizzando dimostrazioni davanti al municipio e vedendo, anche qui, le donne parte attiva nelle lotte. Come ebbe a dire il prefetto di Palermo Colmayer: “Anche le donne, dimentiche del loro tradizionale pudore e della loro missione, pervertite dalle loro idee rivoluzionarie, hanno cominciato ad entrare in qualche fascio e prendono parte a tutte le riunioni pubbliche e private.”33 Ciò che per Colmayer fu perversione, era in realtà il frutto di un lavoro cominciato dal movimento dei fasci che nel suo processo organizzativo mise tra gli obiettivi proprio l’emancipazione della donna.34 Il sindaco Triolo dal canto suo prometteva la riduzione delle tasse e dei dazi che nei fatti però non si realizzò mai; così come avvenne in altri centri rurali dell’isola, anche a Marineo il fascio accettò l’alleanza con il partito dei cappeddi, avverso all’amministrazione, che in quel momento era quello della già citata famiglia Calderone. Elementi del Casino di compagnia, di proprietà dei Calderone, si iscrissero al fascio; alleanza che durò poco soprattutto quando in paese girò la voce di un’ordinanza governativa che mirava allo scioglimento dei fasci35 e che provocò il ritiro di quegli iscritti appartenenti al Casino poco prima citato. Ciò nonostante, i dirigenti del fascio decisero di continuare le lotte e il 22 ottobre 1893 organizzarono una dimostrazione proprio in risposta alle voci di scioglimento; l’amministrazione, impaurita, fece approvare in consiglio una delibera indirizzata al Governo e riguardante la sicurezza pubblica36. Di fatto si stava creando quel clima che causò la strage del 3 gennaio 1894. Frattanto il fascio si riorganizzò; nonostante Giordano fosse la figura più rappresentativa, si decise di nominare Presidente Francesco Cangialosi e cassiere Salvatore Lo Pinto.37 Era però ormai evidente l’intenzione delle forze municipali di colpire il fascio fino al suo scioglimento.

Il 1° gennaio 1894 i soci iscritti, dopo le dimostrazioni dei giorni precedenti contro i dazi, vennero a conoscenza del rifiuto, da parte della prefettura, del bilancio del Comune di Marineo che proponeva l’abolizione dell’aumento del dazio sulle farine.38 Il Fascio allora decise di organizzare da subito dimostrazioni contro tale decisione; il 3 gennaio 1894, già la mattina diverse persone cominciarono a radunarsi. Il Maggiore Merli, comandante del distaccamento di Mezzojuso, invitò il consiglio comunale a escogitare deliberazioni per evitare l’ennesima dimostrazione. Il giorno precedente, infatti, la protesta era degenerata portando alla distruzione di caselli daziari e alla rottura dei fili telegrafici. Il 3 gennaio quattromila persone si ritrovarono dunque davanti la sede del Fascio in Via Nuova; rivelatesi inutili le deliberazioni del consiglio, la folla decise di avviarsi verso il municipio; arrivata nei pressi del Cannolu di la Batia, vennero bloccati da un drappello composto da Carabinieri, Polizia e guardie campestri.39 La folla composta anche da donne e bambini chiedeva il passaggio; ma le continue provocazioni delle guardie campestri ebbero conseguenze tragiche: i manifestanti provarono a superare il blocco forzandolo ma i tre squilli di tromba diedero il via al massacro. Diciotto persone vennero uccise, tra cui bambini;40 più di cinquanta i feriti, molti dei quali trasportati a Palermo su dei carretti in quanto il capostazione di Bolognetta si rifiutò di farli salire sul treno.41 Lo stato d’assedio portò all’arresto di tutto il gruppo dirigente del fascio e di altre numerose persone; nessuna delle guardie campestri e dei militari venne mai processato.

