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STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 LIBRO TERZO (II)

Posted by on Lug 15, 2024

STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 LIBRO TERZO (II)

CAPITOLO II.

INSURREZIONE DI CALABRIA. Sommario

I perturbatori di Montoliveto vanno a trapiantare ingrati semi nelle Calabrie. Cosa facessero i liberali Calabresi dopo conoscimi i cast di Maggio. La rivolta progredisce per lo arrivo di taluni Deputati svignati da Napoli. Giungono in Cosenza Ricciardi e Mileti; l’agitazione al colmo. Istituzione di un Comitato diviso In quattro Dicasteri. Apparecchio di molti armati.

Disposizioni ed intemperanze Varie. Due fatti tragici in Cassano ed in Rossano. Arrivano nelle acque di Paola tre Vapori da guerra, e cosa vi succedesse. Sbarco dei Siciliani in Paola. Si organizza l’esercito Calabro-Siculo ai cenni del Ribotti, e poscia ai prestabiliti disegni s’incammina. Breve descrizione dei luoghi in cui si preparavano le insidie e la pugna. Campotenese è fortificato. Da campo è messo in Spezzano-Albaaese, un altro nei dintorni di Fila del Da. il Governo manda tre colonne sulla ribellata regione.

Taluni di quelli, che avean renduta procellosa l’adunanza di Monteoliveto, nell’agonia della loro fortuna, prima di sciogliersi, distendevano una protesta nella quale formalmente dichiaravano, sospender le sedute Unicamente» perché oppressi dalle regie forze; disgregarsi momentaneamente, per riunirsi di nuovo dove ed appena il tempo e la occasione ne scadrebbe, affin d’intender gli animi a quanto i dritti del popolo, la gravità della situazione, e i principii della conculcata umanità e dignità nazionale richiedessero, e poco appresso lasciata Napoli ancora grondante di cittadino sangue, non domati dai casi infelici toccatigli, né sgomentati dalla energia del governo, caldi di sdegno e di furore, si recavano a trapiantare ingrati semi nelle Calabrie, dove per la natura bellicosa, forte, e risoluta di quelle genti era probabile che potentemente allignassero.

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Né non riflettevano, che le altre provincie non avrebbero

Nei quali concetti male non si sarebbero apposti i liberali, ove la piupparte dei Calabresi non avesse avuto il senno di premunirsi contro i rei disegni; non paventato le tristizie del comunismo che già si era radicato e ingrandito; o non rimembrati i tempi crudeli in cui Calabria fu per civili guerre guasta e addolorata, si che quasi ancora grondan sangue le sue rupi, e i suoi campi di umane ossa biancheggiano. Tutti si levarono in armi, è vero, ma più per tutela delle robe e delle proprie famiglie, che per seguire gli Apostoli del comun bene; se così non fosse stato la vittoria sarebbesi ottenuta fra molto sangue, e tempo più lungo, sol che si consideri la natura forte e contumace di quella gente, e la posizione di quegli alpestri ed inospitali luoghi.

Se non che, un partito al Governo Regio inimico non mancava, il quale avea con associazioni, parole, scritti, lusinghe, minacce, ed altri modi tenuto in agitazione la calabra terra; né avea mancato al debito suo intesi appena i casi del 15 Maggio; ché di repente, proclamata la patria, e le franchigie in periglio, instituiva addì 18 di tal mese un Comitato di salute Pubblica in Cosenza (1) il quale non ritardava punto ad ordinare: che ciascun Comandante della milizia nazionale della provincia approntasse un nerbo di armati atti a marciare per la Capitale ad ogni cenno: che si facesse dai principali possidenti un prestito Volontario opportuno alle necessarie spese,

(1) Atto di accusa, e Decisione per gli avvenimenti politici della Calabria Citeriore, pag. 35 Cosenza 1852.

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di cui si rivalerebbero sui pubblici fondi: che fossero creati dei Commissari civili, i quali tutelando l’ordine, rapporterebbero al Comitato qualunque avvenimento per lo convenevoli provvidenze.

