Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 (XII)

Posted by on Giu 14, 2024

STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 (XII)

Dovremmo smettere di definire certi storici “borbonici” e chiamarli semplicemente “preunitari” o “napolitani” nel nostro caso. Non si  capisce per quale motivo il Colletta che non scrive certo un trattato di obiettività scientifica sia considerato uno storico e i napolitani che scrissero al tempo di Ferdinando II siano considerati dei lacchè di regime.

Gli esuli pagati profumatamente in quel di Torino dal conte di Cavour per scrivere le loro ricostruzioni storiche antiborboniche che cos’erano? I depositari  della verità rivelata?

Buona lettura e soffermatevi sul profluvio veramente impressionante di innovazioni normative operate dal Re Ferdinando II.

CAPITOLO XIII.

RIVOLGIMENTI E TUMULTI.

Sommario

Breve tumulto nel Principato Ultra. Nefando attentato alla vita del Re; e magnanimo atto di clemenza. Sommossa di Penne nell’epoca lamentevole del Colera. Palermo da rivoluzione e fatti atroci conturbata. Gran sangue, gravi casi, insano furore, incredibili efferatezze, numerose morti, supremo terrore in Siracusa, di eccedenza cotanta punita. Lievi ed innocenti rumori in Messina. Ribellione in Catania. Il Marchese del Carretto riconduce l’ordine e la tranquillità nelle agitate regioni. Moto in Cosenza con feriti e morti, fra quali il Capitano Galluppi. Un nervo di liberali, imbastita in Corfù una spedizione sul napoletano, per fondare la Unità d’Italia, si spingono ai loro disegni, sbarcano sul cotronese lito, s’internano nello calabre campagne, son perseguitati dalla pubblica forza, cagionano e patiscon morii e ferite, o incontrano il rigore delle leggi in Cosenza. Un rivolgimento divampa nel Distretto di Gerace: scoppia in Bianco, si estende in Bovalino, in Ardore, in Siderno, evita la minaccevole Gerace, si trasporta in Giojosa, o in Roccella, dove si arresta e si dilegua in prima per un accidente curioso, e poscia per opera delle forze del Governo. Sommossa in Messina e in Reggio. Tumulti in Napoli e in Palermo.

Dò cominciamento alla trista narrazione dei crudeli effetti che susseguirono allo cagioni mentovate nel precedente capo, i quali conturbarono a quando a quando il periodo di che trattiamo infìno a che un vasto o grave cataclismo sovvertì tutto il Reame, e di estrema rovina il minacciò. Nel 1833 accadde il primo tumulto.

Un branco di sediziosi del Principato Ultra fra quali alcuni beneficati dal Re, uscirono in campagna, innalzando il vessillo della rivolta, o con proclama annunciarono di voler mutare la forma del Governo.

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Guari non andò e la pubblica forza fu sulle loro pesta, o imprigionatili furono. dalla Commissione Militare di Terra di Lavoro condannati alle convenienti pene. Ed è degno di nota che il Re ordinava, che il processo fosse compilato largamente, e che i detenuti fossero trattati con molta discretezza, e si fornissero di tutti i favori conciliabili con la gravezza del loro delitto. Tratto di clemenza, il quale produsse grata impressione ‘nel generale, e non lieve conforto fra le miserie di quegli sciagurati, i quali agitati dal rimorso della coscienza, e mossi da gratitudine, variamente benigni sensi al Sovrano esternarono.

Ma la propaganda, venuto meno il reo disegno, altro più nefando ne concepì, ossia quello di attentare ai giorni preziosi del Re, certamente nel proposito di abbattere la più salda colonna, che sostenea io un punto di Europa un porto di tranquillità nel quale venivano a riparare i travagliati delle politiche commozioni che molte nazioni agitavano.

Un giovane uffiziale di Cavalleria, già beneficato dal Ile, e quattro o sei bassi uffiziali sì proponevano di compiere tanta enormità, allorquando addatisine gli Ufficiali superiori, scoprirono la rea trama; epperò i congiurati cercarono di spegner con vicendevoli colpi le scelerate vite, o altrimenti sottrarsi al rigore delle Leggi. Dei due che si vibrarono i colpi, uno restò spento, l’altro gravemente ferito. Non si può descrivere con parole lo stupore, che invase gli animi nello annunzio dell’orrendo attentato; e lo sdegno contro gli autori di esso.

Intanto gl’imputati venivano giudicati dalla Suprema Commissione pei reati di Stato, e condannati a perder la vita sul patibolo col terzo grado di pubblico esempio. Il dì 14 dicembre di quell’anno era destinato alla esecuzione. Già il palco vindice era innalzato, la truppa intorno ad esso indrappellata, il circostante largo di folta moltitudine gremito, l’orrido corteo dei condannati giunto, e il capo di questi quasi sotto alla mannaja, allorché apparve un nunzio di pace, portante la grazia del Re.

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È indescrivibile l’effetto di tanta clemenza nel punto istesso in cui l’ora suprema parca scoccata per quegli sciagurati. Lagrime di riconoscenza proruppero da tutti gli occhi. E quell’atto di clemenza rimano come gemma nella vita del Re, che splenderà nei futuri sì come nei presenti splendé.

Ritornato invano le triste mene della rivoluzione nel modo accennato, altri modi maturava, e per altre vie si addentrava per giungere al suo disegno; la miseranda occasione del colera fu carpita e messa a profitto. Andavasi soffiando appo noi si come altrove, non essere il colera flagella divino, ma umana nequizia; esso da mani potenti venire; adoperarlo per «sgomentare gli uomini, affinché dalle rivolture le menti declinassero, o mille altre stranezze di tal novero imboccavano, le quali non lievi disordini producevano.

