Alta Terra di Lavoro

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STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 LIBRO SECONDO (V)

Posted by on Giu 26, 2024

STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 LIBRO SECONDO (V)

Dovremmo smettere di definire certi storici “borbonici” e chiamarli semplicemente “preunitari” o “napolitani” nel nostro caso. Non si  capisce per quale motivo il Colletta che non scrive certo un trattato di obiettività scientifica sia considerato uno storico e i napolitani che scrissero al tempo di Ferdinando II siano considerati dei lacchè di regime.

Gli esuli pagati profumatamente in quel di Torino dal conte di Cavour per scrivere le loro ricostruzioni storiche antiborboniche che cos’erano? I depositari  della verità rivelata?

Buona lettura e soffermatevi sul profluvio veramente impressionante di innovazioni normative operate dal Re Ferdinando II

CAPITOLO V.

INTEMPERANZE DEGL’INNOVATORI.

Sommario

Cagioni per le quali gl’Innovatori si abbandonano ad ogni maniera d’intemperanza. Strano pretensioni di riformare ed allargare lo Statuto. Incomportabile licenza della stampa. Dimostrazioni tumultuarie. Armamento generale. Sghembe mire intorno agl’Impiegati. Circoli. Comitati. Espulsione dei Gesuiti. Tentativi contro altri Ordini Religiosi, e pericoli che ne seguono. Perenne ed importuna opposizione. Gravi e minaccievoli fatti che tenner dietro alle idee comunistiche. Leale incesso del Governo nelle vie costituzionali. Il Ministero, modificato ed accresciuto, declina il periglio di cadere. Forti ma inutili ordini avverso le turbolenti petizioni. Provvedimenti governativi nel senso delle costituzionali promesse. Le intemperanze montano sempreppiù ai danni del Governo.

L’intemperante tripudio, era segno d’intemperanti idee; le quali, vagheggiate copertamente sino dalle prime ore costituzionali, si eran man mano palesate, ingrandite. Al che ebbero principal cagione i mutamenti politici che intervennero contemporaneamente in Italia e nell’Europa; poiché Torino, Firenze, Roma si ebbero la costituzione, Parigi la Repubblica; l’Alemagna intiera, larga e fiera sollevazione. Per la qual cosa i liberali menando i loro giudizii più volentieri pei falsi campi della fantasia che per quelli della posata e fredda ragione, portavano i pensieri al di là del costituzionale reggimento, o di qualunque altro governo, dove appunto si ritrova lo scioglimento di ogni civile consorzio fra gli orrori delle passioni e della forza brutale.

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Poiché ei par conviene che l’Uomo viva in Società, non o possibile rinvenire una forma governativa, che possa consentir pieno e compiuto l’esercizio della naturale libertà, la quale pur essa deve contenersi fra certi limiti, segnati appunto dal dovere di rispettare in altrui ciò che in se vuolsi rispettato. Ma questo dovere si deve necessariamente accrescere nelle civili comunanze; sì che la restrizione della individuale libertà è maggiore, e dev’esser tale massimamente in mezzo a Società o per passioni stemperate corrotta, o per marcia ignoranza balorda. Se gl’innovatori avesser posto mente a questi semplici principii, se avesser pria vagliato lo stato delle nostre plebi, se avesser dirò pure calcolato lo spirito delle Grandi Potenze, si sarebbero al certo tirati indietro dalle loro nojose e gravi sregolatezze le quali dischiusero un baratro in cui tutto sprofondarono.

Vero è che si poggiava sullo stato della Francia, sulla sollevazione di Alemagna, e sulla politica inglese; ma non sapevano, che riguardo alla Francia ed all’Alemanna punto non era lacerato il Trattato di Vienna, il quale forma col principio della politica indipendenza de’ regni sotto i legittimi Sovrani, e con la garenzia delle grandi Potenze, la pace e l’ordine europeo; e che presto o tardi si sarebbero reintegrate le cose: non v’ha dubbio che quel Trattato era stato modificato nel Belgio, in Cracovia, ed in Polonia, ma sempre con lo assentimento delle Grandi Potenze, il quale certamente non era da sperarsi per una forma governativa che minava dalle fondamenta i Troni. E riguardo all’Inghilterra fa meraviglia come non pigliasser sospetto di lei; perché mentre si chiariva liberale in Italia, protestava contro l’invio delle truppe in Lombardia ed il passaggio dei napolitani pel romano: mandava un alto personaggio come messaggicro pacificatore, nell’atto stesso che le inglesi navi cariche di schioppi, cannoni, palle e polvere ed altri attrezzi da guerra, arrivavano nei siciliani porti:

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un poco che avessero consultato la storia non dirò antica, ma moderna avrebbero ritrovato di che sgannarsi; e, tacendo di altro cose, non si sapeva, che ancora era in piede il Colosso del Settentrione, il quale stringe in pugno le sorti del mondo?

Le passioni dominavano i novatori; e le sbrigliate passioni frutti conformi partorivano. Dei quali fu tanta la copia, che io dispererei di finirne l’elenco, se non mi facessi tutto raccolto a dire alcuna cosa dei principali.

Ed in primo luogo è da riporsi la pretenzione di allargare le regie concessioni, della quale risuonavano i Circoli, e i Giornali fino dai primordii del pubblicato Statuto. La Casta sovvertitrice parve che se ne fosse appagata dapprima, ma per verità grado grado le venne in uggia; sì che non trascurò mezzo che al preconcetto scopo la spingesse.

Ecco, andavan dicendo e scrivendo, ecco il Ministero Serracapriola prender la Costituzione francese, non senza averla prima mutilata e resa fraudolenta e capziosa, gittarla in ambo i regni come si gitta al famelico un tozzo ammuffito: lo Statuto essere stato festeggiato per la mercé dei demagoghi, già servi del Ministero, e dalla prezzolata o ignara popolaglia, non già dagli uomini di retto sentire: non poter mai accadere che si affacesse a noi uno Statuto che in Francia avea fruttato demoralizzazione, miseria, rivolta, e repubblica: averlo già rifiutato la forte e sennata Sicilia, mal potersi da Napoli accettare: esser conveniente, che un’assemblea fosso convocata, la quale rivedesse lo Statuto ed ai tempi presenti lo attagliasse. Di queste e di altrettali cose, delle quali mi taccio per non riuscire lungo e nojoso, menavasi continuo ed alto scalpore.