La strage di Marineo così come quella di Gibellina si differenzia dalle altre in quanto qui le proteste furono guidate dal fascio ed ebbero di fatto meno episodi violenti durante le manifestazioni. Uguale invece la metodologia usata dalle guardie campestri e dai militari. Il Generale Morra di Lavriano, incaricato da Crispi per l’applicazione dello stato d’assedio in Sicilia, nel febbraio 1894 in un discorso tenuto davanti alle truppe a Palermo, si congratulò con tutti i soldati impegnati nella repressione dei tumulti scoppiati nell’isola, parlando di giuste reazioni ad aggressioni da parte delle popolazioni42, aggressioni che, come abbiamo visto finora, non vi furono mai se non come reazione successiva agli eccidi.

Santa Caterina Villarmosa fu teatro dell’ultima strage avvenuta il 5 gennaio 189443. Paese agricolo del nisseno, vedeva la presenza di un fascio dei lavoratori fondato da una delle figure più importanti del movimento nel nisseno, Filippo Lo Vetere. Tuttavia, egli era spesso fuori e il gruppo dirigente locale non si dimostrò in grado di agire in maniera incisiva sulla popolazione contadina. L’opposizione al sindaco Fiandaca era guidata prevalentemente dal farmacista Bruno che non era un sostenitore del socialismo, né dei fasci.44 Anche a Santa Caterina Villarmosa le condizioni della popolazione erano tragiche e la politica fiscale comunale risultava devastante per contadini ed artigiani; fu per questo che il 5 gennaio una nutrita folla di persone decise di protestare al grido Viva il Reabbasso le tasse. Così come accaduto in altre realtà dove le proteste erano frutto di spontaneismo, anche qui si inneggiava alle figure dei sovrani nella ingenua convinzione che essi fossero rappresentanti della vera giustizia. La manifestazione fu pacifica e la gente mostrò di non avere intenzione di commettere atti vandalici. Arrivati vicino alla Piazza Garibaldi, videro un drappello di carabinieri pronto a bloccarli; dopo aver più volte intimato la folla di sciogliersi e senza che essa avesse ben compreso il motivo, tre squilli di tromba diedero inizio alla strage. Chi comprese, troppo tardi ciò che stava per accadere, il maestro elementare Michele Capra, tentò di avvisare gli altri ma non vi fu tempo “Li scongiuravo di ritornare tranquillamente alle loro case, di presentare poi una domanda all’amministrazione comunale e di aspettare per un po’ di giorni la risposta. Molti applaudirono, ma una vecchia detta a Cutugnu si mise ad apostrofare gli uomini, chiamandoli vili perché se ne andavano. Subito un’altra donna fece lo stesso e allora nessuno si mosse.”45 Quattordici i morti. Più tardi il tenente comandante della truppa sostenne il grave pericolo che si era presentato davanti ai suoi uomini e fu per questo che ordinò di sparare. Da nessuna fonte però si evince ciò: la folla era ferma, senza dare nessuna dimostrazione di violenza; probabilmente sarebbe bastato ordinare il ritiro delle truppe per farla disperdere. La gente di Santa Caterina Villarmosa, inoltre, non era a conoscenza dello stato d’assedio ed è probabile che qualora la notizia fosse arrivata in tempo, si sarebbe evitata la strage. Ma attenendoci ai fatti successi, quattordici vite furono spezzate da una metodologia repressiva che di democratico non aveva nulla.

Altri tumulti scoppiarono a Monreale, Valguarnera, Floresta, Partinico, Assoro, Terrasini, Termini Imerese, Carini, Santa Ninfa, Sambuca, Modica, Francofonte, Caltanissetta, Misilmeri, Ciminna, Baucina, Malvagna, Valledolmo, Ribera, Vita, San Biagio Platani, Casteltermini, Montevago, Menfi, Aragona, Cefalà Diana, Castrofilippo, Gratteri, Ravanusa, Cinisi, Bisacquino, Piazza Armerina, Aidone, Francavilla, San Giovanni Gemini, Calatafimi, Villarosa, Resuttano, Alimena, Collesano, Villafrati, San Mauro Castelverde, Chiaramonte Gulfi, Marsala. In alcuni di questi comuni vi furono effettivamente riduzioni delle tasse e dei dazi, in altri la repressione provocò feriti ma nessun morto. 46