Nel tempo stesso molti altri Comitati andavansi a stabilire in tutti i paesi della provincia, e molte altre cose a fare; sì che sorgevanvi un rumore ed uno scompiglio indicibili, i quali montavano al più alto segno nello arrivo dei Deputati, e di coloro che li avevano convolati. Allora non vi fu né modo né misura, grandemente inacerbirono. Arsione di carte di polizia strappate ai Giudici Regi, illegali imprigionamenti; discorsi ostili al Trono; persecuzione delle più fedeli e commendevoli Autorità; disarmo, e scioglimento della Guardia di pubblica sicurezza, e della forza Doganale, e distribuzione delle di loro armi agl’insorti; pubblicazione di scritti sediziosi; statue regio infrante; gli amici dell’ordine tassati di realismo e nella vita minacciati, proposte frequenti di repubblica; e mille altre intemperanze.

Intanto il Comitato Centrale, cresciuto l’ abbottinamento, era premurato dai buoni Cittadini; perché in carità e tutela della pace comune, arrogesse nel suo grembo altri membri di conosciuta probità, ed alla pubblica tranquillità volgesse tutto l’animo suo. Per tale scopo non si denegavano molti rispettabili Personaggi, ma notata d’illegalità dal Governo quella Consorteria, tutti si ritraevano. Però un novello Comitato era tosto al primo sopperito secondo il desiderio dei Novatori.

Se non che, a sopraggravare quello scompiglio concorrevano eziandio Agitatori forestieri; ché nell’ammutinata Cosenza arrivavano emissari di Basilicata e di altri luoghi, e segnatamente un Pacchione, da Bologna, quel desso che spintosi coi Fratelli Bandiera nelle Calabrie, era

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confinato in Marsiglia, e ritornato in Napoli nel 1848.

Ma il rivolgimento a tal guisa preparato cominciò a prendere consistenza e direzione nei principi di Giugno, poiché giungevano in Cosenza fra smodati applausi un Giuseppe Ricciardi, un Pietro Mileti, ed altri di pari ardore, ma di minor fama; dei quali il primo faceasi tosto ad arringare l’accalcata moltitudine da un balcone del Palagio dell’Intendenza con parole, e nel senso dei tempi che correvano: nell’atto istesso instituiva un governo provvisorio col titolo di Comitato di Pubblica salute, e poscia pubblicava un proclama agli Abitanti del Napoletano, nel quale fra la altre cose diceva: ricordevoli della solenne promessa fatta nella protesta del 15 Maggio intorno al riannodamento dei Deputati, invitare egli tutti i suoi Colleghi, perché nella metà di Giugno si rendessero in Cosenza, onde ripigliare il corso delle deliberazioni. Mandatari della nazione, fare appello alla fede ed allo zelo delle milizie cittadine, affin di sostenere e difendere un’Assemblea che intendeva al comun bene.

Frattanto il Comitato veniva scompartito in quattro Dicasteri, Guerra, cioè, Interno, Giustizia e Finanza; e fu creato un Commessario del Potere Esecutivo. A tal modo la rivoluzione con molto calore avanzava. Ordinavasi la subitanea formazione di due colonne, delle quali una ai cenni di Mileti, occuperebbe le montagne di Paola onde travagliare o impedire qualche sbarco dei Regi, e l’altra comandata da un S. Altimari terrebbe Cosenza, S’instava presso il Commessario del Potere Esecutivo di Messina per lo pronto invio di armi ed armati giusta il concertato. Si prescriveva l’accordo coi Comitati di Potenza, Salerno, e delle altre parti delle Calabrie, nelle quali sorgevano i governi provvisori per opera di un Commessario Ordinatore per ciascun Distretto. Si provvedeva eziandìo perché sì fosse munito il Pizzo, e raccolto un nervo di forze nel Piano della Corona in Provincia di Reggio

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onde agevolare lo sbarco dei Siciliani, altri campi venivano ordinati in Fascaldo, Amantea, Curinga e Spezzano Albanese, non che attivata la organizzazione delle bande armate.