Ma di quanto peso fosse questa intemperanza fa luogo qui brevemente rilevare. La Costituzione non era per fermo una conquista della rivoluzione, che la rivoluzione non dà alcun dritto contro il potere legittimamente costituito; ma se anche per assurdo ciò si volesse ammettere,

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per fermo nessun fatto d’arme in Napoli fu combattuto, nessuna vittoria dai liberali riportata; che anzi quella trepidazione con cui si appalesava il rivolgimento, quei tentativi fuggevoli che i novatori si limitavano a fare, senza ardire di mostrarsi armata mano allo scoperto, indicavano pur troppo la debolezza della rivolta, la quale pertanto ratto si era dissipata nel 27 Gennajo quando il Governo avea assunto un’attitudine ostile, e nel dì vegnente nessun tentativo si fece, nessuna fazione si commise; ed ove pel seguito si fosse continuato in quel tenore certamente la rivoluzione non avrebbe osato di rialzare il capo.

Neppure puossi affermare, che la rivoluzione avesse indirettamente acquistato lo Statuto; imperciocché non era nel Real Governo cagione alcuna di temenza. I casi di Palermo erano piuttosto da deplorare che da temere, eziandio dopo la pretesa vittoria; poiché non era chi non vedesse, che niente di positivo erasi fatto per lo spegnimento di quella insurrezione, e che bastava volerlo per disperderla, sì come accadde in prosieguo. Molto meno eran da paventare le agitazioni del Cilento, e i rumori di Napoli, i quali agevolmente si potean vincere ed impedire, perché risultanti da clementi deboli o scarsi.

Né la tema potea venire di là dal Regno; imperciocché sebbene il politico cielo sembrasse nebuloso, pure il nostro Governo non aver a temere che incidentalmente o quasi direi per riverbero, ma non direttamente e tanto che fosse nella necessità di spingersi al di là degli altri stati d’Italia e di Europa, e piegare l’animo per forza ad una Costituzione. Se è vero che la rivoluzione mettea radici, e cercava di allignare, e ingigantirsi in ogni luogo, è vero pure, che i Potentati moltiplicavan gli eserciti e forbivano le armi. Daltronde il politico orizzonte era più fosco e minaccioso nel 1830 che nel 1848, e per noi fu narrato in principio di questa Storia di quante rivoltare non che Europa, il Mondo risuonasse.

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E se il Governo tennesi impavido allora, sarebbe venuto meno al presente?

Per la qual cosa la costituzione non fu, ne poteva essere una conquista diretta né indiretta della rivolta; ma sì bene una concessione una elargizione, che il Sovrano nella pienezza della sua potenza e del suo volere fece, probabilmente pel santo scopo di evitare il sangue, e le tristizie delle guerre civili, e dì abortire i semi posti a fecondare, facendo pago il desìo dei liberali.

Ora se lo Statuto era una spontanea concessione, il Re avea il dritto di conceder quello, quanto, e come al suo Augusto Animo meglio si addicesse, senza che i sudditi suoi avessero avuto il dritto di mettere un solo lamento; imperciocché per regola di Dritto il Donato mai non può rivolgersi al Donante, e chieder conto e ragione del perché non abbia largheggiato nella donazione. Quindi non ai avea dritto a chieder larghezze alla Costituzione, anzi correva il debito della gratitudine, che sta eterno nell’animo dei Buoni, la quale dovea muovere ad affettuosa divozione verso di un Principe, che spogliava di prerogative la sua Sovranità, e generosamente donavale.

Più strano poi il credere che la rivoluzione avesse dato dritto alle intemperanze de’ liberali: imperciocché ogni atto non che sociale, umano, dev’esser conforme alle leggi eterne della ragione e del dritto; poiché in contrario si tratta di operazioni brutali, e di tirannide, non mai di operazioni sociali. Ora sendo così, non potea non intervenire, che la Costituzione, non conservasse negli elementi dai quali risulta quelle prerogative che sono di dritto a ciascuno.

I Principi in qualunque ipotesi di forma governativa, in cui figurano, debbono mai sempre avere singolari prerogative; e pretendere di adequarne i poteri a quelli delle Camere, o metterli al di sotto di queste, o in una posizione debole, è lo stesso che annientarli, e richiamare la potenza governatrice fuori del propio elemento, e dare un buon passo alla repubblica.

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Lo stesso Gioberti affermava, che il potere del Capo

L’altissimo Vico diceva «che ogni società ha bisogno di una mano robusta che dirigesse il freno degli appetiti dell’uomo, e questa mano è l’autorità, ossia la potestà civile, immagine di Dio nell’universo».

Il Giurista del Crati (1) scriveva, che il potere sovrano «dev’esser sempre munito di autorità assoluta per dirigere le comuni utilità, per infrenare le passioni individuali, per promuovere il benessere dell’intera associazione civile e dei membri che la compongono, proteggendo e favorendo lo sviluppo delle facoltà fisiche, intellettuali, e morali dell’uomo individuo e dell’uom collettizio, e diffondendo la giustizia in tutte le branche dell’ordine sociale».

Ora se così è, ne nasce, che il Re non potea non essere conservato nel suo elemento, e quindi le riforme intese allo abbassamento del Sovrano Potere, ed allo innalzamento del Potere Popolare erano perfettamente antisociali.

Né stranissima non era la idea di convocare un’Assemblea la quale avrebbe dovuto riformare ed allargare lo Statuto; poiché si sarebbe modificata o fatta una Legge da chi non avea potere né legittimità di farla, dandosi Io scandalo di un potere legislativo illegittimo, che minava ai danni del potere legittimo.

Infine non è mai comportabile, che il Capo di uno Stato possa esser tenuto a far quello, che, non che il popolo, una casta pretende; imperciocché dove il popolo è Re, ed il Re popolo, ivi non Monarchia ma repubblica è, e quando nella stessa repubblica non si tiene allo Leggi stabilite, non di Società, ma di abisso civile si tratta.

Or dunque per qualunque Iato si risguardi la cosa, egli è evidente, che la pretenzione di riformare lo sta

(1) Marini G. B. Vico al cospetto del secolo XIX. pag.108. Napoli 1852.

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Pertanto queste ed altrettali riflessioni, non erano conosciute o non si volean conoscere dalla turba concitatrice, e le di lei enormezze erano i forieri del regime repubblicano, al quale scopertamente si aspirava. Durissimi casi, però, sì come a suo luogo sarà narrato, da questo intemperanze derivarono.

Tra le smodatezze è da noverarsi in secondo luogo la sfrenata licenza della stampa. Un diluvio di libri, libercoli, memorie, giornali, carte volanti apparve, nei quali manifestavansi le più rotte passioni, le più matte idee, né si preteriva la improntitudine di parlar contra il Governo e le persone, pubblicando veri libelli.

