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STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 (XI)

Posted by on Giu 13, 2024

STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 (XI)

Dovremmo smettere di definire certi storici “borbonici” e chiamarli semplicemente “preunitari” o “napolitani” nel nostro caso. Non si  capisce per quale motivo il Colletta che non scrive certo un trattato di obiettività scientifica sia considerato uno storico e i napolitani che scrissero al tempo di Ferdinando II siano considerati dei lacchè di regime.

Gli esuli pagati profumatamente in quel di Torino dal conte di Cavour per scrivere le loro ricostruzioni storiche antiborboniche che cos’erano? I depositari  della verità rivelata?

Buona lettura e soffermatevi sul profluvio veramente impressionante di innovazioni normative operate dal Re Ferdinando II.

CAPITOLO XI.

CAUSE DELLA RIVOLUZIONE

Sommario

Falso e condannevole patriottismo. Influenza del feudalismo, particolarmente in Sicilia. Ignoranza, e istruzione fraudolenta. Principii religiosi mancanti o pervertiti. Sette e precisamente la Carboneria, e la Giovane Italia. Procedere sregolato di talune pubbliche Autorità. Ambizione di migliorar fortuna, e pauperismo. Influsso delle rivoluzioni e delle guerre svolte in altri regni. Mancanza di morale. Erronea credenza di bisogno di riforme governative, ed in proposito mirabile organamento del nostro Governo. Qual parte è a darsi al Congresso degli Scienziati. Influenza inglese segnatamente per l’affare dei Zolfi di Sicilia. Principii sovversivi in varie opere pubblicati. Conclusione.

In tanta felicità di Regno discorsa nei precedenti capi, non mancò il tristo genio del male d’intorbidare l’avventurosa opera, e di sbrigliare le furie civili in mezzo a questo pacifico e felice reame. Ebbersi le terre cisfarane i tempi tristi, se l’ebbero le transfarane. Le ribellioni, i tradimenti, la guerra, le congiure, gl’incendi, il sangue, le lagrime, il tutto fecer trista ed agitata non poca parte di nostra vita. Troppo lamentevole e grave la mia narrazione riuscirà! Intanto prima ch’io discenda nella proposta materia, a pregio dell’opera accennar le cagioni che quei tristi effetti produssero, fomentarono, o aggrandirono.

Primamente è a riflettere, che appo noi avea messo radici il cosi detto patriottismo, il quale, retaggio di scompigliata età, sotto mentite vesti turbolenti pensieri celava; dappoiché non era mica il vero amor di patria, laudabile in tutti, pel quale si tengono in cale, e si agognano i veri e positivi vantaggi della terra natia, e sopra ogni altro la pace, alla cui ombra ogni politico bene attecchisce, prospera, e grandeggia; ma era un condannevole municipalismo

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che traeva a propugnare il potere governativo, demolire se occorresse la Monarchia, recare nelle proprie mani il nervo del governo, disgregare il proprio paese dall’assieme del regno, e farne una potenza, un idolo! Le antiche memorie fra l’altro, formavano stimolo alle moderne pretenzioni; ma nei moderni spiriti la virtù degli Avi mancava; daltronde pei tempi mutati, convenne rannodare le membra sparte del reame, e costituirne un’ assieme, che alla comune prosperità via meglio riuscisse.

Di quanti mali fosse origine un tale patriottismo si può facilmente vedere pel nostro reame nei tempi anteriori a Ruggiero. in cui si giacque fra dura e crudele servitù; ed anche, per tacere di altre nazioni, nelle ree vicende della miseranda Italia, lacerata e perduta dal municipalismo delle sue cento illustri città La qual cangrena divorava segnatamente la Terra di là dal Faro, e fu cagione dei suoi e degli altrui malanni; né si era tenuta dallo avventarsi nelle continentali provincie per opera di coloro che, errando nei platonici campi, sollucheravansi al fantastico diletico di riviver negli antichi nomi e nelle antiche repubbliche! Adunque cosiffatta molla morale, insita nella sua purità nell’umano cuore, veniva contaminata dalla peste delle sghembe idee, e parte non piccola ebbe nei rivolgimenti che gravarono sul nostro regno.

In secondo luogo è a considerare, che il feudalismo, abbassato pel primo dallo Svevo Federico, rinvigorito da Carlo I d’Angiò, ingigantito per le due Giovanne, per Ladislao, e per la stirpe Aragonese, esteso e generalizzato nella notte dei Viceré, prostrato dalla virtù di Carlo Borbone, e dal suo figlio Ferdinando, abolito nell’ultimo anno della francese occupazione, non avea mica spento nelle baronali stirpe le memorie, e le abitudini del potere, e quindi sotto cenere ravvivava la scintilla dell’odio contro il Governo, che avealo snervato ed abbattuto, né la influenza sul popolo ai era estinta.

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quale tarlo rodeva principalmente in Sicilia, dora la feudalità era abolita più nella teoria che nel fatto; poi ché anche dopo la magnanima abdicazione fatta dai Siciciali Baroni nel 1812, rimanevi confuso il campo dei dritti conservati, e degli spenti, sì che infiniti erano i dubbi, le fraudi, le liti, e gli scontenti, quali per fermo si volsero contro la restauratrice opera del Governo quando in dicembre del 1838 davasi l’ultimo colpo alla feudalistica idra; la quale a gran fatica si direzzava dalle reliquie dei poteri locali, e speciali, ed inclinava il capo ai principi del dritto comune. Per la qual cosa andava fecondando ai danni del Governo le pretenzioni degli antichi privilegi, della Costituzione del 1812, della indipendenza politica dell’isola; ed a convalidar tutto ciò concorreva la idea della inglese garenzia, come ad accender gli animi mirabilmente influiva il cennato municipalismo, la falsa idea che le miserie dell’isola provrenissero dalla unione con la parte continentale, ed altrettali cose. Potentemente in ciò i figli della feudalità con le loro influenze e relazioni si adoperavano.

