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STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 (X)

Posted by on Giu 10, 2024

STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 (X)

Dovremmo smettere di definire certi storici “borbonici” e chiamarli semplicemente “preunitari” o “napolitani” nel nostro caso. Non si  capisce per quale motivo il Colletta che non scrive certo un trattato di obiettività scientifica sia considerato uno storico e i napolitani che scrissero al tempo di Ferdinando II siano considerati dei lacchè di regime.

Gli esuli pagati profumatamente in quel di Torino dal conte di Cavour per scrivere le loro ricostruzioni storiche antiborboniche che cos’erano? I depositari  della verità rivelata?

Buona lettura e soffermatevi sul profluvio veramente impressionante di innovazioni normative operate dal Re Ferdinando II.

CAPITOLO XI.

AVVENIMENTI RICORDEVOLI.

Sommario

Matrimonii del Sovrano. Nascita di varii Figliuoli del Re. Non dei Principi e Principesse Reali. Morti Regie. Utilissimi e ripetuti viaggi del Re per le provincia dell’una, e dell’altra Sicilia. Colonie mandate in Lampedusa ed in Linosa. Apparizione dell’Isola Ferdinandea. Meteore diverse. Orribil turbina in terra d’Otranto. Tremuoto spaventevole e sterminatore nei distretti di Catanzaro, e di Cotrone.

Riunisco in questo capo avvenimenti e casi vari, degni di ricordanza, dei quali per difetto di opportunità non ho potuto insin qui discorrere.

Incomincio dai matrimoni del Re. Stringeva il primo Nodo ai 21 di Novembre del 1832 in Voltri, vicino a Genova, con la Real Principessa di Sardegna D. Maria Cristina, figlia al defunto Re Vittorio. Infinite, indicibili furono le feste, gli auguri, le affettuose manifestazioni, le opere pietose, che in tutto il Regno, e precise in Napoli si fecero, allorché la Sabauda Donna, lasciata la piemontese regione, veniva ad allietare di sue angeliche forme e virtù la città delle Sirene; le quali pertanto per fini imperscrutabili di Dio doveano ecclissarsi, per dar luogo allo splendore delle altre che adornavano l’Arciduchessa d’Austria Maria Teresa Isabella, e che il Re impalmava ai 9 Gennajo del 1837 io Trento, conducendola ai 26 di (al mese fra l’esultante popolo delle Due Sicilie, il quale si compiaceva di vedere al fianco del suo Sovrano la figlia del più illustre Guerriero che vantasse Alemagna nei tempi delle napoleoniche guerre.

Nasceva da Maria Cristina ai 16 Gennajo del 1836 il Duca di Calabria D. Maria Leopoldo, Principe Ereditario; e per Maria Teresa venivano in lu

ai 17 Settembre 1839 D. Alberto Maria, Conte di Castrogiovanni; ai 28 Marzo del 1841 O. Alfonso Maria, Conte di Casetta; ai 24 Marzo del 1843 la Principessa D. Maria Annunziata Isabella Filomena Sabazia; ai 14 Aprile del 1844 l’altra Principessa D. Maria Immacolata Clementina; ai 4 Marzo del 1847 D. Giuseppe Maria, Conte di Lecce.

Vari matrimoni avvenivano eziandio fra i Reali Principi nel periodo istorico di che trattiamo; poiché molti Figliuoli avea lasciato Re e. tanta laudevol fama che rendevano desideralo il parentado; sì che alcuni ligami ora maggiormente si stringevano, ed altri novellamente si formavano. Sposavasi la Principessa D. Maria Amalia all’Infante di Spagna D. Sebastiano Gabriele Maria; la Principessa D. Maria Antonia a S. A. I. e R. il Gran Duca di Toscana Leopoldo li; il Principe D. Leopoldo, Conte di Siracusa, alla Principessa di Savoja D. Maria Vittoria Filiberta; la Principéssa D. Teresa Maria Cristina all’Imperatore del Brasile D. Pietro il Principe D. Luigi Carlo Maria, Conte di Aquila, alla Principessa D. Gennara, sorella dell’Imperatore del Brasile; la Principessa D. Carolina Maria Augusta, figlia del Principe di Salerno, al Duca di Aumale.

