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STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 LIBRO TERZO (VII)

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STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 LIBRO TERZO (VII)

CAPITOLO VII.

IL PONTEFICE PIO IX A GAETA.

Sommario

Duri casi d’Italia, e segnatamente di Roma. Assassinio del Conte Rossi. Gravi circostanze di Pio IX, il quale protesta innanzi al Corpo Diplomatico, e dopo non guari abbandona celatamente la sconvolta Città, e ripara in Gaeta. Cenno descrittivo e storico di Gaeta. Il religioso Ferdinando II, conosciuto appena l’arrivo del Pontefice, corre a prestargli omaggio, e fa provvedere di ogni maniera di comunodità la pontificia dimora. Pio IX con ineffabile bontà accoglie tutti. Memorabili parole dette al Ministero di Stato, e al Consiglio di Stato Napoletani. Ricordevole preghiera indritta all’Altissimo. Interpetrazioni maligne della pontificia fuga. Pietoso desiderio di varie nazioni. Il Pontefice pubblica una protesta contro i suoi sudditi ribelli, e nomina una Commissione Governativa. Fraudolento invito dei Romani. Seconda protesta del S. Padre. Sorge la Costituente in Roma, Pio IX protesta, ella va innanzi e dichiara decaduto il Papato. Solenne protesta orale del Sommo Pontefice; e richiesta di un intervento armato per domare la ribelle Consorteria. Arrivo di Leopoldo II a Gaeta.

Nel torno dei tempi in cui sì rilevanti fatti compievansi nella sventurata Messina, altri avvenimenti notabili in altre parti d’Italia si svolgevano. La italica stella che avea brillato nei campi delle Grazie, di Goito e di Pastrengo, ormai andavasi ad ecclissare, sobbalzando di precipizio in precipizio. Palmanova pei Tedeschi espugnata; Udine senza contrasto resa; vittorie alemanne in Villafranca; Milano e Modena perdute; Re Carlo Alberto fra le sventure dei campi, e la persecuzione dei liberali arrandellato; l’edilìzio delle novità barcollante; ogni cosa in rovina; dal che derivava, che i novatori via maggiormente innacerbivano,

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ed in ogni maniera di smodatezze uscivano, cosicché varie città della contristata Italia divenner focolai di pratiche e di progetti volti a quello scopo che ormai

Pertanto in Roma più che altrove l’incendio infieriva; sì che Pio IX a cessare il minaccevol nembo, si sgombrava del Ministero Mamiani, che sentiva grandemente dei tempi torbidi in cui nacque, e collocava nella sedia ministeriale il Conte Pellegrino Rossi, già chiaro nel mondo politico e scientifico per sensi moderati, pensamenti profondi, ed odio alle sfrenate libertà. Si mise il Conte nel difficile aringo, ma la tempesta nei suoi orribili gironi lo travolse. Nel dì 15 Novembre, quando appunto egli recavasi, repugnanti gli amici suoi, all’apertura delle Camere romane, morì di pugnale, che segogli la gola nell’atto che ascendeva le scale. Questo estremo eccesso di delitto, il quale in documento della stravolta età riscosse anche approvazione ed entusiasmo pel novello Bruto, destò grave impressione per tutto il mondo incivilito, e più grave apprensione a coloro che tenean le redini governative, sì che l’un dopo l’altro il contaminato Vaticano abbandonavano.

Lo stesso Pontefice per tante stemperatezze addolorato ed intristito fra gravi perigli versava; poiché nella dimane, tenutosi fermo alle stravolte pretensioni de’ novatori, tutti i sette colli furon di rumori pieni; e la stessa pontificia dimora fra mille pericoli involta. Urti orrendi all’uscio maggiore di essa, diretti a scardinarlo; grida furibonde e confuse; drappelli accigliati ronzanti d’ogn’intorno; estrema confusione nel palazzo del Quirinale;

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sassate contra le finestre; l’uscio del palagio che prospetta Porta Pia in fiamme, spente poscia dai Pompieri;

la frattanto nella sera del 16 Novembre il Circolo Popolare Nazionale pubblicava un programma, nel quale fra le altre cose era detto, che assumeva esso «l’imponente responsabilità di dare le opportune disposizioni provvisorie per assicurare le vite, l’onore, le sostanze dei Romani, e per cercare di stabilire l’ordine, e ciò finché non si sarà costituito un governo. Si fa noto perciò al popolo, che il centro delle operazioni è posto nella Sala del Circolo Popolare, e sono invitati i buoni cittadini a rispettare per ora le disposizioni che emaneranno da questo centro come quello che rappresenta la vera e assoluta volontà del Popolo».Dopo ciò il Circolo si ponea a diramare moltissime disposizioni; e i nuovi ministri, assunti appena al potere, Sguernivano di guardie svizzere il Vaticano, il Quirinale, e il Monte di Pietà, sopperendovi la Guardia Nazionale; e poscia comportandosi con più fervore nella via di spodestare della temporale potenza il Papa, e d’impastoiarne la volontà, e farla servire di strumento alle proprie voglie, si facevano a disertare la pontificia magione di tutte le persone di Corte;

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per la qual cosa il gran Pio spinto a crudele emergenza, convocato intorno di se il corpo diplomatico, così andava sponendo.

lo sono, o signori, come consegnato, li i voluto togliermi la mia guardia, mi circondano altre persone; il criterio della mia condotta in questo momento che ogni appoggio mi mancasta nel principio di evitare ad ogni costo che sia versato sangue fraterno. A questo principio cedo tuttoma sappiano lor signori, e sappia l’Europa ed il mondo, che io non prendo nemmeno di nome parte alcuna agli alti del nuovo governo, al quale io mi riguardo estraneo affatto. O’ per tanto vietato, che si abusi del mio nome, e voglio che non si adoprino neppure le solite formale.

Intanto le ire cotidianamente s’ingrossavano, ed era a temere che alcuna disavventura non soprastasse alla sacra persona del Sommo Pio, ove si fosse negato a firmare atti, i quali doveano essere per tutti un comando, per Lui una crudele servitù. I Rappresentanti delle nazioni estere vedean chiaro la deplorabile condizione del S. Padre, e che le pretensioni non si sarebbero sostate; epperò si venne in sul progetto, particolarmente dai Ministri di Francia, e di Baviera, di porre in salvo il Pontefice facendolo allontanare da Roma. Ottimo era il disegno, pericoloso l’eseguirlo; ma Cristo vegliava sul suo Vicario.

Però era titubante il Sommo Pontefice intorno alla progettata partenza, quando gli pervenne un involto suggellato da parte del Vescovo di Valenza, il quale conteneva una pisside di argento per. riporvi delle ostie consagrate, per dar vigore e conforto ne 11′ ora del pericolo, e il viatico in quella della morte; preziosa e dolce suppellettile che portava sospesa al collo il buon Pio VI nel tempo delle sue sventure, e che lasciava in Valenza con la sua addolorata vita. A quell’arrivo, il IX Pio scosso come da soprannaturale influsso, sgomberò i dubbi e si decise a lasciare la ingrata e perigliosa Roma.

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Poiché i Nazionali stavano a guardia del pontificio

(1) «Al Marchese Girolamo Sacchetti Conterò Maggiore di Sua Santità. Affidiamo alla sua nota prudenza ed onestà di prevenire della nostra partenza il Ministro Galletti, impegnandolo con tutti gli altri Ministri non tanto per premunire i palazzi, ma molto più le persone addette a lei stessa, che ignorano totalmente la nostra risoluzione. Che tanto ci è a cuore e lei e i famigliari perché ignari tatti del nostro pensiero, molto più ci è a cuore raccomandare a detti Signori la quiete, e l’ordine della intera città. 25 Novembre 1843. P. PP. IX».

