STUDJ SOPRA LA QUESTIONE ITALIANA DI CARLO CATINELLI (IV)
Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui – l’ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org – Buona lettura!
CAPITOLO VII
Sulla condotta delle masse italiane nelle guerre, insurrezioni,
o ribellioni, che dal 1815 in poi turbarono e interruppero replicatamente la pace d’Italia. Sopra i principj che guidarono
Le guerre, insurrezioni, e ribellioni, che dal 1815 in poi turbarono e interruppero replicatamente la pace d’Italia con lo scopo di cangiarne l’ordinamento politico attuale, si sono tutte fatte e consumate senza che vi abbiano preso parte le masse, le quali come vedremo non solo non vi hanno in verun modo cooperato, ma le hanno, se non sempre, in più di un caso avversate. Questa condotta delle masse italiane è tanto più rimarcabile, che il partito rivoluzionario ha fatto ogni sforzo fattibile, e messo in campo falsità, inganni, e calunnie senza alcun riguardo e senza fine per rendere loro odiosi i rispettivi governi e aizzarle in ispezialità contro l’Austria, qual principal ostacolo ai di lui nefandi disegni. – Non prova questo fatto 1.° che nella questione italiana non vi ha nulla di veramente nationale, e non essere dessa se non il ritrovato di una fazione; e 2che l’oppressione sotto la quale, al dire degli agitatori, l’Italia si trova gemente e fremente, e che secondo essi legittima e giustifica ogni impresa diretta a porvi un fine, è una mera impostura? Ma siccome potrebbe esser vero, che la qui contemplata condotta delle masse italiane fosse dovuta a delle circostanze particolari come per esempio, alla mancanza di capi abili e capaci di condurle, facciamoci a chiarire e sciogliere questi dubbj comecché chiariti e sciolti che essi siano, è chiarita, e sciolta anche la questione italiana; e con ciò confermati i risultamenti degli studj esposti nei precedenti capitoli.
I tentativi di cangiare in Italia l’attuale ordine politico sono: a ) La guerra che nel 1815 mosse all’Austria Gioacchino Murat in seguito alla fuga di Napoleone dall’Elba, e detta di lui rioccupazione del trono di Francia. b ) Le insurrezioni militari, di Napoli nel 1820, e del Piemonte nel 1821; opera la prima delle sette, però almeno in apparenza senza verun scopo italiano, e soltanto per darsi una costituzione; la seconda, opera della giovane aristocrazia piemontese smaniosa d’ingrandimento territoriale collegatasi con le congreghe settarie milanesi. c ) L’insurrezione dei due Ducati, o delle Legazioni e Marche pontifizie nel 1831, opera della capo—setta rivoluzionaria di Francia sulla speranza che il governo francese di luglio fosse per sostenere il da esso prodamato principio di non—intervento; e d ) la ribellione contro l’Austria delle città del Lombardo—Veneto in seguito alla rivoluzione di Vienna nel 1848; opera del partito rivoluzionario italiano; e la guerra che in soccorso dei ribelli lombardo—veneti, e con la speranza di aggiungere al suo regno Sardo—Piemontese, il Regno Lombardo—Veneto mosse Carlo Alberto, e riprese l’anno seguente contro l’Austria. I paesi italiani si trovavano avere nel 1815 con appena qualche eccezione non altri governi che quelli che essi stessi avevano desiderati e addimandali; e i quali gareggiavano col governo austriaco del regno Lombardo—Veneto di buon volere e di operosità per sanare le piaghe inflitte ai loro popoli dalle tremonde guerre nelle quali strascinavali, o facevali stra scinare Napoleone. L’Italia aveva soprattutto bisogno di pace, bisogno che essa sentiva vivamente e profondamente, e che si manifestava dappertutto e in ogni maniera. Ma stava scritto che questo bene per eccellenza non le sarebbe concesso. Le setto con principj repubblicani anti—religiosi e socialisti formatesi già dorante l’impero di Napoleone e contro di esso, ma tenute con lo spavento che loro incuteva il di lui codice criminale contro i delitti di alto—tradimento e di fellonia in scacco e obbligate a occultarsi e tenersi nascoste, accortesi dall’indole mite e paterno dei nuovi governi uscirono dalle loro tane baldanzose e sfrenate, e senza indugio diedero principio alle trame, alle seduzioni e alle cospirazioni rivoluzionarie contro l’ordine esistente, e si collegarono fra di loro e con Gioacchino Murat, del quale trovavaasi già dall’anno precedente in strettissime relazioni. Contemporaneamente tramavasi e cospiravasi anche in Francia contro i Borboni, e si trattava con Napoleone allora confinalo all’Isola d’Elba, il quale effettivamente ne partiva negli ultimi giorni di febbrajo, sbarcava sulle coste di Provenza, e il giorno 20 marzo, portatovi come in trionfo dall’armata che era stata spedita per fermarlo e combatterlo, già trovavasi a Parigi. Gioacchino incoraggiato dal successo ch’ebbe l’impresa di Napoleone, prestando più che mai credenza alle promesse che gli facevano i rivoluzionarj italiani, e segnatamente i rivoluzionarj lombardi, non dubitando che le popolazioni italiane lo riceverebbero come i Francesi avevano ricevuto Napoleone, varcava li 22 marzo i confini del suo regno, e entrava con 85 mila uomini ripartiti in due colonne negli Stati del Papa; delle quali l’una composta delle guardie (5400 uomini) prendere la via attraverso la comarca di Roma e passando per Tivoli, Foligno, e Arezzo si porta va in Toscana, e avanzava sino a Firenze, ove giungeva, senza che le fosse opposta veruna resistenza, il giorno 7 aprile, mentre l’altra composta di quattro legioni (29600 uomini) prendeva la via per le Marche e le Legazioni, e passando per Ancona, Rimini, Bologna entrava il giorno 4 dello stesso mese, dopo un fiero combattimento al ponte sul Panaro nel Modenese e in Modena.