Quella inferma Autorità di polizia, che allora esisteva, tentò di opporsi alla minaccevol piena, ma tosto aizzaronsi gli animi, si menò infinito scalpore, si gridò alla offesa libertà, e segnatamente si allegò non essere ancora pubblicata la legge sulla stampa, come se mancando questa, non esistessero gli articoli 344 e 365 delle leggi penali avverso cotanta intemperanza; o fosse distratto il Dritto di Natura che impone il dovere di rispettare l’altrui onore, e dignità, e di non fare ad altri ciò che per se non si vuoi fatto; o fossero spente le leggi amorevoli del Cristianesimo, e dirò pure le regole del Galateo, alle quali potea specchiarsi la ribaldaglia per non trasmodare in tanta eccedenza. Ma è inutile ricordar leggi e regole in un tempo in cui non regole né leggi, ma disordini si volevano.

Pertanto da quella tipografica tempesta gravi iatture provvenivano, e tristi semi si spargevano. I segnati o percossi in quelle truculenti pagine montavan nello sdegno, reagivano con le mani se potenti, e se deboli con parole o scritti contrarii. Per tal guisa gli animi cotidianamente si disponevano alla lotta, si radicavano gli odii, si aguzzavano le ire, si aizzavano le classi contro le classi, le cattive passioni si carezzavano, anziché fondare il novello

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Si arroge, che la faciltà della stampa, e l’esempio comunissimo e frequente ebbe desto nell’animo della piupparte desìo di scrivere, e di metter fuori per ambizione o interesse e far prevalere le propie idee. Quindi vedute politiche sghembe 5 ragionamenti da pazzi; consigli inetti; tendenze e progetti ridicoli o colpevoli.

Non havvi cosa più esiziale per l’uomo che darsi alla lettura o allo scrivere nei momenti in cui l’animo o preoccupato, poiché ottenebrato o spento qualunque lume di ragione, restano a guida dell’intelletto le passioni, che travolgendo le cose, più sovente tirano al male che al bene, più all’errore che alla verità. Molti vi erano i quali nati con felici disposizioni per le scienze le lettere e le arti belle sprecavano ogn’intellettuale energia in vano disputare in leggere e contentare scritti brulicanti di nullità, o di tristizie, o di menzogne. Per tal modo i campi assottigliavano le popolazioni, la immoralità impoveriva la religione, la stampa rapiva gl’intelletti. Tutto mettea a ruina la trista novità.

Maggiore intemperanza erano le illegali dimostrazioni. Invalse il tristo vezzo di raunate gridatori, menarli sotto agli edifizii dove le principali Autorità stanziavano, ed a furia di gridi e di minacce chiedere l’assunzione di alcuni alle cariche, la destituzione di altri, le leggi, le risoluzioni ed inchieste governative, ed ogni altra cosa che ai rei propositi andasse a verso. La stessa Magion Reale innanzi alle sue mura tal ribalderia vide.

Dissi ribalderia; perché siffatte cose non altro erano che aperta sedizione e grave irriverenza alle Autorità. Ciascuno dei componenti la società tien segnati i limiti entro i quali deve aggirarsi nella sua vita sociale, dai più infimi ai più alti gradi ciascuno ha una missione speciale a compiere; e questa destinazione tacita o prescritta è per lo appunto il cardine, e il fondamento dell’ordine e dell’armonia sociale; la quale in tanta varietà di tendenze e di entità sarebbe

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ad ogni piè sospinto disturbata, se ciascuno varcasse la propria e nell’altrui sfera si gittasse. Le risoluzioni governative si aspettavano alle Autorità, non mai al popolo, e molto meno agli attruppamenti di uomini perduti, o ignoranti, o libertini, o pazzi, o impudenti presi all’amo delle novità o dell’interesse, o di altre cagioni.

L’intemperanza creduta libertà, gli eccessi progresso, le villanie coraggio, le petulanze ardimenti, ogni più condannevole cosa mandavasi ad effetto. Una dimostrazione di stampatori al campo di Marte, un’altra degli artigiani per la via di Toledo, e mille altre di altro tenore metteano in ripentaglio la pubblica tranquillità. Importunati, insultati, e minacciati i Ministri; inondate le scale e le stanze dei pubblici ufficii; attentate onorevoli sussistenze, tenuta Napoli in paurosa sollecitudine, tutto ispirava orrore e spavento, come se la Costituzione avesse dato fondo ad ogni dettame di ragione, di morale, di legge, di religione, e dirò pure di Galateo.

Né solo nella Capitale il tristo andazzo si contenne, ma nelle provincie largamente si diffuse. Bastava una disposizione delle Autorità che non si attagliasse con gl’interessi particolari di una casta, o che oppugnasse il vizio o il delitto per metter su il grido abbasso, al suono del quale conveniva che quelle si ritirassero dagl’impieghi, o abbandonassero all’intutto i paesi per cessare l’ira furibonda dei partiti. Vide il tempo reo solenni Maestrati lasciare le scranne di Astrea, su cui per lunga stagione onorevolmente si erano assisi, non per altro che per aver condannato il ladroneggio, le ferite, o altre colpe: vide rispettabili Prelati, andare in bando dalla propria diocesi, perché propugnatori dei vizii dei sottostanti: vide infine Giudici integerrimi, ottimi Parrochi, eccellenti Impiegati amministrativi cessare dal proprio ufficio, o involarsi alle proprie dimore, ed alle proprie famiglie al solito

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Non è da porre in non cale fra le sregolatezze l’armamento di ogni maniera di persone. Una moltitudine di giovani, appena entrati in pubertà, facevan mostra e iattanza di armi, sia da pagani, sia intrusi nelle file della Guardia Nazionale; la quale pertanto non composta in tutto da uomini posati, e virtuosi, corrivi alla tranquillità, ma dai caldeggiatori delle nuove cose, che erano altresì ai gradi supremi, non di garenzia, ma di pericolo riusciva. Quindi questa forza che dovea essere il fulcro dell’ordine e della sociale tranquillità divenne strumento di rei disegni, e però fu vista por mano alle più rischievoli ed illegali imprese, che tanto scandalo e tutto cotanto arrecarono.

Gl’Impiegati ebbero anch’essi il loro urto dalla immoderatezza. Varie ne furono le cagioni. Affermavasi da taluni, che a solidare il nuovo reggimento convenisse spazzare gl’impieghi dagli uomini antichi, e soppiantarvi i nuovi; come se un impiegato che si è tenuto fedele ed onesto in una forma governativa non possa o non sappia esserlo parimente in un’altra. Chi rispetta le leggi, non se ne diparte mai. Daltronde la onestà e la virtù non così facilmente si barattano, siano qualunque gli eventi, da coloro nei quali una virtuosa abitudine i virtuosi sentimenti ha suggellato. Povertà, lusinghe, minacce, seduzioni non declinano giammai l’uomo retto e virtuoso.