In riferimento alle vicende politiche nazionali e locali che incisero sullo scoppio dei tumulti, il 28 novembre 1893 il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti diede le dimissioni dopo l’esplosione dello scandalo legato alla Banca Romana. Giolitti, nonostante mirasse allo scioglimento dei fasci47, preferì non avere sulla propria coscienza vittime, soprattutto dopo i fatti di Caltavuturo del gennaio 1893, dando invece a prefetti e questori direttive volte alla mediazione tra le parti in conflitto, dando ampio respiro a scioperi e manifestazioni. Giorno 11 dicembre Crispi, dopo il tentativo fallito di Zanardelli, formò il nuovo governo. Nonostante da più parti vi furono espressioni di giubilo per la nomina del garibaldino a Presidente del Consiglio, per i fasci significò condanna definitiva. Lo sapeva bene Rosario Garibaldi Bosco che non si unì ai cori d’esultanza di tanti dirigenti locali dei fasci che arrivarono anche a inviare telegrammi di auguri al nuovo capo del governo, andando in contrasto con le direttive espresse dal Comitato Centrale.48 Questa perdita di prospettiva generale che si creò all’interno del movimento non fece bene ai fasci che di fatto non seppero tenere più a freno la profonda rabbia delle popolazioni rurali. La dirigenza pagò le divisioni al suo interno, frutto soprattutto della decisione di una delle figure più influenti, Napoleone Colajanni che si mostrò, almeno all’inizio, solidale con il nuovo governo.49 Per Crispi era fondamentale avere dalla sua parte destra e sinistra così da avere ampio spazio d’azione contro il movimento dei fasci; per la componente socialista intransigente guidata da Bosco, era fondamentale rispettare le posizioni del Partito dei lavoratori e questo voleva dire rifiutare qualsiasi proposta di alleanza con l’Estrema Sinistra. L’organo ufficiale dei Fasci, Giustizia Sociale, diretto da Maniscalco, fu estremamente duro con Colajanni, aumentando di fatto la rottura;50 uno dei giornali che fino a quel momento si mostrò sensibile verso le lotte portate avanti dal movimento isolano, il Giornale di Sicilia, con la nomina di Crispi cambiò totalmente il suo atteggiamento. I Fasci così si trovarono così completamente isolati. Messaggi di stima verso Crispi arrivavano dal Consorzio Zolfifero Scianna di Lercara, dall’Associazione Democratica di Termini Imerese, dalla Società Agricola di Salemi e da tante altre società ed associazioni di mutuo soccorso che per il garibaldino siciliano erano stati bacini elettorali di rilievo negli anni passati ma che con il tempo avevano perso la loro influenza come conseguenza della nascita e sviluppo del movimento dei fasci. Messaggio di apertura arrivò, a sorpresa, anche da parte del Fascio di Messina: “Messina 14 dicembre. Si riunisce il fascio dei lavoratori per protestare “contro gli eccidi odierni indegni di un governo cosiddetto civile. Si ha fiducia nella giustizia e nel patriottismo dell’onorevole Crispi. Lui che conosce tutti gli affanni, tutte le pene della sua isola forte e generosa quanto infelice e trascurata certo punirà esemplarmente i fanatici del piombo e farà votare leggi atte a dare pane e lavoro al povero contadino siciliano, angariato e vessato da mille abusi di signorotti da medioevo. Le maledizioni di un popolo, le imprecazioni d’una intera regione si scagliano contro Giolitti, l’amico della Banca Romana, contro il campione della immoralità elevata a sistema.”51 Nonostante ciò, Crispi non riuscì comunque a creare un fronte compatto a livello sociale in Sicilia, né vi riuscì in Parlamento; tra i deputati siciliani, su 311 votarono favorevolmente alla fiducia in 151.52