In terzo luogo è a riporre la ignoranza. In altri tempi invalse la credenza, che la sicurezza dei Governi posasse sulla ignoranza dei popoli, ma quando fosse lontana dal vero, bene la storia e la logica lo mostrano. Il vivere sociale è un perenne esercizio di dritti e di doveri generali e reciproci, e quando s’ignorano i limiti degli uni, e degli altri non havvi che scompiglio, oppressioni e barbarie. L’ignorante in ogni ordine o atto governativo non vede altro che arbitri, scaltrimenti, avarizie, spoliazioni, usurpamenti, tirannidi, e quando i freni dei Governi si rallentano o si disciolgono egli è come belva infierita, che l’onore, la proprietà, il giusto, l’onesto, tutto mette in fascio e calpesta. Volgendo per poco lo sguardo sulle rivoluzioni, facile si rende lo scorgere, che le ignoranti masse ne costituiscono il nerbo; e che i falsi dottrinari sen

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Quali sono le più gradite parole per adescare le moltitudini? scemamento o franchigie di balzelli, libertà di azioni, appropriamento dell’altrui, impunità di delitti, ed altrettali cose, che formano orrende mostruosità innanzi agli occhi di coloro che non sono ottenebrati dalla ignoranza dei debiti sociali. Grandissimo servigio recherassi alla Società allorquando una opportuna istruzione, rischiarerà le menti delle plebi, e dirozzeralle da quella scoria, che i buoni principi sperdendo, le tiene pericolose. ai Troni, e ad ogni forma governativa. La cicca e forzata ubbidienza si addice ai bruti, la ubbidienza illuminata è propria della umana natura; e guai alle società che su quella e non su questa s’industriano di poggiare!

Pertanto non è a trasandare, che se la ignoranza è un flagello, la istruzione perversa è più grave flagello; imperciocché tenendo a guida gli errori, i falsi principi, il vizio, fa sì che tutte le azioni su di essi si modellino, che si acquisti una idea sghemba o esagerata delle cose, e risvegli desideri senza soddisfarli; poiché non mai nello errore, ma nella verità l’intelletto si appaga, e si riposa. È noto per le istorie, che le corruttele, e le malvagità dei sudditi di Tiberio e di Nerone, tenner dietro alle oscenità del teatro, e dei libri licenziosi, i quali non fanno altro che aggrandire quella tendenza al male che naturalmente nell’umano cuore stà. E le recenti rivolture tenner molto alle idee del comunismo, e di altre sociali empietà, nascenti appunto dalla sregolata e malvagia istruzione. Allorquando la mente è preoccupata, o invelenita da falsi principi le scritture si leggono, si contentano, e s’intendono sì come indica la fallace guida, o le passioni che più spesso traggono al male che al bene.

Vedemmo nei nostri giorni una genìa di soppottieri menar vampo di una istruzione leggiera, senza principi, superficiale, e gittarsi alla politica letteratura senza verun

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È degna di nota un’ altra causa, ossia la mancanza della Religione. Egli è noto, che il Cristianesimo venne a blandire con le dolcezze dei suoi precetti la ruvidità degli uomini, a porre un ordine nello scompiglio della società, a rattemprare le immoderatezze nascenti dalla umana perversità, a spezzare il trono della forza brutale, ed a richiamare alla dignità evangelica tanti uomini segno di degrada mento, e di abiezione. Per la qual cosa dove manca la fiaccola della religione tutto è bujo, brutalità, orrore. L’umanità quasi ancora si risente del terrore, e delle furie prodotte dall’ateismo, e dalla demoralizzazione dei popoli. Tutti coloro che si ebbero il fatal pensiero di mettere dall’un dei lati la morale cristiana, e sostituirle i precetti e le massime dei loro sistemi, non fecero altro, che aprire un minaccevole abisso ai piedi della società.

E questa cagione non ha lasciato di metter la sua pietra nell’edifizio della rivoluzione; e in fatti per poco che si volga lo sguardo sul modo di vivere delle moltitudini è agevole il ravvisare come e quanto ricalcitrino e si dilunghino dai soavi precetti di Religione le operazioni e le azioni di quelle. Un continuo tranello d’inganni, di trame, di scaltrimenti, in cui l’uno cerca d’impigliare e soppozzar l’altro, domina in tutte le sociali trattazioni. Cosicché la scuola della malizia è il primo campo in cui si spingono i vergini animi affine di ammaestrarsi bene nell’arte di circonvenire e avvolpinare. Anzi, la perversa età onora del titolo di acuzie intellettuali le trufferie e gl’inganni, e i più onorati nomi con le più nere immoralità o colpe profana. Qual è la religione delle plebi? Pronto il labbro alle parole ed alle proteste, prontissime le membra alle pratiche, bugiardo il cuore, errante L’ intelletto.

Però se molli ignorano, non pochi contorcono i principi religiosi ed a vituperevoli mire con ingannatrice parola li avviano; si che i dolcissimi frutti io feral veneno convertono!

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Vedemmo nei tempi nostri (cosa incredibile!) proclamarsi eretiche e sovvertitrici massime, dello quali lìami consentito di tacere. Per la qual cosa, non rechi meraviglia se il tristo seme della ribellione abbarbicò in quegli animi medesimi, in cui dovea esser precetto di amare e rispettare coloro che sono al limone dei regni. Venne tempo in cui ad altro non miravasi, che a scrollare la Cattedra di Pietro, sbandire i Ministri di Dio, disperder la religione dei Padri Nostri!.. (1)

Un’ altra potente e principal cagione furono le sette, le quali nei tempi passati avean conturbato le varie nazioni, né si erano spente con le vittorie dei campi, né con le amaritudini dell’esilio, né con le angustie delle carceri, né con gli orrori dulie mannaje, imperciocché i mezzi materiali non hanno imperio sulle credenze o sulle opinioni; che anzi si erano andate moltiplicando come i capi dell’Idra di Lerno, e risorgendo sotto nuove forme, e con nuovi riti, ma sempre con egual furore, e con rei propositi.