Ma cosiffatte allegrezze, sì come suole accadere di tutte le umane cose, venivano a quando a quando profondamente disturbate da gravi cordogli. Fra quali per ordine cronologico, e per intensità, memorando è quello che per la morte di Maria Cristina susseguiva. L’Augusta Donna nel più alto colmo del contento suo, della Real Famiglia, e di tutto il Reame per la nascita dell’Erede del Trono, correndo lottavo dì del puerperio, fu presa da febbre, la quale man mano innacerbendo spegnevala intorno alla metà del 31 Gennajo del 1836. Infausto giorno, impresso a caratteri di duolo estremo nell’animo dei popoli

che splendea dall’alto del Trono come il sole nell’empireo affin di spingere i suoi raggi nei più lontani e romiti angoli a conforto della povertà, e ad esempio di virtù con la purità dei suoi costumi. Grave fu il cordoglio nel regno, gravissimo nella reggia, indicibile nel vedovato Signore. Ella fu molto laudata, e più che laudata pianta, ma non pianta né laudata abbastanza. Il giorno delle esequie (9 Febbraio) fu giorno di mestizia grande per Napoli; poiché chiusi gli animi come i luoghi alla litizia, e cessate le giornaliero occupazioni, non ad altro s’intendeva, che a dare un lacrimoso vale alla eccelsa Donna, che esanime passava per quelle vie istesse per le quali altre volte in mezzo ai Cori della vita era passata. Un maestoso ma lugubre corico la convogliava; le luttuose insegne delle milizie, le lamentevoli armonie delle militari bande, il grave e cupo salmeggiare delle lunghissime file dei Sacerdoti, la sconfortante maestà del Carro Funebre, il pallido e addolorato aspetto del popolo, l’altissimo silenzio che tutto nel suo grembo involvea, interrotto soltanto dai lamentevoli squilli dei sacri bronzi o dai cupi e stentati rumori dei bronzi marziali, un tetro nuvolame che ogni sereno ricuoprendo facea mesto accordo col tutto universale, renderon quel giorno memorando. Grande era la calca del popolo, grandissima la mestizia, universale il tutto: un flebil rivo l’addolorato Sebeto emanò. Ai 10 di Febbrajo, dopo fatti gli ultimi funerali in S. Chiara, la spenta Regina fu posata nella Cappella dei Reali Depositi. Però la memoria di Lei non si disperse col suono, ma rimase grata negli animi dei Napolitani, e non ha guari fu ridestata da fatti non dubbi di grazie celestiali ottenute per sua mercé.

Discendeva secondo nella tomba il Real Principe D. Antonio, Conto di Lecce, fratello del Sovrano, nella notte antecedente al 12 Gennajo del 1843. I Napolitani, che som

Il giorno 18 di quel mese, dopo compiuti i solenni funerali nel tempio di S. Chiara, chiudea per sempre la mondana scena del Regio Conte.

Nel vegnente anno 1844 addì 12 Luglio la Reggia era di nuovo addolorata; perché si partiva di questa vita il Real Principe D. Alberto, Conte di Castrogiovanni, terzonato di S. M. il Re. La quale perdita non lasciò di apportare cordoglio, poiché come sbucciante fiore divelto dallo stelo, si vide spento un Principe quasi sul limitare della vita, il quale quandocchessia avrebbe formato anch’egli la letizia delle nostre contrade. Ai 16 di quel mese le mortali spoglie del Regio Principe furono trasportate da Capodimonte, ove accadde la morte, nel tempio di S. Chiara, e dopo convenevoli esequie, poste nella Cappella dei Reali Depositi.