Dicevasi da taluni altri, che gl’impiegati antichi a bastanza si erano pasciuti sull’erario pubblico, e che al presente convenisse, che gli altri parimente ne godessero; come se fosse giusto mandare all’accatterìa i già possidenti di una rendita, per metterne al godimento i miserabili o bisognevoli!…

Allegavano altri, che gl’impieghi dovevano esser volti a guiderdonare le fatiche durate, i perigli trascorsi, le persecuzioni sofferte, le pene avute, i palpiti, le lagrime, il sudore di quelli che avevano imbastita e messa ad effetto

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Il quale discorso rivelava pur troppo il fine de’ Novatori, il quale punto non era il vantato filantropismo, ma più veramente un mero interesse particolare. Del che non si prenda meraviglia in tempi di ogni virtù privi. Apprenda pur finalmente la società a non aggiustar fede alle melate e fraudolenti parole di coloro che le prometton tempi migliori, poiché il proprio non il di lei interesse gli sospinge; e quando il politico temporale rimugghia forte e minaccioso, essi non tardano a svignarsela, lasciando lei grama, dilaniata, e dolente.

Queste e mille altre improntitudini di simil conio, montavano l’un dì più che l’altro ai danni di onorevoli impiegati; poiché giornalmente si accresceva il satellizio delle persone che, con grave iattura delle professioni e delle arti, correvano all’esca degl’impieghi. Quanti e quanti vi furono i quali, presi alla infingarda lusinga di tirare maggior profitto con minore o più lieve fatica, di ascendere alla nobiltà di un impiego dalla supposta viltà di un’arte, s’immergevano nel pelago dell’ambizione, e quindi nella irrequietezza, e nei tormenti che le tengon dietro? ponevano dall’un de’ canti le onorate e pacifiche vie del lavoro e delle occupazioni, ed eran parati a conseguire i loro intendimenti con nuove rivoluzioni, ed eccessi di ogni maniera.

Al che si arrogo il triste effetto dell’esempio. In vero i personaggi di merito ben facilmente Sodo blanditi e favoriti dal nuovo potere, onde tenerli come altrettante colonne del nuovo edilìzio. Non tardano ad affluire da ogni punto, gli uomini che credono di agguagliarli; e d’ appresso a questi l’innumerevole e confuso stuolo di coloro, che manchevoli d’ingegno e di virtù, mettono innanzi un fanatismo politico per le nuove cose. Dal che provveniva che sendo pochi gl’impieghi, senza novero gli aspiranti, dalle suppliche si passava alle lagnanze, e da queste alle minacce. Vide la nostra età le supplichevoli pagini convolate dai pu

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Altra enormità erano i Circoli, e i Comitati. Sino dalla prima aurora costituzionale i novatori curarono di porre in su i Circoli, i quali composti di uomini invasati dei nuovi principii, e saliti in fama ed in potenza, vacavano agli affari governativi, progettavano nuovi impieghi ed impiegati, stabilivano destituzioni, additavano Ministri, Intendenti, infine esercitavano nelle sue più essenziali parti il potere governativo. Quelli che dal grembo dei Circoli passavano nel campo dei pubblici ufficii, avean cura di promuovere o proporre i confratelli o per gratitudine, o più spesso per avere solido fondamento alla propria esistenza; dal che ingiustizie, ed altre eccedenze derivavano. Non senno, non virtù, non valore ma l’appartenere ai Circoli bisognava per esser ministro di Temi, o andare al governo delle provincie, od occupare altri posti sociali importevoli. Un governo dentro il governo era veramente cosa scandalosa, e incomportabile.

Gl’impeti sregolati si scaricarono più che mai contro i Gesuiti. Dire le cagioni per le quali si additavano all’ira pubblica i figli di Santo Ignazio, e poscia se gli bandiva la croce addosso, sarebbe veramente opera disutile, e soverchia; solo dirò, che grande sventura fu per quelli l’essere presi di mira dalla potentissima penna dell’Abbate Gioberti, il quale dalle melmose rive della Schelda soffiava contro di loro nella conflagrazione universale che di breve avrebbe travagliata Italia. Già in mezzo al diluvio della stampa licenziosa e sfrontata, che ogni classe o persona involvea nei suoi gori, non fu dimenticata la gesuitica famiglia. I cartelli, le parole, le grida ai suoi danni grado grado montavano, quando, pervenuta la notizia della cacciata dei Gesuiti da Genova, non vi fu più riguardo, né ritegno; le preparate materie divamparono.

Un centinaio di persone nell’annottare dei 9 marzo 48 si fece nella strada S. Sebastiano sotto alle Gesuitiche

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Le sediziose e minaccevoli voci pervennero, non senza grave perturbazione, a quei Religiosi, i quali, volto l’animo a Dio, si fecero ad aspettare i casi venturi. Sorse il nuovo dì, e già i forieri della tempesta sordamente rumoreggiavano; sì che addatisine i Superiori della Compagnia, mandarono due Padri pel Direttore di Polizia, i quali non trovatolo, si diressero da Bozzelli, Ministro dell’Intorno, ed a lui esposero i fatti passati, le perturbazioni presenti, e i pericoli avvenire, e chiesero guarentigia ed aiuto. Rispose il Ministro mettesser giù ogni apprensione; il gridìo, le minacce essere vezzo del tempo; ancor egli esserne stato assordato sotto le sue finestre; i Gesuiti, come ogni altro cittadino, aver dritto alla inviolabilità della persona e del domicilio; non temessero, di presente andrebbe al Ministero, ed opportuni ordini emetterebbe.

Consolatrici e giuste furon le parole del Ministro, ma i fatti contrarii. Ché, sì come erasi promesso nella sera innanti, intorno al mezzodì si fece una raunata di sediziosi, i quali a tutta gola, ed a riprese mettevan fuori i soliti gridi. Accorse la Guardia Nazionale, che non disperse la sfrenata moltitudine, ma si rattenne a impedirne l’entrata nel Cortile del Convitto; sì che stando immobile, e non controstante parca che desse pinta a quel baccano. Lo scandalo, le improntitudini montavano.

Frattanto, dietro minaccevole avviso, accorrevano i parenti dei giovanetti che nel gesuitico convitto si ammaestravano, e dal periglioso luogo non senza palpiti e consuolo li ritraevano.