Il nostro regno al pari, e forse più di ogn’altro, fu ostello di varie sette, fra le quali per potenza ed importanza vuolsi notare principalmente la carboneria. Taluni napoletani esulati nel 1799, rimpatriarono di Svizzera e di Alemagna, dove la setta sotto altro nome scorrazzava, e la introdussero nel Regno, ma per vario tempo rimase fiacca e inosservata. Corrente il 1808, dopo vario quistionare, creduta sostegno de’ governi nuovi, fu destata dallo annighettimento e favorita nel reame dalla Polizia: Don eravi classe che non ne fosse largamente intinta; sì che salita in potenza ed in fama,

(1) Mazzini cosi scriveva ai suoi proseliti. «È impossibile nella Penisola ogni prosperità, ogni gloria patria, ogni civile incrementa tinche si mantiene vigoroso il vecchio Cattolicismo, e con esso il potere temporale dei Papi…»

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tentò sconvolgimenti e mutazioni governative nel 1814

secondo de’ napoleonidi, che in quel tempo campeggiava sulle rive del Pò, mutati in lui i sentimenti, per supplizi ed editti la proscrisse, e perseguitò. Urtata e compressa la setta, sì come avviene delle grandi potenze, riurtava e reagiva, si ravviluppava per segni riti e luoghi nel più profondo del segreto, ed intendeva ai danni di colui che prima di favori, ed ora di supplizi e di angustie la empieva; ma un unno dopo usciva di nuovo all’aperto, perché il Persecutore, ormai bersaglio di avversità di fortuna e di guerra, richiesela soccorrevole come puntello dell’usurpato e barcollante soglio.

Tornato Re Ferdinando I di Sicilia tolse a purgare il reame di qua dal Faro da tutte le forastiere contaminazioni, epperò volgeva i pensjeri e le forze contro il Carboneria. Canosa le tessé trame per discuoprirla nei suoi cupi recessi, la percuoteva, la straziava, la sperdeva, ed ella, concitata e vista la sua potenza, reagiva, rioffendeva. Conculcate le leggi, minacciate le autorità, empiuto il reame di sdegni, di vendette, di sangue, ormai un abisso civile si era spalancato. Pertanto, usati mezzi più opportuni, la Polizia al fine pervenne a disperdere la Carboneria, ma non a spegnerla. La rea scintilla sotto cenere appicciolita sì, ma viva rimase, atta quando fortuna consentisse di apprendersi fra le umane passioni e divampare qual prima gigante e minacciosa. Indarno adoperossi il Governo a spegnerla all’intutto; poiché il pugnale dei settari mettea il silenzio nel labbro degli offesi, e degli accusatori, la menzogna in quello dei testimoni, il torpore nel braccio dei maestrati; le quali cose eran cagione che aspirassero alla rea società le più ree coscienze del Reame; quindi la scintilla cominciò man mano a rinfocolarsi ed allargarsi; sì che intorno all’anno 19 del corrente secolo era ridestala, ed insinuata con maggiore o minore estensione

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e facile quando il volesse a porre a sconvolgimento il Regno: ed a sconvolgimento il pose quando udissi la rivoluzione di Cadice: allora la Consorteria superba degli ottenuti risultamenti e della sua potenza, via maggiormente inorgoglì, crebbe e si rendé gigante; e quando dopo la venuta dei Tedeschi, fu dissipata ed oppressa, no rimasero le triste reliquie; poiché negli nomini le opinioni, le credenze, Io abitudini, la memoria delle passate cose non sì tosto, né sì compiutamente si spengono, ma resistono al tempo, per le persecuzioni si rendono accorte e scaltrite, e tali che nelle emergenze l’antica radice si rideste e rinverda.

E la setta man mano rinverdiva e rialzava il capo. Altro nome assumeva; in altri riti s’iniziava, e in altri misteri si avviluppava, le nuove sulle vecchie intemperanze tallivano; non però dal reo principio cessava. Mazzini in Ginevra innalzava il vessillo della Giovane Italia: dicendo. «La società dei figliuoli della Giovane Italia, è diretta alla necessaria distruzione di tutt’i Governi esistenti nella Penisola italica, per fare di questa uno stato solo, con reggime repubblicano. Riconosciuti i mali del potere assoluto, e le velleità ancora più inique e funeste delle costituzioni rappresentative, e miste; la repubblica, una, indivisibile, presenta il minore numero di mali ed i maggiori vantaggi morali, politici, ed economici».

Attorno a cosiffatto vessillo andavansi a radunare tutti gli eredi delle precedenti rivoluzioni, e i cupidi di novità, i quali nulla sperando nella pace delle presenti società, riponean tutto nel soqquadro universale; si facea stampare e pubblicare un Catechismo in cui erano distese le regole di affiliare i seguaci, i precetti da serbare, le opere a cui si dovea vacare, e infine i modi co

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Intanto contro la Giovane Italia non si tenevano inoperosi né la stampa nei Governi, ché fin dal 1833 fra le altre cose in un giornale a tal modo si diceva. La Giovane Italia è il flagello della religione e dei troni, è l’ordina dei sicarii e degli atei che agisce per due principii, irreligione e disperazione; è un ordine avido di sangue sacro, di sangue Cristiano, di sangue dovizioso. Vuole in ostaggio il Papa, persuaso dall’antica verità, che chi ha in poter suo ti Pontefice, ha in suo pugno l’Italia. Lo vuole in ostaggio per dargli morte, o trasferirlo a somma grazia in America. Vuole il sangue dei Cardinali per far cessare il Pontificato Romano; vuole la morte dei Vescovi per abolire il primo sostegno d’Italia, cioè la Religione Cattolica; vuole scannare gli ecclesiastici tutti, leggitimisti, liberali, moderati, carbonari, musoni, giansenisti, in odio al loro carattere, e per timore che i sacerdoti settarii per ambizioni o avidità, non si facciano capi dei popoli dopo la strage degli altri. Intanto per raggiungere lo scopo bramato, vuole studiare il debole loro per assaltarli, e vincerli, vuole indurii a predicare la ricolta al volgo col Vangelo alla mano, con la bandiera al campanile ed al fianco dell’altare, per poi scannarli sull’altare e distruggere altare, chiesa e campanile.