L’armata di Gioacchino aveva fatto prova nella guerra dell’anno precedente 1814 contro l’armata condotta dai Vice—re, ogni qualvolta le era stato permesso di agire senza riserva, di molto coraggio, e di molta attitudine guerriera; era bastantemente fornita di uffiziali e anche di generali sperimentati, e poteva benissimo servire di base ad una guerra nazionale contro l’Austria del genere di quella che avevano fatta gli Spagnuoli dal 1808 al 1813 a Napoleone (111).
Gioacchino, ancorché non fosse come lo aveva detto il suo generale Carascosa in un proclama all’Italia nella campagna del 1814 il primo capitano del secolo, era per altro una tremenda spada, e aveva tutte le qualità che richiedevansi per condurre un’impresa come era quella alla quale esso accingevasi. Né questa andò fallita per sua colpa, o per colpa della sua armata. Prima di varcare il confine del suo regno emanava egli il giorno 13 marzo un editto, che doveva servire ad addormentare per qualche settimana l’Austria e gli Alleati (112).
Ma giunto a Rimini il giorno 30 del detto mese si smascherò, e pubblicò l’editto da me già nel terzo capitolo di questi Studj (pag. 74) prodotto, nel quale sono formulate le pretensioni costituenti la questione italiana con tutta la loro esorbitanza, con una franchezza che non fu superata neppure nel 1848. Egli ne attendeva un completo successo, e non dubitava di vedere in pochi giorni raddoppiato il numero delle sue truppe e tutta l’Italia in rivoluzione.
Tutto ciò non era che un sogno. Uffiziali della fu armata del Vice—re venivano in gran numero ad offrire i loro servigj, ma senza soldati Le popolazioni ricevevano i sedicenti loro liberatori con evidenti segni che l’impresa da esse consideravasi come un attentato contro la quiete e la pace d’Italia. Bologna fu la sola città degli Stati pontifici, ove il partito rivoluzionario, incitalo da quello stesso Pellegrino Rossi che nel 1848 cadde come ministre di Pio IX sotto il pugnale repubblicano, osò mostrarsi aderente a Mural Modena non si ristette, nei sei giorni che vi stanziarono i Napoletani, di abbandonarsi a delle dimostrazioni di attaccamento e di devozione verso il suo Duca Francesco IV, che aveano aspetto di un vero fanatismo. Nella Toscana appena si venne a conoscer che le truppe napoletane che vi aveano ammontavano a soli cinquemila soldati, che le popolazioni, tanto quelle della città che quelle del contado si disposero ad ajutare gli Austriaci, che sotto il comando del generale conte Nugent si erano ripiegati a Pistoja, a cacciarneli. Non si cessava di spargere le notizie più allarmanti. Ora vedevasi la grande flotta inglese con un grande seguito di bastimenti da trasporto sul punto di gettar l’Ancora nel porto e nella rada di Livorno; ora discendeva una divisione di Austriaci dagli Appenini per Pontremoli destinata a ricondurre il Papa a Roma; ora rinforzavasi il conte di Nugent con due reggimenti d’infanteria ungherese, e con un reggimento di ussarj. Né vi mancavan le satire, le canzoni, le caricature. (113).
( ) In questo mezzo arriva a Modena, per parte del generale delle forze di terra britanniche a Genova e nella Sicilia Lord William Bentinck, la disdetta dell’armistizio con l’Inghilterra in termini i più minaccevoli.
