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STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 LIBRO SECONDO (VI)

Posted by on Giu 27, 2024

STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 LIBRO SECONDO (VI)

Dovremmo smettere di definire certi storici “borbonici” e chiamarli semplicemente “preunitari” o “napolitani” nel nostro caso. Non si  capisce per quale motivo il Colletta che non scrive certo un trattato di obiettività scientifica sia considerato uno storico e i napolitani che scrissero al tempo di Ferdinando II siano considerati dei lacchè di regime.

Gli esuli pagati profumatamente in quel di Torino dal conte di Cavour per scrivere le loro ricostruzioni storiche antiborboniche che cos’erano? I depositari  della verità rivelata?

Buona lettura e soffermatevi sul profluvio veramente impressionante di innovazioni normative operate dal Re Ferdinando II

CAPITOLO VI.

IL COMITATO E ‘L PARLAMENTO SICILIANO.

Sommario

Obbietti principali a cui volgon l’animo i Siciliani. Schizzo della Cittadella. Apparecchi degl’insorti. Il General Pronio alle redini di quella guerra, vantaggia le condizioni dei Regii. Combattimenti varii, e segnatamente quelli di Marzo. Il Re affin di cessare il sangue accelera la tregua. Concessioni fatte dal Re ai Siciliani, e portate da Lord Minto in Palermo. Ultimato del Comitato Palermitano al Real Governo. Solenne protesta del Sovrano. Sicilia tutta in delirio. Parlamento Siciliano. Detronizzazione. I Siciliani si adoprano con fervore ma indarno per far riconoscere il loro governo dai Potentati Stranieri.

Le intemperanze ed i furori tenevano nell’anzidetto modo esagitate le terre cisfarane, né quelle di là dal Faro punto risparmiavano, ma a maggiori, più stravolti, e ruinosi accidenti le balestravano: dei quali è ormai tempo, che io, ripigliando il filo delle siculo vicende, narri.

Tre cose principali stavano in cima dei siculi desiderii, cioè l’espugnazione della Cittadella, il riordinamento politico dell’isola, ed il fare riconoscere il loro governo dai Potentati Stranieri. Al conseguimento di tali e sì rilevanti obbietti con molto fervore si comportavano.

Volsero dapprima il pensiero e le forze alla difficile impresa della Cittadella, affine di scacciare da quel forte nido la regia guarnigione, e rendersene padroni; sì per dare alla fin fine ai loro animi la paghezza di non vedere

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ed opportuno a rendere scabroso e lungo il conquisto dell’Isola se in loro potestà fosse. Intorno alla Cittadella dunque i furori della guerra si agglomerarono.

Sorge la Cittadella forte per sito, fortissima per arte, in forma di pentagono regolare, sull’istmo che si protrae nell’interno del porto di Messina, congiungendo il piano di Terranova alla piccola penisola S. Raniera. Cinque bastioni la compongono, nomati S. Stefano, S. Carlo, Norimberga, S. e S. Diego, i quali hanno due cavalieri sormontati dal telegrafo, e dalla bandiera, e sono ricinti da una falsabranca, e quello di S. Carlo alla dritta del fronte di terra è ricoperto da una cotroguardia. Le fossate di questo, e del fronte verso la lanterna son sempre bagnate dal mare che percuote il piede dei rivestimenti. Innanzi al fronte di terra si parano il rivellino di S. Teresa, e le due lunette di S. Teresa e di S. alle quali si comunica mercé ponti di legno. A poca distanza dalla Cittadella si ergono i forti della Lanterna e di S. Salvatore quasi nel lembo dell’istmo mentovatole il bastione D. Blasco sull’estremità meridionale dell’antico muro di cinta della Città e dello spianato di Terranova.

Malgrado sì gagliarda posizione delle regie truppe, i Siciliani, anziché da consideratezza, spinti dalla faciltà con cui si guardano le cose che si vogliono, alla espugnazione della Cittadella cotidianamente, ed accesamente intendevano. Una maniera di semicorona formano le dolci colline cui cui dorso siede Messina le quali par che ricingono la Cittadella. Ora nei punti più culminanti e più opportuni di quelle e della Città ersero man mano fortini e batterie con molti cannoni tolti in parte dalle altre fortezze siciliane, in parte con estrema sagacia e periglio in luogo non molto discosto dalle batterie della stessa Cittadella, ed in parte dalle ubertose fucine di Brettagna. Dirigeva le operazioni espugnataci un Ignazio Ribotti piemontese.

