Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 LIBRO SECONDO (IV)

Posted by on Giu 25, 2024

STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 LIBRO SECONDO (IV)

Dovremmo smettere di definire certi storici “borbonici” e chiamarli semplicemente “preunitari” o “napolitani” nel nostro caso. Non si  capisce per quale motivo il Colletta che non scrive certo un trattato di obiettività scientifica sia considerato uno storico e i napolitani che scrissero al tempo di Ferdinando II siano considerati dei lacchè di regime.

Gli esuli pagati profumatamente in quel di Torino dal conte di Cavour per scrivere le loro ricostruzioni storiche antiborboniche che cos’erano? I depositari  della verità rivelata?

Buona lettura e soffermatevi sul profluvio veramente impressionante di innovazioni normative operate dal Re Ferdinando II

CAPITOLO IV.

COSTITUZIONE IN NAPOLI

Sommario

In Napoli ribollono gli animi. Il Re per ammorzare le minaccevoli faville largisce molte concessioni, e segnatamente accresce i membri e i poteri delle Consulte. Rumori nella Capitale. Moti, uccisioni e ruine nel Cilento. Il 27 Gennajo in Napoli. Ricomposizione del Ministero. Si pubblicano addì 29 Gennajo le basi della Costituzione. Feste e tripudio incredibili, e ripetuti. Apostoli costituzionali. Il Re percorre la città. Disposizioni varie. Pubblicazione del promesso Statuto. Nuove ed iterate feste. Giuramento.

Le siciliane vicende per tutto il Reame dapprima, e poscia per tutta Europa risuonarono. La fama più nelle ree cose che nelle benigne sollecita, i corrieri clandestini in principio e poi palesi, i britannici vapori, talune Legazioni straniere, le voci, la stampa avean divulgato le siciliane commozioni; la gran massa dei ribelli si agitava in tutti i sensi in tutte le ore, e in tutti i modi, e ribolliva, minacciava, irrompeva. Ogni provincia i cattivi semicovava: la stessa Napoli erane largamente infestata.

Più innanzi si è per noi cennato quali cose si fossero fatte nella Metropoli del Regno, ora soggiungerò, che l’agitazione era crescente nello entrare del novello anno, e che giunse al colmo dopo i fatti di Palermo; ma a sole voci ed a gridi la cosa si riducea; perché la gran quantità di truppe che potea accorrere ad ogni lieve alzata d’insegna, rattenea coloro che avean gli animi volti a novità. Ciò non però di meno il Re, a cui cuoceva la pace è la tranquillità, si faceva ad emetter qualche temperamento per ammorzare quel ribollente fuoco, e render paghi gli animi concitati.

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Per la qual cosa, alle immutazioni già discorse nel precedente libro, aggiungeva addì 18 Gennajo un decreto col quale aumentava le Consulte o di consultori straordinarii scelti fra i primi dell’ordine Giudiziario ed Amministrativo, o dei Cittadini, e d’un Consigliere provinciale, eletto da una terna fatta in ogni fine di sessione, e dei Ministri Segretarii di Stato.

Altre concessioni e miglioramenti a questi seguivano. Ordinava, le Consulte di Napoli e di Sicilia dessero parere necessario su tutti i progetti di legge, e sui regolamenti generali; disaminassero ed emettessero pareri sugli stati discussi generali, delle reali tesorerie, e sui provinciali e comunali, nonché sull’amministrazione ed ammortizzazione del debito pubblico, sui trattati di commercio e sulle tariffe doganali, sui voti emessi dai Consigli provinciali: fosse vietato ai Ministri di proporre al Re in Consiglio alcuna cosa intorno ai predetti affari, prima di sentire il parere della Consulta: l’amministrazione dei fondi provinciali fosse cofidata ad una deputazione nominata dai Consigli provinciali e preseduta dall’Intendente; fossero recati in luce per le stampe gli atti dei Consigli provinciali, ed i loro stati discussi dopo la regia approvazione: infine che nello scopo di affidare agli stessi uomini di Napoli e di Sicilia l’amministrazione dei loro beni, per quanto sia compatibile col potere riservato sempre al Governo per la conservazione del patrimonio dei Comuni, la Consulta Generale si occupasse di un progetto avente per basi 1.° la libera elezione dei decurioni conferita agli elettori: 2.° la concessione di ogni attribuzione deliberativa ai consigli comunali: 3.° l’incarico di ogni esecuzione ai Sindaci: 4.° la durata della carica dei Cancellieri Comunali.