Mentre faceva credere di lavorare per apportare i miglioramenti sperati in Sicilia, il Presidente del Consiglio si muoveva per reprimere con la forza il movimento siciliano dei lavoratori. Il 23 dicembre il Consiglio dei ministri concesse l’autorizzazione per lo stato d’assedio qualora questo fosse ritenuto necessario53; il generale del XII Corpo d’armata di Palermo, Vincenzo Colmayer, venne sostituito dal generale Roberto Morra di Lavriano che arrivò in Sicilia con 30.000 uomini54; nello stesso tempo, Crispi si premurava di inviare ai prefetti dell’isola una circolare telegrafica nella quale si consigliava di provvedere alle ingiustizie (sic) perpetrate dalle amministrazioni comunali in Sicilia: “Movimento dei contadini contro i municipi, rileva i vizi delle amministrazioni comunali. La ripartizione delle tasse locali spesso non è stata fatta con equità e prudenza e in molti luoghi quelli cosiddetti galantuomini hanno fatto pesare sui lavoratori il pagamento delle imposte. È tempo ormai di correggere cotesti errori e sarebbe questo il vero mezzo per impedire giorni luttuosi e di portare la pacificazione negli animi di coloro che vivono della loro opera manuale. Comunichi immediatamente questi miei consigli ai sindaci della provincia e provveda perché siano esauditi i voleri del governo.”55 Nel reprimere i fasci con gli arresti e i tribunali, il governo Crispi non si adoperò mai veramente per cercare di apportare i miglioramenti promossi dal movimento politico – sindacale sorto in Sicilia nel 1891; le proteste esplose nell’isola tra il dicembre 1893 e il gennaio 1894 ricevettero impulso anche da questa direttiva, nella convinzione che il Crispi fosse l’uomo giusto e che il governo stesse lavorando per mettere fine ai soprusi. Ma ormai deciso ad usare la forza, nonostante le raccomandazioni del questore di Palermo, Lucchesi, che comunicava le intenzioni pacifiche del Comitato Centrale dei Fasci, Crispi ordinò la proclamazione dello stato d’assedio. Fidatosi ciecamente del suo uomo mandato in incognito nell’isola, De Luca Aprile, che gli comunicava l’imminente scoppio di una rivoluzione, il capo del governo non volle sentire altro. Lo stesso Morra di Lavriano, nel ricevere le informazioni della questura, si mostrò titubante soprattutto quando si trattò di arrestare il Comitato Centrale riunitosi la sera del 3 gennaio 1894 a Palermo56. Solo all’ultimo momento Crispi diede peso alle comunicazioni giunte dalla questura e tentò di bloccare l’ordine dato precedentemente al generale, ma ormai era troppo tardi. Con un telegramma di risposta Morra di Lavriano comunicò che la proclamazione era stata dichiarata.57 I tentativi successivi di Crispi di voler screditare i Fasci con manifesti farsa quali quelli di Bisacquino e dei Figli del Vespro58 (che andremo ad esaminare nel dettaglio nel prossimo lavoro) altro non furono se non un’inutile mossa per giustificarsi agli occhi dell’opinione pubblica che non si aspettava un’azione violenta in Sicilia.

Nella prossima pubblicazione parleremo più nel dettaglio degli effetti che lo stato d’assedio ebbe nell’isola, gli arresti di massa e il processo ai componenti del Comitato Centrale dei Fasci.

Note:

1 https://www.restorica.it/moderna/storia-dei-fasci-siciliani-dei-lavoratori-le-agitazioni-operaie-e-lo-sciopero-dei-contadini-del-1893/

2 R. Marsilio, I Fasci siciliani, Edizioni Avanti, Milano, 1954

3 Cfr. F. De Luca, Prigioni e processi, una pagina di storia siciliana, Giannotta, Catania, 1907

4 R. G. Bosco, I Fasci dei Lavoratori, il loro programma, i loro fini

5 In una vibrante lettera di protesta indirizzata a Napoleone Colajanni, Rosario Garibaldi Bosco si lamentava delle calunnie borghesi che accusavano i fasci e il comitato centrale di essere responsabili dei tumulti scoppiati. N. Colajanni, Gli avvenimenti in Sicilia e loro cause, Sandron, 1895; lo stesso Bosco riaffermò questa tesi in un’intervista al Giornale di Sicilia del 24 agosto 1923.