Sgombrato l’edifizio dagl’innocenti fanciulli, parve più libero il campo. Non avuta risposta di un minaccioso foglio indiritto ai Superiori, cinque rappresentanti della ribollente moltitudine andarono per essi, ed esposero esser volontà del popolo, che i Gesuiti andasser via; il popolo fremere, minacciare esterminio se al suo volere non si sobbarcassero.

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Alle quali parole il Padre Provinciale dava sensate, giuste, e forti risposte; ma ben si avvide, che eran momenti di violenza non di ragioni; sì che promise che P indomani prima che il giorno arrivasse alla sua metà sgombrerebbero.

Intanto Superiori ritornati fra la trepida Compagnia, si faceano a scrivere al Ministro dell’Interno i fatti occorsi, esortandolo che spedisse persone opportune allo quali potessero far la consegna di tutto in caso che convenisse partire. Mandato il foglio, il Provinciale riuniva i suoi contristati fratelli in un salone e dopo aver tutti alquanto orato si fece a dire: il benigno Iddio volerli disgregati; ognuno alla divina volontà compiutamente si rassegnasse; ciascuno a se medesimo provvedesse: degl’infermi, dei vecchi, de’ forestieri prenderebbe cura la Provvidenza; e poscia, porgeva a ciascuno la patente dell’ordine; quando ecco uno sciame di Guardie Nazionali o di Ausiliarii irruppero dentro il convento: i corridoi, i saloni, le celle, i più remoti angoli dell’edifizio furono ingombrati.

I Ministri intanto si assembrarono in Consiglio per determinare l’occorrente; molto e forte si parlò; la ingiustizia del caso risaltava agli occhi eziandio dei preoccupati, e lo stesso Saliceti, il quale era il solo che instasse per Io esilio, non altre ragioni allegava, che o la cacciata dei Gesuiti, o una rivoluzione per conservarli.

Deciso che la Compagnia partisse, il Direttore di Polizia si portava da quei Religiosi, e loro disse: venire egli dal Consiglio di Stato riunito espressamente pei gravi casi che toccavano alla gesuitica famiglia, i quali di sommo rammarico riuscivano pel modo arbitrario, ed illegale; nessun gravame avere i Gesuiti appo il Governo, anzi tutti aveano di che laudarsine; neppure aver potestà di discioglierli senza il consentimento di Roma; ma cosa fare in momenti di tante avversità, e di eccedenze tante? ormai scorrazzare dappertutto minaccioso lo spirito maligno della ribellione;

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la navicella del Governo essere da tanti e sì

I quali sensi, abbenché fossero la espressione delle angustie in che trovavasi il Governo, e facessero trapelare giustizia, umanità, e riprovazione per tanta enormità; nondimeno non lasciavano veruna persuasione nell’animo, sì che uno de’ Padri con franchezza pari alla gravità del caso, in tal maniera imprese a rispondere. Non la Giustizia né la Umanità consentire, che una famiglia di Religiosi gisse in bando senza colpa, né imputazione: se il Consiglio cedeva al volere di un pugno di agitatori, perché parlare di esigilo, quando questi pretendevano solamente lo sgombero dalla casa? perché incrudire sulla sorte di molti, i quali napolitani essendo, ben potean rientrare fra i domestici lari, in grembo alle proprie famiglie?… dall’altra banda non esser possibile, che in si breve ora una numerosa compagnia quasi nebbia si dileguasse, segnatamente perché non pochi vi erano, i quali per vecchiezza o gravi infermità mal potrebbero senza periglio di vita commettersi ad un viaggio: uscirebbero adunque, concludeva il Padre, ma ciascuno prendendo cura di se, per tal modo la rea volontà si farebbe.

Il Direttore ascoltate le giustissime ragioni, e riferitele in Consiglio, ritornava dicendo ai Religiosi: essere in balìa di ognuno di andare ove meglio credesse; purché con prudenza in tanto affare si procedesse, affin di causare i pericoli: gli archivii, i gabinetti, la biblioteca si sarebbero suggellati; rimarrebbero nella Casa gl’impotenti per vecchiaja o malattia, e tre o quattro padri alla custodia della

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ed all’amministrazione delle robe, le quali ponto non lasciavano di essere proprietà della Compagnia.

Nello stesso tempo il Direttore dava ordini affinché si togliesse l’ingombero di tante guardie dai corridoi e dalle stanze; restassero soltanto tre forti partite alle principali porte della Casa; e il Commissario, che era con lui cominciasse l’apposizione dei suggelli, e per ultimo si permettesse la entrata ai parenti, e si serbassero alcuni modi prudenziali per la uscita affin di schivare le improntitudini dei faziosi.

Nel mentre che tanto si operava, in mozzo all’andare ed al venire delle persone, alcuni padri, pressati ed aiutati dai loro parenti, sotto altre vesti uscirono dal minacciato luogo per la porta del Mercatello, e per un vicino giardino. Addatesene le scolte di tratto fu gridato l’allarme, si accesero le furie dei liberali, menarono molto rumore, tutti gli armati irruppero come turbine nel chiostro; dischiuse e scardinate le porte, ogni cella severamente invigilata; sequestrati i mobili, i Padri raggruppati a cinque o a sei nelle stanze e guardati a vista, non altro lasciando a ciascuno che le vesti e il breviario; gli rassembrarono in un salone e li numerarono, squadrandoli a dritta ed a manca e d’ attorno, come dei più celebrati malfattori suolsi fare; e segnatine i nomi, li rimenarono scompartiti nelle celle, ove furono guardati per tutta la notte.

Intanto i Capi non avean pretermesso di portarsi issofatto dal Direttore che intrattenevasi nella porteria del Convitto, e di rappresentargli insolentemente, che tutti i Gesuiti indistintamente dovessero esulare. Indarno il Direttore mostrava non che la illegalità, la inumanità di quel procedere, il quale menava dritto all’anarchia; ché le voci della ragione eran soffocate dalle passioni ardenti e conculcatrici; sì ché il Direttore si ritirava da quell’inferno, e riunitosi altra rolla il Consiglio dei Ministri, fu

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Spuntava fra incerta luce il giorno 11 di quel Marzo, poiché un denso nugolato dal quale era venuta giù rotta e furiosa la pioggia, ammantava il Cielo. Si preparava la contristata Compagnia allo abbandono di quelle per lei gratissime dimore. Un Padre nel privato oratorio celebrava l’incruento sacrificio della messa per consumare gli azzimi consecrati.