Fra le cose notabili sono d’annoverare i viaggi ripetuti che il Re facea pei domini continentali ed insulari. Sino dalle prime ore del Suo Regno, non pago di aver fatto tanto benigne promesse, non di avere commesso ad altrui il laudabile incarico di scrutare i bisogni dei suoi diletti popoli, né di aver dato una vigorosa pinta a tutte le cose riguardanti le provincie, venne nel commendevole divisamente di osservar tutto coi suoi propri occhi, di animar tutto con la sua presenza; perlocché, non compiuti ancora sei mesi dal preso possesso, cominciava ad effettuire diversi e moltiplici viaggi per l’una e per l’altra Sicilia, nei quali seguendo l’esempio di S. Luigi Re, che si piaceva di ascoltare i suoi sudditi sotto al rezzo di una quercia, ponea dall’un dei lati le pompe della Sovranità, ed ordinava, che non si facessero spese per dimostrazioni festive, neppure a carico dei Comuni; che le Autorità delle provincie da viaggiare, né quelle delle conterminali non si muovessero dal loro posto; che il suo albergo fosse stabilito nelle Intendenze, Sottointendenze, Case comunali o Vescovili; che il suo trattamento fosse a cura delle persone del suo seguito; e che le Guardie Urbane stessero a custodia della sua Real Persona.

Viaggiava adunque il Re ora in una ora in un’altra provincia; si portava non pure nelle grosse città, ma benanche nei comuni; sì che quasi la piupparte dei paesi avea il bene di vedere il suo Sovrano, e manifestargli contento, e bisogni! E questa costituisce veramente una pagina duratura nella vita di Ferdinando II. Quali e quanti vantaggi derivassero da queste reali peregrinazioni non è chi no ‘1 vegga. Le prigioni e tutti i pubblici stabilimenti visitali, e quindi migliorati; le ingiustizie e gli abusi repressi e castigati; le grazie ampiamente largite; la povertà sommamente confortata; lo strade e i ponti designati, e costrutti; molte istituzioni utili introdotte nei comuni; immensa quantità di suppliche raccolta; infinite disposizioni date in bene dei popoli; o tacendo di altre cose invigilate le pubbliche autorità, incuorandole con premi ed onori se buone, punendole variamente se nel loro ufficio pigre o manchevoli. Ed a questo proposito accade riflettere, che il Re coi suoi viaggi porgendo ad ognuno la opportunità di reclamare contro gli abusi dello Autorità, producea una responsabilità molto più vera e rea le, che non è la responsabilità dei Ministri nell’ordine costituzionale.

Ma fra i tanti utili frutti dei reali viaggi monta qui cennare ciò che in Sicilia ordinava intorno al feudalismo ed ai comuni. La siciliana feudalità, alla cui istoria vanno sempre benedetti i nomi di Carlo III, e di Ferdinando I, e quelli di Domenico Caracciolo, Marchese di Villamaina, e di d’Aquino, Principe di Caramanico, era spenta più nel nome che nel fatto, imperciocché tuttavia duravano i dritti, le rendite, le prestazioni territoriali, ed eravi tal confusione che si rendevano frequenti le opposizioni, i piati, la liti fra i Baroni ed i

epperò utilmente vi riparava, sì come si è accennato io altro luogo di questo libro, dando l’ultimo colpo ad un’idra che la moderna civiltà avea gravemente percossa.

Notabili sono nel periodo istorico di che trattiamo le colonie mandate in due isole, un tempo piene di popolo e di vita, ma nei dì nostri deserte. L’isola di Lampedusa, l’antica Lipadusa nell’epoca dei Greci, dei Romani, o dei Saraceni, era molto popolata e fiorente; ma grado grado fu disertata ed assecchita dalle continue depredazioni dei Corsari barbareschi, nei secoli sestodecimo, e decimosettimo, i quali nel 1553 menarono in dura schiavitù meglio che 1000 di quegl’isolani, e cosiffattamente si andò disertando l’isola, che nel 1843 soli 24 Maltesi l’abitavano. Re Ferdinando II nel laudevole proposito di farla rifiorire, vi mandava nel Settembre di tale anno, una colonia di 120 persone. Il Duca di Cumia in qualità di Regio Delegato, B. Sanvisente erane eletto a Governatore; né mancava una mano di 56 soldati. La colonia a poco a poco venne in fiore, e già nel 1847 la popolazione ammontava a ben 700 individui.