6 S.F. Romano, Storia dei Fasci siciliani, Laterza, Bari, 1959

7 Riservata del Questore al Prefetto, 22 novembre 1893, n.5600 in ASP, Pref. 1894, cat.16, f.30

8 Pietro Manali (a cura di), I Fasci dei lavoratori e la crisi italiana di fine secolo, Salvatore Sciascia editore, Roma – Caltanissetta, 1995

9 G.C. Marino (a cura di), La Sicilia delle stragi, Newton Compton editori, Roma, 2007

10 Rapporto dei Carabinieri, 6 dicembre 1893, in ASP, Pref., 1894, cat. 16, f.6

11 La presenza di immagini del re e della regina all’interno di proteste popolari richiamava a quell’antico ideale di giustizia che vedeva unicamente nella figura dei sovrani i garanti di essa. La spontaneità di questi tumulti era provata anche da questi aspetti, dal momento che i fasci esponevano unicamente bandiere rosse e slogan quali viva il socialismo viva i Fasci. La presenza delle donne nei tumulti, inoltre, è indicativa del ruolo che esse ricoprivano duranti le proteste e di quanto esse fossero direttamente coinvolte.

12 M. Siragusa, Stragi e stragismo nell’età dei Fasci Siciliani, in La Sicilia delle stragi

13Ibidem

14 L’agitazione del 24 dicembre era cominciata con un gruppo di donne che invitavano i compaesani a manifestare, sventolando una bandiera bianca. J. Calapso, Donne ribelli. Un secolo di lotte femminili in Sicilia, Flaccovio editore, Palermo, 1980

15 La Riscossa, marzo 1896

16 Poco tempo dopo, però, Tortorici che più volte tentò, inutilmente, di coinvolgere De Felice nelle lotte locali nel tentativo di dare al fascio del paese una maggiore risonanza, venne sostituito da Giovanni Santogiacomo di professione macellaio

17 G. Giarrizzo, La Sicilia e la crisi agraria, in AA.VV, I Fasci siciliani, vol. I, Bari, 1975

18 Relazione sottoprefetto Piazza Armerina, 1893.

19 ASCL, b.8, in E. Barnabà, Il meglio tempo. I Fasci nella Sicilia interna, Il Lunario, Enna, 1998

20 Vita Nuova, 2 gennaio 1894

21 E. Barnabà, op.cit.

22 Sentenza 10 marzo 1894 in Sentenze e verbali di dibattimento; Il fascio fu l’evoluzione della precedente Società Agricola.

23 Altri tumulti. L’eccidio di Gibellina, in Giornale di Sicilia, Palermo, 3 – 4 gennaio 1894

24 M. Siragusa, op. cit.

25 S.F. Romano, op. cit.

26 Lo storico Santi Fedele nel suo lavoro I Fasci siciliani dei lavoratori: 1891 – 1894, Rubbettino, 1994, riporta invece a 20 il numero dei morti.

27 Giornale di Sicilia, Palermo, 3 – 4 aprile 1894

28 S.F. Romano, op. cit., pag. 457

29 A. Di Sclafani – C. Spataro, I moti dei fasci dei lavoratori e il massacro di Marineo, Renzo e Rean Mazzone editori, Palermo, 1987; le guardie campestri percepivano uno stipendio di 500 lire annue.

30 G. Cirillo Rampolla, Suicidio per mafia, Edizioni La Luna, Palermo, 1986

31 Venne nominato il Cavalier Felice De Nava.

32 Regia delegazione di PS di Marineo, nota n.87 9 maggio 1893, in ASP, Pref, Gab., b. 137, cat. 16, f.33; lo statuto adottato fu lo stesso di quello di Piana dei Greci. Figura di riferimento Carmelo Giordano che partecipò ai congressi di Palermo del maggio 1893 in rappresentanza del fascio marinese.