Uscito di poco il mezzodì, giunse un Ufficiale Svizzero il quale direttosi al Provinciale disse: esser tutto all’ordine; le vetture pronte al trasporto; non paventassero, essersi pensato a tutto. Poco poscia arrivava il Ministro Bozzelli, e soggiungeva: il Governo non cacciare, né mandare in esigilo i Gesuiti; esser quelli momenti di transizione e circostanze dubbie; doversi sobbarcare alla necessità; i loro dritti sarebbero rispettati; ciò che facevasi essere per tutela e sicurezza delle loro persone; si avviassero di buon animo al porto, dove imbarcati sur un Legno a Vapore, sentirebbero altre disposizioni.

Battevano le ore ventuna quando gli sconsolati figli di Lojola a coppie uscivan dal grand’Uscio che mette al Largo del Mercatello, e nelle apprestate carrozze entravano, le quali fra mille armati accennavano al Molo. Muoveva il convoglio, come ne’ funerali suolsi, a lento passo: il popolo accalcato e diviso in due ali con alto silenzio, e viso addolorato quella enormità riprovava, e dava l’addio ad una religiosa famiglia che tante cure avea largito per lo ammaestramento dei fanciulli, e fatiche tante in servigio della religione. Fu rotto il silenzio da sordo mormorto, e da un accennar con mani allorché apparve il P. Cappelloni al quale immenso amore i napolitani avean posto; e maggiore ma rimesso moto si destò quando fu scorto un Padre, a cui la rea fortuna avea serbato momenti di dolore in alta ed inferma canizie; egli non vivente, ma cadavere parea logoro ed instecchito, al quale ogni più cruda

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tutti della gesuitica catastrofe sentivano pietà; solo gli autori di enormità cotanta quella pietà sentivano, che l’assassino sente per l’agonia della vittima che immola al suo furore.

Prima a Baja navigarono i Gesuiti, donde i Napolitani rientrarono travestiti nella Capitale, e poscia a Malta. Così in Napoli fu dispersa la Compagnia di Gesù. Vedovi rimasero gli altari, vuoti i confessionili, non frequentata la chiesa, muto il pergamo, le scuole in abbandono, il nobile convitto chiuso: un silenzio come di tomba, che alto feriva il cuore, regnava nella gesuitica contrada. Si cercò di riparare in parte a tanto danno, sopperendo coi preti del clero secolare.

Della illegalità, della ingiustizia, commessa furono ripieni tutti i giornali, e tutte le bocche, e tranne poche eccezioni, non senza meraviglia e riprovazione. E veramente in un epoca in cui si bandiva civiltà, libertade, progresso erano avvenimenti incomportabili una condanna senza giudizio; una esecuzione senza ordine di chi avea la potestà di farlo; la libertà individuale che la legge garantiva (1) conculcata e manomessa; la inviolabilità del domicilio (2) violata; modi violenti e barbari nella esecuzione; niun riguardo alla canizie, niuno alla infermità, alla innocenza, al merito niuno, e di delitto cotanto non il gastigo, ma il trionfo!… Plaudirono i settarii, plaudirono i giornali sregolati, solo i buoni sommessamente riprovarono e maledissero, ma l’ira di Dio temperava i suoi fulmini.

Imbaldanziti i sediziosi per gli ottenuti successi, e per avere imposto al Governo la loro volontà, volgevano il pensiero ad altri Ordini Religiosi, poiché ritenevano che il nuovo regime mai non avrebbe potuto metter radici con le massime ed i principii di quelli; e veramente in ciò male non si apponevano;

(1) Articolo 24 dello Statuto.

(2) Art.28 dello Statuto.

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imperciocché se avean proponimento o precetto di scrollare il Trono, ed inabizzare la Società, questo era troppo contrario alle leggi di Cristo e sarebbe ito sotto la censura dei Padri, richiesti di consiglio nei confessionili o fuori. Accortamente adunque in taluni circoli erasi ordinato di spazzare a poco a poco, e quasi insensibilmente dallo Stato i Religiosi, e di già avevan portato i primi colpi sui Gesuiti, nei quali, a sentenza del Mazzini, la potenza chiericale è personificata. Similmente la Casa dei Padri del Redentore di Napoli era stata minacciata, e correva fama, che i chiostri l’un dopo l’altro sarebbero stati disertati.

Alquanti giorni dopo la gesuitica catastrofe si eran rivolti gli occhi sui Carmelitani, quando accortisine i popolani del Mercato, della Marinella e di Porto, si riunirono, e acciviti di pietre e di bastoni, portando innanzi una immagine della Vergine, e gridando viva la Madonna, si avviarono per alla Reggia. Giunti al largo del Castelnuovo s’imbatterono in un centinajo fra guardie nazionali, ausiliarii, e consorti, i quali con varie maniere di armi, accennavano ad oppugnare quella dimostrazione; ma i popolani incuorati dal sentimento religioso, sotto il riverito e confortevole vessillo della Madre di Dio, incominciarono a trarre un nugolo di sassate; reagivano gli armati, una zuffa si appiccò, la quale sarebbe riuscita universale, e pericolosa per la città, ove non fosse accorsa la truppa a spegnerla.

Quietossi in sul nascere quel turbine, ma ne rimasero tristi conseguenze negli animi. Napoli tutta funne conturbata; poiché vedeva in ripentaglio la religione; ed oggimai in mezzo a tanti disordini, si desiderava che il nuovo ordine delle cose cessasse. I settarii eran troppo balordi; non si accorgevano, che le credenze sono scogli in cui ogni potenza s’infrange, essi ad ogni piè sospinto non le fondamenta, ma il precipizio al loro sistema preparavano.

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Né fra le intemperanze sono a pretermettere le idee strane ed arrischiate che i novatori curavano d’involgare, le quali sebbene nate di là dai monti, dove si giace la culla di ogni politica enormità, pure si erano ardentemente ricevute e carezzate; poiché ai rei propositi mirabilmente si affacevano.

Molti della plebe, sì come fa per noi detto, corsero ad ingrossare le fila dei tumultuanti al suono del danajo; e perché il nuovo sistema prendesse consistenza facea mestieri che la piupparte fosse presa all’amo degl’interessi. Una molla è necessaria per sospingere la volontà, le molle morali muovono soltanto i virtuosi e i sapienti, e quella dell’interesse le plebi. Le voci di minoramento o abolizione di pesi, di accertamento del lavoro non bastavano al grand’uopo, qualche cosa di più positivo bisognava, e questa era per lo appunto il Comunismo, il quale muovendo da rei principii, tristi conseguenze arrecava. Gli artigiani col dritto al lavoro, i non possidenti con la idea di livellare le fortune, minacciavano di esterminio la cosa più sacra, la proprietà; ed al pericolo dié anche pinta una circolare del Ministro dell’Interno dei 22 Aprile con la quale, credendosi di mettere un baluardo alla piena, si ordinava la verifica delle usurpazioni, e la reintegra ad ogni comune.