Nel torno di quei tempi era in Penne, città capitale di distretto, una mano di uomini di perduta fama, i quali da qualche tempo mulinavano il disegno di sovvertire il regno. Con malvaggi scaltrimenti nel Maggio e nel Giugno del 1837 spargevano allarmanti, notizie faceano allignare fra la credula plebe il sospetto del veleno, da essi con nefando artificio convalidato, poiché avevano gremite di ostie colorito lo vicinanze delle fontane. Radicata bene la credenza si posero all’abrivo dei rei propositi. Dopo il mezzodì del 23 Luglio di quell’anno d’un tratto sorpresero il posto di Guardia della Gendarmeria, ed innalzarono il grido della rivolta. Mancando la conveniente forza pubblica rimasero padroni della Città, ed obbligarono con le armi i più buoni cittadini a tener dietro ai loro deliri. Durante quel brevissimo periodo si commisero enormità detestevoli per apportate ferite, tentate uccisioni, imprigionamenti arbitrari, minacce, terrori. Monsignor Ricciardoni si mise nella difficile opera di rimenare la sconvolta moltitudine nella diritta via; ma la sua parola di pace e di giustizia non fu punto né poco ascoltala, anzi gliene vennero minacce, ed attentati alla sua vita.

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Però non furono all’intuito sterili le voci del buon Prelato, poiché gl’ingannati di visi dai capi tosto si arresero, detestando i loro trascorsi, ed abbandonando lo file dei sollevati, i quali rifiutati dai paesi prossimani che avean tentato di contaminare, ed ormai inseguiti da un pugno di gendarmi, o spaventati da maggior forza, che era per reni re, si posero in fuga, ma furon tosto assicurati dalla giustizia.

La Commissiono militare riunita in Penne condannava all’ultimo supplizio i capi della rivolta, e ad altre pene altri individui, o diversi altri metteva in libertà. Penne fu degradata anch’essa; poiché la sottointendenza fu trasferita in Città S. Angelo.

Più gravi fatti avvenivano in Sicilia poiché più risentiti gli animi, eran meno inclinati a sopportare il flagello del colera, o più facili a gridare alla umana malizia, e a correre alla vendetta. Lo autorità di Palermo avevano arrestati alcuni pretesi avvelenatori sotto coloro di doverli sottoporre a regolare giudizio, e condannare legalmente, ma nel pietoso fine di camparli dall’ira popolare che allo estremo supplizio li chiamava non riuscivano.

Negli 11 di Giugno del 1837 intanto l’efferata popolaglia immolava al suo sdegno due supposti avvelenatori, e trascinavane gli orrendi e guasti cadaveri per la via della inorridita città. Accorse la forza armata, disperso il furioso brulicame, e s’impadronì dei rei di tanto delitto. Il Luogotenente nominava una Commissione Militare per giudicare e condannare in tempo breve ognuno che si permettesse di arrecare ad altrui la menoma violenza. Il forte comando sortì i suoi effetti: i perturbatori quietarono.

In Siracusa maggiori danni ebbersi a deplorare. Ai 15 di Luglio mentre il colera percuoteva i Siracusani, sparsa la falsa voce, che i forzati erano evasi, la città fu piena di terrore, ma tosto ritornava alla tranquillità; nella dimane, ripetuto il grido, si ripeterono i rumori ed il terrore.

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Nel 17 si formava nini guardia civica nello scopo di, prevenire la catastrofe demanio dal creduto avvelenamento. Nel dì seguente persuaso sempreppiù il popolo da coloro, che ai sovvertimenti intendevano, che il colera fosse opera di veleno sparso dappertutto, ratto s’impadronisce di un forastiero che dirigeva un Cosmarama, della sua moglie, di un suo domestico, e di tre siciliani; dei quali i due primi furon messi in prigione, e gli altri quattro, ligati alle colonne che ricingono la scalinata della Cattedrale, orrendamente sacrificati. Un Commissario di Polizia ebbe la stessa sventura. Nel medesimo giorno una turba sfrenata si spinge nella campagna dove l’Intendente di Siracusa si rimanea per tema del colera, e tosto insignoritosene lo riconducevano nella sconvolta città, e giunto appena nel limitare delle cittadine porto fu crudelmente morto, o i brani del mutilato corpo portati con cruda compiacenza e appesi nello colonne bruttate dagli antecedenti cadaveri.

Gli orrori della commessa tragedia, e le crescenti e magnificate voci del veleno rinfocolavano la fantasia, e quindi aumentavano lo credenze, e le vendette. Il veleno dicevasi sparso nelle saline, nelle cisterne, nella Carina, nei campi, nell’aria istessa; lo autorità credute depositario di quello, e quindi alla suprema sventura chiamate; a tal modo furono spenti non senza fatti d’inaudita ferocia un Ispettore di Polizia con un figlio, il presidente della Corte Criminale ed altre persone in Floridia, dove eransi rifugiate. Nella sera dei 20 una larga illuminazione, ed il suono a distesa delle campane furon segno dei trionfo della efferata ed ebbra moltitudine. Nello stesso tempo una banda armata facevasi all’assalto di un posto di Gendarmeria e di Fanteria, ma ne fu con danni respinta. La guarnigione di Siracusa era ben ristretta, e dovea vegliare alla sicurezza dei forzali e della cittadella senza potersi compromettere per le strade.

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Nel 31 Luglio il popolo era ancora in armi, e nel suo furore, ed invasato tuttavia del supposto veneno, mise a fuoco una bottega, arrestò altre persone, fra quali il capitano del Lazzaretto. Intanto avuta contezza ai 2 di agosto, che il Generale del Carretto era per avvicinarsi con poderóse forze, i deliri andarono al colmo, percorrevano le strade, gridando morte agli ufficiali ed a tutti, cercarono di corrompere i soldati, e si prepararono alla resistenza. Trassero furiosamente con archibugi sur una scorridoja la quale era andata dal Comandante della siracusana fortezza per aver notizie circostanziate degli avvenimenti corsi e dello stato della Guarnigione.