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Legazione Spagnuola presso la S. Sedo; e dopo non lungo riposo si condussero tutti a Gaeta, eccetto il Conte Spaur, il quale proseguì il viaggio per a Napoli.

Ma prima che io narri le cose principali occorse in Gaeta per cosiffatto avvenimento, non sarà fuor di proposito un cenno descrittivo e storico di questa città. Sorge dal grembo delle tirreno acque nel golfo di Gaeta un monte irregolarmente ovale che prospetta le torbide foci del Garigliano, e le amene montagne di Castellona e d’Itri, con le quali comunica per mezzo di una pianura ineguale, che restringendosi man mano fra le sponde dell’istimo, va a riunirsi in angustissimo punto con la scoscesa e rotta pendice di quello. Corre il monte in varia conformazione, inclinando variamente dal lato di terra, precipitandosi a picco dall’opposto; nel quale è ammirevole la così detta montagna spaccata, poiché dal più alto comignolo della gaetana regione fino al più profondo delle acque il monte è spaccato in parti disuguali, presentando le sue viscere calcaree giallognole rigate qui e colà di vene bianche. Se a te venisse pensiero di dubitare della prisca unità del monte, ben presto ti sgannerebbe l’aspetto delle due interne superficie; imperciocché in una di esse osserveresti solchi di varia e bizzarra direzione, fovee, cavernette, grandi cavità, e Dell’altra rilievi, sporgenze, rialti, e grandi masse corrispondenti esattamente a quelle; di tal che se possibil fosse di combaciare le divise parti, avverrebbe che ogni prominenza s’innicebierebbe nella sua cavità: solo un masso ne mancherebbe, poiché nel violento slogarsi del monte si distaccò, e cadde in mezzo alla gran crepacela, rimanendovi incuneato. Su di esso la pietà, che si piace di luoghi solinghi, erse una malinconica chiesina, dalla cui finestra si smarrisce l’occhio in un profondissimo precipizio, nel quale cupamente mugghia il sottostante fiotto. Una scala di fabbrica comunica la cappella col monistero della Trinità,

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dal quale lo sguardo si spazia in panorami sva

Gli edifizi di Gaeta stanno sul declivio del monte che prospetta la terra, epperò la città si allarga come in anfiteatro. Consimile andamento serban le mura della fortezza; epperò si sprolungano a serra ed a scaglione, formando bastioni, cortine, angoli sporgenti, o entranti, e il mare qui e colà ne batte il piede. Dalla fronte di terra una seconda cinta si distende innanzi alla prima; e per fossi, cammini coperti, varie piazze d’armi, solide porte, e ponti mobili, la turrita città si rende forte e munita; solo in duo parti non son difficili le rovine, nella cittadella cioè, e nel bastione della breccia, che ha nome dalle sue catastrofi. l’arte dai descritti lati rende forte Gaeta, la natura dall’altro; poiché orrendi e ripidi precipizi di dura selce solcata dall’impeto dei flutti, lo rendono inaccessibile.

Antichissima città è Gaeta, e per molti capi nota. Intorno alla origine dal suo nome Strabone, Diodoro Siculo, Virgilio, ed altri variamente tengono. l’Arpinate si ebbe villa e tomba nella prossimana Formia,dopo la cui distruzione, fatta dai Saraceni nell’856, Gaeta crebbe di popolo, e di estenzione. Nei gaetani dintorni furon le ville di Tiberio Imperatore, di Faustina moglie di Marco Aurelio, e di Antonino Pio. Sul culmine dei monte s’innalza la Torre di Orlando, edificata 16 anni avanti Cristo, e creduta un mausoleo di Lucio Manuzio Planco, in cui erano l’arco trionfale di Sempronio Atracino, il tempio di Serapide, del dio Api, e di Giano, e fra le altre cose un vaso di marmo scolpito dal celebre Sai pione Ateniese, oggi consegrato ad uso di fonte battesimale nella Cattedrale.

Fu soggetta al dominio de’ Longobardi; dei Greci; della S. Sede; di Guaimaro Principe di Salerno; di Riccardo

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che s’intitolò duca di Gaeta; dell’Imperatore Federico II, che v’innalzò un castello, espugnato, e poscia rilasciato dalle truppe di Gregorio IX.; di Giacomo d’Aragona che l’assediò nel 1289; di Isabella, moglie di Renato d’Angiò Conte di Provenza; di Ferdinando il Cattolico, che la ricuperò per lo valore del Gran Capitano Consalvo di Cordova, e la ricinse di nuove mura, e fortificò il castello già edificato per Alfonso nel 1140. Ugo di Moncada, Viceré di Napoli nella venuta di Lautreck la munì, e Carlo V, faceala circondare di forti muraglie fin sotto la chiesa della Trinità, e guernire un’ altro grosso castello vicino all’antico; Carlo III Borbone nel 1736 vi fece costruire un comodo quartiere.

La poderosa flotta di Barbarossa nel 1534, allorché appunto si sprolungava sui lidi della trepidante Italia, approdò con universale terrore nel gaetano porto. Il Duca di Guisa rimase captivo nel castello, donde fu convogliato a Spagna. Nel 1707 Gaeta fu presa pei Tedeschi; che la cederono nel 1734, dopo non breve né inglorioso assedio, alle armi di Carlo III, il quale quattro anni dopo vi ritornava, conducendovi dai confini del regno la sua consorte Maria Amalia Walburg, la quale vi tolse dimora come in sicuro asilo nel 1744, quando Carlo si condusse a pugnare e vincere in Velletri, e vi partori una bambina nel dì 16 Luglio di quell’anno.

Gaeta cedè in sul tramonto del passato secolo al General Bey, che conduceva le francesi legioni al conquisto di Napoli; ritornava al legittimo Re poco poscia; e nel Luglio del 1806, dopo valorosa difesa sostenuta dal prode Principe Philipstadt, che vi fu mortalmente ferito, si arrese ormai lacera e stremata di viveri, al Maresciallo Massena, che veniva ad usurpare il regno per Giuseppe Bonaparte; infino nel 1815, dopo spente le aquile francesi nei campi di Waterloo, svendolandovì anco

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Ebbe Gaeta il vescovato nel IX secolo, e in varii tempi uomini insigni, e non pochi privilegii.

In questa cotanto celebrata rocca riparava il nono Pio,ma non fu egli il primo Pontefice che Gaeta vedesse,imperciocché avea di già veduto Papa Costantino IV, eletto nel 708; non però di meno assai diversa dall’antico fu la dimora dell’attuai Pontefice, della quale riprendo ormai la narrazione.

Il Conte Spaor, giunto in Napoli nella notte del 25, condotto subito nella Reggia dal Nunzio Apostolico Monsignor Garibaldi, presentava al Re una lettera autografa dell’esule Pontefice, nella quale, manifestava il suo arrivo, e chiedeva ospitalità pel Capo dell’Orbe Cattolico. Il religioso Monarca, letta appena la lettera, sentì giubilo e maraviglia insieme, e con una premura grande pari alla sua gran pietà, diede ordini opportuni e solleciti per tutto ciò che potesse render comoda ed onorata la gaetana stanza al Pontefice; e nel cadere di quella stessa notte abrivarono da Napoli per Gaeta il Tancredi e il Roberto, fregate a vapore, portanti il Re la Regina, i Conti di Aquila e di Trapani, l’Infante D. Sebastiano, con conveniente seguito, e due battaglioni di milizie addette alla guardia ed al servigio dell’eccelso Ospite.