Inoltre stabiliva il Re dei Direttori di varii Ministeri per le Cose di Sicilia; favoriva regolarmente la libertà della

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Pertanto queste benefiche mosse della sovrana benignità non andavano a garbo di coloro, che fomentavano la rivoluzione, e a ben altre mire tenevan fitto il pensiero, massime in un tempo in cui la siciliana rivolta metteva radici, ed una conflagrazione universale preparavasi non che in Italia, in Europa. Agitavansi più che mai i novatori, e con parole, e moti cercavano di appaurire il Governo; ed ecco scoccante il mezzodì de’ 22 Gennajo, succedere un subuglio per le vie di Napoli. Scappavan di tutta fretta le carrozze da nolo, scappavano gli abitanti e nelle proprie case spaventati ritraevansi, serravansi a furia le botteghe e i portoni, un fremito di voci si udiva, tutti il fantasma della rivoluzione temevano, le vie rimanevan vuote, un alto silenzio regnava: Napoli come tomba. Pertanto fatto capolino dalle finestre ognuno domandava che fosse successo, dove erano i rivoltosi, cosa avean fatto, e man mano si calmavano le menti, e rientravan tutti negli usi proprii: Napoli qual prima ritornava.

A questa prima pruova i novatori non si stettero; e due giorni dappoi alla medesima ora, quanto il meglio seppero e più poterono, la città di rumori, grida, moti e timori empirono. Ma tosto, la primitiva calma ritornava. Il Governo si mise nella ricerca degli autori del disordine, stava dubbioso, aborriva dal pensiero di tinger di sangue cittadino il real seggio di Napoli, a nessun partito diffinitivo si appigliava, ed ormai sconfortato prevedeva il nascimento di una sollevazione.

Mentre il Governo tentennava, i settarii s’invigorivano ed operavano. Constabile Carducci da Capaccio alzava il primo la ribelle insegna, e d’innocente, sangue la bruttava. Fattosi capo e guida di buon nervo di faziosi percorrea i montuosi paesi del Cilento, e tutti evocava a libertà: seguivanlo costrette, abbindolate, o volontarie le cele

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Il Cilento di eccessi, di rumori, di spaventi risuonava. Il terribile Apostolo della moderna libertà alle spaventate menti come orrido spettro si appresentava.

Si dava l’assalto a Casalicchio, piccola borgata, si toglievano alla Guardia Urbana le armi, al suo Capo la vita. Carducci poco poscia occupava Sala di Gioi, spegnendovi un Gizzo, il cui capo sanguinante facea conficcare ad un palo impiantato avanti la Chiesa. Sitibondo di sangue e di eccidii, scriveva fra l’altre cose ad un suo proselite «Voglio augurarmi, che le mie disposizioni sieno state da lei eseguite, cioè di aver fatto in Gioi fucilare quel giudice regio, il sindaco di Salella, ed il comandante urbano di Cicerale giusta le mie prescrizioni; del pari porre a sacco ed a fuoco Ogliastro e Frignano, cioè tutte quelle famiglie le quali conoscerà aver favoreggiato per le truppe regie… Disporrò intanto che il sig. Comandante Ferrara si unisca alle sue forze per soggiogare Castellabate, ove terrà le stesse norme precisatale per Ogliastro. L’esorto a non risparmiare il sangue e far danaro, se vuol vedere progredita la causa nostra».