Il giorno cinque Agosto accaddero nuovi furori e nuove morti. Quattro persone fra quali un prete, tratte dalla campagna nella città, il Direttore del Cosmorama, Schwentzer e sua moglie, strappati a viva forza dalle prigioni, alcuni agenti di polizia, ed il Capitano del Lazzaretto, furon menati nella piazza della Cattedrale, e barbaramente massacrati. Le mutilazioni, e i guasti arrecati ai corpi tuttora palpitanti di quei miseri furono incredibili, e degni piuttosto di belve che di nomini. I giorni susseguenti altre barbarie videro. Giovani, vecchi, e fanciulli, donne ed uomini, preti e secolari, impiegati e paesani, e persino un cieco furono a quell’insano e bestiale furore immolati; il quale alla pur fine correndo l’ottavo giorno di quel mese, ebbe termine per l’annunzio dello arrivo delle truppe.

Tutti i colpevoli dopo avere sgomentata col sangue e le enormità la miseranda Siracusa, cercavano di svignarsela su di alcune barche, le quali per altro furon tosto imprigionate e rimenate nel porto da una fregata a vela che già era sorta in quelle acque.

Una Commissione militare fu instituita; ventisei colpevoli furon passati per le armi, e Siracusa degradata, fu in sua vece creata capo luogo del Vallo la città dì Noto.

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Messina fa eziandio da breve rumore turbata per l’arrivo di un bastimento carico di vesti da Napoli, ma respinto questo, tutto ritornò in calma. Non così di Catania, la quale nella via della politica rivoluzione con massimo calore si spinse. Al cadere di Luglio del 1837 con pubblici avvisi annunciavano i Catanesi essere il Colera cagionato da veleni sparsi dappertutto, prendesse opportune misure il popolo, in contrario sarebbe come Palermo decimato e misero. La popolaglia andò tosto a rumore: la piccola guarnigione. disarmata, il busto dell’ultimo Re fatto in pezzi; deposta l’amministrazione; proclamata l’indipendenza della Sicilia. Questo proclama spedito in un istante in tutti i paesi, non ritrovò eco in nessuno, né nella stessa Siracusa, di tanto sangue bagnata. I capi della rivolta, pressati dallo approssimarsi delle regie truppe, cercarono scampo nei vicini monti, ma arrestati, e giudicati da una commissione militare, ne furono messi a morto otto.

In moltissimi altri paesi non dissimili furori, esangue, ed incendi sursero; ma dappertutto ricondusse tranquillità il Marchese del Carretto, mandato in Sicilia con conveniente numero di truppe, e con l’alter Ego nelle tre valli di Catania, Messina, e Siracusa.

Continuavano le mene, gli effetti continuavano. Altro moto ai 15 Marzo del 1844 avvenne in Cosenza. Un nervo di facinorosi all’alba di quel giorno si cacciò nella città levando grida sediziose. Meravigliata restavano quella popolazione allorquando il bravo Capitano Galluppi, al quale tosto si congiunse il Comandante del battaglioni Capitano Scalese, furono all’assalto di quelli, e quattro rimasero spenti, molti feriti, tutti fugati.

La vittoria pertanto fu amareggiata dalla perdita del Capitano Galluppi il quale rimase estinto nel conflitto. Intanto assicurati alla giustizia i sediziosi, fu emanata la sentenza la quale condannavano 21 alla pena capitale, ma perché il Re, facendo atto di clemenza,

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aveva ordinato che si eseguisse pei soli capi, soltanto 6 la soffrirono a 22 ore italiane del giorno 11 Luglio in Cosenza.

Alquanti mesi dopo, un tentativo di maggior momento interveniva, al quale il già narrato avea dato non poco stimolo, né lieve occasione.

Coloro che avevan gli animi volti a novità, punto non si eran rimasti dal magnificare gli avvenimenti di Cosenza, per essi già le Calabrie erano in aperta sedizione, innumerevoli bande la percorrevano qui o colà in vittoria, la rivolta di giorno in giorno spaziava; calabri appennini echeggiavano di rumori, e finivano con incitare i cupidi dello novità a correr tosto sulla innacerbita Calabria, e dar fiato e fondamento a quelle importanti mosse. Lo quali bugiarde parole un tragico fatto arrecarono, che io mi appresto a narrare.

Fin dal principio del 1844 crasi aperto in Ceriti un focolajo di trame e di disegni per unificare l’Italia, o cotidianamente vi si attendea; sì che divulgata la cosa si accostavano nella funesta isola i più arrischiati, al medesimo scopo corrivi, ed alla malagevole impresa s’inanimivano, e perché ciò che ardentemente si vuole facilmente si crede, cosi loro parca, che ormai fosse per essi la vittoria, che tutti i Troni fossero scrollati, o che dall’Alpi all’Etna un solo vessillo sventolasse.

Intanto continuavano le false notizie dei napolitani tumulti 5 il giornale il Mediterraneo n’era pieno a ribocco; e secondo esso non v’era angolo dello napolitano provincie in cui non formicassero gli armati; non abbondassero i mezzi della guerra, o non si approntassero a fieri combattimenti, e le truppe fossero fredde spettatrici. Per la qual cosa gli emigrati di Corfù vennero nel disegno di andare nello Calabrie, per mettersi alle redini del supposto rivolgimento, e indrizzarlo a buon fine. Ed infatti apparecchiati proclami, vessilli, progetti,

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ed armi partivano da Corfù 21 italiano (1) nella notte dei 12Giugno 1844 per alla volta dei calabresi liti.