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Ridotta la truppa, sì come si è più innanzi narrato, a poco decorose condizioni, e giuntane la notizia in Napoli, era spedito il prode General Pronio a prendere le redini di quella guerra. Il quale vi giunse ai 23 di febbraio in mezzo al rimbombo delle artiglierie. Rinforzava tosto il presidio con varie compagnie di pionieri zappatori, e di artiglieri; riforniva le provvisioni di guerra, facea che il 5.° reggimento di linea da Catanzaro e Cosenza togliesse i quartieri in Villa S. Giovanni ed in Reggio, e infine dirigeva amorevoli e decorose parole ai Messinesi, affine d’indocilirli, e trarli dalla smarrita via.

Tutto riusciva indarno, e ad altro non intendevano i Siciliani che a preparare e moltiplicare mezzi di offesa. Costruivano una batteria sotto all’antico forte Conzaga per colpire l’interno della Cittadella, e le navi che si avvicinassero; ed un’altra a stanca del Noviziato. Dall’altra parte i Regii occuparono il lazzaretto, e piantarono due batterie allo sbocco della Cittadella, e verso l’avanzata affin di percuotere la porta e il piano di Terranova, smantellarono il muro che era innanzi all’Arsenale di Marina, e dal forte S. Salvatore continuamente sfolgoravano contro le fortificazioni di Re. ai Alto già in potestà degl’insorti.

Intanto nel giorno 25 Febbrajo il Generale riconquistava l’abbandonato ed importante bastione D. Blasco, che giace all’estremo sinistro di Terranova, e per una lunga cortina si unisce alle opere esterne della Cittadella; e munito con cannoni di vario calibro, rafforzato con lavori accessorii sul fronte di attacco, e congiunto all’avanzata, della Piazza con una trincea a denti di sega, alla dritta della quale si elevarono altre due batterie occasionali, si pervenne al dominio dello spianato di Terranova, unico terreno sul quale il nemico potea procedere con linea di approccio ad un regolare investimento; nel tempo istesso si

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Si passava così il tempo fra continui apparecchi e tentativi dall’una e dall’altra parte, ma senza positivi risultamenti, poiché le posizioni della truppa erano per sito, per arte, per coraggio, e previggenza inespugnabili, e dall’altro lato il cannoneggiamento della Cittadella non ad altro era diretto che a impedire o smantellare i lavori di fortificazione, e pure in ciò si andava con poco frutto, perché si accendevano i cannoni soltanto allorché si avea provocazione, e daltronde vi eran molli punti al coperto di cui si piantavano batterie senza che i Regii punto se ne addassero.

Molti furono da ambo le parti gli attacchi, molto il furore, la infelice Messina ne andava tutta a socquadro, e per colmo di sventura era a considerare, che più dei presenti, i tempi avvenire sarebbero per lei funesti! Nello calende di Marzo mentre infieriva il combattimento, un vasto ed orribile incendio divorò i quartieri di Terranova, l’Arsenale e il Porto Franco. La fama, forse non bugiarda, riportava, che il ricco deposito di mercanzie fosse stata esca al disegno dell’arsione, affin di ricuoprire il furto. A noi, dopo occupata Messina, taluni mostravano mercanzie esposte a vendita che si dicevano arse nell’arsione di Porto Franco.

La notte, il tempo cattivo non tratteneva punto né poco le ire. Nella notte del 4 Marzo fra denso bujo, e impetuosa piova, furono assaltate da immensa e furiosa turba le batterie e la trincea di Terranova. Le vigili milizie furore per furore rendendo, frastornarono ogni sforzo.