Medesimamente fu abitata l’isola di Linosa, l’antica Larnius, un tempo popolata, oggi deserta. In Aprile del 1845 il Re vi spediva una colonia di 30 persone, sotto l’amministrazione di un sindaco, e nel 1847 già numerava 116 abitanti.

Memorabile è l’apparizione del vulcano sottomarino avvenuta in Luglio del 1831 nelle onde di Sciacca. Tra il confine di Giugno e i principi di Luglio leggieri, ma frequenti scuotimenti di tremuoto agitavano la città di Sciacca, ed in quel torno appunto nel mare che appellasi la secca del corallo, quasi nella metà del cammino fra Sciacca e Pantellaria, in mezzo a indicibili sconvolgimenti si estell

incontanente vi spediva il Capitati di Fregata R. Cacace sulla Corvetta l’Etna, il quale menatosi colà vedeva innalzarsi dal grembo di quell’agitato fiotto tra cupo rimugghiare grandissimi globi di bianco fumo, ed una nera colonna di prodotti vulcanici che si spingeva all’altezza di circa due miglia, ed era attraversata in tutte le direzioni da frequenti baleni. La base già solidificata correva in giro circa un miglio, non molto si elevava dalla superficie del mare, il quale per una zona di circa mezzo miglio appariva giallastro. Avea il vulcano la forma di un cono troncato, con ai fianchi due isolette, le quali ancor esse eruttavan continuamente per diverse bocche gran quantità di fiamme e cenere e bitume.

Propalato man mano il mirabil fatto, accorrevano in quella sorprendente regione curiosi e naturalisti, fra i quali è da mentovare lo straniero Federico Hoffman, che ai 24 Luglio andava ad osservarlo. Già in quel tempo si era formata un isola più grande e compiuta; la quale presentava molte parti culminanti, che erano l’orlo irregolare di una immensa e quasi circolare voragine che correva in giro per circa 800 piedi francesi: nella maggiore altezza si estolleva a 60 piedi, e in taluni punti tanto si abbassava, che quasi con la superficie delle acque si confondeva. La gran massa era formata da scorie nere, da lapilli, e da grosse ceneri; e dalle sue viscere eran balestrati in aria immensi globi di bianchissimo fumo, formanti altrettanti nuvoloni, ai quali succedevano frequentemente gli altri, quasi che si scacciassero a vicenda. La bianca e tempestosa colonna che si spingeva in alto per più di due mila piedi in mezzo a lampi e tuoni, veniva a quando a quando interrotta da una burrascosa eruzione di cenere e scorie nere, lo quali poco

In mezzo a questo frequente getto di solidi materiali l’isola andava acquistando forme più spiccate, ed estensione più significante; si che ai 25 di Agosto fu anche pel Sig. Oddo osservato sulla eminenza di Levante un piano in cui si allargavano due laghi variamente estesi contenenti uno acque gialliccie, e brune l’altro, le quali pel soverchio bollore fumigavano. L’isola intanto si estendeva per ben due miglia e mezzo, le fu dato il nome di Ferdinandea, e cresceva cotidianamente in mezzo alla meraviglia ed alle varie speranze degli uomini, quando dopo non guari, in mezzo ad orribile sconvolgimento fu sorbita negli abissi dond’era emersa.

Né meno meravigliose della sottomarina eruzione furono tre meteore, che nell’aere brillarono. Ai 21 di Agosto del 1831, intorno alle ore vespertine, una larga striscia di vivissima luce apparve su Messina, la quale si ammorzò fra oscuri globi di neri vapori, che issofatto le tenner dietro, e vorticosamente innalzandosi disparvero. Ai 5 giugno del seguente anno consumi meteora irraggiò sopra Città Ducale, e in breve tempo con intenso fragore si dileguò. Per ultimo nella notte dei 25 Gennajo del 1837, un’ampia e lunga fascia d’intensa luce ricinse da settentrione ad oriente l’orizzonte d’Ischia, la quale fra cupo rintuonare scoccava una moltitudine di vivide scintille, ed elassa un’ora scomparve. Il fluido elettrico che per molto circostanze facilmente si accresce nelle nostre regioni era causa di tali fenomeni, i quali formarono Io spavento del popolo, la meraviglia dell’osservatore filosofo, e il subbietto di stranissime e ridevoli dicerie dei pregiudizi, e dell’ignoranza.