Il napolitano Governo, informato dal suo Console residente in quell’isola dei proponimenti e delle mosse, aveva spedito per cautela un Vapore in crociera, ma gl’innovatori navigarono inosservati, ed ai 16 del cennato mese, ad un’ora o mezzo di notte, sbarcarono a circa sci miglia da Cotrone sulla spiaggia nomata il Lagonetto, e poscia, fatto dileguare il bastimento, e scompartiti in tre divisioni, ai cenni di un Ricciotti, muniti di armi, uniformi e di una bandiera con grand’aquila gialla su fondo bianco, si avviarono per le terre del Cantorato, e poco dopo giungevano in una campestre casetta del fondo Poerio. Cinque calabresi che stavano a guardia ed a coltura di quello terre, avuto sentore del l’alto, messi in armi, si accostavano per vedere di che si trattasse, quando il Ricciotti andò loro all’incontro, sventolando un bianco fazzoletto, chiamandoli ad alta voce fratelli, ed appressatosi, prese e strinse la mano ad un Calojero, o baciatolo, presentò lui e gli altri quattro ai suoi consorti. Fu dato poco stante a costui l’incarico di assoldar gente, e di affiggere un proclama nella piazza di Cotrone, la quale dovea essere assaltata e conquisa nel tramonto del vegnente dì.

Se non che, avuta notizia che tutto era in calma in quei luoghi, la rlcciottiana banda, accommiatato Calojero,

(1) Erano Attillo ed Emilio Bandiera, da Venezia, figli al Barone Bandiera, Retro-Ammiraglio della Marina Austriaca; Nicola Ricciotti, da Frosinone: Domenico Moro e Giov. Manessi, Veneziani: Pietro Boccheciampe, da Oletta in Corsica: Anacarsi Nardi, Modanese: Giov. Venerucci, da Rimini: Giacomo Rocca, e Francesco Berti, da Lugo: Domenico Lupatelli, di Perugia: Carlo Osmani, d’Ancona: Giuseppe Pacchione, di Bologna: Luigi Nani, e Pietro Bassoli, da Forlì: Gius. Tesci da Pesaro: Tommaso Massuli, Bolognese: il Principe Miller, un suo cameriere, e Paolo Mariani, da Milano; Gius, Meluso, di S. Giovanni infiore in Calabria

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volse i passi per la cosentina regione; in questo un Boccheciampe, disgregatosi celatamente dai suoi compagni, si mosse per alla volta di Cotrone, dove giunto nel mattino del 18 Giugno, faceasi a chiarire alle regie Autorità tutta la tela dei falli, la partenza da Corfù, il luogo dello sbarco, lo mosse, i fini sediziosi, assicurando, far egli tal rivelazione a bella posta. Fra lo altre cose affermava «che scopo della spedizione era il mutar le forme governative di Napoli, e di Roma; che all’uopo doveano per S. Giovanni in Fiore recarsi nella Sila dove erano aspettati da 600 Cosentini, e con essi sorprender le carceri, ed ingrossar l’armata coi 900 detenuti nelle stesse esistenti; che sconvolto il Regno sarebbero passati nello Stato Romano con divisamente di dare a Roma un Re, e lasciare al Papa il solo governo spirituale» e finiva con dire «da ogni dove esservi segrete e numerose intelligenze per la sicurezza dell’esito; i suoi compagni essere il soffio che dovrà spander la cenere e divampare il fuoco che tutto nei due Regni covava (1).»

Per la qual cosa, il Sottointendente Buonafede, che reggeva il Cotronese Distretto, senza por tempo in mezzo, dava ordini energici, e svariati affine di esser presto sulle orme della forastiera Comitiva, e imprigionarla. Incontanente tutti gli Urbani furono in armi, e si renderono all’invito; fra gli altri un Arcuri, Capo-Urbano di Belvedere -Spinello, avuta notizia che quella mirava ad inselvarsi nella Sila, tese un agguato nei passi di Pietralonga, e di S. Maria delle Grazie, dove la campagna si protrae fra colline e cespugli, unico varco per tragittarsi in quel fitto bosco.

Intanto i Ricciottini, lasciato Poerio, si erano mossi per a S. Severina, e in sull’annottare del giorno 18 avviati pur la strada di Pietralonga; quando appressata la loro avanguardia nel lungo dell’agguato,

(1) Bonafede. Sugli avvenimenti de’ Fratelli Bandiera, e di Michele Bello in Calabria ecc. ecc. pag.13 Napoli 1848.

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udivan fra le tenebre delle voci chiedenti chi fossero, alle quali risposero amici, e come fu loro detto» che si avvicinassero ad uno ad uno, incontanente fuggirono verso il vicino fiume Neeto: in questo gli Urbani fecer fuoco, ma senza danno, o si dettero sulle pesta dei fuggitivi. L’altra divisione intanto, udito il fatale rumore, avanzavasi tacita, guardinga e parata alle offese, e tosto scaricava le armi ai danni dei Calabresi (1) appena udiva il grido che gente, o più che di passo andò innanzi. Unironsi poco poscia le forastiere di visioni, e studiando il passo, cercavano di addentrarsi nella Sila; camminarono tutta la notte, e il giorno appresso (19), e solo intorno alle vespertine ore la stanchezza le costrinse a confortarsi nella stragola, territorio di S. Giovanni in Fiore, dove il campo si allarga in uno spianato ameno per sito, piacevole per le fresche acque che vi scorrono, pel rezzo di non pochi alberi, e pel comodo di una bettola. Quivi si abbandonarono i Campioni della nuova età; quivi duro caso gli attendeva. Poiché arrivatane notizia io S. Giovanni in Fiore, si destò in quegli abitanti bellicosi ed armigeri, fiero proponimento contro coloro che venivano a disturbare la pubblica pace, a mettere in periglio il Trono, o che nel giorno innanti avevano versato il calabrese sangue. Una via discende dal cennato paese, e sovrasta al luogo dove spensierata ed affranta si riposava la italiana comitiva; quivi i Sangiovannesi arrivati, ed affacciatisi, tosto una grandine di palle coi loro schioppi le vibrarono, e poscia come leoni divallaronsi nel sottoposto luogo, e sulla preda corsero. I ricciottiani, sgomentati all’improvviso caso e conoscendo ormai che la resistenza sarebbe stata peggiore, si deliberarono a gittare le armi, pregare, sventolare bianchi lini, chieder mercé, chiamare fratelli.