Dall’altro lato i Governi Italiani stavano a guardia delle mene della setta. L’Italia centrale era severamente invigilata. Re Carlo Alberto nel 1833, addatosi che le industrie settarie miravano a contaminare l’armata, percosse la Consorteria con esili, catene, e morti; medesimamente l’Austria mandava molti settari fra le orrende mura dello Spielberg. La setta nell’anno appresso irruppe in sul limitare della Savoja dalla parte della Svizzera, ma con breve e scarso successo. Intanto Mazzini bandito dall’Italia, dalla Francia e dalla Svizzera riparava in Malta, e poscia in Londra, soffiando sempre nel fuoco della rivolta; i Governi Italiani stavano in guardia; ma con tutte le precauzioni, le minacce,

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e le pene mise radici la Consorteria, i suoi emissari percorrevano dall’uno altro capo l’Italia, tutte le sue cento città ne furono contaminate; si aspettava il tempo opportuno ad insorgere, e sovvertirla: il tempo venne: la miseranda Italia fu dai suoi rigeneratori piena di sangue, di lamenti, di tutto, di lacrime, squarciata, derelitta, oppressa. Il Tebro, l’Arno, il Sebeto, l’Orete, il Pò, la luttuosa catastrofe portarono!. Fra le cagioni annoverar si debbo ancora il procedere debole, o indeterminato, o pigro, o ingiusto o altrimenti sghembo di talune Autorità. Il che talora era supposto; perché non mai avviene che l’andamento, eziandio rettissimo, della giustizia non lasci in uno dei contendenti la persuasione della ingiustizia, ed il malcontento; mai non avviene, che un condannato si dichiari pago del fatto de’ Magistrati, e che non meni scalpore contro di essi, e non gridi alla ingiustizia, al ladroneggio e a simili cose; è impossibile che le Autorità, le quali nella loro carriera smuovono e propugnano le passioni, non sian segno dì esse; e questo nasce dalla stessa natura dell’uomo, che crede regolari le sole cose che non facciano ai cozzi coi suggerimenti e le vedute dell’amor proprio. Quantunque però in questi casi sia erronea la origine dello scontento, e sempre uno scontento, che partorisce livore e sdegno contro il Governo.

Dall’altra parte non è a preterire, che il potere governativo diramato dal Re ai Sottostanti, non si sia realmente mantenuto puro e mondo come nella fonte da cui emana, ma in molte e gravi corruttele siasi ammelmato. Vero è che coloro i quali spingevano la macchina governativa tenevano prescritta la loro azione da ordinamenti opportuni e saggi; perché l’umana natura è sempre arbitraria, essendo sotto la influenza delle passioni, e la legge come frutto di ragione e di meditazioni o impassibile; ma è pur vero che non àvvi cosa giusta, e sacra che la umana indole non possa conturbare.

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Senza di che moltissime cose v’ha, nelle quali la legge lascia alle Autorità il libero arbitrio, o accorda un potere con certa larghezza. Ora in questi casi avvion talvolta che si dà luogo a deferenze, a favori, ad arbitri. Troppo felice sarebbe la società se i depositari della pubblica Autorità si attenessero ai dettami della giustizia, e della religione!..» L’armonia gerarchica, dice uno Scrittore, consiste appunto nell’armonico componimento dell’unità e della pluralità, onde la potenza travasata dal principe quasi apice della piramide sociale sino ai capi del comune, unendo i due estremi anelli della catena civile il Trono ed il Municipio, fa di tutto lo Stato un corpo ben organizzato».

Se non che il Real Governo non avea trasandato di apportare un riparo a tanto malanno; e più indietro si è riportato il memorabile rescritto, nel quale Re Ford in nudo esprimeva il suo rammarico per la poca attività, o la fiacchezza, o il procedere altrimenti abusivo e sghembo dei pubblici funzionari, ma con tutte queste cure, e generose ed ottime disposizioni per trarre o mantenere nella buona via i depositari della pubblica autorità, non si coglieva tutto il frutto desiderabile; perché le umane passioni difficilmente si dominano; sì che dove il Sindaco, dove il Giudice, dove il Cancelliere, e dove altri Impiegati, continuavano nel condannevol tenore, il che scontento nelle popolazioni, ed odio e periglio al governo ingenerava.

Ned è da trasandarsi nel novero delle cagioni il pensiero di migliorar fortuna; il quale in taluni da mire ambiziose, in altri da necessità nascea. Molti in verità non paghi dello stato in cui la Provvidenza o le loro speculazioni, e fatiche l’han messi, corrivi sempreppiù agli onori ed all’opulenza, amano i sovvertimenti de’ Regni

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sovente traggono nelle più alte regioni le più basse e grette materie, ed al cangiamento della fortuna degli arrischiati e dei malvagi si prestano. Pur troppo si riprodusse nei nostri dì la turpe scena, già in ogni rivolgimento osservata, di. vedere cioè la turba dei Novatori chiedenti a tutta gola premi, impieghi, gratificazioni, somme, considerazioni, posti luminosi. S’incomincia con le melliflue parole del filantropismo e della fratellanza, si finisce con gli schifosi fatti dell’individualismo. La credenza riformatrice è mezzo, l’immegliamento del proprio stato scopo.

Intanto per molti il desìo di migliorar fortuna era una necessità. Il pauperismo è per vero dire uno stato violentissimo, il quale un orrido presente ed un più orrido avvenire chiudendo, ogni buon sentimento nel cuor dell’uomo inaridisce o spegne. Colui che ha nerboruto il braccio, e che per la infamia della pazza fortuna lo stende indarno alla carità del suo crudo Fratello, e trae innanzi vita grama e miseranda, si turba nel morale, muta sentimenti, non la conservazione di una per lui deserta e ingrata società desidera, ma il sovvertimento, e la distruzione ne desidera, e ad ogni più rischiedevole impresa si abbandona. Al contrario, colui che possiede di che far paga, ed accomodare la vita, si contenta del suo stato, e punto non si cale dei sovvertimenti; sì perché il ricco difficilmente rinnega alle dolcezze delle sue abitudini; e sì perché teme di perdere le sue sostanze.