All’arrivo dei Reali in Gaeta, stava tuttavia incognito il sommo Pio nella locanda del Giardinetto, ma tosto passava al regio palazzo, dove gli Augusti Sovrani, e i Beali Principi, con meraviglia, piacere, e divozione indicibili andavano a baciargli il sacro piede; ed il Pontefice era lieto di accogliere fra le Sua braccia il discendente di S. Luigi: poscia erano ammessi a quell’onore il seguito e gli Ufficiali accennati, ai quali con ineffabile bontà disse, voi fate parteo signori, di

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Intanto divulgato il sorprendente fatto dello arrivo, accorrevano alla fortunata Gaeta da ogni parte regnicoli e stranieri; e fra questi oltre a tanti Personaggi Romani, conti per grado o per sangue, o per sapienza, notavami il fratello del Papa Conte Gabriele Mastai, ed il suo figliuolo Conte Luigi. Tutti i più illustri personaggi napolitani, Cardinali, Prelati, Generali, Magistrati, Ministri, Principi, Duchi, Marchesi, ed anche particolari givano a prestare i debiti omaggi al Principe Supremo della Cristianità, e tolti ringraziavano Iddio di averlo sottratto sano e salvo dalle infernali bolge della romana demagogia; ed Egli con viso benigno, e pronta mano tutti accoglieva e benediva di cuore, e memorabili detti o discorsi facea. Al nostro Ministero di Stato così parlava «Signori. I Principi han fatto quel che potevano per l’utilità dei popoli; ma parte di essi, non contenti, si sono dati a pretendere cose ingiuste. Innalzo fervide preghiere all’altissimo perché gl’illumini; ma molti sventuratamente ad ogni raggio di lume han chiuso gli occhi. Segnate figliuoli miei questo giorno! La Chiesa da me Vicario di Cristo indegnamente rappresentata, si vede nelle ore della tempesta, quando, come al presente, è perseguitata dai nemici di Dio. Questi avvenimenti vi confermino nella fede, ed accrescano le vostre forze per sostenerla. Segnate figliuoli miei questo giorno, segnate.»

Al Consiglio di Stato diceva. «Ci è molto grato ricevere un atto di affettuosa divozione del Consiglio di Stato Napoletano, di questo Regno che in Italia presenta ancora l’esempio dell’ordine e della legalità, due cose che sono, per così dire, e van sempre congiunte.

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Io prego Iddio che, in mezzo a tanta effervescenza di passioni, vi si conservino, mediante il Divino suo aiuto; senza del quale vane sarebbero le speranze. Benediciamo con tutta l’effusione del cuore i componenti del Consiglio di stato, secondo ci pregano. Possano così assistere continuamente, con alacrità e coraggio, un Re buono e pio, il quale mostrasi tanto pieno di zelo per il meglio di questo paese. Qui noi riceviamo ora ospitalità, prevenuti in ogni Nostro desiderio, e quando era alieno da’ Nostri pensieri di abbisognare. E ora sfrenate passioni, commosse e attizzate da’ tristi, sconvolgono Italia tutta; né può dirsi qual termine sia proposto a cosi reo sconvolgimento. É vero che nella bocca di molti è la parola indipendenza; ma fossero pur dieci milioni desiderosi di ciò, e potessimo qui interrogarli, noi senza dubbio ritroveremmo, che neppur due sono insieme di accordo su’ mezzi convenevoli a siffatto scopo. Noi vediamo l’Italia somigliante a un infermo, oppresso da fiera febbre, che rivolgesi da un lato all’altro, bramoso di un sollievo che non ritrova: Iddio solo può largire nella sua clemenza il rimedio a tanto male; e Noi umilmente lo preghiamo che diradi le tenebre le quali ora ingombrano gli uomini, e indirizzi tutti nella sua luce.»

» Voi vi occupate presentemente, Noi pensiamo, in apparecchiar nuove leggi, le quali vogliamo sperare sieno per ritornar profittevoli a queste buone popolazioni. Ma già di buone leggi Noi vediamo che il Regno abbonda; e ci sarebbe solo bisogno, col Divino aiuto, della loro esatta esecuzione. Prudenti modificazioni qui richieggono i tempi, non grandi riforme legislative.»

Nel mattino del 28 si portava il Pontefice nel Santuario della Trinità, nel quale volle Egli medesimo impartire la benedizione col Santissimo Sagramento; ma innanzi tratto, genuflesso ai piedi dell’altare, spinto da sacro fervore, con voce commossa, indrizzava all’Ente

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la seguente prece in mezzo alla sentila commozione dei Reali, e di quanti altri erano in quel tempio raccolti.

» Eterno Iddio, mio Augusto Padrone e Signore, ecco ai vostri piedi il vostro Vicario abbenché indegno, che vi supplica con tutto il cuore a versare sopra di lui, dall’altezza del trono Eterno nel quale sedete, la vostra Benedizione. Dirigete, o mio Dio, i suoi passi; santificate le sue intenzioni; reggete la sua mente, governate le sue operazioni, e qui, dove voi nelle vie mirabili lo conduceste, e in qualunque altra parte dovesse egli trovarsi del vostro ovile, possa essere degno istrumento della vostra gloria, e di quella della Chiesa vostra, presa, ahi troppo! di mira dai vostri nemici. Se a placare il vostro sdegno, giustamente mosso da tante indegnità che si commettono colla voce, colle stampe, e colle azioni, può essere un olocausto gradito al vostro cuore la stessa sua vita, egli fino da questo momento ve la consagra. Voi concedeste a lui questa vita, e Voi, Voi solo siete nel dritto di toglierla quando vi piaccia. Ma deh! o mio Dio, trionfi la vostra gloria, trionfi la vostra Chiesa. Confermate i buoni, sostenete i deboli, e scuotete col braccio della vostra Onnipotenza tutti coloro che giacciono fra le ombre di morte.»

» Benedite, o Signore, il Sovrano che vi sta qui innanzi prostrato, benedite la sua Compagna e Famiglia. Benedite tutti i sudditi suoi, e la sua onorata e fedele Milizia. Benedite coi Cardinali tutto l’Episcopato ed il Clero; affinché tutti compiano nelle vie soavi della vostra legge l’opera salutare della santificazione de’ popoli. Con questo sperar potremo esser salvi non solo qui, nel pellegrinaggio mortale, dalle insidie degli empì, e dai lacci dei peccatori, ma speriamo altresì di poter mettere il piede nel luogo della eterna sicurezza, ut hic et in aeternum, Te. auxiliante, salvi et liberi esse mereamur.»

Intanto la venata del Sommo pio nelle napolitani regioni era variamente interpetrata dagli nomini.

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I Romani appresero estatici l’assedia del loro Principe; non però si trassero dal baratro in cui erano traboccati, anzi ria maggiormente vi si sprofondarono; e intanto non si rimaneano di sparger la voce che la pontificia fuga fosse un colpo di Stato, e che Gaeta fosse la S. Elena di Pio IX; al che mirabilmente i settari. del nostro paese facean eco; imperciocché in sull’aurora dei 4 dicembre fu rinvenuta per le cantonate di Napoli una infame scritta, nella quale, a documento delle malvage menti, dalle quali emanava, asserivasi, fra le altre cose, che la fuga del Pontefice fu il frutto di concerto del Re coi Cardinali, i quali lo aveano spaventato, ingannato, raggirato, e che «saputo l’arrivo del Papa, Ferdinando vi manda i soldati, e va egli stesso per vedere la sua vittima, e non lo farà uscire da Gaeta se non, o quando è morto, o avrà fatto quello che egli vuole: poscia aggiungevasi «Povero Pio IX tradito, carcerato! Popolo delle Due Sicilie correte tutti in Napoli a liberare il Vicario di Gesù Cristo ed uccidere il traditore con tutti i suoi Ministri e compagni. Molte furono lo osservazioni che si fecero contro questo scritto,, onde preservare gl’ignoranti dalla peste delle false credenze; ma più eloquente di tutti gli argomenti fu lo spontaneo procedere del popolo, il quale appena seppe cosa contenesse immantinenti lo strappava con isdegno dalle mura, e lo facea in pezzi. Dir verbo adesso sulla malignità di quelle parole, sarebbe veramente opera sprecata, dopo i fatti che si compierono.