(1) Il capo Urbano xxxxxxxxx Gendarme

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Di essi morirono il principe Miller e il suo cameriere, molti arrestati, otto fuggirono, i quali poscia anche imprigionati, furono menati in Cosenza dove erano stati condotti gli altri.

Il Colonnello Zola, comandante interino della Provincia di Cosenza addì 25 Giugno istituì un Consiglio di Guerra subitaneo; ed ai 24 del susseguente Luglio riunitolo, il commissario relatore addebitava i forastieri di reato di cospirazione, ed attentato all’ordino pubblico, o di resistenza alla forza pubblica collo scopo di mutare la forma del Governo, e di spingere il popolo alla ribellione. Furon tutti condannati alla fucilazione col terzo grado di pubblico esempio, eccetto Boccheciampe il quale ebbe soli 5 anni di prigionia. Il Re, uditi i casi di Calabria, e grandemente contristatosene, ordinava che la esecuzione della condanna si restringesse ai soli capi; epperò i due fratelli Bandiera, Ricciotti, Moro, Nardi, Venerucci, Rocca, Berti, e Lupatelli nel mattino del 25 Luglio furon passati per le armi. Agli altri fu commutata la pena di morte in prigionia, o questa dopo pochi mesi in bando dal Regno.

Tale fu l’esito della spedizione, che porta il nome dei fratelli Bandiera; la quale mossa da ribollenti spiriti, e dalla stampa menzogniera, e fondata sull’instabile elemento delle vane speranze, andava a sommergersi nelle acque del Busento. Felice l’età ventura se la Giovane Italia, ammaestrata da questo saggio, si fosse tirata indietro dai suoi proponimenti! I fatti di Cosenza concitarono lo ire di quanti nella Italia vagheggiavano liberali riforme lo propagande più che mai si aizzarono, si forbivano i pugnali, contumelie dappertutto contra il napolitano governo si lanciavano. Le quali cose per verità eran conformi alla scapestrata età; poiché si apponeva in colpa ad un governo che applicava le sue leggi, e non a quelli che venivano ad infrangerlo e conculcarle;

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assai meglio si sarebbe fatto se si fossero scatenate le ire contro di coloro, che tenendo dietro ad inattuabili utopie, eran la vera cagione di quello e degli altri tutti. Parlossi di macelli cosentini, ma non delle uccisioni, né del sangue di Pietralonga si parlò. Si mosse molto scalpore di crudeltà e di barbarie quando che per la clemenza del Re ben nove vite furono al rigore della giustizia strappate, e di breve messe in libertà. Duro fu per Napoli il trovarsi in quelle fatali strette; ma più duri furono i giudizii e lo parole ingiuste che Io tenner dietro. Troppo reo tempo per lei correva!

Testé ho narrato come i forastieri venissero a disturbare il reame, ora mi narrerò come un disturbo dai regnicoli medesimi venisse. Napoli in tutti i conti si volea inabissata fra le furie civili. La narrata catastrofe non avea resi migliori, né dai loro propositi declinati quelli che alle novità intendevano; anzi per vari fatti che successero dappoi si erano via maggiormente infervorati. Nelle terre, che il vorticoso Faro congiunge, altro nembo era por addensarsi. Reggio, Messina, Gerace, furon da rumore e da sangue contaminate.

Un Verduci da Caraffa, giovane robusto, infaticabile, impetuoso, era il principale agitatore del Geracese distretto (1). Fin dai primordi di Giugno del 1847 divulgava concitatrici parole sulle costituzioni, andava depositando polvere da sparo in Bianco ed in Caraffa, faceva circolare in Reggio un proclama; e già verso la metà di Agosto si buccinava, che un rivolgimento di breve scoppierebbe, o che la terza luce del seguente Settembre minaccevole, e potente lo avrebbe veduto sorgere. In Bianco, in Staiti ed in altri Comuni del geracese distretto ribollivano i congiurati, quando si seppe che Messina alla prima aurora di Settembre era già insorta, o clic Reggio era in fermento.

(1) Bonafede. Opera cennata

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In questo arrivava da Reggio in Bianco un M. Bello, e tosto facea distribuire delle coccarde tricolori, innalberare una delle bandiere costituzionali portate da quella città, e chiamare dai prossimani paesi Verduci e i suoi armati, i quali tosto si resero all’invito, e fra amplessi, grida ed evviva, al progresso della ribellione vacarono. Disarmati i Guardacoste di Spartivento e nella casa doganale di Bianco rinchiusi e custoditi; tolte, infrante, o arse le imprese reali; il denaro e gli archivi pubblici frugati, resi liberi gl’incarcerati; la popolaglia in armi; tolte o scemate le imposte; fatte anticipar le somme sulle ordinarie contribuzioni, esercitato nelle sue più alte attribuzioni il supremo potere.

Intanto si andavano ingrossando gli armati più per minacce o adescamento, che per proponimenti o inclinazioni; imperciocché realmente il perno della rivolta consistea in pochi individui, non mica nella generalità, e la piupparte dei Comuni, e la stessa capitale del Distretto si affortificarono, e si tennero in armi affin d’inibire l’ingresso delle bande, o propugnarlo se occorresse.