Si è osservato nei tempi antichi e sotto i nostri occhi, che i ribollenti stuoli sono in gran parte ripieni di coloro che non potendo altrimenti vivere, ne cercano i mezzi nella rivoluzione. Se tutti gli abitanti di un Reame potessero godere di una discreta agiatezza, io son di credere, che le rivolture non avrebbero strumenti o satelliti;

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come se nella Decorrenza la turba concitata non potesse o non sapesse farsi ricca in un’istante, recandosi nelle mani il danajo del pubblico, o imponendo tasse e balzelli, o altrimenti crassando; e senza pensare che il povero è spinto dalla disperazione ed il ricco da un capriccio, e quella sta al di sopra di ogni molla spirituale.

Un’altra potentissima causa deve riporsi nelle idee lasciate o smosse dalle rivoluzioni e dalle politiche commozioni. Allorquando le nazioni sono scosse dalla politica bufera, gli uomini non ritornano sì presto nella calma; ma per lungo tempo rimangono esagitati, e quasi da aure febbrili mosci. Le tempeste civili, non son dissimili dallo naturali, le quali, dopo che il cielo dispogliatosi dell’orroroso ammanto, è ritornato sereno, tuttavia ne lasciano le reliquie nel rimugghiar del mare e nello scorrer dei torrenti; che anzi si arrogo, che le rivolture per la proscrizioni, o gli esigli, o le prigioni, o le morti o per altri necessari colpi della legge, rimangono nella società semi di scontento, di odi, di sdegni, epperò quasi novelle Fenici, dalle proprie ceneri risorgono.

Le rivoluzioni che si frequentemente turbarono le società nel secolo presente, e segnatamente le ultime, che quasi nel limitare del nostro Regno si svolsero, non erano avvenimenti che si potessero rimanere senza riverbero in mezzo alle sociali masse fra cui si consumavano; ma pari all’eco che di una in altra balza ripercuote la voce e la moltiplica, da uno in altro stato si ripercossero e moltiplicarono. I quali politici ripercuotimenti mirabili effetti cagionano: i cervelli, segnatamente fra popoli scaldati dal clima meridionale, si mettono in fermento, l’entusiasmo ottenebra il lume della ragione o lo spegno; i sentimenti si

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per tal modo s’imbastisce la rivolta, la quale non bisogna che di una lieve scintilla per attuarsi. In tal guisa vedemmo, che la sollevazione di Cadice fé scompigliare il nostro reame nel 1820, e frescamente quella di Palermo quasi tutta Europa sconvolse.

Già per noi si ò accennato in sul limitare di questa istoria di quanti rumori risuonasse il mondo nel 1830, ora mi farò a soggiungere in poche parole, che la tranquillità mai non si vide più, ma di gravi sollevazioni, e di esiziali guerre gli anni avvenire furon pieni. La irrequieta Francia sovente agitata nella Capitale e nei Dipartimenti; battaglie ripetute in Algeria; la Spagna per lunga ed orrenda conflagrazione insanguinata e guasta; il Portogallo dalle parti lacerato; tardi posate le ostilità fra il Belgio 6 l’Olanda; Polonia da varie e per lei funeste battaglie percossa; sollevazioni in Lussemburgo e nell’Annover, Siria invasa dalle armi egiziane; Grecia qui e colà per rivolgimenti e sangue trista; la Svizzera fremente; e per venirmene all’Italia, rumori svariati vivente Papa Gregorio XVI, tenner sossopra Bologna, Parma, Terni, Spoleto, Ancona, Faenza, Rimini, Forlì. Ora in mezzo a tante mutazioni e guerre, e segnatamente a quelle che quasi in sulla soglia del reame nostro avvennero, gli animi non poteano non esserne tocchi e smossi, né non dileticati dallo stimolo della imitazione, la quale è come la correntia che trae tutto seco.

Fra il novero delle cause non sono da porre in non cale la immoralità e la corruttela che guastano quasi tutte le classi della società. Pare a prima vista, che fra genti illuminate dalle faci del Cristianesimo non dovesse allignare siffatta cangrena; aia per noi si disse antecedentemen

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, appunto come i grandi fiumi derivano dalle piccole gocciole di acqua che nel grembo dei monti insensibilmente trapelano.

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Mettendo da parte altre riflessioni, monta qui soggiungere, che la demoralizzazione, pari a contagioso fomite, si apprende facilmente da individuo ad individuo, e segnatamente si radica nelle classi inferiori per lo infame esempio delle classi superiori; poiché è nella umana natura che il piccolo segua il grande, l’inferiore si modelli al superiore, il povero imiti il ricco; senza di che l’umana natura tende facilmente al male, lo vagheggia, e vi si appiglia «ove la virtù non osti. Per la qual cosa i u mezzo a tanti fatti d’immoralità e di corruttele non fia meraviglia se una rivoluzione si fosse tramata e messa in atto; se la mutazione di un provvido governo, abbia potuto formare Io scopo di genti che ben altro dovevan proporsi o cercare se avessero avuto a guida la morale. Né fra le cagioni è a pretermettere la falsa credenza, che il governo nostro non poggiasse su basi regolari e giuste, ma che di riforme bisognasse. La tendenza alle novità per ordinario rende esoso all’uomo Io stesso tenore di essere, e purché si passi ad uno stato nuovo, poco o nulla si cale di vagliarlo esattamente, e di calcolare se ciò che dicesi vecchio sia da posporre al nuovo. Gli uomini di tal fatta non sono dissimili dagl’infermi, i quali credono di ghermire le loro pene dimenandosi pel letto, e mutando loco e positura.