Con le innocenti meteore, funesti e dannosi turbini si avvicendavano. Una larga regione della provincia di Terra d’Otranto ai 10 Settembre del 1832 era percossa dalle furie di un turbine, il quale di tratto scoppiava in mezzo ad

Surto fra le borgate di Montesano e di Depressa, percorse con infinito danno uno spazio lungo 15 io 16 miglia, largo 300 passi: abbattuti o divelti gli alberi e sorbitili nel suo vorticoso grembo, io lontana regione gli balestrava: il villaggio di Diso e il Borgo d’Otranto, arrandellati in tanto girone, furono smantellati, e ridotti a cumulo di scomposte ruine: molte persone perirono, moltissimo furon contuso o ferite, e tutte spaventate, ed intronate, trista memoria di quell’irato turbo portarono. Orrendo sovrammodo apparve lo stato della percossa regione dopo rabbonito il cielo. Estesi campi fiorenti di rigogliosi oliveti, orribilmente nudati, e talmente scommossi, e tramutati che a quegli abitanti sembrava aggirarsi in luogo peregrino: lo sguardo, prima arrestato dai fitti oliveti, ora spingendosi lunghesso la rattristante traccia potea correr libero infino al mare lontano: i cennati paesi e moltissime case di altri paesi, o campestri casipole sfasciati, sgretolati, e convertiti ad un mucchio di tritumi: il mare ingombrato da travi ed alberi confusamente galleggianti.

L’aiuto e la carità del Real Governo punto non si fecero aspettare, e incontanente furono interrati i morti, curati i feriti, ricoverati i mancanti di tetto, provveduti i famelici, soccorsi in mille formo i miseri, confortati i danneggiati, aperta una soscrizione, mandati dal Re grossi soccorsi, cosicché la umanità venne man mano con le sue benefiche opere a riparare i danni, ed allenire i dolori dallo sterminatore turbo lasciati.

Ma è ormai tempo, che fra gli avvenimenti memorabili, che lasciarono orrenda traccia nelle pagine della storia, e nella memoria degli uomini, uopo è che io parli del terremoto che in Marzo del 1832 sconquassò ed atterrì le Calabrie. Infausta regione dall’infausto flagello, sovente e furiosamente agitata e sconvolta. Assai d

imessamente erasi comportato il terribil fenomeno dal 1783 al citato anno,

forse perché allora in quei subiti, gagliardi, e ruinosi precipizi la sua potenza esaurita avea. Ma nel cennato tempo, quasi gli antichi furori riprendesse, con grave ed immensa ruina imperversò.

Nell’ottava luce di Marzo del 1832 nessun segno di prossima catastrofe sulla catanzarese regione si osservava. Placido, e sereno il Ciclo, cheto l’aere, indocilito e terso il mare, spensierati i Calabresi ed alle consuete blandizie o uffici della vita intesi, gli animali coi l’istinto suoi rendere vigili e nunzi all’uomo di tale flagello, quieti e tranquilli, tutti gli elementi adunque erano in pace. Mensogniere apparenze, la terra chiudea nel suo grembo tristi e potenti furori che tosto con orribile sconvolgimento della natura avrebbe sbrigliati. Ed ecco che in sulle 22 ore italiane del cennato giorno la terra lievemente dapprima, e poscia gagliardamente di tratto in tratto si scuoteva, ma non tanto che gravi iatture arrecasse; ma scorsa di un’ora e mezzo la notte orrendi forieri orrendo fenomeno annunziavano. Un intenso, universale, e cupo rimugghiamento sul fiume Corace nella fatale ora udissi, dopo il quale la terra violentemente fu agitata, e scossa per lunga ora, ed ogni cosa fra spaventi, dolori, e fragore, e ruine avvolse. Tutti i paesi che sorgevano tra i fiumi Neeto e Corace in un istante giacquero. Cutro, Roccabennarda, Rocca di Neeto, Papanico, Marcedusa e S. Mauro, divennero in men che non si dice un mucchio confuso di orrende macerie. Cotrone, Santaseverina, Policastro, Altiliella, Mesoraca, Belcastro, Ceropani, Simari, Soveria, Sellia, e Catanzaro patiron molto danno. I distretti di Catanzaro e di Cotrone furono il centro di moto, e il campo dei disastri, ma gli scuotimenti si estesero persino nella Sicilia, e nella Puglia. Molte maniero di movimenti ebbe il tremuoto, ma l’ondulatorio più frequente, e gagliardo. Ai lati del fiume Targine la terra largamente apertasi, eruttò acqua bollente, e melma, la quale costituì dei banchi di arena biancastra.