In Bovalino si diressero a bella prima gli attruppati, poiché quivi un G. Ruffo attendeali. Ed ecco partire da Bianco un incomposto sciame di incomposti armati con una bandiera tricolore, emettendo frequenti, e contorte voci. Viva Pinomo, Viva la Calia! Irritavansi i condottieri che i nomi di Pio nono e d’Italia erano cosi alterati. Dovevano irritarsi con loro stessi nel mettere in questi affari una gente che tanto non volea sapere de’ rivolgimenti, quanto non ne sapea neppure i nomi. Si pervenne in Bovalino, si cantò nella chiesa un Te Deum, vi si lesse un proclama: fra le venerande volte del tempio del pacifico Dio echeggiarono lo profane voci della ribellione.

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Nel mattino del 5 Settembre la stessa torba infiammata nel reo proposito, ed esaltata dai quieti successi del giorno innanti si mosse per Ardore, ove il gridio, gli evviva, i soliti nomi, le solite parole, lo strepito furono immensi: l’archivio del Giudicato Regio frugato, disperse le carte del ramo di polizia, ripetuto lo stesse improntitudini di Bianco. Da quel paese verso il mezzodì si partiva per la marina di Siderno, dove giunta, fu per altra quantità di gente e di segni ribelli ingrossata e concitata. Di più alte e frequenti grida fu l’aere assordato; di più grandi disordini e improntitudini il paese e la marina pieni.

I Capi del movimento volevan drizzare quella commossa moltitudine a Geraci, ma indarno il tentarono; poiché al primo rumore della rivolta i Geracesi imbrandite le armi per la comune difesa; barricate tutte le vie che alla città accennavano; posti in assetto, postati opportunamente e caricati a scheggia alcuni cannoni; accresciuto il numero delle Guardie Urbane; assicurata meglio la custodia delle prigioni; provveduto in altri modi alla comune salute, facevan sentire ai Capi, che avrebbero respinto la forza con la forza se si volesse conturbare la loro patria. Per lo che la tumultuaria banda, mutato consiglio, volse i passi per Gioiosa, dove fu piantato il tricolore vessillo, e rinnovata la scena dei precedenti giorni, che l’attonita ed ignara popolazione affollata riguardava. Letto il proclama costituzionale, si affisse nella porta della municipalità un’ Ordinanza prescrivente la diminuzione della metà del prezzo dei sali e dei tabacchi, e l’abolizione dei dazi fiscali. Vennero sul solito tenore di riscuoter somme dai proprietari, di ardere le carte della polizia. Vuotarono le prigioni, infransero gli stemmi Reali. Ripeterono in somma le follie commesse negli altri comuni.

Intorno alle 23 ore si prese la via per Roccella dove si giunse alle ore 3 della notte.

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Il moto, le parole, le grida, gli evviva, le allegrezze furon grandi, moltiplicate, e da magnifiche laminarie rischiarate. Ultimi segni di quella scena; perché ormai l’instabile fortuna, che spesso si prende giuoco delle umane cose, con un accidente curioso facea conturbare e dileguare il roccellese tumulto. Arrivava in quelle acque ed in quel punto un legno mercantile, il quale spedì la lancia a terra per provvedersi di viveri;ma il Comandante di esso, avuto sentore del rivolgimento, incontanente a furia di segnali fatti con fanali curò di richiamarla; il che veduto, e creduto Vapore da guerra, apportò sconforto e dolore in mezzo a quell’accozzaglia tumultuosa, la quale quasi nebbia al vento ratto andò in dileguo. Fuggirono, senza frapporre indugio, i Capi; la moltitudine tosto si scisse, si slegò, e fra le tenebre notturne disparve. Solo Roccella stettesi fra tanto moto immota, conturbata, appaurita per un temuto bombardamento. Ciascuno fra gemiti, confusioni, timori ed accenti di dolore curava di porre in salvo oggetti preziosi roba, e vita. Tutti fra tanta confusione, e la notturna oscurità sulla vicina montagna traevano. Da grande tripudio io grande costernazione la imbelle fortuna avea Roccella in un tratto spinta.

Se non che, la nuova luce ricuopriva di vergogna e di sdegno i Capi della rivolta, i quali, si accorsero dell’errore, e, quel che più, vedeano il Sottintendente Bonafede, da essi imprigionato mentre si recava sur un legno doganale a spegnere le prime faville, il quale svignato non senza pericoli da quelle fatali strette, si era imbarcato su di altro legno doganale, e fattovi innalberare la regia bandiera, rasentando il lito, facea echeggiare le grida di viva il Re, alle quali tutti i paesi del geracese distretto uniformemente rispondevano; fino a che rientrava nella forte, custodita, e fedele Ceraci.

La sicura nuova dello arrivo delle truppe in quelle regioni aveva fatto cadere l’animo e i disegni ai concitati novatori;

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sì che tutti alla propria salvezza intendevano; ma non sì però che le vigili cure delle autorità eludessero; e per vero in ogni giorno venivano arrestali e condotti in Ceraci.