Ai primi rumori le Autorità della Salernitana provincia si erano scosse, e si scossero eziandio quelle di Napoli. Partivano le milizie provinciali sulle pesta dei ribelli, partivano da Napoli sotto il comando del colonnello Lahalle. Tagliavan quelli la scafa del fiume Sele per impedire o ritardare il passo alle inseguitrici truppe; le quali con tatto ciò passavano, sulle orme dei sollevati erano, gli raggiunsero in Laurino, dove il monte s’innalza aspro e rotto, sprofondandosi nel vallone in cui rimugghia il Calore. I ribelli resisterono dapprima e poscia si dislegarono e si dettero a precipitosa fuga; sì che molti fra quelle rupi scheggiate e sassose trabalzarono pria morti che sfracellati e catrafatti.

Carducci da quel disastro campato issofatto a riva il mare gonfio d’ira giungeva, ed in Ascea raggranellava un

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La morte dell’innocente Barone, e più il modo barbaro, ed eretico empierono di terrore e di sdegno tutti i buoni cittadini, come di spavento e di sdegno empiranno quelli che dello sventurato e crudo fatto avranno notizia, e gravi maledizioni vibreranno contro il barbaro Apostolo, oggimai segno dell’ira di Dio.

La fama divulgava i fatti del Cilento; tutte le provincie, o a meglio dire i settarii delle provincie si commovevano, e quelli della Capitale maggiormente mettevano animo e speranza. Si radunavano nei caffè, dando notizie strane, giudizii stranissimi, si instigavano ad irrompere; le cose maggiormente pressavano; e nel giorno 27 una larga e folta dimostrazione fecero; dopo la quale, affermavano, si sarebbe venuto alla insurrezione armata ove il Governo ritardasse a condiscendere ai loro voti.

In verità intorno alle ore meriggiane di quel dì si fece tra settarii, lusingati, e prezzolati una grossa turba, la quale via facendo maggiormente s’ingrossava per curiosi osservatori,

(1) D’Arlencourt. L’Italia Rossa.3.° Ediz. di Livorno pag.177.

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per l’esca del danajo che qui e colà distribuivasi, e per quella tendenza che è in Napoli, come nelle altre città, di accorrere alle novità. Procedeva inerme, pacata, e minaccevole dalla strada Foria, si avviava per Toledo, emettendo a quando a quando evviva sediziose, le quali erano per la piupparte in maniera ridicola guastategiungeva a S. Brigida, ritornava sui medesimi passi col medesimo tenore, e più audacemente; moltissimi si scuoprivano, un maggior novero di nastri tricolori appariva, molte signore che per la piùpparte a disegno stavano dai balconi accrescevano gli stimoli alla concitata turba.

Intanto le botteghe, e i portoni si serravano, stavan tutti in paurosa sollecitudine. Ordinante il Re, percorse la strada di Toledo il Generale Statella, Comandante della Piazza, il quale recava alla Reggia la notizia delle narrate cose. Continuava il rumore, più generale diveniva, quando udissi per ben tre volte tuonare il Forte di S. Elmo, e volti colà gli occhi si vide sventolare la bandiera rossa, segno di allarme, la quale, dagli acciecati fu creduto in prima segno costituzionale, epperò salutato con evviva, e grida festevoli, fino a che uscite le truppe, e cangiato l’aspetto della Città in modo ostile dileguavasi la moltitudine, finiva lo schiamazzio, chiudevansi gli usci, le botteghe i portoni, un sinistro presentimento agitava gli animi dei buoni, Napoli rimase solitaria e silenziosa: solo i novatori si concitavano in segreto, spedivan messi per le provincie.

Il Re messo a giorno di tutto, tradito nella sua stessa Reggia, avvertito ingannevolmente di tante cose, rimanea fermo ed immoto in tanto moto, e guidato dalla bontà del suo cuore volle pur mettersi nella via di appagare gli animi concitati; sì che, chiamato in sul far della sera alla Reggia il Duca di Serracapriola, già ambasciatore a Parigi, e dipoi il Principe di Torella, ricomponeva il Ministero, disegnando per la Presidenza e gli Affari Esteri, esso Duca di Serracapriola; per gli Affari ecclesiastici,

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e Grazia e Giustizia il Barone Cesidio Bonanni; per l’Interno Carlo CianciuIIi; per le Finanze il Principe Dentice; pei Lavori Pubblici il medesimo Principe di Torcila; per l’Agricoltura e Commercio e Pubblica Istruzione il Commendatore Scovazzi; e per la Guerra e Marina il Maresciallo Garzia; e destinava il Principe del Cassero alla presidenza della Consulta.