Altre aperture nelle fertili e ridenti campagne del Marchesato si dischiusero, nelle quali pregevoli e deliziose casino nabissarono.

Una magnifica casina fu dalla violenza del tremuoto partita in due metà, delle quali una allontanata per più di 50 palmi dal sito primiero restò in piede, e l’altra ridotta in minuti tritumi. Rocca di Tacina, piccola borgata, dopo essere stata balestrata mezzo miglio lontana dal suolo ove era edificata, fu smantellata sino dalle fondamenta, e talmente stritolata, che un mucchio d’infrante pietre coverte di calcina polverata all’estremo disfacimento avanzò. Alcune rupi si spezzarono, e grandi massi con grandi rovine ne rotolarono pel dorso delle colline fino al piano, o alle valli.

Né solo la terra, ma eziandio il mare e il cielo era no irati. Il fiotto ingrossato e rimugghiante si alzò sul suo livello, segnatamente nella foce del Targine, invadendo la sponde con larga inondazione. Frequenti lampi solcando la fitta oscurità, fuggevolmente quella grave catastrofe irraggiavano. Ai fragori del tremuto univansi i rombi delle agitate onde, il rovescio d’impetuosa pioggia, lo scroscio di furiosa grandine, lo schianto delle saette e il fracasso del vorticoso vento; le calabresi valli del supremo ed incomposto fragore, orrendamente echeggiavano.

In mezzo a tanto furore della irata natura, miseranda le ore sui miserandi Calabresi si svolgevano. Molti, e forse più felici, moriron di tratto pesti, e sfracellati in mezzo a quei subiti precipizi; moltissimi rimaser feriti o contusi, tutti esterrefatti, intronati, stupidi, allibiti come suoi succedere in mezzo alle subitanee e straordinarie impressioni. I lamenti dei feriti e degli agonizzanti, le strida della paura, le grida dei chiedenti aiuto erano da quell’orrendo fracasso d’infuriati elementi dispersi; sì che ciascuno come poté il meglio ai propri casi accorse, o nella sola compagnia della propria sventura restò.

I più all’aperta campagna corsero, e quivi per la pioggia, la grandine, i lampi, i tuoni e il periglio che la terra sotto ai loro piedi si spalancasse, erano più che viventi, agonizzanti.

Intanto, spuntata la nuova aurora, e scemato cosiffatto furore, ed inanimiti i Calabresi, variamente alla propria salute, e dalle particolari tendenze, e circostanze intendevano. Gli scampati, guardavan con orrore le proprie miserie, ed ormai volgevano il pensiero e lo sguardo alla rovine che rinchiudevano i cari corpi del padre, della madre, del fratello, del figlio; e trepidi e addolorati cominciarono ad aggirarsi per le tristi macerie, colla speranza di trar vivi o semispenti gli amati parenti, ed aiutarli, o dar loro sepoltura se morti.

Al quale proposito narrerò vari fatti di memoria degni. Un G. Mottace era poggiato sur una finestra del suo palazzo, quando esagitata repente la terra scrolla il muro, e tutto pesto si trova sbalzato lungo dalla sua dimora e dall’amata famiglia. Trasse con grave cordoglio nel vegnente mattino a disgombrare le ferali macerie dai corpi o dai cadaveri della consorte e dei figli; ma le continuale scosse di tremuoto la pietosa sollecitudine attraversarono; nella dimane però fra grandi pericoli dissotterrò i figli, e la moglie ormai spenti, e nell’attitudine di costei eravi ancora all’argomento del materno affetto; poiché fu rinvenuta atteggiata in modo come se volesse garentire il figlio dalle cadenti ruine: fortissimo affetto su fievolissimo mezzo poggiato, ella e il figlio in affettuoso amplesso perirono.