Nella vegnente aurora si riaccese la guerra più accanita, e nel punto del maggiore impeto, si tentò un assalto del bastione D. Blasco dai giardini sottostanti. Ma alcuni tiri a scheggia distrassero, più che diradarono, la colonna assalitrice. Intanto il maggior furore fu diretto nel

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Il lungo casamento parallelo alla cortina fra S. Carlo e Norimberga, addetto alla dimora degli Uffiziali della Guarnigione, percosso da molte bombe, andava in rottami. Il forte S. Salvatore era grandemente lacerato pei tiri verticali, e pei diretti dalle casematte di Real Alto. Né il forte della Lanterna, separato dalla Cittadella, fu risparmiato. Il presidio combatté al solito da forte, ma ebbe a rimpiangere il Tenente la Bianca, involato da una scheggia mentre incuorava i suoi pionieri al lavoro dei scacchi a terra. Dodici soldati in mezzo a quella ferale tempesta furon morti, e trentadue feriti.

Nel mattino del giorno sette cominciarono a trarre tutte le batterie con indicibil furia, né si tardò a veder divampare la direzione di artiglieria, e poco poscia il padiglione rimpetto alla porta principale; né l’incendio fu ammorzato prima dell’occaso.

Il Re nello scopo di far tosto cessare lo spargimento del sangue facea partire per Messina il Capitano Gagliardi dello Stato Maggiore, ed un Incaricato di Lord Minto, affin di accelerare l’istante della tregua, che era per trattarsi in Palermo dal medesimo Lord. I siciliani man mano consentivano alla sospensione delle ostilità alle quale per altro essi rupper fede in mille modi con visibili e nascosti apparecchi e fortificazioni, che per la generosità dei regii non eran punto impedite. Questa era la tregua dei Vulcani, durante la quale si fa cumulo e lavorìo di novelle materie per risorger con più violenza ed impeto.

Mentre in Messina si passava fra tregue, armamenti, e guerresche fazioni, in Palermo si cozzava indarno con le pretensioni del Comitato. Già per noi fu detto, che la legge costituzionale, malgrado le riserve dell’articolo 87, fu tra le furie della rivoluzione respinta e lacerata; ora il Real Governo nel proponimento di spingere a composi

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Inviato Straordinario dell’Inghilterra per gli Affari d’Italia, che giunse in Palermo, una con il Conte Statella e Perez e Poletti, nella sera del 10 Marzo, latore delle regie concessioni, le quali fra le altre cose importanti portavano. Stanzierebbe in Napoli presso del Re un Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia, quando la real residenza non fosse in Sicilia.

Si convocherebbe il Siciliano Parlamento in Palermo pel 25 di quel Marzo, affin di attagliare ai tempi la costituzione del 12, e vacare a tutti i bisogni della Sicilia; ferma rimanendo la dipendenza di unico Re per la integrità della Monarchia.

Si procederebbe pei 15 alla elezione dei deputati, con norme indicate, non permettendo la urgenza della cosa che si fosse patito indugio.

Parimenti si convocherebbe la Camera dei Pari, determinando talune cose intorno al modo di supplire alle Parie temporali estinte, o spirituali vacanti.

I Parlamenti di Napoli e di Sicilia si porrebbero d’accordo per quel che potea riguardare affari comuni.

Starebbe in Sicilia un Luogotenente Generale scelto o nella Real Famiglia, o fra i personaggi più distinti dell’Isola. Egli per ora avrebbe presso di Lui tre Ministri, addetti ai Dicasteri di Grazia e Giustizia, e degli Affari Ecclesiastici, Interno, e Finanze.

I tre Ministri, riuniti sotto la presidenza del Luogotenente comporrebbero il Consiglio dei Ministri, il quale sarebbe assistito da un Segretario col grado di Direttore di Ministero di Stato, che ne terrebbe il protocollo.

Infine si dava la formula del giuramento, e veniva nominato a Luogotenente Generale D. Ruggiero Settimo, e conferito allo stesso la facoltà di aprire nel Real nome le Camere Legislative, ed erano anche designati i Ministri, ed il Segretario del Consiglio dei Ministri.

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Queste concessioni erano per certo tali che avrebbero dovuto appagare le siciliane brame, ove il fuoco delle passioni fosse ammorzato; ma disconcluso rimanea, o volle rimanere l’onorevole Lord, e dopo fermato un armistizio, in quella che navigava per Messina coll’Ammiraglio Parker, rimettea al napolitano Governo il seguente ultimato da parte del Comitato di Palermo.