Composto a tal maniera il nuovo ministero, immantinenti raunavalo in Consiglio il Re, affin di statuire il convenevole in quelle gravi circostanze, e già le aure costituzionali cominciavano a spirare, ed indi ad ingagliardire. Nello stesso tempo presentavansi al Re i Ministri delle Potenze Settentrionali, forte instando a tenersi fermo contro le costituzionali pretensioni; dall’altro lato quelli che tali pretensioni vagheggiavano maggiormente si rinfocolavano, facevan giungere alla Reggia sinistre e bugiarde voci; si che il Re pressato da tante circostanze si decideva alla voluta concessione, ordinando al nuovo Ministero di presentargliene le basi, per sottoscriverle.

Ed alla verità nel 29 Gennajo apparve un decreto, il quale riportava: il Sovrano concedere una costituzione; essere stato incaricato il nuovo ministero per redigerla fra dieci giorni sulle seguenti basi

1. Il potere legislativo esercitarsi dal Monarca e dalla Camera dei Pari e dei Deputati, delle quali la prima sarebbe a scelta del Re, e l’altra degli elettori secondo un censo da statuirsi.

2. L’unica religione dominante dover essere la Cattolica Apostolica Romana; la tolleranza degli altri culti vietata.

3. La persona del Re sacra ed inviolabile, né soggetta a responsabilità.

4. I Ministri mai sempre responsabili di tutti gli atti del governo.

5. Le forze di terra e di mare dover dipendere sempre dal Re.

6. La guardia nazionale doversi organizzare in modo u informo per tutto il reame.

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7. La stampa libera, ma soggetta soltanto ad una legge repressiva in ciò che potrebbe offendere la religione, la morale, il Re, la Famiglia Reale, i Sovrani Esteri e le loro Famiglie, non che l’onore e gl’interessi dei particolari.

Pubblicavasi in un baleno la notizia delle attese concessioni, e tosto mutavasi l’aspetto della Città; e di sospettosa, minacciata, e taciturna addivenne festiva ilare, sicura. Un tripudio vi surse da non potersi con penna descrivere. La bella strada di Toledo, nella quale i napoletani son usi a darsi allo sfogo delle loro consolazioni, era mutala in una direi sala di allegrezza, in cui l’affollata moltitudine variamente esprimeva il suo giubilo, variamente agli altri lo comunicava. Traevavi a folla il popolo, uomini donne, giovani vecchi, plebei e signori, attori o spettatori della briosa scena affluivano in quella, e come onda la percorrevano, la ripercorrevano. Un’altra moltitudine era alle finestre, ai balconi, sui terrazzi degli edificii, immota osservatrice ed attrice. Correvano i cocchi ornati di verdi festoni, di bandiere tricolori, e brulicanti d’inebriate persone; camminavano i pedoni in due stivate righe laterali variamente adorni dei graditi nastri; stavano dalle ringhiere degli edifizii stivate le genti e i graditi segni nell’aere sventolavano; fazzoletti, coccarde, nastri, fasce, sciarpe, bandiere, bandierine nella tripudiante moltitudine si agitavano. Innumerevoli erano i segni, innumerevoli le voci, tutta Toledo andavano sossopra. Evviva al Re, al Papa, al nuovo regime, ai Capi de’ liberali mandava la mobile moltitudine della strada, evviva rispondea la immota degli edifizii: un perenne, crescente, non interrotto gridio l’aere assordava, dal che il popolo napoletano sempre concettoso nelle sue parole, diede il nome di Vivò agli attori del nuovo dramma. I maestri delle rivoluzioni a questo non si ratteneano ma ad altre cose più significative, e più opportune per le loro idee andavano: ché coi popolani si tramescolavano;

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vedevi sui cocchi il galantuomo abbracciare il lazzarone, tenerselo a fianco, scambiare il di lui berretto col suo cappello, lo stesso per le strade; la ibrida scena per ogniddove ripetevasi, e sotto l’astuto nome di fratellanza tristi germi ascondeva.