Oltreacciò molte altre cose si metteano ad effetto. Dissuggellati i plichi che venivano da Napoli; riorganizzata la guardia nazionale; tolte le armi a molti soldati infermi; ordinato ai Doganieri di lasciare i fucili in mano della forza cittadina; lanciate minacce e lusinghe perché tosto si pagasse la fondiaria; scosse le borse particolari, e le casse comunali di beneficenza, e le mense vescovili; imposte tasso forzose; stabiliti prestiti, estorte offerte volontarie, e violentemente riscosse; smantellati i telegrafi dell’Intavolata, e di Dino; ordinato un rigoroso cordone lunghesso la spiaggia del paolano distretto affin di stare alla vedetta dei Regi bastimenti; messo in luce un giornale intitolato l’Italiano delle Calabrie, mezzo efficace al divulgamento di menzogne, intemperanze, e di eccedenze grandi; ridotto il prezzo del sale da 8 a 5 grani al rotolo; abolito il giuoco del lotto; nominati impiegati amministrativi, e giudiziari; fatte moltissime altre cose, le quali per colmo di sventura doveano essere da cittadino sangue bruttate.

Ad un sospetto di tradigione una certezza di morte in Cassano succedeva. Liborio Malito, stretto in carcere per supposto realismo, era subillato perché rilevasse il Capo dei realisti, e dopo non guari due accattoni G. de Simone ed A. Praino, creduti spie di questi, erano all’ira pubblica, ed alla morte furiosamente chiamati. Parve, com’era, un’enormità al Regio Giudice di spegnere tre vite per sì inetta cagione, epperò alfine di apportarle salute, ordinava che gl’incolpati fossero tradotti nelle carceri di Castrovillari. Ma al pietoso divisamento, fatto crudele sus

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e allontanatesi alquanto da Cassano, Simone e Praino caddero estinti per le fucilate di quella scorta, a cui erane stata raccomandata la sicurtà. Il solo Malito per le istanze d’un suo parente si sottrasse al supplizio.

Per altri sospetti, altre vittime s’immolavano. L’odio innato ed irreconciliabile dei non possidenti, contro i possidenti spingeva taluni faziosi in Rossano a mulinare l’esterminio di alcune agiate famiglie; né si mancò di trovarne il pretesto nei veleni, di che si buccinarono spargitrici, cagione facile a suggerire, difficile a discuoprire, e quindi opportuna ai disegni, perché fra le ignorante plebi, le ignorate cose han peso di prestigio, e favore di credenza.

Ed ecco negli li Giugno di quell’anno Rossano tutta sossopra, perché un fanciullo con in mano una cartolina dì voluto arsenico, ripetendo le imboccate parole, andava dicendo, averla trovata sotto alle finestre dei Signori Martucci, e poscia, mutato linguaggio, ricevuta da un V. Federico, il quale d’un subito fu stretto nelle carceri, pesto con mille battiture, e notato a morire. In mezzo all’esagitazione dell’animo, lusingandosi di far migliore la sua sorte, asseriva lo sventurato Federico aver ricevuto il veleno da un V. Lazzi e da D. Pipino; i quali benché negativi ed innocenti, e abbenché quegli stesso avesse tale innocenza mostrata, ritrattando le sue assertive, furon dannati a morire come avvelenatori, e quindi senza venire alla ricerca della verità, senza forme giudiziarie, per un solo detto di un ingannato, ed ingannatore fanciullo, rotte le more, caddero estinti i tre sotto i colpi dei preparati archibugi, fuori la città, presente la inorridita popolazione, la quale pur vide i laceri e insanguinati cadaveri per alcun tempo senza sepoltura.

In mezzo a cotanta crudele e rea vicenda di timori, di speranze, di azioni mandavansi a compimento i campi, le fortificazioni, e l’armata; e giungevano nelle acque di

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Uno scompiglio indicibile surse nel paolitano campo; tutti furono in armi, prendendo le più opportune posizioni nei monti e nella marina; tostani avvisi chiamavano in quel minacciato punto dai conterminali paesi aiuto, e rinforzo, e subito le concitate torme d’un animo all’invito si rendeano.