Ben diversamente operavasi in tutto il resto del Mondo Cattolico; poiché da tutti i punti uscivan segni e parole di profondo cordoglio, di affettuosa carità, e di generose offerte verso il Sommo Esule. Venite, dicevano gli Spagnuoli, venite o Sacro Fuggitivo nella patria dei Pelagi.… voi troverete la fede ardente. Il più miserabile, il più

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In frattanto il Santo Padre sciolto ormai dai legami che teneano arrandellata la sua mente, pubblicava ai 27 Novembre la seguente protesta avverso gli atti del romano governo.

» Le violenze usate contro di Noi nei scorsi giorni, e le manifestate volontà di prorompere in altre, che Iddio tenga lontane, Ci anno costretto a separarci temporaneamente dai Nostri sudditi e figli, che abbiamo sempre amato ed amiamo».

» Fra le cause che ci ànno indotto a questo passo, Dio sa quanto doloroso al Nostro cuore, una di grandissima importanza è quella, di avere la piena libertà nell’esercizio della suprema potestà della Santa Sede, qual esercizio potrebbe con fondamento dubitare l’orbe cattolico, che nelle attuali circostanze ci venisse impedito. Che se una tale violenza è oggetto per Noi di grande amarezza questa si accresce a dismisura ripensando alla macchia d’ingratitudine contratta da una classe di uomini perversi al cospetto dell’Europa e del mondo, e molto più a quella che nelle anime loro à impresso Io sdegno di Dio, che presto o tardi rende efficaci le pene stabilite dalla sua Chiesa».

» Nella ingratitudine dei figli riconosciamo la mano del Signore che Ci percuote, il quale vuole soddisfazione de’ Nostri peccati, e di quelli dei popoli; ma senza tra

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Noi non ci possiamo astenere dal protestare solennemente al cospetto di tutti (come nella stessa sera funesta de’ 16 Novembre, e nella mattina del 17 protestammo verbalmente avanti al corpo diplomatico, che ci faceva onorevole corona, e tanto giovò a confortare il Nostro cuore) che Noi avevamo ricevuto una violenza inaudita e sacrilega. La quale protesta intendiamo di ripetere solennemente in questa circostanza, di aver cioè soggiaciuto alla violenza, e perciò dichiariamo tutti gli atti che sono da quella derivati di nessun vigore, e di nessuna legalità».

» Le dure verità e le proteste ora esposte ci sono state strappate dal labbro dalla malizia degli uomini, e dalla nostra coscienza, la quale nelle circostanze presenti, ci ha con forza stimolato all’esercizio de’ Nostri doveri. Tuttavia Noi confidiamo, che non ci sarà vietato innanzi al cospetto di Dio, mentre lo invitiamo e lo supplichiamo a placare il suo sdegno, di cominciare la nostra preghiera colle parole di un santo re e profeta: memento Domine David et omnis mansuetudinis eius».

Terminava Sua Santità raccomandando ai suoi sudditi che stessero tranquilli, e che volgesser preci all’Altissimo, per allontanare dalla inclita città i suoi flagelli. Intanto perché la cosa pubblica non rimanesse senza governo, si facea a nominare una Commissione Governativa, preseduta dal Cardinale Castracane, al quale con lettera autografa dava opportune disposizioni prescrivendo, che si. prorogassero i due Consigli, né si riunissero senza ordine sovrano; che la Commissione potesse deliberare in tutti gli affari dello Stato; che le nomine ai pubblici uffici dovessero essere provvisorie, e abbisognassero della sovrana sanzione quando Egli sarebbe ritornato nei suoi domini. Molte altre cose facea il S. Padre intese a ricondurre l’ordine e la legalità nella disordinata Roma; ma le sue benigne parole eran come la semenza del Vangelo

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beccata dai rapaci stormi, appena seminata; poiché la Casta sovvertitrice un solo istante non preteriva, e sfrontatamente assicurava al romano popolo, che esse eran false, non autentiche, né legali; perché il Papa era prigioniero in Gaeta fra gli artigli della Diplomazia, e intanto non ad altro mirava che a cessare o ammansire in vario modo la indegnazione suscitata in tutto l’orbe cattolico per la sacrilega condotta verso dell’Augusto Pontefice, epperò andava asserendo le più stravolte menzogne, e più che ogn’altra cosa ribadiva sempre che il Papa in Gaeta era captivo, che i suoi atti eran comandati, e impietosendo sul suo Martire, volle mostrare che Roma tuttavia desiderava avere ira le sue mura il suo Principe; epperò faceasi a spedire Deputazioni le quali con tre lettere del Municipio, dell’alto Consiglio, e del Consiglio dei Deputati, pregavano Sua Santità a voler ritornare in Roma, e si dolevano di essere trattenute sul confine napolitano. Facea rispondere il Pontefice esser note le cause principali che lo avevano spinto fuori dei suoi domini, e che era dolente perciò di non poterle ammettere alla sua presenza. Sarebbe stata stoltezza rendersi all’invito in una regione tuttavia scommossa dai saturnali della demagogia, per ritornare nello esizial piede dei 16 Novembre, essendo tuttora stillante dell’innocente sangue di Rossi l’infame ferro. La contumacia e le intemperanze ebbero in Roma gli stessi frutti degli altri luoghi, ossia il totale scrollamento del reo edificio.

Intanto il Santo Pontefice frustrato nella sua aspettazione, e conosciute le ulteriori stemperatezze di cui la sua Roma era ostello, pubblicava una seconda protesta ai 17 Dicembre del seguente tenore.

» Per divina misericordia ed in un modo quasi mirabile assunti noi, sebbene immeritevoli al Sommo Pontificato, una delle nostre prime cure fu quella di promuovere l’unione fra i sudditi dello Stato temporale del la Chiesa,

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di rassodare la pace fra le famiglie, di benefi

» Rifugge il nostro animo dal dover qui lamentare particolarmente gli ultimi avvenimenti, incominciando dal giorno 15 del passato novembre, in cui un Ministro di nostra fiducia fu barbaramente ucciso in pieno merigio dalla mano dell’assassino, e più barbaramente ancora venne quella mano applaudita da una classe di forsennati, nemici di Dio e degli uomini, della Chiesa non meno che di ogni onesta politica istituzione. Questo primo delitto aprì la serie degli altri che con sacrilega sfrontatezza si commisero nel giorno seguente: e poiché questi hanno già incontrato l’esecrazione di quanti sono gli animi onesti nel nostro Stato, nell’Italia, nell’Europa, e la incontreranno nelle altre parti del mondo, così noi risparmiamo al nostro cuore l’enorme dolore di qui ripeterli. Fummo costretti di sottrarci dal luogo ove furono commessi, da quel luogo ove la violenza e impediva di arrecarvi il rimedio, ridotti solo a lagrimar coi buoni e