Ma il popolo ignaro dei nomi che allora per la prima volta udiva, e che macchinalmente contorti ripetea, andava dimandando cosa significassero, e qui le più strane e ridicole risposte del mondo sorgevano; ma già una tanta cosa ai novatori non era sfuggita, ed ecco pei larghi gli Apostoli della Costituzione, i quali con eloquenza, e scienza varia, ma con pari ardore spiegavano, dilucidavano, cementavano al popolo udente le nuove cose, a ciclo laudandole. La concitata moltitudine con segni, gridi, e parole concitavano.

tripudio si accrebbe, si rendé impetuoso, e indicibile quando il Re uscito dalla Reggia a cavallo, varii quartieri percorreva. Accompagnavanlo gli Augusti Fratelli il Conte di Aquila, e di Trapani, e gli facevan corteggio molti Generali, lo Stato Maggiore, le Guardie del Corpo, quelle di Onore ed uno squadrone di Usseri Percorse in mezzo ai delirii di Toledo, i quali facevan molto contrasto con lo stato quieto e pacifico degli altri quartieri, in cui contrarie voci, sentimenti contrarii ritrovava, alle nuove cose onninamente avversi; infine il Re rientrava nella Reggia.

Fra smodati tripudii volgeva al suo termine il giorno, fra tripudii smodatissimi entrava la notte. Allo schiamazzo le luminarie si arrogevano. Fiaccole illuminavan le vie, e le carrozze, di lumi erano ornati gli edifizii, un oceano di luce vincea le tenebre nella ebbre Toledo. Andavano in giro gli uomini del novello conio, e con voci e con atti. obbligavano a metter fuori i lumi. Ogni edilizia spandea luce. Il massimo Teatro fu preparato a festa, una illumi

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Il chiasso, il tripudio durava fino a notte innoltrata, quando già stanchi gli attori, e affastiditi gli spettatori di quel dramma, tutto nel suo alto silenzio la tenebrosa notte involse.

Bandita la costituzione molti casi e mutamenti ricordevoli avvenivano, che è pregio dell’opera accennare. E dapprima era chiamato al Ministero in luogo di Cianciulli cesco Paolo Bozzelli, già chiaro nella repubblica letteraria e nel mondo politico, ed a lui fu commesso principalmente il pondo di stendere la costituzione.

La Guardia d’Interna Sicurezza, che da più anni era instituita in Napoli con utile divisamento, sbattezzata dell’antico nome, assumeva quello di Guardia Nazionale, ed apriva le sue file ad una genìa di uomini per nascita, età, e forme varia, per tendenze concitataci quasi simile o identica; per la qual cosa risultante da elementi perigliosi non più garanzia, e sicurtade, ma inciampo e pericolo formava.

Suspicando alcuni tra essi, che nella Città si albergasse un partito avverso al nuovo reggimento (e veramente era un partito generale) arrestavano i sospetti, li traducevano all’Autorità di polizia, premurando che l’imprigionamento fosse legittimato. Indarno faceasi riflettere, che era una enormità attentare alla individuale libertà per mera suspizione, massime in un governo libero, e segnatamente nel primo principio della novella era.

Rientravano in Napoli tutti coloro che abituati al ladroneggio con provvido consiglio, erano stati mandati all’isoletta di Tremiti, e rigorosamente sorvegliati, a varii lavori ed occupazioni intendevano, sì che un bene ad essi un bene al pubblico ne veniva; ma resi liberi negli antichi mali ritornavano. Ragione o prudenza voleva che fossero

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costituzionale tripudio nella Metropoli non si rattenne, ma in tutte le provincie si diffuse, dove la fama issofatto ne divulgò la notizia. Scene a quelle narrate somiglianti vi sorgevano; dappertutto si folleggiava.