Il Re doversi intitolare Re delle Due Sicilie; il Rappresentante del Re sia della Famiglia Reale sia un Siciliano dovere assumere il titolo di Vice-Re, ed esser munito di tutte le facoltà (Alter Ego) che la Costituzione annette al Potere Esecutivo, e legato coi vincoli da quella prescrittigli; doversi conservare gl’impieghi dati, e gli atti emessi da tutti i Comitati; e gli altri impieghi che dipoi accadesse dare dal potere esecutivo stanziante in Palermo, si dessero ai soli Siciliani; l’atto di convocazione del Parlamento reso pubblico dal Comitato, doversi ritenere come parte integrante della Costituzione infìno a che il potere legislativo non avesse adattato ai tempi la costituzione del 12; la istituzione della Guardia Nazionale ritenersi con le riforme che sarebbero per esser volute dal Parlamento; le fortezze fosser tutte sgomberate di Regii fra otto giorni dal concluso accordo, e smantellate in quei punti che si crederebbero; la Sicilia potesse coniar moneta a seconda delle determinazioni del Parlamento; doversi ritenere l’attuale bandiera, e rendere alla Sicilia la quarta parte della flotta, delle armi e degli attrezzi guerreschi esistenti, o l’equivalente in denajo; le spese della guerra fossero rispettivamente compensate, e a carico del napolitano tesoro tutti i danni del porto franco di Messina; i ministri per gli affari siciliani dover dimorare in Sicilia presso il Vice-Re, nessuno in Napoli ed essere responsabili ai termini della Costituzione; si restituisse a Messina il Portofranco, senza limitazione di quello che il Parlamento crederebbe risolvere per altri punti di Sicilia;

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i due parlamenti dover deffinire tutte le materie d’interesse comune ad amendue, le Sicilie; ove sì conchiudesse lega politica o commerciale col rimanente dell’Italia, Sicilia vi fosse rappresentata come ogni altro Stato da persone indicate dal Potere Esecutivo stanziante in Palermo; in fine, l’approvazione delle dette cose fosse data nelle debite forme al Comitato prima dell’apertura del Parlamento, in contrario ogni trattativa s’ intendesse sciolta.

In tanto eccesso di pretenzioni il Ministero si mise nella scabrosa via di trovare un modo qualunque, che aprisse l’adito a consentire. senza offendere la unità e!a integrità della Monarchia; ma il Comitato facea sentire, che l’appartarsi d’una virgola dalle poste cose significasse rottura di ogni trattativa.

Per la qual cosa il Sovrano, dolente della mancata ricomposizione, rimetteala a tempi men crudeli, e pel momento si facea ad emanare un decreto col quale solennemente protestava contro ogni atto che si facesse in Sicilia, il quale non fosse pienamente in conformità ed esecuzione dei decreti portanti le ultime concessioni, e degli Statuti fondamentali, e della Costituzione della Monarchia, dichiarandolo mai sempre illegale, irrito e nullo.

Pubblicato questo atto fra i Siciliani, proruppero al più alto segno le passioni municipali e di giorno in giorno dalla unione delle continentali provincie emancipavano gli animi.1 capi della rivolta ad incuorare i pigri, ed a fermare i volontierosi facevan risuonare l’isola della grandezza dei tempi che furono, degli antichi privilegii, del favore inglese, della simpatia francese, delle rivoluzioni che in tante parti del mondo, e di altre cose ribollivano di simil conio, le quali, pari a tizzi caduti fra infiammabili materie, accrebbero d’un tratto, e largamente il furore. Dovunque si fosse volto il passo, non altro si sarebbe veduto ed udito che sfrenatezze ed improntitudini d’ ogni guisa. Alcuni sgozzati perché creduti realisti; altri in punta degli odii perché moderati; in allo chi più d’insano furore le parole e le azioni infiammasse;

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tutti in armi, dalle terre che fiancheggiano la manica ogni maniera di guerriero arnese veniva; statue mutilate o distrutte, la gradita aura d’indipendenza cominciava a ventare gagliardamente; già il Comitato nominava maestrati, spediva ministri ed ambasciadori appo le nazioni straniere, batteva moneta, imponeva balzelli, levava cerne, ogni altro atto che al Sovrano pertiensi eseguiva; la popolaglia in su; le masse ribollenti, epperò stranezze, contumacia, risse, rapine, uccisioni (1). In un vulcano politico sterminato parea che Sicilia tutta fosse conversa!