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ai quali il più tristo ancora si aggiungera di vedere isterilito ogni atto di giustizia contro gli autori degli abominevoli delitti. La Provvidenza ci condusse in questa città di Gaeta, ove trovandoci nella nostra piena libertà, furono da noi contro i suddetti violenti attentati solennemente ripetute le proteste, che in Roma stessa, fin da principio avevamo già fatto innanzi ai rappresentanti, presso di noi accreditati, delle Corti di Europa e di altre lontane nazioni. Nello stesso atto non tralasciammo di dare temporaneamente ai nostri Stati legittima Rappresentanza Governativa, senza derogar alle istituzioni da Noi fatte, affinché nella Capitale e nello Stato rimanesse provveduto al regolare ordinario andamento dei pubblici affari, alla tutela delle persone e delle proprietà dei nostri sudditi. Fu da noi altresì prorogata la sessione dell’Alto Consiglio de’ Deputati, i quali erano stati recentemente chiamati a riprendere le interrotte sedute. Ma queste nostre determinazioni, lungi dal far rientrare nella via del dovere i perturbatori ed autori delle predette sacrileghe violenze, gli hanno anzi spinti ad attentati maggiori, arrogandosi quei sovrani diritti, che a Noi solo appartengono, con aver essi nella Capitale istituita per mezzo dei due Consigli una illegittima rappresentanza Governativa, sotto il titolo di provvisoria e suprema Giunta di Stato, e pubblicato ciò con atto del giorno 12 di questo mese. Le obbligazioni indeclinabili della nostra Sovranità, ed i giuramenti solenni con cui abbiamo al cospetto del Signore promesso di conservare il Patrimonio della Santa Sede, e trasmetterlo integro ai nostri successori, Ci costringono a levare alto la voce ed a protestare avanti a Dio ed in faccia di tutto il mondo contro questo cotanto grave e sacrilego attentato. Dichiariamo pertanto nulli, di nessun vigore e di nessuna legalità tutti gli atti emanati in seguito delle inferiteci violenze, ripetendo altresì che quella Giunta di Stato instituita in Roma non è altro che una usurpazione

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Nulla non concludevano le pontificie proteste, anzi punto non si ritrassero i novatori di Roma da ulteriori eccessi, poiché vennero con calore al fatto della Costituente; epperò l’Augusto Pontefice nel 1.° giorno del seguente anno pubblicava un’ altra protesta, nella quale ripetendo i sensi delle precedenti, proibiva ai suoi sudditi di accedere alle elezioni dei membri della Costituente romana, ricordando la scomunica maggiore fulminata dal Concilio di Trento. Malgrado ciò, si mandava innanzi la Costituente in mezzo a deliri e feste, e suo principale atto fu la dichiarazione della decadenza del Papato, e la istituzione della romana repubblica; contro di cui protestava a tal guisa il trambasciato Pontefice innanzi al Corpo Diplomatico ai 14 di febbrajo del 1849.

» La serie non interrotta degli attentati commessi contro il Dominio degli Stati della Chiesa preparati da molli per cecità, ed eseguiti da quelli che più maligni e più scaltri avevano da gran tempo predisposta la docile cecità dei primi, questa serie avendo oggi toccato l’ultimo grado di fellonia con un decreto della sedicente Assemblea Costituente Romana in data 9 febbraio corrente; nel quale si dichiara il Papato decaduto di diritto e di fatto dal Governo temporale dello Stato Romano, erigen

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ci mette nella necessità di alzare nuovamente la nostra voce contro un alto, il quale ai presenta al cospetto del mondo col moltiplico carattere della ingiustizia, della ingratitudine, della stoltezza e della empietà, e contro il quale Noi, circondati dal Sacro Collegio e alla vostra presenza, degni Rappresentanti delle Potenze e Governi amici della Santa Sede, protestiamo ne’ modi più solenni, e ne dichiariamo la nullità, come abbiamo fatto degli atti precedenti. Voi foste, o Signori, i testimoni degli avvenimenti non mai abbastanza deplorabili de’ giorni 15 e 16 novembre dell’anno scorso, e insieme con noi li deploraste e li condannaste; voi confortaste il nostro spirito in. quei giorni funesti; voi ci seguiste in questa Terra, ove ci guidò la Mano di Dio, la quale innalza ed umilia, ma che però non abbandona mai quello che in lui confida; voi ci fate anche in questo momento nobile corona, e perciò a voi ci rivolgiamo, affinché vogliate ripetere i nostri sentimenti e le nostre proteste alle vostre Corti e ai vostri Governi».

» Precipitati i sudditi Pontifici per opera sempre della stessa ardita fazione, nemica funesta della umana società, Dell’abisso più profondo di ogni miseria, noi come Principe temporale, e molto più come Capo e Pontefice della Cattolica Religione, esponiamo i pianti e le suppliche della massima parte de’ nominati sudditi Pontifici, i quali chiedono di vedere sciolte le catene che li opprimono. Domandiamo nel tempo stesso che sia mantenuto il sacro diritto del temporale dominio alla Santa Sede, del quale gode da tanti secoli il legittimo possesso universalmente riconosciuto, diritto che nel!’ ordine presente di Provvidenza si rende necessario e indispensabile pel libero esercizio dell’Apostolato cattolico di Santa Sede. L’interesse vivissimo, che in tutto l’Orbe si è manifestato a favore della nostra causa, è una prova luminosa che questa è

la causa della giustizia, e perciò non osiamo neppur dubitare

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che essa non venga accolta con tutta la simpatia e con tutto l’interesse dallo rispettabili nazioni che rappresentate».

Pertanto chiaramente si scorgeva, che le parole benigne, od aspre punto non valevano in animi indurati nella ingratitudine, e sprofondati nella stupida ebbrezza delle sregolate passioni; che il timore o la realtà dello pontificie censure non faceano impressione in cuori corrotti, e scemi di ogni sentimento religioso; per la qual cosa onde non gittare il tempo invano, e salendo il tostano sgombero di tanta contaminazione dal Vaticano, il Sommo Pio faceasi a chiedere alle Potenze l’intervento armato nei suoi Stati, affinché si potesse giunger con le armi là dove era impossibile pervenire con la ragione, e sì come sarà narrato in altro luogo vi si giunse.

Nel tempo che Pio IX a tal maniera era urtato dai novatori di Roma, e grandi mutamenti in altre parti della Penisola intervenivano, il Gran Duca di Toscana era minato nella sua Firenze. Aperte in persona le Camere toscane nel 9 Gennajo del 1819, fra gravi agitazioni la concitata tribuna era dimenata dai patriotti di Livorno; pel progetto di legge Montanelli, risguardante la Costituente romana il disordine venne al più alto segno, il circolo fiorentino a malo stento era frenato nel suo proposito di grandi dimostrazioni popolari; fu proclamata la repubblica in Livorno; il Granduca lasciava la sconvolta Firenze e si portava in Siena, stanza della sua famiglia, indi a S. Stefano. Incontanente fu instituito un governo provvisorio composto da Montanelli, Guerrazzi, e Mazzoni; formato un nuovo ministero; stabilita la decadenza del Principe; piantati gli alberi della libertà; combuste le armi austriache e napolitane; invigilato il contado, che, amando di vero amore il Granduca, si era mostrato avverso alle novità; inaugurata la repubblica. Intanto ii buon Leopoldo Principe Umanissimo, udiva rumoreggiare dal suo asilo il turbine, e aveva avuto seniore,

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che Montanelli si era fatto ad ordinare alle truppe di andare a S. Stefano e imprigionarlo. A questo i Ministri francese, inglese, e sardo, con cui stava a consiglio, avevan quasi stabilito di riparare in Torino, quando giungeva lieto un Saint-Marc, Aiutante di campo del Generale Charrelte, il quale in mezzo alle dubbiezze del toscano Principe, si era spinto sur un piccolo e fragile schifo fra mille perigli per a Gaeta, ed aveva portato confortevoli lettere di Pio e di Ferdinando; sì che il Granduca si muoveva per la sicura Gaeta, lasciando l’intorbidato Arno.

CAPITOLO VIII.

RIAPERTURA DEL PARLAMENTO NAPOLITANO.