E qui cade in acconcio riflettere, che la bontà dei Governi non dipende dalla forma governativa, ma sì veramente dalla sostanza consistente nelle leggi; imperciocché la tirannide è pianta che può allignare dovunque, e più spesso sotto al repubblicano berretto si cela; poiché le passioni sono più sbrigliate, e manca un Moderatore Supremo che le infreni; e qui è opportuno far rilevare di quanta giustizia e rettitudine il nostro sistema governativo ridondasse.

Il celebratissimo Congresso di Vienna ristaurava nel 1815 la Monarchia delle due Sicilie, e stabilivane il governo con leggi accomodate, le quali mentre erano il risultamento della migliore civiltà de’ tempi,

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offrivano la maggiore libertà cui da uomini costituiti in civile consorzio puossi aspirare. Precedentemente dissi, ed ora ripeto, che è impossibile riunire libertà naturale e Società; poiché i a questa si moltiplicano i rapporti, e quindi i doveri, epperò la libertà naturale viene ad essere ristretta, e risecata. Ciò non però di meno il nostro sistema governativo è talmente fatto ed organato, che presenta la maggior libertà civile, o in altri termini il minor possibile sacrificio dei naturali dritti;

Tutti gli abitanti delle due Sicilie agli occhi della Monarchia sono eguali, qualunque sia lo stato, o la condizione delle persone, garentisce ad ognuno l’esercizio dei dritti propri, ossia il legittimo uso delle facoltà individuali, e dei beni che si posseggono con titoli legittimi. L’Augusta Stirpe Borbonica che avea messo in fascio il feudalismo, non potea far distinzioni di privilegi, di classi, di caste, di esenzioni, d’immunità. Ella riguarda allo tesso modo tutti, premia la virtù dovunque la trova, eziandio nelle classi ime della società, castiga e perseguita il delitto, eziandio sfolgoreggiante fra le classi supreme.

Una rappresentanza comunale aveano i Comuni nel Decurionato, un’altra i Distretti e le Provincie nei Consigli Distrettuali e Provinciali, alle quàli la legge non denegava la facoltà di manifestare tutte quelle cose che alla tutela allo interesse ed all’amministrazione dello popolazioni sono più opportune. La Consulta di Stato, il Consiglio dei Ministri, il Consiglio di Stato erano altrettante rappresentanze in cui i vari affari si ragliavano pria di decidersi diffinitivamente; ma con la posatezza del calcolo, non mai con la garrulità e le irruenze delle Tribune.

Il dritto di proprietà è convenientemente ordinato e

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Il nostro Codice penale, a sentenza dei più dotti giuristi, è il migliore di Europa.

Dall’alto del Trono parte la universale azione, la quale affiancata nei nostri Re dalla Religione, o dalla virtù, imprime alla società quei moti che tanto si ammirano pel progresso in cui è stata spinta. Felice l’età se l’azione governativa si diramasse nei subordinati incontaminata e pura, come è al fonte; poiché allora la giustizia delle leggi, e la perfezione del sistema governativo recherebbero veramente quella felicità, che forma l’obbietto dei comuni voti.

Ben troppo deplorevole era la nostra condizione, come di ogni altro paese, allorché i principi del dritto comune venivano ad infrangersi sovente fra le sirti dei poteri speciali, e moltiplicati nelle particolari sovranità. La Monarchia redense le popolazioni da tanto dolore: mise in fascio tutte le piccole tirannidi, strinse in pugno i poteri venienti dalle leggi, garanti a ciascuno i propri dritti, e dalla moltitudine delle piccole schiavitù, trasse gli nomini alla dignità di popolo. Il Governo Monarcale adunque, che trova il suo specchio nel Cielo, e nel governo elementare della famiglia, non faceva sentire appo noi verun bisogno di novità, né di riforme. Già per noi si è posto nei precedenti capi il rilevantissimo progresso fatto durante la Monarchia, il quale ha spinto il nostro reame in uno stato di ammirevole prosperità. Il civile progresso viene da se con la mercé del tempo e dei principi governativi; poiché il progredire nell’universo è legge decretata dalla intelligenza suprema a tutto il creato, e non mai dalle politiche procelle, frutto dei passaggieri, e tumultuari poteri; poiché questi violentando l’azione del tempo e dei principi oppugnano il natural corso delle cose od in cambio di beni, arrecan mali. L’umana natura non è l’atta per andar di salto, ma sì per gradi, ed ove questo incesso trasanda, cade in pericolosi aborti.

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L’età si succedono gradatamente, lo funzioni a poco a poco s’ adempiono, la natura organica svolgesi man mano. Ma quando un morbo contamina o disturba quel progresso, tutto va in conquasso. Lo rivoluzioni fanno alla società ciò che i morbi alla natura organica. Riforme adunque non occorrevano, o solo i ribelli voltarono l’occhio a questa voce per aprire un’altra porta ai proponimenti, e trovare altro modo onde conquider proseliti.

Fra lo cagioni si è voluto dare gran peso da taluni al Congresso Scientifico che il buon Ferdinando, seguendo i dettami del suo grande amore per le scienze, permetteva in Napoli nell’autunno del 1845. Quali accoglienze fossero fatto alla dotta moltitudine, di quanta clemenza il Re l’avesse empiuta, di quanto piacere fosse Napoli piena, e di altre cose non occorre qui dire; perché notissimo per ciò che antecedentemente se n’è detto; solo poserommi su di alcune riflessioni nel dare al Congresso quella parto che gli spelta alla nostra, ed alla italiana rivoluzione.

Dare con d’Arlincourt il nome di propaganda rivoluzionaria al Congresso, o credere che tutti gli Scienziati che lo componevano tenessero per la Giovane Italia, e lo stesso che andar contro i fatti, seguire frasi erronee, darsi in preda a declamazioni passionate, e scrivere inesattamente; poiché moltissimi onorevoli membri di quell’adunanza sono fautori e amanti del Monarchico Regime, ed ammiratori delle virtù che ornano Re Ferdinando, condannarono quelle insensato rivolture e con le parole e con gli scritti, e tuttavia occupano gl’impieghi che avevano, o altri che in seguito hanno ottenuto.