In mezzo a tante incomportabilità ed enormezze si avvicinava l’apertura del Siciliano Parlamento. Due grandi sale del Convento di S. di Assisi erano state preparate a tal uopo, compiate le elezioni addì 25 Marzo solenne funzione si eseguiva. Tuonavano le castella, salutando l’alba di quel giorno; un brulicame di popolo inebbriato si agglomerava per le vie principali di Palermo; le logge, i balconi, le finestre gremite tutte di gente, e adorne di arazzi; migliaja e migliaja di bandiere si agitavano per l’aere assordato da grida entusiaste; tutti gli armati schierati lunghesso Toledo dal Palazzo dei Ministri fino al piano di S. Domenico. Un’ora prima del mezzodì il Senato in tutta pompa si recava al tempio di Domenico il Santo, ove già eran convenuti i Pari, i Rappresentanti dei Comuni, il Corpo Consolare, tutti i Forastieri; alle 11 e mezzo cominciò a squillare a distesa il campanile di S. Antonio, ed allora appunto il Comitato si mosse a

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tutto il paese ne andava a rumore. Nella Chiesa stirata d’immensa calca di popolo, dopo celebrata la messa, e data la benedizione, si levò in piedi Ruggiero Settimo, e prese a dire delle passate cose, delle vittorie, della condotta del Comitato, e finiva con proclamare aperto il Siciliano Parlamento. Grandi furono gli evviva, grandissime le feste, estesa la illuminazione, infinite le speranze, tutta Palermo per più giorni ne andò sossopra. Il Duca di Serradifalco fa scelto a Presidente della Camera dei Pari ed il Marchese della Cerda a Vicepresidente; ed in quella de’ Comuni il Marchese di Torrearsa ebbe il primo posto, ed Emerigo Amari il secondo. Inoltre fu messo nelle mani di D. Ruggiero Settimo, già Retro-Ammiraglio, il Potere Esecutivo, sotto il titolo di Presidente; o furono designati a Ministri Mariano Stabile degli Affari Esteri e del Commercio, il Barone Pietro Riso della Guerra e Marina, Michele Amari delle Finanze, Gaetano Pisani del Culto o della Giustizia, Pasquale Calvi dell’Interno e Sicurezza Pubblica, il Principe di Scordia della Istruzione Pubblica e dei Lavori Pubblici.

Sarebbe al certo opera inutile e lunga toccare delle cose fatte dal Siciliano Parlamento, le quali tutte erano conformi alla sbrigliata età. Il suono della indipendenza, gratissimo abantico in quell’isola, cominciava ad echeggiare, tutti i desiderii carezzando, e ad esso aggiungevasene un altro ancor più frenetico, che veniva all’udito dei Siciliani dalla bocca di coloro, che per satisfare alla ruggine forastiera, non ripugnavano di metter mano ad ogni. più scelerata opera. Io intendo parlare della detronizzazione della Borbonica Dinastia dalla Sicilia. Il 15 di Aprile fu lo scandaloso giorno; il Marchese di Torrearsa il primo banditore del decreto; il Ministro Amari il primo a contaminare con tanta eccedenza il giuramento. Corsene la notizia con la rapidità del baleno nella Camera dei Pari, dove la scena fu appuntino ripetuta. Acclamazioni frenetiche, plausi ed altre intemperanze, di quegli uomini e di quei tempi degne, il 13 Aprile vide.