Fra tanto congitamento, nel disegno di spiare le intenzioni e conoscere il numero dei Regi, andavano due parlamentari sui fumiganti navigli, e ad essi il Comandante diceva: avere disbarcati 3 mila uomini nei lidi di Basilicata; sperare e pretendere che gl’insorti cedessero le armi, in contrario bombarderebbe Paola. Al che uno dei parlamentari arditamente rispondeva, che i Calabresi non eran capaci di viltà; che mai essi avrebbero consegnato le armi, se non dopo di avere ciascun cittadino lasciato la vita; che gli abitanti della intera Provincia avrebbero adempito al sacro dovere di dividere le di loro abitazioni coi fratelli Paolani, e che poco temevansi le Milizie in Sapri disbarcate. Se non che, tentatisi a vicenda con tali parole i Regi e i Calabresi, nulla successe di più, perché i Vapori si allontanavano, prendendo l’abrivo di altri punti in cui il Governo volea portare i suoi colpi, e gl’insorti dirigevano le forze in altri punti in cui già l’oste regia accennava.

In frattanto a colmo dei calabresi eventi succedea in Paola lo sbarco dei Siciliani. Dopo la napolitana catastrofe, coloro che avean volto l’animo alla calabrese insurrezione, non avean mancato di adoperarsi appo il Siciliano Governo, affinché con una spedizione armata avesse dato favore ai loro disegni, al che volentieri si condiscendeva; poiché i Siculi non eran cosi gonzi da non vedere, che la loro isola sarebbe sicura sempre e quando una larga sollevazione dei domini continentali premesse il napolitano governo, e le napolitane forze occupasse.

Perlocché, designato Melazzo come luogo di riunio

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In due divisioni veniran partite, e comandate da E. Fardella, e Granmonte, ai cenni del Duce in Capo Ignazio Ribotti, che tenea le redini della messinese guerra. Facevan parte della spedizione G. Longo, e M. delli Franci, che avean disertato dalle reali bandiere fin dal primo uscire della palermitana rivolta, nonché C. Carducci, F. Petruccelli ed altri liberali. I vapori il Vesuvio, ed il Giglio, carichi di tante ire, di tanti sdegni, e di speranze tante, sciolsero nella notte del 13 Giugno da Melazzo abbrivando per a Paola, ma scorto al romper dell’aurora un regio legno, volgean le prue a Stromboli, donde il Giglio, dopo scomparso il napolitano bastimento, ritornava a Milazzo, ed il Vesuvio accennava alle acque di Paola, dove nel mattino del 14 giunse.

Non è a dire come montassero le allegrie, gli evviva, le congratulazioni, le feste, il moto pel sospirato arrivo, corsene tosto la fama, la quale dubbi presentimenti ingenerava, sì che la piupparte dei Calabresi si mise e si tenne in armi per difender le proprie sostanze e le proprie famiglie da quelle torme, che portavano in Calabria gli orrori della loro isola. Pervennero in Cosenza le sicule bande, e qui le grida furon molte, la esagitazione moltissima: qualunque regio segno, zimbello di mille ire; ammattivano i gregari, i capi ammattivano, tutto a rumore ed a socquadro andava.

Il Cosentino Comitato intanto nominava Capo Supremo dell’Esercito Calabro-Siculo il Ribotti, il quale, ordinandolo lo scompartiva in due divisioni, e quattro brigate. Assumeva egli il comando della prima divisione, e quello della seconda a G. Longo conferiva; e preponeva alle quattro brigato Fardella, Landi, Granmonte, e Carducci, ed alle redini dello Stato Maggiore delli Franci.

Ordinate le armi, il Ribotti spingeva le sue genti ai prestabiliti disegni. Una colonna di meglio che 1000

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capitanata da D. Mauro, il quale raunava in consiglio i Capi affin di stabilire, se fosse più conducente aspettare i Regi in Spezzano, occupare lo alture di Tarsia, e combatterli, ovvero gittarsi sui monti dell’appennino, coronare le creste di Campotenese, ed uscirgli alle spalle. Dopo breve discussione si calavano al secondo partito; giacché riflettevano, che chiusa in quel modo ogni ritirata, i regi che già erano in Castrovillari circondati dappertutto, avrebbero dovuto posar le armi o perder la vita; e d’altronde impedivasi il congiungimento delle altre truppe che di già eran partite da Napoli.