Pertanto se ciò è vero, è anche verissimo, che la setta,

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Fuvvi anche un’altra potentissima cagione, ossia la influenza inglese, che mirava a sovvertire l’Europa per consolare i suoi sdegni nascenti dai matrimoni spagnuoli mandati ad effetto lei repugnante, e dal contratto dei zolfi siciliani, che ebbe un esito consentaneo al dritto, ma non alla inglese volontà. Della quale ultima circostanza, come quella che riguarda il nostro reame, uopo o che io dicessi ora alcuna cosa, che per manco di opportunità in altre carte non ho potuto dire.

La interessantissima industria degli zolfi in Sicilia ha mai sempre richiamata l’attenzione dei nostri Re per immegliarla e renderla più fruttifera; e massima fu quella di Ferdinando il quale vedeala ai suoi tempi assai scaduta; nel mentre che aumentavasene lo smercio per lo crescente bisogno delle fabbriche dell’Inghilterra, della Francia, degli Stati Uniti di America, del Belgio, dell’Olanda, e di altre Nazioni.

I Negozianti inglesi avean messo mano fra quelle ricchezze, e formato un monopolio, pel quale era spinta ad estrema mina la industria dei Zolfi;

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per essi eran tenute le principali zolfataje, per essi incettavasi il minerale dai piccoli o poveri proprietari, sì che vendevano lo zolfo allo straniero a quel prezzo che meglio tornava utile. Della ruina della sulfurea industria tutto il commercio risuonava.

Nel 1834 una Compagnia di Commercio si fece a proporre di acquistare unicamente per lei tutto lo zolfo di Sicilia per dieci anni; ma una Commissione appositamente istituita dal Governo, vedutone il monopolio, frastornava la proposta. I mali per la forestiera cupidigia, non pure continuavano, ma volgevano in peggio. Nel Marzo del 1836 i Negozianti Francesi Taix ed Aychard proposero al Governo un contratto, che presentava maggiori e particolari vantaggi, fra i quali notevole era questo, che 400 mila ducati annui si volgessero ad abolire il balzello del macino rurale, che segnatamente gravava sui più bisognosi agricoltori, e popolani; epperò il Re, dopo uditi i pareri di una Commissione, e della Consulta, approvava il contratto nel Luglio del 1838.

Ciò non andò a sangue dei speculatori inglesi, i quali si vedeano sfuggito di tratto le preconcette speranze; si che cominciarono a muovere alto scalpore, allegando essersi aperto il varco al monopolio, arrecato un danno al commercio, fatta una ferita al dritto della loro proprietà, rotto il trattato del 1816 tra l’Inghilterra e il Reame delle Due Sicilie; le quali ingiuste doglianze echeggiarono perfino nell’Inglese Parlamento; epperò fu spedito appo il nostro Governo un Mac Gregor, sostenitore della violazione del Trattato del 1816, e di altre assertive.

Insussistente era la violazione, poiché il sulfureo dazio risguardava le nazioni più favorite, fra quali la in

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Intanto il nostro Governo aveva stabilito coi Capi della Compagnia lo scioglimento del contratto mercé un’amichevole indennità, quando il Ministro inglese appo noi fece correre una nota, con la quale chiedeva il tostano annullamento del contratto, e la riparazione dei danni che si asserivano sofferti dagl’Inglesi; ed una squadra inglese ai cenni dell’ammiraglio Stepford, senza dichiarazione di ostilità, correva il nostro golfo predando legni mercantili napolitani.

Memorandi furono in quella emergenza le parole, e i fatti del Re: Rispondea: Trattato del 1816 non è violato dal contratto dei zolfi: in luogo di danni gl’Inglesi hanno ricevuto beneficii considerevoli: Io ho dunque per me Dio e la giustizia; sicché fido più nella forza del dritto che nel dritto della forza. Intanto affortificò i luoghi più opportuni del golfo di Napoli; stabilì un campo in Messina; ingrossò la guarnigione di Siracusa; armò tutta la flotta, ordinò l’embarco sui legni inglesi stanzianti, o arrivanti nei porti o nelle coste del regno. Però guari non andò, e accettata la francese mediazione, si venne ad accordo preliminare, e cessarono le scambievoli ostilità. Il parigino Gabinetto dichiarava non esservi violazione del Trattato; avere il Re delle Due Sicilie il dritto d’imporre qualsiasi gravezza sui zolfi, desiderare però che il contratto Taix si abolisse e si dessero indennizzazioni ove ne scadesse il dritto.

Questa fine ebbe la vertenza dei zolfi, la quale sebbene fosse consentanea al dritto, ed alla giustizia, non però si attagliava alla inglese volontà, e quindi rimanea

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Per ultimo allo svolgimento della rivoluzione potentemente influirono i principi studiosamente sparsi in varie Opere, da costituire una sovversiva letteratura, la quale penetrava nelle menti, ed era avidamente chiesta, perché trattava di novità, che soglion solluccherare gli animi, ed empirli di lusinghe e di speranze. Sorprende pertanto come si fossero largamente divulgati quei principi in Italia dove libera non era la stampa, minacciati erano gli Autori dalle censure ecclesiastiche, e dai colpi delle leggi.

Giuseppe Mazzini soffiava negl’intelletti prima con l’Indicatore Genovese, e poscia con l’Indicatore Livornese; indi redigeva il giornale intitolato la Giovane Italia, il quale era abbondevolmente sparso in talune città d’Italia; infine, ridottosi in Londra, pubblicava un altro giornale, l’Apostolato popolare; nelle quali opere egli andava in vario modo svolgendo il pensiero di scrollare i troni italiani, distruggere il Cattolicismo, o fondare la repubblica.