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A tal guisa comportavansi verso Ferdinando II quegli stessi ai quali Egli avea largito ampiamente il beneficio; in grembo a quella medesima città che avea avuto la sorte di vederlo nascere; ed in quella stessa Sicilia, dove non esisteva, dirò zolla che un documento della Ferdinandea munificenza non ricordasse. Non eran forse opera di Ferdinando le vite risparmiate dai meritati patiboli; le pene rattemperate nel rigore della giustizia; le grazie a larga mano concesse, gl’impieghi fra i Siciliani moltiplicati, le scuole nautiche instituite, la marina mercantile promossa e premiata, il commercio favorito, i porti migliorati, i tribunali accresciuti, molte strade aperte o istaurate, o prolungate, gli Ospedali dischiusi, gli Orfanotrofi e gli Ospizii di pietà ampliati o fondati, le vaccinazioni riordinate, i Campisanti fatti, le grandi largizioni dietro le percosse del colera o i danni dei Vulcani e dei tremuoti, l’agricoltura immegliata, le industrie estese, l’incontro di una guerra per sollevare il prezzo del zolfo, le manifatture migliorate, le belle arti progredite, le lettere protette, le università i collegii le scuole perfezionate, le altre innumerevoli migliorie civili delle quali sparsamente si è per noi detto nel precedente libro?… Ma si potean forse ricordare sentimenti di gratitudine fra nomini appo i quali ogni buon sentimento era, non che sopito, spento?…

Intanto i Siciliani volsero tutto il pensiero a fermare le nuove cose, ed a far riconoscere la loro forma governativa dai Potentati Stranieri; e questo intendimento più che gli altri i loro animi tormentava, epperò ninna via pretermisero per conseguire sì rilevante scopo; i funesti Inglesi avean fatto schiudere i loro animi a speranze grandissime, sì con le parole, che coi fatti; ed un argomento lusinghevole se n’ebbero, allorquando l’inglese cannone salutava, sì come a suo luogo sarà detto, con

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Si erano anche i Siciliani accomodati nel pensiero, che le piemontesi falangi si sarebbero calate nei siculi campi per difendere e garentire il Principe che secondo essi, dalla sabauda casa sarebbe venuto a trapiantare una stirpe sulle sponde dell’Orete, né male si sarebbero apposti ove, sì come sarà detto in altra pagina, la Giustizia di quel Trono, e quella delle altre Potenze, non si fossero opposte.

Non si trasandò di spedire Ministri plenipotenziarii; e Agenti diplomatici appo le altre Potenze, e presso lo stesso Congresso per la Lega Italiana; né la temerità di patrocinarsene la causa da uno dei plenipotenziarii della Lega, un de Lieto, innanzi allo stesso Supremo Pontefice il quale per altro non si rattenne dal dannarla, sì prima che dopo le vibrate riflessioni del Principe di Colobrano Ministro Plenipotenziario presso la S. Sede, avverso l’atto siciliano del 13 Aprile il quale interrompeva la parola, e reprimea l’arroganza dell’Oratore che si era traportato fuori dei doveri di Legazione.

Inoltre per trarre nella rete il Romano Gabinetto, intorno al riconoscimento di Sicilia, erasi accortamente ordita una trama nella posta, schiudendo le valigie; e nel tempo stesso il P. Venturi si dava pressa a spedire passaporti, onde esercitando nel fatto il dritto di siculo Plenipotenziario, fosse riconosciuta la sua diplomatica qualità! Ma all’uno ed all’altro scaltrimento dava pronto rimedio il sullodato Principe di Colobrano, il quale aveva avuto l’accorgimento di farsi una particolar polizia, che lo mettea a giorno di ogni cosa.

Nondimeno il P. Venturi non si rimanea dal fare molta calca presso l’Eminentissimo Antonelli, per regolare varii obbietti riguardanti la S. Sede; ma disconcluso restava; perché riguardo alle relazioni religiose venivagli risposto rinvenirsi in Sicilia tutti gli ecclesiastici con mezzi proprii,

non essendovi interdetto;

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rispetto alla vacanza dei Vescovi si procederebbe in appresso, ed in qualunque caso potrebbesi dare l’amministrazione di taluni Sacramenti ai Vescovi in partibus; riguardo alla legazione ecclesiastica, esser questa una prerogativa personale accordata ai Re, e serbarsi Sua Santità di decidere quando ne sarebbe tempo. Non si ebbero miglior fortuna presso le altre Potenze le siciliane pratiche, imperciocché di rilevantissima novità si trattava alla quale non sì facilmente poteasi piegar l’animo senza grave scandalo e gravi mutamenti. Per tal modo rimanean privi di conclusione i Siciliani, ma non di speranze, le quali a lacrimevoli casi gli trassero. continua……

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa2s/02_Storia_di_Ferdinando_II_Regno_due_Sicilie_1830_1850_libro_I_II_II_Giovanni_Pagano_2011.html#COMITATO

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