Sommario

Le Camere son prorogate per la seconda volta, e perché; infine sopraggiunto il prefisso tempo sono aperte. Il Ministero per diverse e contrarie vie urtato, e riurtato. I Deputati dietro gagliarde e prolungate discussioni vanno scopertamente ai danni di quello con un indrizzo al Re. Quanto fosse imprudente un tal procedere. Il Ministero si tien saldo io mezzo alle tempeste, e con un memorando rapporto al Sovrano, difende se, dipinge a minuto le improntitudini, le sregolatezze, e gli eccessi della Camera dei Deputati e ne domanda la chiusura. Il Re con un decreto scioglie la turbolenta tribuna, né più di lei si cale.

Fu da noi detto nel capitolo quarto del presente libro, che le Camere Legislative erano state prorogate ai 30 Novembre, ora soggiungerò, che pei nuovi incidenti svolti in Italia, e segnatamente in Roma, il Re ai 23 di tal mese estendeva la proroga al 1.° di Febbrajo dell’entrante anno. Ed alla verità la fuga del Pontefice dal Vaticano, il forte ribollimento degli animi romani, l’attrito violento dei partiti, la contumace accidia dei Siciliani, le discussioni intorno allo stato discusso, ed altri obbietti d’importanza non avrebbero fatto altro che recare in momenti così trepidi urti, contrasti, e conflitti di passioni nel campo del nazionale parlamento; mollo più perché non eran per anco posate l’esagitazioni delle Camere; il Ministero e i Deputati tuttora si guatavan biechi; e d’altronde l’intorbidato Tevere, non si sarebbe rimasto dal mandare un funesto rivo al dubbio Sebeto, e spingerlo a gravi mutamenti.

Frattanto arrivate le calende di Febbrajo,si dischiudevano le Camere Legislative. Napoli memore della lamentevole catastrofe di Maggio, era fra timori e speranze tempellaate, e deserta;

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nondimeno non. mancava un brulicame di curiosi nella strada del Salvatore che menava all’edilìzio delle Tribune, non che nel Cortile di quello. I Deputati e i Pari, riuniti in uno dei gabinetti della Università, si recarono nella chiesa del Gesù vecchio per una scala interna, e dopo ascoltatavi la messa, invocato l’aiuto dello Spirito Santo, e ricevuta la S. Benedizione, verso il ‘mezzodì si portarono nelle rispettive stanze. Eran presenti alla funzione i Ministri Torcila, Carascosa, Bozzelli, Gigli, Ruggiero, e Longobardi. Vari drappelli di soldati si aggiravano per le vicinanze dell’Università, pronti ad accorrere ad ogni bisogno; ma l’apertura riuscì tranquilla in ambo i Consessi legislativi, e solo in quella dei Deputati vi furono fragorosi applausi.

Nelle susseguenti tornate, varie cose si ventilarono, nelle quali tralucea quella stizza contro il Ministero che sventuratamente la piupparte dei Deputati non avea saputo attutire o spegnere, e che man mano ingrossando finì con aperta guerra, nella quale per altro essi rimasero prostrati, e per sempre. Il Ministero veniva tempestato da molti lati, per contrarie cagioni; sì che era in punta degli odi, e se ne desiderava la caduta. Alcuni lo tassavano, perché non si era attraversato validamente alla riapertura di quelle Camere., le quali non pace, né progresso, ma guerra, tutto, e catastrofi aveano al paese procacciato; e di cui non pochi si Servivano per andar difilati alla distruzione del Trono, ed al completo sovvertimento della società. Altri che avevano a cuore la conservazione, e il progresso del costituzionale reggimento, gli portavano mala volontà, perché non sapeva o non voleva calarsi a concordia col Parlamento, mentre dalla discordia nessun bene, ma tutto il male al paese derivava. Altri infine gli tenevan broncio, perché avea applicato tutto l’animo suo allo spegnimento della rivoluzione di Calabria, cardine delle più lusinghiere speme, ed alla messinese guerra che tanto avea sconfortato i liberali ed innalzato i Regi.

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In mezzo a tante cagioni di odio, il Ministero era in mille modi minato, e cotidianamente alla sua distruzione si mulinava; e nella Camera dei Deputati, focolajo di tutte passioni, si andavano a rannodare gli sdegni, e le forze riunite per lo conseguimento dello scopo; e fu stabilito dì farne subbietto di un indrizzo al Principe.

Molte e calorose discussioni nacquero intorno alla convenienza dello indrizzo; nella tornata degli 8 Febbrajo fu agitatissima la tribuna parlamentaria; ben dodici gagliardi oratori con vario impeto, proposito, argomentare, ed eloquenza parlarono: infine fu concluso che l’imprudente indrizzo avesse il suo corso. Dissi imprudente e non a torto; poiché il governo non era si gonzo, che non vedesse gravi disegni nel mutamento di un Ministero che avea timoneggiato accortamente la nave dello Stato in mezzo alle politiche procelle, e massime in un tempo in cui i Ministeri di Piemonte e di Toscana erano sbalestrati per la demagogia, ed in sul Tevere, affascinate le menti dalle memorie antiche, e solluccherate dalle fantasime future, era vicina ad innalzarsi la repubblica. Adunque non tenersi fra i limiti della moderazione in quelle trepide circostanze, e gittarsi ad un certame col Ministero, era veramente una manifesta imprudenza, o una condannevole improntitudine. Le ire municipali, vecchia cangrena d’Italia, perderono le antiche istituzioni; le imprudenze, e gli odiuzzi personali dei moderni, passioni puerili schernite mai sempre da fortuna, le recenti instituzioni perderono. quest’esso è l’indrizzo.

» Sire – La camera de’ deputati volendo provare a Vostra Maestà ed al paese intero ch’è suo costante desiderio di prestare al potere esecutivo il suo franco e leale concorso, nel silenzio de’ ministri, à votato spontaneamente la riscossione provvisoria delle imposte».

» Ora sente il dovere e la necessità di rivolgersi alla Maestà Vostra, e con fiducia ella si rivolge al Principe,

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che primo inaugurava nella penisola italiana gli ordini costituzionali, e con fiducia ella attende una voce che riconduca l’armonia tra i poteri costituiti, ed impedisca che uno statuto liberamente dato sia da’ supremi agenti responsabili più oltre manomesso».

» Sire. I deputati della nazione persuasi che i veri bisogni del principe si confondono con quelli del popolo, di cui è capo e vindice supremo, non dubitano di manifestare francamente a Vostra Maestà, che l’attuale ministero non à la fiducia del paese, e ch’esso falsandole istituzioni, tradisce ad un tempo gl’interessi del Principe e quelli del popolo. Cosiffatti bisogni ed interessi si riassumono, Sire, nell’attuazione sincera e piena del regime costituzionale consentito dal Principe, legittimo dritto del paese, voto precipuo de’ suoi rappresentanti».

» Non è dubbio, o Sire, che il ministero à contro di se quasi unanime la riprovazione della camera elettiva; riprovazione giustificata abbastanza dal tenore ch’esso à serbato, e serba tuttora».

» Il ministero ostinatamente à celato alla camera tutto ciò che riguarda l’interna politica del governo di V. M., facendo sembianza di crederla ostile ad ogni ragionevole ed onorata proposta; le à negato ogni ragguaglio intorno alle condizioni economiche ed amministrative del paese, à trascurato colpevolmente ogni iniziativa di leggi, di cui suprema era la necessità ne’ primordi del nuovo reggimento; né contento di ciò interamente, prorogando le camere e fino impedendo che la loro voce giungesse innanzi al trono, à renduto impossibile ogni salutare provvedimento, né à temuto, fatte silenziose le camere, di sostituir la sua voce a quella de’ rappresentanti della nazione, usurpando la potestà legislativa con atti aggravanti sopratutto la condizione della finanza o de’ contribuenti. Infine à trascurato e trascura, con gravissimo danno del paese, di adoperarsi a spegnere

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le funeste cagio

» Che più?Gli stessi dritti scolpitamente assicurati alla nazione dallo statuto, non furono pel ministero oggetto di religiosa osservanza, ma di ludibrio. Vostra Maestà voleva garentita la libertà individuale, libera la manifestazione del pensiero, inviolabile il domicilio, indipendenti i giudizi, egualità innanzi alla legge: ma invece il ministero non uno solo di questi sacri dritti lasciava inviolato».