Già le malnate idee di comunismo, di legge agraria, di eguaglianza lusingavan molto gli animi, ed aveano gittate pronte e ferme radici nel popolo, tristissimi frutti producevano. L’esempio degli Operai di Parigi, e il soffio della sedizione, andavano al verso della rea stagione. Apparve in Febbrajo. di quell’anno un’ attruppamento ordinato di Artigiani, i quali con innanzi un cartellone in cui era scritto lavoro pane procedevano per Toledo: la loro attitudine tranquilla niente produsse; ma la gente trepidò. Un’ altra dimostrazione susseguì in Aprile per opera degli Stampatori e dei Torcolieri, i quali, menato scalpore per la pochezza dei salarii, si raunarono nel Campo di Marta

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Il Governo subodorati i disegni avea spedito in quel luogo uno squadrone di Lancieri e tre battaglioni di Guardia Nazionale comandati da Gabriele Pepe, il quale con maniere urbane curò di far disciogliere quell’ammutinamento, ed invitavane i componenti a sperperarsi, quando vennegli tirato un colpo di pistoletta che ferì la sua Ordinanza; a questo taluni dei Nazionali scaricarono le armi, e ratto quell’accozzaglia si dileguò.

Le quali intemperanze succedevano eziandio nelle provincie. Cosenza fu più volte inondata da numerosi stuoli di borghigiani armati in foggie strane, o inermi preceduti da bandiera, e tamburo battente, i quali schierati o raggruppati avanti al palazzo dell’Intendente, con minacciose ed alte grida chiedevano la revindica, e lo scompartimento delle terre, dette Comuni, e pretendevano i beni dell’Arcivescovo, dei Monasteri, dei Luoghi pii di beneficenza, ed anche i beni demaniali posseduti dai particolari. La Guardia Nazionale era fredda spettatrice di quell’ammutinamento, e l’Intendente appagava con parole le concitate rimostranze.

Nell’Irno e nella Cava gli Operai della filanda, si ebbero il proposito di obbligare i fabbricanti a varie cose, epperò arsero dei carri di cotone, e minacciarono di brugiare le macchine. In Venosa venne in sollevazione la popolaglia gridando morte alle giamberghe e divisione delle terre, né il gridio fu senza sangue. Le istesse scene si riprodussero in Ricovero, Santangelo dei Lombardi, ed oltre ad altri paesi, in Altamura dove furon partite le terre demaniali. Non si mancava in tutti i luoghi di cooperarsi al deviamento di quella catastrofe; ma poco frutto se ne cavava; perché dove si mostra l’interesse ogni voce di ragione, o ligame di affetto è muto. Gravi ed incalcolabili danni sarebbero avvenuti, se il benigno Iddio non avesse abbattuto in buon punto la minacciosa e rinascente idra.

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Porrò fine a questo capo con la più grave delle stemperatezze, ossia la Opposizione che ad ogni pie sospinto facevasi al Governo. Taluni per vezzo di singolarità, altri per vendetta, ed altri per odio, o spirito di parte, o sete di guadagno, o stimolo di ambizione, o desio d’ingraziarsi ai Circoli, o d’involgarsi fra le moltitudini, o tener dietro all’andazzo comune, o per altre turpitudini, alle operazioni governative più o meno sfrontatamente si attraversavano. Falsata la idea e lo scopo della Opposizione, in cambio di fortificare svigoriva, a parte di conservare demoliva, invece di rispettare i principii stabiliti vacava a distruggerli, e soppiantarne altri totalmente sovversivi, cosicché divenuta stucchevole, irritante, sovvertitrice, turpe, e contumace formava in verità una cangrena sociale profonda, che grave dissoluzione minacciava.

La storia costantemente ci mostra, che i Governi Popolari assai meno sanno profittare, che i Monarcati, poiché la moltitudine sempre rotta alle sfrenatezze si lascia tirare dalle passioni subitane, le quali frutti conformi partoriscono, mentre l’Uno, con animo riposato calcolando, indirizza a buon fine tutte le cose.

Impertanto il Governo in mezzo a tante perturbazioni ed avversità veniva man mano attuando lo Statuto.

Già avea chiamati al Ministero uomini che godevan fama colossale presso gl’Innovatori, perché intinti della stessa pece, e da essi formato lo Statuto; ora, giusta le promesse fatte, le quali portavano, che prima della convocazione delle Camere Legislative avrebbe pubblicata una Legge Elettorale provvisoria, che sarebbe per ricevere il suggello definitivo dalle Camere medesime nel primo periodo della loro legislatura, si faceva a render fuori la cennata Legge, passati appena diciannove giorni dal promulgato Statuto; e nello stesso giorno (29 Febbrajo) decretava la riunione delle Camere per le calende del sussecutivo Maggio, riserbandosi di nominare i Pari nel frattempo in cui procedevasi alla elezione dei deputati.

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Faceva le discussioni intorno alla legge provvisoria dirette alla or

Nominava inoltre Comandante della Guardia Nazionale di Napoli col grado di Tenente Generale, il Principe Pignatelli-Strongoli, e moltissimi Ispettori per organizzare le guardie nazionali di ciascuna provincia cisfarana: mandava al reggimento delle provincie e dei distretti, non che alla occupazione di altri impieghi, gli uomini del nuovo colore: sopportava con prudenza le accidiose intemperanze della setta, i circoli, lo schiamazzo dimostrativo, e curava di accondiscendere a tutto; affinché non si gridasse tosto alla offesa libertà, sperando, che un giorno la ragione e la moderatezza avesser tratti nella buona via gl’innovatori.

I quali pertanto a verun patto voleansi comporre in pace; epperciò ora incusavano il Governo di pigrizia, ora davano del traditore e del balordo al Ministero, non senza gridargli la croce addosso, la legge elettorale non gli era andata a sangue, ne menarono alte querele, aspettavano con ansia le calende di Maggio per accomodarla ai loro pensieri, o meglio alle loro passioni; avventavano i loro sdegni contro il Governo, che non curava, secondo essi, di spingere a composizione gli affari di Sicilia; tumultuavano perché non si era per anco messa in ordine la Guardia Cittadina, né spedite le armi nelle provincie; infine non eravi punto, che non prendessero di mira affin di spingere la loro caustica parola contro il Governo, o in altri termini, affin di sparger la zizzania e il malcontento contro il Governo, renderlo colpevole agli occhi del popolo, e quindi prepararne il crollo, onde dalle sue ruine, quasi novella Fenice, la combusta repubblica nascesse.