In quell’istesso giorno una voce fioca, e lamentevole chiedente soccorso, usciva dai confusi ammassi; ma niuno osava avvicinarsi perché scossa era la terra frequentemente, e per lampi, folgori, e dirotta piova tempestoso il cielo. Intanto posato alquanto l’impeto della natura intorno al mezzodì, sì accorse al luogo da cui la voce emanava, e man mano scostate le macerie, si rinvenne una infelice giovanotta ricoperta dalla trista mora a mezzo busto,

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poiché una (rovo sostenendo altri sfasciumi teneale illese le parti più vitali. Ritornata in luce tutta smarrita, ed esterrefatta, assicurava di non aver sofferto nulla, e chiedeva continuamente acqua. Vuotò la prima, la seconda, e la terza coppa, o poco stante passò di questa vita. Un’altra giovane di diciassette anni, madre di una bimba che poppava, alle prime scosse fuggì, lasciando la infelice pargoletta immersa nel sonno, ma in un istante, prevalendo l’amor filiale a quello della propria persona, quasi dissennata, emesso uà grido, si precipitò nelle ruine, e scomparve. Un’altra giovane, moglie di un artigiano, curava di salvar se e quattro suoi teneri figliuoli, ma non potendolo nello stesso tempo, senza lasciare esposti gli uni por salvare gli altri, Innovali tutti stretti in forte e tenero amplesso, quando fu traboccata e sepolta in quei precipizi. Un villanzone, che nell’ora fatale trovavasi alla custodia di due bovi in un giardino sottostante alla sua casetta, vide col disfacimento delle domestiche mura la stragge della sua numerosa, ed amata famiglia, né parendogli di poter sopravvivere a cotanto dolore, si balestrò volontariamente nelle ruine, e vi perì.

Pertanto i campati da quella catastrofe eran minacciati di fame, perché diroccati i mulini, guasti o dispersi, o ricoperti dalle macerie i viveri; nondimeno la carità dei particolari e quella del Governo non furon (arde né tiepido al soccorso; cosicché man mano si ristaurarono i danni; sugl’infausti avanzi dei nabissati paesi (tanto puote negli animi umani amor di patria) sursero le nuove dimore, ed il tempo, il più solido di tutt’i conforti, rasserenava i cuori dalla patita sventura.

Intorno alla cagione del calabrese sovvertimento furon varie le opinioni, alcuni per lo elettricismo, altri pel vulcanico fuoco inclinando; ma sebbene le cause dei tremuoti fossero, pari a quelle di molli naturali fenomeni, avviluppate in dense tenebre, nondimeno, vagliando tutte le circostanze che intervennero in quella orrenda agitazione, non è a dubitare,

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che sì l’elettricismo, che le influenze vulcaniche contribuirono. L’esclusivismo è mai condannevole, precisamente nella oscura materia delle naturali cagioni.

Il terrestre sconvolgimento dopo la narrata catastrofe quietò, ma non siffattamente che negli anni avvenire di quando in quando ora in una regione ed ora in un’altra del reame lievemente non si ridestasse; anzi talvolta rannodati i suoi furori, con subiti ed impetuosi precipizi scorrazzò, arrecando terrore, ferite, morti, miserie, guasti, o distruzioni di paesi, ed accidenti strani.

Né solo terremoti, e bufere in questo nostro regno avvennero; ma eziandio orrori di alluvioni, furori di vulcani, ed altre tristizie ed impeti di natura, dei quali non parlo sì perché troppo a lungo mi trarrebbe il doloroso tema; sì perché sono per altre pagine conti; e sì perché ormai è tempo che la mia penna dai sconvolgimenti di natura ai sconvolgimenti della società passi.

continua…..

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa2s/01_Storia_di_Ferdinando_II_Regno_due_Sicilie_1830_1850_libro_I_II_II_Giovanni_Pagano_2011.html#AVVENIMENTI

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