» E ben poteva qui la camera ritrarre agli occhi di V. M. un quadro doloroso di sofferenze e di angoscie indicibili; le carceri riboccanti d’imputati e di sospetti per opinioni politiche; innumerevoli famiglie vedovate de’ loro più cari, astretti a’ dolori dell’esilio, e l’universale mestizia inacerbita dal ministero che indugia a V. M. la gloria e le gioie del perdono».

» Sire la camera non può sperare ornai che un ministero, tante volte indarno censurato, si ritraesse dalla sua via; né dall’altra parte essa stima convenire alla propria dignità ed agì’ interessi della nazione consumare il tempo in una sterile lotta per combattere la illegalità e la ignavia de’ ministri. Contro le colpe di costoro ben sente ella di avere dritti severi ad esercitare, ma per temperanza civile antepone oggi di rivolgersi al principe. Collocata Vostra Maestà nell’alta sfera di quelle sublimi attribuzioni costituzionali, che spogliandola di ogni possibilità di fare il male, le lasciano l’onnipotenza di operare il bene, non tarderà a profferire quella regia paro la, medicina suprema a’ travagli dello stato: come dal loro canto i deputati sono stati sempre, e saranno parati a dure al governo di Vostra Maestà quel pieno e costi

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che le frutterà non men sostanza dì forma, che amore e riverenza de’ popoli».

Il Ministero a lai forma percosso, ripercuoteva, e in questi sensi andava il suo animo al Sovrano dichiarando.

«Sire – Nella mancanza di ogni possibile accordo fra il Ministero e la pluralità della Camera elettiva, in tempi nei quali, per le tristissime vicende in cui gli stati confinanti sono miseramente travolti, questo Reame, divenuto segno da ogni parte ai più malvagi tentativi di sovversione, riman perplesso ed agitato nella incertezza de’ suoi destini; non altro espediente offrivasi a noi, suoi fedelissimi sudditi e ministri, se non quello di rivolgersi alla inevitabile alternativa, o che fosse a noi dato il ritirarsi tutti; o che la suddetta Camera fosse sciolta. Nella gravità di sovrastanti casi, la inefficacia de’ nostri voti perché la Maestà Sua si appigliasse al primo dei due proposti partiti, ci rende unanimi nel richiamar la Sua Sovrana attenzione sulla imperiosa, urgentissima, invincibile necessità di ormai ricorrere al secondo. Conceda quindi la Maestà Sua, che a meglio indicarnele i prominenti motivi, noi percorriamo d’un rapido sguardo gli avvenimenti a cui si rannoda l’attuale stato delle cose, da quelli che per lo innanzi ci percossero, sino a. quelli che tuttavia ci premono e c’ incalzano».

» La Maestà Sua inaugurava un’ era novella in questa patria dilettissima con la Costituzione che spontaneamente concedea il 10 febbraio dello scorso anno ai suoi popoli: ed esser già stato il primo a formolarne il dettato in Italia, è una gloria che niuno le può contendere. Se non che mentre a questo inatteso mutamento di civil comunanza le masse applaudivano a gara con leal rendimento di grazie al Cielo, un pugno di audaci, avidi di far mercato delle lacrime nostre, concepirono sordamente il reo disegno di avvelenare la pubblica gioia delle lo

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» Or non è da obbliarsi che il Ministero attuale, onorato dalla fiducia della Maestà Sua in momenti disastrosi, nei quali sarebbe stata viltà il rifiutare di obbedirla, prendea le redini dello Stato dopo la spaventevole catastrofe del 15 maggio; la quale, benché compressa nelle strade di Napoli, pur prorompea in cento altri luoghi, pari a fuoco sotterraneo che cercasse violentemente un’uscita; e dopo aver commosso tutto, balzando di provincia in provincia, si dilatava con nuovo e più efferato mugghio nelle Calabrie, ove minacciò irreparabile una generale conflagrazione. Vidersi allora fra cittadini e cittadini, come se ogni vincolo sociale fosse andato in pezzi, attentati alla vita, attentati alla proprietà, attentati all’onore, e tutto rimescolato e confuso in una congerie di orribili ed inaspettati disordini. In questo convulsivo stato di cose, il dover primo e più sacro dell’attuai Mi

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e preservar la Costituzione dagli attacchi di chi avea voluto lacerarla: esso la riguardò come l’albero della vita, intorno a cui tutti, calmata la effervescenza delle passioni impure, si sarebbero un giorno riordinati e raccolti. Se questo non produsse immediatamente i suoi frutti, non fu colpa del Ministero; ma fu suo merito che in mezzo alle tempeste di esterminio esso non rimanesse schiantato fin dalle sue radici, perché oppose alle percosse che il crollavano una resistenza in gran parte passiva, ma sempre ferma e perseverante. Convinto che mercé la Costituzione la libertà si era identificata con la Corona, il Ministero, per serbare ad entrambe la loro integrità e la loro inviolabilità, si collocò intrepido fra la Corona e i pericoli che le sovrastavano; affinché divenuto esso solo bersaglio a tutt’i colpi, quest’area dell’alleanza si rimanesse invulnerata per la futura prosperità de’ popoli. Tutto quello che ha operato nell’intervallo è stato in vista di questo eminente obbietto; e forte della sua coscienza, il Ministero se ne applaude, aspettando la retribuzione di giustizia, non da’ suoi contemporanei ma dall’imparziale posterità.»

» I primi nostri provvedimenti governativi portarono infatti la duplice impronta della fermezza e della più riconciliante moderazione. Poiché mentre dall’un canto, a tutelare la interna sicurezza dello stato, e così preservar di rimbalzo il resto della minacciata Italia dalla funesta dissoluzione d’ogni ordine sociale, noi non fummo perplessi a richiamar subito nel Bearne quella parte del napoletano esercito che già preparavasi a combattere pugne gloriose in regioni esterne, mostrammo dall’altro che non dovendosi eriger trofei alle civili vittorie, ogni rincrescevole classificazione tra vinti e vincitori dovea sparir senza ritardi: per cui oltre a 600 individui, presi nella maggior parte con le armi alla mano, e ancor luridi, e fumanti del terribile conflitto del 15 maggio,

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vennero il dì appresso tutti rilasciati, e quest’atto di longanimità in un consimile clamoroso avvenimento, che avrebbe dovuto comporre immediatamente a stabil concordia le anime più ostinate nel mal operare, non ci riuscia malagevole, quando trattandosi di perdonare, il nobil cuore della Maestà Sua precorrea di gran lunga fino alte nostre intenzioni più occulte. né le altre simultanee misure che adottar ci convenne a garantia della tranquillità pubblica, furono suggerite da spirito men temperato ed indulgente; lasciando noi alla rigida storia il decider con facili confronti, se lo stato di assedio, a cagion di esempio, in cui fu dichiarata la Città di Napoli fosse stato più di nome che di fatto».