Ma prima che io narri le cose successe, uopo è descriver brevemente i luoghi delle insidie e della pugna. Tra il confine di Basilicata ed il principio della Calabria Cosentina profonda e larga si apre la valle di S. Martino, in cui rimugghìan furiose e gonfie le acque nei tempi rotti e piovosi, placide e scarse pei contrari discorrono: un ponte detto del Cornuto si distende sui fianchi di quella,congiungendo la strada regia, che da Napoli fino alla estrema Calabria si protrae: quivi le montagne s’innalzan ripide, aspre, e per lo più di nudi e scheggiati massi di selce composte; elevandosi si stringono in gola, la quale si allarga nell’ampio spianato di Campotenese, dalla forma di ellittico bacino, nei cui dintorni s’innalzan i sassosi greppi; poscia si restringe di bel nuovo terminando nella dirupata di Morano, malagevole ed orrida strada, scavata nel cuore del macigno, che poco men che ripida scende sull’orlo di profondissimo e terribil precipizio. Sul culmine di un pietroso monticello siede la industre Morano, al cui pie indocilità trascorre la regia strada, la quale dopo breve tratto attraversa maestosa la nobile, magnifica, e bella città di Castrovillari. Il monte Pollino per botaniche ricchezze conto, ed altri di minor fama e grandezza, in vario modo si dirompono intorno alla città.

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Progredisce la strada fra montagne e valli, e dolcemente s’innalza sul torreggiante Spezzano-Albanese, che in due partisce, e poscia si fa innanzi serpeggiando nel vallo di Cosenza, che l’appennino a maniera di ampio bacino forma, ed attraversando la cosentina città, che siede regina in mezzo a parecchie centinaia di paesi e borgate che le fan corona, e che variamente posti o nella china, o sui fianchi, o sulla cresta dei monti, o nei piani, o nelle colline, o nelle valli, rendon piacevole e meravigliosa quella regione.

Proseguendo il cammino, la strada s’innalza su monti altissimi, si sprofonda in valli, e su ponti ammirevoli e forti si distende sa grandi e lunghi fiumi. Vicin di Maida, che sarge su di aprico colle a poca distanza dalla consolare, si trova il fiume Amato, il quale ringorgato e minaccioso nel verno, ampiamente si di larga, e precipita lo sue acque sotto ad un lungo e mirabil ponte di frastagliati legni, e ritirandosi nella state lascia un vasto letto ghiadoso e ammelmato, culla di pestilenziali effluvi, e dolcemente scorre. Più innanzi progredendo, a stanca della via regia si veggono Curinga sulla vetta di un’alta collina, Francavilla e Filadelfia su di ameni luoghi. Passato il Pesipe si perviene all’Angitola, grosso fiume, che distende le sue torbide acque su di vasto letto, pien di mota e di ghiare, il quale ristretto alquanto nel luogo dove un solido e maestoso ponte di fabbrica su di vari archi congiunge i fianchi degli opposti colli, si allarga ampiamente nello avvicinarsi al lido. A poche miglia è il Pizzo sul mare, e alquanto più oltre sur una collina Monteleone.

Era mente degl’insorti di opporsi in tutti i luoghi alle armi regie; epperò secondo la stabilita determinazione, il Mauro poneasi in movimento, condocea le sue genti per Firmo e Lungro, con le quali coronava le forti creste di Campotenese, rendendole fortissime con ogni maniera di mezzi, cannoni, barricate, parapetti, e simili,

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Nel tempo medesimo S. Altimari ponea un campo fra Tarsia e Spezzano-Albancse, rimasti sguerniti, il quale non guari dopo veniva ingrossato dalle siciliane e da altre calabresi bande, ed era oltremodo opportuno; poiché minacciava i regi di Castrovillari, ove si muovessero contro Campotenese, e posto quasi nel centro dei minacciati luoghi potea accorrer dove meglio la bisogna ne scadesse.

Dall’altro lato altri armati teneano il campo in Filadelfia e Maida, affine di voltarsi contro i regi che di certo sarebbero sbarcati al Pizzo, ed avrebbero accennato nella provincia di Cosenza, dove più la ribellione scorrazzava.

Il napolitano Governo non si era rimasto freddo spettatore della calabrese conflagrazione; ma tutti i mezzi avea preparato che riuscissero a comprimerla; acciocché non mettesse radici, né si allargasse ai danni del Trono e della Società. Quindi tre Generali con tre armate nella scommossa regione spediva.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa2s/03_Storia_di_Ferdinando_II_Regno_due_Sicilie_1830_1850_libro_I_II_II_Giovanni_Pagano_2011.html#INSURREZIONE

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