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Per le quali incomportabilità il Ministero, oggimai segno di tante ire, sarcasmi, contumelie, e minacce, nel primo di Marzo si facea a chieder la dimissione al Sovrano con una dichiarazione, che rimarrà documento solenne di quanto possono le ire dei partiti. Il Re, che impavido, e franco sentiva rimugghiar la tempesta sotto il suo Trono, non si perturbava; ma placido ed animoso a quelle strettezze andava riparando. Accettava la dimissione dei Ministri, ordinando, che sino alla formazione del Ministero fossero rimasti in ufficio, affinché il corso degli affari non si rammezzasse. Cinque giorni dipoi convocavali di nuovo, mostrando loro la necessità di riprender le cure del Ministero, e data più ampia ripartizione alle cose ministeriali affin di aumentare i Consiglieri della Corona, e quindi i lumi nelle solenni discussioni governative, ricomponea il Ministero nel seguente modo. Il Duca di Serracapriola alla Presidenza; il Barone Donarmi agli Affari Ecclesiastici; il Principe Dentice alle Finanze; il Principe di Torcila all’Agricoltura e Commercio; il Cavalier Bozzelli all’Interno; il Principe di Cariati agli Affari Esteri; il Colonnello degli Uberti alla Guerra e Marina; Il Consigliere di Stato D. Giacomo Savarese ai Lavori Pubblici; il Cavalier Poerio all’Istruzione Pubblica; D. Aurelio Saliceti al Dipartimento di Grazia e Giustizia. Ampliato in tal guisa il Ministero, e messivi altri uomini della nuova era, poteansi finalmente quietare le menti esaltate, ma la intemperante età altri urti, altre ruine preparava. La ministeriale navicella era spinta e forte tempellante fra gl’indomabili flutti delle passioni settane, le quali oggimai montavano al più alto colmo sì perché si eran divulgati i casi sinistri di Parigi, ossia i tumulti sanguinosi, il trono smantellato, Luigi Filippo in bando, un governo provvisorio instituito, foriero della repubblica e del socialismo; e sì perché della rivoluzione di Venezia e di Lombardia, e delle novità di Torino, di Roma, di Firenze tutta Italia risuonava. Dalle Alpi a Sciita, e dal Peloro al Lilibeo lo spirito maligno fremente scorrazzava.

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Intanto era ormai tempo, che la voce del Governo si facesse sentire imperiosa per infrenare i tumulti e le intemperanze che minacciavano cotidianamente la pubblica tranquillità; massime perché indarno si era gittata la parola di taluni giornali moderati, e dello stesso Prefetto di polizia, che in varii avvisi avea fatto appello all’onore, ed alla temperanza cittadina. Epperò addì 13 Marzo decretava il Re: esser vietata la petizione non esercitata nei modi legali; ove il modo illegale offrisse un reato previsto dalle leggi provvisoriamente in vigore, sarebbe punito ai termini delle medesime dal competente magistrato ordinario, in caso che si effettuisse un attruppamento criminoso, verrebbe dissipato con una triplice intimazione dalle autorità municipali, accompagnate da un uffiziale di Polizia ordinaria o Giudiziaria o di altra truppa, previo il tocco del tamburo, o del suono della tromba; ed ove non si obbedisse impiegherebbesi la forza pubblica.

Nello stesso tempo veniva a luce la legge sulla Guardia Nazionale; e tosto si pose mano ad eseguirla, e a mandare le armi per le provincie; e poco poscia decretavasi lo scioglimento della Gendarmeria Reale, la quale era sopperita da un novello Corpo col titolo di Guardia di Pubblica Sicurezza, composto d’individui distinti per buona condotta, disciplina, e attaccamento ai proprii doveri; furono benanche chiamati a far parte dell’armata quegli Uffiziali che per gli avvenimenti politici del 1820 n’erano stati esclusi.

Inoltre, progredendo sempre nel senso delle costituzionali promesse, il Governo instituiva in Napoli una Commissione intesa a portare esame sulla capacità e sul merito personale di tutt’i funzionarii dell’ordine giudiziario, dal lato scientifico e morale; discendeva a diffinire il termine utile per lo sperimento del ricorso innanzi ai tribunali civili di che parlava l’articolo 17 della Legge Elettorale, non che a stabilire un metodo eccezionale abbreviato per la discussione di tali affari di pubblico interesse;

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In mezzo a tal procedimento tranquillo e leale del Governo arrivavano in mal punto le notizie dell’Austriaco sovvertimento. La imperial Vienna da tumulti e sangue contaminata; l’austriaco impero ridotto in tritumi; l’ultimo spiro di quella gran mole parea giunto. I liberali del nostro regno ormai incuorati da tante e sì rilevanti novità, si abbandonavano a gravi smodatezze. Spargevano più che mai il veleno contra il Governo; moltiplicavano gl’impiegati del loro colore, ormai quasi tutta la potenza morale e materiale dello Stato era in loro pugno, si agitavano pel collegii elettorali, affinché gli uomini i più rischiosi risultassero Deputati; riducevano in frantumi lo stemma austriaco, azione più degna di pazzi o di fanciulli, che di uomini fatti; dirigevano i loro furori contro Bozzelli, prima idolo e poi ludibrio della setta, e avverso a tutto il Ministero, variamente tassandolo; correvano di qua e di là malgrado la legge contro gli attruppamenti, si raccolse una folla innanzi Palazzo gridando si vada in Lombardia, abbasso il Ministero, vogliamo armi e truppa; i quali sensi esposti in una supplica, furono dal Colonnello Pepe presentati al Sovrano, ed acconsentiti; lanciavan parole contro la Truppa e la Guardia Cittadina che si riunivano per impedire i disordini; ripetevano le rimostranze con maggior fervore, e sfrontatezza; una intemperanza partoriva l’altra; sugli eccessi passati gli attuali mirabilmente tallivano. Ahi! trista ed insensata genia, che non sai vivere altramenti fra gli nomini che sgomentandoli con incomportabili sfrenatezze se in libertà, contristandoli con vili lamenti se fra catene!continua……

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa2s/02_Storia_di_Ferdinando_II_Regno_due_Sicilie_1830_1850_libro_I_II_II_Giovanni_Pagano_2011.html#INTEMPERANZE

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