Giuseppe Ricciardi ponea anch’egli una mano sull’edilìzio con la sua Storia d’Italia dal 1850 al 1900, nella quale, balestratosi a corso lanciato nei campi lusinghevoli della fantasia, andava spaziandosi intorno all’avvenire d’Italia. Comincia egli a vedere gl’Italiani innalberare il vessillo della rivoluziono, scender nei campi, versare largamente il sangue, sobbalzarsi per ben sette anni da una in altra vittoria, o per ultimo raccoglierne il frutto: proseguendo nelle utopie, parla dello istituzioni che debbono allignare fra gl’itali popoli, e trae a riposare la già stanca ed appagata fantasia sotto al rezzo dell’albero repubblicano. Egli dopo aver vibrato la caustica parola contro il Principato ed il Papato, così scriveva «L’Italia è più acconcia

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Quanto prima un’era novella incomincerà per gli uomini, l’era gloriosa di una redenzione».

L’Autore delle Sperante i Italia, ossia il Conte Ballo, discendeva alla riformatrice palestra, accennando alla indipendenza d’Italia, ma per una via diversa dalla Mazziniana; imperciocché mostrata la impossibilità e la inettezza della repubblica federativa, del risorgimento del Regno d’Italia, della lusinga che un Principe solo stringesse le italiche redini, della speranza che tutti i Principi voltassero le armi riunite contro dell’Austria, dello spegnimento del potere papale, di una insurrezione generale, veniva ad additare la via da seguirsi, ed era, secondo lui, una guerra contro i Turchi; perché caduto l’imperio mussulmano, l’Austria si recherebbe al possesso di una porzione di esso, lasciando le italiche regioni.

Veniva a dare una poderosa spinta al corso delle cose l’Abbate Vincenzo Gioberti col suo Primato Civile, e Morale degl’Italiani, nel quale ridestava con fiorita e maschia eloquenza la italica nazionalità, e blandiva gli animi con l’agevolezza e la utilità di riunire la penisola con una lega di Principi Italiani, timoneggiata dal Pontefice. Parimente favoriva le nuove idee il Durando con la sua Opera Della Nazionalità Italiana, nella quale si parlava di riforme governative che miravano alla indipendenza italiana.

Divantaggio Massimo d’Azeglio, cacciandosi anch’egli nel campo, mostrava nel suo Programma, che la via più opportuna per giungere alle riforme consisteva nello instillare nell’animo dei Sovrani moderati sensi liberali, i quali pertanto, sarebbero stati agevolmente accettati o fecondati. «Quanto maggiore (ei diceva) sarà in Italia il

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e felicemente progrediremo nella via della rigenerazione».

Né nel nostro regno inoperose si teneano le penne, anzi l’esempio mentovato accesamente imitavano. Ai 30 maggio del 1847 veniva stampato un indirizzo inforno a taluni necessario riforme che vorrebbero essere introdotte nel regno, nel quale man mano si andavano esponendo i mutamenti da recare in tutte le parti del Civile consorzio, non esclusa neppure la religione, intorno alla quale, fra le altro cose, mentre si ritenea che uno dei principali doveri di ogni buon governo è senza dubbio quello di proteggere la religione del paese, si aggiungeva non perciò non debbesi tollerare le altre religioni!

Dopo l’indrizzo uscirono le Proteste nelle quali, più, svelatamente procedendo, si additava alla pubblica vendetta il real governo, e si facea appello alla ribellione, ed al sangue. Né di la dal Faro diversamente si operava: varie stampe clandestine furono diramate e segnatamente le intitolate Siciliani all’armata, e i Siciliani ai loro fratelli di Napoli, nelle quali con vario artifizio di ragioni o di eloquenza allo scopo della rivoluzione si mirava.

Le quali scritture patrie e straniere ansiosamente chieste, e artatamente divulgate, mirabilmente voltavano gli animi, i quali non dissuasi da principi contrari, erano in quelle idee sprofondati; e tormentati dal desio di attuarle, punto non si sostavano alla vista delle armi, dello minacce, e dei supplizi, e non altro aspettavano che il momento d’irrompere.

Per ultimo una innocente spinta veniva dal Vaticano; poiché i liberali di cose sacre e profane si avvalevano. Morto Papa Gregorio XVI, fu eletto Pontefice il Cardinal Mastai Ferretti, il quale, stimando i tristi or

rinsaviti, sì era fatto ad immegliare in saggio modo lo condizioni del suo reame, e a perdonare tutti coloro, che per politiche. colpe erano in esigilo, o in altre amaritudini.

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Ciò valse a far credere, che Pio IX avesse imbrandita la spada e non l’ulivo nello ascendere al pontificato, e che le mire della setta avrebbero in Lui un saldo cardine! Ma quanto si dilungassero dal vero tali fallacie, bene il mostrarono le prudenti opere per Lui fatte, e segnatamente una memorabile allocuzione, che nel seguente libro riporterò.

Queste sono le cagioni, che per quanto pare hanno prodotto la nostra rivoluzione, sulle quali ho curato di distendermi alquanto, poiché sì come nei mali che affliggono il corpo nulla non si concludo per la salute ove le causo si trascurano, così nei mali politici nulla non si consegue per la pace, ove le cagioni non si evitino. Lo armi vincono le armi, ma non mai le opinioni e le credenze; si che i semi rimangono ascosi, e le scintille sotto cenere quietamente ribollono, e prorompono appena la opportunità no scade. Recide il Chirurgo la parte cancrenata, ma se non toglie le cagioni interne la cangrena rinasce; cosi spengonsi con le armi le rivoluzioni, ma ove le cause non si rimuovono esse non tardano a tallire di nuovo. E qui arresto il mio dire, poiché lascio il campo politico ai sapienti ed intendenti di queste cose, o mi rivolgo alla narrazione dei funesti effetti che alle cagioni mentovate tenner dietro. Di tutto, di lamenti, di sangue, di calamità, di dolore, di sciagure la mia narrazione ridonderà. Cosenza, Reggio, Penne, Gerace, Messina, Palermo, Siracusa, ed altre città, daranno materia al funesto racconto.

continua……

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa2s/01_Storia_di_Ferdinando_II_Regno_due_Sicilie_1830_1850_libro_I_II_II_Giovanni_Pagano_2011.html#AVVENIMENTI

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