«Fermi così nel preconcetto nostro politico sistema di rianimar la devozione per l’Augusta persona della Maestà Sua, ed il rispetto dovuto alla Costituzione accordataci dal suo grande animo, noi ci rivolgemmo a pacificare per gradi le agitate province senza insoliti rigori, senza persecuzioni cieche, senza spargimento di sangue. E siccome in talune di esse offria perenne incitamento alle turbolenze lo stato di anarchia deplorabile in cui la contigua città di Messina si ritrovava, noi non fummo irrisoluti a spinger fin là i mezzi di disperdere a cornuti vantaggio i perturbatori dell’ordine, e ricongiunger di nuovo la intera isola al rimanente del Reame: al che bastarono pochi bravi di un esercito eminentemente intrepido e devoto, anche in breve spazio, affrontando con valore ogni specie di pericolo, restituirono alla desiderala calma quella derelitta contrada. Indispensabile quanto salutare impresa, che unita sempre alla franca lealtà ed alla costante buona fede della politica del Governo, ci meritò al punto la stima dell’Europa che due grandi Potenze vollero esse, ad attestato di antiche benevole relazioni, delegar due rinomati Ammiragli

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a portar parole di

» Se non che le passioni sovvertitrici eran represse ma non disarmate negl’indomabili faziosi che avean tentata la rovina di tutti; e divenuti impotenti a sfogarsi per le antiche vie, si gittarono, sotto le ipocrite apparenze dell’esercizio di un dritto, a macchinar più iniqui attentati ne’ Collegi elettorali che si convocavano per la novella Camera, dopo che restò sciolta la precedente. Le liste degli elettori eran già incompiute; perché in tanta general commozione i più timidi si ritrassero dal farvisi comprendere. Ciò malgrado la fazione audace, cui offri a si propizia l’opportunità di risommergere il reame ne’ tumulti, abusando della generosità del Governo, il quale si astenne da qualunque atto che potesse inceppare la libertà de’ suffragi, stimò che fosse ancor troppo esteso il numero di coloro che vi si trovavano iscritti; e pose tutto in opera per allontanarne la maggior parte col turpe mezzo delle menzogne; delle frodi, delle calunnie, delle minacce e delle violenze d’ogni specie. E che i successi rispondessero all’intento, lo provano geometricamente i fatti, poiché a Napoli, di 9384 elettori iscritti, soli 1491 intervennero alla elezione; ad Aversa di 2822, ne comparvero soli 483; a Lagonegro di 3448 se ne mostrarono soli 652; a Catanzaro, di 5853, soli 1140; a Nicastro, di 3623, soli 932; a Foggia, di 4608, soli 1300; a Bovino, di 2108, soli 421; a Lecce, di 3568, soli 508; a Bari, di 9652, soli 2175; ad Altamura, di 2801, soli 478; e cosi di tutti gli altri. né mancarono dei Collegi che o non si riunirono affitto, o che facendosi giudici essi delle più alte prerogative della Corona, dichiararono illegalmente sciolta la precedente Camera, e ne confermarono senza forma di elezione i Deputati».

» Frutto di tante inique pratiche e di una sì scandalosa minoranza di elettori fu l’attuai Camera de’ Deputati,

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tra coloro che ne fan parie, rappresentate da personaggi che intimamente convinti non potersi la vera libertà disgiugner mai dall’ordine, si fecero dell’una come dell’altro ardenti e leali propugnatori, spregiando i biasimi che lor ne veniano da una turba facinorosa ed insolente di spettatori, non parve riunirsi nella Capitale del Reame se non per mettere in piena mostra la impurità della sua origine. Poiché nella verifica dei poteri si lasciò trarre ad intrudere nel suo seno taluni individui a’ quali mancavano i requisiti richiesti per sostenere un sì alto mandato; ed avvertita dell’errore, sdegnò fieramente di emendarlo; dando così l’esempio di un Consesso che delegato a concorrere alla formazione delle Leggi, cominciava esso medesimo dal conculcarne i più aperti dettati. E indi si organizzava in assemblea legislativa, fingendo di obbliar nettamente, che innanzi di prender seggio ne’ suoi recinti, primo ed indispensabil dovere di ciascun Deputato era quello di prestare alla Costituzione in vigore quel giuramento temuto che rappresenta un atto, non sol di religione, ma di probità civile; e fingea di obbliarlo come obbietto di pochissima importanza, e come se Dio è la virtù non dovessero esercitar la menoma influenza sulle sue future ispirazioni; mentre la Maestà Sua e tutta la Sua Regal Famiglia sin dai primi giorni la giuravano con lealtà di benevoli affetti a pie degli Altari; e la giuravano i pubblici funzionari negli svariatissimi rami dell’Amministrazione dello stato, e la giuravano l’esercito e l’armata nelle loro più infime classi».

» Al certo Dell’indirizzo con cui rispose al discorso della Corona, la Camera non trascurò d’inserire per la Maestà Sua talune vaghe proteste di devozione, le quali prive di quella ingenuità espansiva che le indicasse surte dal profondo del cuore, vennero smentite immediatamente dai fatti; essendosi visti alcuni fra coloro che la com

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e fuori e dentro il Reame, sia per mettere in brani la Monarchia, sia per sovvertirla o venderla bruttamente ad altri. E per impadronirsi del potere supremo, di che avea fatto innanzi si tristo esperimento, rifulsero fin da allora i lampi di quella irrequieta sua impazienza di allontanarne sotto qualsiasi pretesto l’attual Ministero; cui ai suoi occhi eran gravissime colpe di esser pervenuto con la sola perseveranza de’ mezzi temperati a ricondurre la calma nel paese, a reprimere sempre rinascenti tumulti, a soffocar la perversa tendenza che ha posto due vicini stati sull’orlo di un abisso, a serbar la Costituzione intatta e ne’ soli precisi termini onde ci fu largita, a sostener finalmente con saldo animo, senza temerità e senza bassezza, la dignità e la indipendenza dello stato in faccia allo straniero».

» E la Maestà Sua non ignora quante volte per solo amore di pace noi l’abbiam sollecitata umilmente a degnarsi di accogliere la nostra demissione. Ma quando la Camera tradita nella sua fremente ambizione si lascia trascorrere in maligne accuse, che uomini d’intemerata vita non si abbasseranno mai a combattere; quando con novello stranissimo indirizzo, trascendendo essa i mezzi che la Costituzione le offre, osa fare alla indipendenza de’ poteri del Principe apertissima ed irriverente violenza, per cosi dischiudersi le vie a riaccendere le collisioni Od de il Reame fu per lo innanzi contristato; quando ad accrescere le perturbazioni e i pericoli, osa implicitamente, ma con arroganza intimargli, che terrebbe in poter suo le chiavi del Tesoro pubblico, fino a che le sue superbe insistenze non restino soddisfatte: quando alfine la M. S. francamente sia risoluta di continuarci quella fiducia che noi abbiamo la coscienza di non aver demeritata, mentre ogni ulterior contatto con la Camera de’ Deputati è per noi divenuto impossibile;allora è di necessità

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richiamando ai loro veri principi le leggi dell’elezione, affinché i turbolenti fautori dell’anarchia non riescano più oltre a falsarle coi loro perversi raggiri ed improbi attentati».

» E questo il voto che noi presentiamo unanimi a piè del suo Trono con quegli invariabili sentimenti di rispetto, di riconoscenza e di pienissima devozione, onde abbiamo l’onore di raffermarci».

» Suoi umilissimi, obbedientissimi, fedelissimi sudditi e ministri».

» Principe di Cariali. – Principe di Torello. – Ischitella. – R. Carrascosa. – Gigli. – Francesco Paolo Ruggiero. – Bozzelli. – Raffaele Longobardi».

Il vigoroso rapporto arrecò vigorosa risoluzione, e il Sovrano con decreto dei 12 Marzo da Gaeta scioglieva il Parlamento.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa2s/03_Storia_di_Ferdinando_II_Regno_due_Sicilie_1830_1850_libro_I_II_II_Giovanni_Pagano_2011.html#INSURREZIONE

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