Il Governo, ricevute le notizie dei moti di Bianco, avea tosto dato l’incarico al Generale Marchese Nunziante di recarsi sulla ribellata regione, rimettervi l’ordine, e punire i ribelli; ed egli si partiva da Napoli il giorno 3 Settembre, sbarcava nel Pizzo il 4 con una colonna composta dal sesto Reggimento di Linea, da un battaglione dell’ottavo, e da una mezza brigata di campagna; giungeva il 5 a Monteleone, sostavasi il 6 a Palmi, arrivava nel giorno 8 in Casalnuovo, e nel vegnente in Geraci. Era suo proponimento di riunire la Commissione militare il giorno 10, ma dovette posporlo; poiché avuto avviso, che la banda dei rivoltuosi reggiani, condotta da G. Andrea Romeo, si era avvicinata in quei luoghi, si mise in movimento per rinvenirla e combatterla, al che per altro non poté riuscire, perché si era disciolta; epperò ritornato a Ceraci, nel giorno 20 stabilì la Commissione Militare, la quale, riunita alle calende di Ottobre sotto la presidenza del Colonnello Rossaroll, e stata in sessione fino a notte innoltrata, condannava ad unanimità di voti Michele Bello, Rocco Verduci, Pietro Mazzone, Gaetano Ruffo, Domenico Salvadori, Stefano Gemelli, e Giovanni Rosetti, Capi della rivolta, all’ultimo supplizio da eseguirsi nella dimane. Il Generale pertanto col fine di risparmiare qualche vita, scrisse alla Commissione, che avesse indicato chi offriva alcuna minorazione di colpa, per la quale sospender si potesse la esecuzione della condanna, e quella propose Gemelli e Rosetti. Epperò eccetto questi due, gli altri nel secondo giorno di Ottobre vicino al chiostro dei Cappuccini ebbero crivellati i petti, nell’alto stesso in cui mettevan fuori parole di libertà.

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Il General Nunziante, dopo spenta la rivoluzione, si partiva da Ceraci il giorno 7 Ottobre, facendo inviare alla Commissione Militare di Reggio gl’imprigionati politici; passava per Siderno, Roccella e Giojosa, facea disarmare le Guardie Urbane, dava altre disposizioni dirette al mantenimento dell’ordine pubblico. Si spingeva nel Distretto di Palmi per prevenire lo scoppio della ribellione.

Il fuoco della rivolta però non soltanto nelle geracesi terre, ma in Reggio ed in Messina contemporaneamente irruppe. Nel 30 Agosto del 1847 era corsa una lettera da parte dei Capi ai congiurati di Reggio, con la quale si prescriveva, che si fosser tenuti desti e pronti per dar fiato alla ribellione nella notte dei 2 del susseguente Settembre, ed avessero spedito in Messina un messo per partecipare ai loro confratelli il disegno, i concerti, affinché alzassero nel medesimo tempo la ribelle insegna.

Pertanto gareggiando le due città, Messina impaziente d’indugi, irruppe innanzi tempo. Infatti varcato di due ore il mezzodì del 1.° Settembre dopo lo scoppio di tre mortaletti, un nervo di circa cento armati ai cenni di un A. Placanico, negoziante di pelli, scompartiti in due divisioni, si divallarono dalle prossimo colline nella messinese città dalla parte dei cappuccini e dell’ospedale civile, e pervenuti e riuniti nella strada del corso gridavano viva Pio IX, viva l’indipendenza; e si fecero all’assalto di vari posti di guardia, ma dappertutto furono respinti; avevano eziandio in mente di sorprendere gli uffiziali che erano giusta il solito al pranzo nel grande albergo di strada Ferdinando; ma questi al primo rumore si eran di tratto mossi pel piano di Terranova, dove il Maresciallo Laudi, avea fatto dare il segno dell’allarmo, riunita la guarnigione, e speditene vario partite contro i ribelli; i quali alla lor volta con vario imputo ostavano. Si combatté più di due ore; ma infine

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I Reggiani, conosciuti i casi di Messina né punto sgomentali, attesero ai loro disegni. Nel mattino dei 2 Settembre, rannodatisi dieci dei più animosi congiurati, deliberarono di dar cominciamento alla rivolta; epperò armati convenevolmente si fecero a percorrere il Corso Borbonio fra sediziose voci; incontanente altri si chiarirono, o si accrebbero lo grida e le braccia: pervenuti vicino al Monistero di S. Maria della Vittoria, scorsero un forte nervo di armati, che erano lo guardie urbano di Pedavoli, che tosto si rendevano all’invito delle autorità, per affortificare le regie forze, ma minacciati dagl’insorti, ritornarono sui medesimi passi. Intanto la ribollente turba si cacciava di nuovo lunghesso la strada mentovata e s’imbatteva in un’ altra schiera di sollevati ai cenni di un Pietro Mileti, che tolse il comando di tutti.

Ingrossati a tal maniera i liberali, presero ad aggirarsi per tutte le strade della città con una bandiera tricolore, gridando viva la libertà, viva Pio IX; si corrispondea dai balconi per timore o per concerto, agitando fazzoletti, e spargendo fiori. Elasse poche ore, venivano disarmate due legni doganali, e le armi distribuite. Intanto sopraggiunse la notte, si stava fra pensieri ed affetti vari, quando s’intesero un tamburo battente, e grida incomposte; erano quei di S. Stefano, i quali guidati da Domenico, Giov. Andrea, e Stefano Romeo, e da Antonio Fiutino, scendevano ad accrescere il tumulto, ripetutamente gridando fica l’Italia, viva Pio IX. Nella notte istessa fu stabilito un governo provvisorio, il quale vacò a tutte le bisogne della rivoluzione.

Al romper della nuova luce Reggio fu di sangue e di rumori piena. Furono assaltate le prigioni; la Gendarmeria ostò, produsse ed ebbe ferite e morti, ed alla fine soperchiata dal numero e dal furore, cedé; sì che dischiuse le carceri, il satellizio, il baccano, i pericoli, il rumore grandemente montarono.

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Le autorità civili e militari al primo scoppio del turbine, date le migliori disposizioni che si poterono, e non secondate, si ripararono nel vecchio e sguernito castello con alquanti artiglieri; ma nella terza aurora di Settembre, minacciate di esterminio, ove il castello non rendessero, capitolarono; epperò il ribello stendardo su quelle antiche mura fu impiantato.

In frattanto la notizia delle occorse cose era giunta a Napoli per le veloci ali dei telegrafi; epperò issofatto fu spedita una squadra di bastimenti a vapore ai cenni del Real Principe D. Luigi, Conte di Aquila, con tre mila soldati, sotto gli ordini del Tenente Colonnello De Corné, che dovea agire di concerto col Generale Nunziante, il quale prendendo posizione sulla strada di Monteleone, era di riserva alle truppe di Reggio, ed in comunicazione con quelle del Maresciallo Statella, il quale, riordinata ormai la cosentina regione, avea condotto le sue armi allo sbocco di Tiriolo.