Stavasi in aspettazione del promesso Statuto, né senza agitazione si viveva; imperciocché coloro i quali al di là della Costituzione miravano, spargevan semi di discordia, preparavano gli animi alle tristizie avvenire. Apparve intanto nel promesso tempo la promessa legge costituzionale, in cui erano ampiamente svolte le basi già date nell’Atto Sovrano dei 29 Gennajo. Fu immenso, alto inenarrabile il tripudio; la Città per ben tre giorni ed altrettante notti fu piena di gridi, di evviva, di congratulazioni, di lumi, di segni e parole costituzionali; tutto andava a vento dei novatori. Più che mai si affaccendavano gli Apostoli della Costituzione per trarre le plebi alle per esse inintelligibili cose.

I Larghi, e le piazze ripiene di trofei variamente fatti, e vagamente illuminati; l’aere risuonava di musicali concenti; i teatri anch’essi in festa; le volte de’ templi echeggiarono dell’inno ambrosiano; le luminarie dappertutto spandevano vivida luce; la notte e il giorno era una continuata successione di tripudio.

In tanto moto formaronsi delle società, le quali andavano in giro, raggranellando somme dagli agiati, e poscia a conforto dei bisognosi le volgevano. Un grande atto di Clemenza emise il Re, pel quale tutti i condannati per cagioni politiche ripatriavano nel Regno, o rotti i ceppi, ritornavano in seno alle rispettive famiglie, accrescendone la gioja.

In sull’annottare del terzo giorno davasi fine al tripudio con un inno appositamente scritto per un omaggio al Re, e vestito di musicali note. Uno stuolo di Signore, e di Suonatori, convojato dalla Guardia Nazionale avviavasi pel

largo della Reggia, e sotto al massimo loggiato si sostava; donde il Re e la Real Famiglia onoravano l’uditorio.

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Centinaja di fiaccole illuminava la festante Comitiva; ed iti mezzo ad un alto e pieno silenzio echeggiava per ben due fiate il melodioso concento. Applausi, evviva, acclamazioni, grida ripetute salutarono il Re. La napolitana gioia in tutto il Regno si diffuse. Non v’era chi non ammattisse. Un tripudio universale, un fremito di gioja dal Tronto a Scilla echeggiò.

E perché di quanto operavasi non mancasse il suggello della retta intenzione giuravano lo Statuto tutti gl’impiegati, l’armata, ed il Re istesso in ricordevole giorno ed apparato nel Tempio di S. Francesco di Paola confirmava l’operato col giuramento. Mille congratulazioni, ed augurii, ed acclamazioni renderon solenne quel dì; la natura istessa a quel contento rispondea: con un limpido cielo, ed un aer tiepido aveva prodotto fra i geli e gli orrori del verno le bellezze della primavera.

Né col giorno (24 Febbrajo) andarono all’occaso le feste; ma più clamorose vivaci e briose addivennero. Brillavano le luci della natura in aer sereno; brillavan di fiaccole e di lumi gli edifizii, un oceano di luce sperdea la lieve oscurità della notte, allegorici ed allusivi trasparenti; festoni di verde mirto infiorati di vaghe rose, iscrizioni o versi, trofei svariati, bandiere tricolori erano per quel vario e intenso chiarore splendenti, ed alla universale luminaria accrescevan vaghezza e decoro. Risuonava la città di melodiosi concenti; le bande militari festevolmente allegravano gli spiriti. Genti di ogni condizione, o sesso, o età affluiva come placida onda per le strade e segnatamente per la brillante Toledo; altro non men numeroso stuolo dai vani degli edifizii si tenea; mille voci di giubilo e di evviva a vicenda si rimandava quella indicibile moltitudine spettatrice, e spettacolo di quella ricordevol sera. Grande fu la festa, grandissimo il moto, nullo il disordine.

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Il brioso ma quieto tripudio non finì che a notte alta, quando già stanchi corpi di correre e schiamazzare nelle proprie case si ridussero; restavano per altro nelle allegre menti la grata impressione. Per tal guisa parcano indociliti gli animi, appagate le brame: il Re null’altro far potea per la pace del Reame. Fallaci apparenze! Il tempo ascondea sorti contrarie! continua………..

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