33 Prefettura di Palermo, nota n.2282 del 30 maggio 1893, in ASP, Pref., Gab., 1894, cat.16, f.30

34 https://www.restorica.it/moderna/storia-dei-fasci-siciliani-dei-lavoratori-le-donne-nei-fasci/

35 Il tentativo di sciogliere i fasci nacque già con il governo Giolitti quando inviò in Sicilia il direttore generale di PS Sensales per raccogliere informazioni sufficienti a colpire il movimento isolano. A Marineo, dopo aver deciso di cambiare il nome dell’organizzazione in Società democratica dei lavoratori, si decise in breve tempo di tornare al nome di Fascio dei lavoratori di Marineo.

36 Delibera n.102 del 22 ottobre 1893, Sicurezza pubblica, in ACM

37 A. Di Sclafani – C. Spataro, op. cit., pag. 67

38 Ibidem; nel luglio 1893 durante diverse dimostrazioni, l’amministrazione aveva promesso di non aumentare i dazi.

39 I rinforzi erano già stati chiamati anticipatamente in seguito alle precedenti manifestazioni; le forze erano comandate dal brigadiere dei Carabinieri Lorenzo De Cecco, il delegato di PS Vincenzo Muto e il capo delle guardie campestri Giuseppe Salerno. Tutti e tre ricevettero plausi nei giorni successivi; al maggiore Merli venne consegnata la cittadinanza onoraria di Marineo. G. A. Garcia, Una rievocazione della strage di Marineo, in G.C. Marino, La Sicilia delle stragi, op.cit.

40 Testimonianza su magnetofono di Vincenzo Quartuccio, presente durante l’eccidio (1970), in A. Di Sclafani – C. Spataro, op. cit.

41 Il Siciliano, Palermo, 6 gennaio 1894, Cronaca da Marineo.

42 N. Colajanni, op. cit.

43 La strage avvenne quando già lo stato d’assedio era stato proclamato; in paese, tuttavia, la comunicazione non era ancora stata data.

44 S.F. Romano, op. cit.

45 Il Siciliano, 9 gennaio ‘94

46 Ibidem

47 Già a maggio 1893 su proposta del prefetto di Palermo al Ministro dell’interno e Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, si discuteva di un possibile scioglimento del movimento dei fasci dei lavoratori. ASP, Pref., Gab, b.130, f.30, 30 maggio 1893.

48 F. Renda, I Fasci siciliani. 1892-94, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1977. All’interno del Comitato Centrale non solo De Felice ma anche Montalto si schierò contro la rottura in una lettera inviata ai dirigenti regionali nella quale precisava il pericolo di quella spaccatura in un momento particolare come quello che si stava vivendo in Sicilia.

49 Colajanni non si professò mai socialista, ma espresse sempre un forte sostegno ai fasci, oltre ad essere figura di riferimento estremamente importante per i componenti del Comitato Centrale. La sua decisione di aprirsi al Crispi, dopo l’incontro del 9 dicembre, fu contrastata dall’ala socialista intransigente presente all’interno dei fasci e di fatto ne decretò la rottura. Per il nuovo capo del governo l’obiettivo era quello di avere dalla sua parte repubblicani e radicali con la promessa di apportare miglioramenti sociali ed economici in Sicilia. Cosa che però non avvenne.

50 F. Renda, op. cit. Appoggiando Colajanni, Alessandro Tasca decise di dar voce all’ala socialista anti intransigente creando Il Siciliano, organo di stampa; il giornale venne poi soppresso da Morra di Lavriano il 9 febbraio 1894.

51 Ibidem

52 Giornale di Sicilia, 21 – 22 dicembre 1893

53 ACS Roma, Verbali delle deliberazioni del Consiglio dei ministri, 23 dicembre 1893

54 Venne chiamata alle armi la classe 1869)

55 ACS Roma, fasc.606

56 In realtà il comitato si riunì nel primo pomeriggio e fu per questo che il tentativo di arresto andò a vuoto. In quella riunione solo De Felice si mostrava propenso ad accendere la miccia della rivolta; tutti gli altri furono d’accordo nell’operare per sedare gli animi.

57 F. Renda, op. cit.

58 Si trattò di documenti falsi creati dalla polizia per tentare di dimostrare l’esistenza di una cospirazione separatista organizzata dai fasci con l’aiuto della Francia.

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