Intanto nel mattino dei 4 di Settembre la flotta giungeva alla reggiana sponda, e come ebbe veduta la bandiera tricolore sventolante sul castello, incontanente vi briccolò delle bombe, le quali mentre apportavano terrore agl’insorti, ricuoprivano lo sbarco che si effettui va nel lido di Pontimele. Al rumore delle regie armi caddero ai sollevati tutti i proponimenti; cosicché frustrati nei loro disegni, abbandonata Reggio, si sparpagliarono per le prossimane regioni, e si condussero a pié frettoloso in alcuni paesi che giaccionsi sulle ultime falde del calabro appennino lambito dal Jonio. Le milizie intanto sulle loro orme andavano: successero conflitti, sbandamenti, fughe, di tal che di breve la reggiana città e le conter

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Se non che, il Real Governo, intento sempre alla pubblica tranquillità, nel laudevole divisamento di assicurarla in tutte le provincie, vi spediva nella prima mettà di Settembre vari corpi di armata. Mandava un rinforzo al Maresciallo Landi in Messina; Reggio avea il Tenente Colonnello de Corné con le summentovate milizie; il General Nunziante era nella Calabria Ultra seconda, e nella Citeriore il Generale Conte Statella; il General Carrabba percorreva gli Abruzzi; e il General Gaeta i due Principati; le Puglie eran guardate dal Tenente Colonnello Statella, e la provincia di Molise dal Conte Cutrofiano. Infine le piazze erano meglio provvedute.

Malgrado tutto ciò, il Real Governo era frustrato nella sua espettazione, e nel, cuore della stessa metropoli, anzi in sull’uscio istesso della Reggia i sintomi del rivolgimento si chiarivano. Infatti eran solite le militari bando di allietare il largo della Reggia con melodiosi concenti in sull’annottare, quand’ecco in una delle sere, in tempo delle pause che si frapponeano fra i pezzi musicali, udissi un batter di mani, ed uno scoppio di evviva coi quali si applaudivano taluni cangiamenti e riforme dal

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e poscia assordando l’aere con le stesse voci, si avviava verso le Reali Finanze per Toledo. Accorse la polizia, e pacificamente mise in dileguo quel baccano; il quale per altro ripetevnsi con maggiore imponenza in una sera del sussecutivo Decembre, ma di breve si. dileguava per l’attitudine ferma e minaccevole della pubblica forza, la quale ne imprigionava i capi. Intanto la metropoli era percorsa e tutelata da forti pattuglie di militari a piedi o a cavallo, sì che un’ aspetto minaccevole avea.

In tal guisa le faville erano sopite non mai spente; anzi di luogo in luogo scoccavano. In Palermo potentemente riverberavano le napolitano mosse. Nella sera del 27 Novembre gran folla di popolo si stivava nel teatro Carolino, la quale alla fine del primo atto, unanimamente irrompea con forte schiamazzio, gridando viva Pio IX, viva l’Italia, viva l’indipendenza, o sventolando nell’assordato aere fazzoletti tricolori. Il teatro per altri segni ed altre voci, e mosse sovversive andò a rumore. Intanto coloro ai quali era commessa la tutela dell’ordine pubblico torpivano nella ignavia, il che arrecava ardimento, e stimolo ad ulteriori cose.

Nell’indomani, essendo domenica, la villa Giulia era oltre l’usato gremita di popolo, il quale agglomeravasi, e girava per quei viali, espiazzi, quando, scorta la statua di Palermo coronala di fiori, ornata di nastri tricolori, con al petto una turbolenta scritta, irruppe in clamori, e moti, ed entusiasmo indescrivibili.

Addì 29 Novembre si mandava ad effetto una soscrizione a casa di un particolare, nella quale ognuno ratificava con la propria firma le fatto promesse d’irrom

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la quale, dopo ascoltata un’allocuzione di un prete, giurava pel conquisto della indipendenza innanzi alla statua di S. Rosalia, patrona della città, nella cui destra già era messa una bandiera tricolore. Intanto accorreva al rumore una compagnia di granatieri, e dileguava quel baccano fugando tutti, arrestando alcuni.

Non si sostavano i novatori. Nella dimane una commissione di persone notevoli di Palermo guidata dal RetroAmmiraglio ritirato D. Ruggiero Settimo, e dal Pretore, Marchese Spedalotti, si recò dal Luogotenente presentando una domanda firmata da parecchie migliaja di persone, nella quale si chiedeva la tostana istituzione di una guardia nazionale sotto il colore di guarentire l’ordine minacciato. Ma il dignitoso, e giusto riscontro dato dal Luogotenente, frastornò pel momento, non spense i proponimenti; sì che cotidianamente allo stabilito scopo con ogni maniera d’ industria i siciliani attendevano. Si buccinava che la rivoluzione scoppierebbe nella notte di natale allorché le campane cominciassero a squillare per la nascita di Nostro Signore ma dati dal Generale Vial opportuni ordini il disegno non ebbe effetto.

A tal modo giva all’occaso il 1847. Gravi casi non erano intervenuti; ma gravissime minacce e preparamenti e perigli esistevano. Gli animi fra varie speranze, timori, e pensieri tempellavano; l’avvenire in vario modo alle agitate menti si affacciava; e fra tanti dubbi il certo era, che troppo rea eredità l’anno 47 al sussecutivo lasciava

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa2s/01_Storia_di_Ferdinando_II_Regno_due_Sicilie_1830_1850_libro_I_II_II_Giovanni_Pagano_2011.html#AVVENIMENTI

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