Gioacchino e i suoi generali viddero che trovavansi sull’orlo di un abisso dal quale per non esservi precipitati conveniva allontanarsi senza remora. Lo sdegno contro gl’Italiani da’ quali dicevansi perfidamente traditi sfogavasi senza ritegno. L’impresa fu abbandonata, già incalzavano gli Austriaci che avevano varcato il Po. La ritirata fu ordinata e doveva farsi in due colonne, cioè con la maggior parte dell’armata per la strada della Toscana che da Bologna conduce a Firenze, e per Arezzo, Foligno, Tivoli nel regno; e soltanto con un forte distaccamento, che proteggerebbe sgombro delle Marche ove erano i feriti e i depositi di guerra, sulla Emilia sino a Rimini, e poi lungo mare per Ancona e Ascoli negli Abruzzi. Senonehè Firenze era già il giorno 15 abbandonata. Questo abbandono di quella capitale e con essa della diretta più breve comunicazione co’ suoi Stati opera non tanto degli Austriaci quanto dei Toscani, fu un colpo terribile per Gioacchino, e incontrastabilmente la principal cagione del disastroso fine ch( 7) ebbe per lui quella campagne. Egli si trovò nella necessità di percorrere per rientrare nei suoi Stati un arco immenso su di una strada che negli Abbruzzi si faceva pessima, mentre gli Austriaci ne percorrevano l’arco su delle strade che nulla lasciavano a desiderare. La sua armala abbandonava Bologna e dirigevasi tutta unita su Rimini il giorno 16. Gli Austriaci la seguirono con soli 15 mila uomini; 10 in 11 mila sotto il comando del generale Bianchi furono già il giorno 17 messi in marcia per Firenze e per Foligno; il conte Nugent ebbe ordine di correre su Roma. Ai suo distaccamento si aggiunsero 2 mila Toscani, che si comportarono in ogni occasione e sotto ogni rapporte egregiamente.
Questa ripartizione dell’armata austriaca in tre colonne le quali operavano alla distanza una dall’altra di sei, sette e fin otto marcie, con frammezzo riguardevoli monti e fiumi, sarebbe stata in ogni altro genere di guerra assurda; mentre invece la era, in vista delle particolari circostanze della situazione, giudiziosissima. Non è da negarsi che la colonna della sinistra e quella di mezzo, correvano il pericolo di essere assalite separatamente una dopo l’altra da forze molto superiori. Ma tanto il generale Neipperg, che il generale Bianchi vi erano preparati. D’altronde la truppa era eccellente, il paese porgeva ad ogni passo fortissime posizioni, nelle quali chi aveva a difenderle di piè fermo, si trovava in grande vantaggio su chi le attaccava. Oltrediché, le popolazioni essendo nel grado che lo erano favorevoli agli Austriaci, e ostili ai Napoletani, si poteva essere certi, che le comunicazioni fra le colonne operanti non verrebbero interrotte, che si avrebbero notizie a tempo di ogni movimento nemico, e che si troverebbero dapertutto viveri, e mezzi di trasporto. E anche Gioacchino giudicava quella ripartizione un fatto, che gli porgeva l’occasione di volgere quella ritirata a suo profitto. Diffatti esso si rianimò, le sue speranze si riaccesero, e nonché accelerare il passo, si fermò per dar campo alla colonna del generale Bianchi di allontanarsi in modo a non essere più a portata di soccorrere la colonna che gli teneva dietro. Ma Frimont ne penetrò i disegni e prese delle misure che le sventarono, e decisero Gioacchino ad assalire la colonna di mezzo; e ciò anche per aprirsi la comunicazione diretta e più breve per Foligno e Terni e per Rieti coll’Abruzzo occidentale e con l’Aquila di lui capitale, e per Tivoli e Frascati con la Terra di Lavoro e con Napoli.
Ma il colpo andò intieramente fallito. Bianchi lo attese nella fortissimo posizione di Tolentino, lo respinse con grave perdita, e ne scompaginò l’esercito, che contava 16 mila uomini, mentre egli ne aveva appena 11 (114).
I Napoletani avevano nella battaglia di Tolentino combattuto con molto coraggio. «I soldati di Murat» dice il ragguaglio del detto memorabilissimo fatto d’armi che si legge nella «Ôsterreichische militürische Zeitschrift Anno 1819 fasc. 8 pag. 140, hanno quest’oggi (2 maggio 1815) combattuto con molto valore. I loro cacciatori fecero prova di molta abilità. Si videro molti uffiziali precorrere i loro soldati ed animarli colla voce e coll’esempio». Vi aveva a poca distanza dal campo di battaglia la posizione di Macerata la quale offriva a Gioacchino gli stessi, se non maggiori vantaggi, che quella di Tolentino aveva offerto al generale Bianchi. E il re disponevnsi a fermarvi le sue legioni a riordinarle e a postarle; «quando» dice il generale Colletta «vide in lontananza due corrieri frettolosi. Gli aspettò, e seppe che gl’inviava l’uno dagli Abruzzi il generale Montigny, l’altro da Napoli il ministro della guerra, portatori di lettere da consegnare nelle sue mani. Montigny riferiva le sventure di Abruzzo, preso da 12 mila Tedeschi, datasi l’Aquila, ceduta a patti la cittadella, sciolte le milizie civili, commossi i popoli per la parte dei Borboni, voltato de’ magi strati lo zelo ed il giuramento, elui con pochi respinto a Popoli. Riferiva il ministro la comparsa del nemico sul Liri, lo sbigottimento de’ popoli, i tumulti di alcuni paesi della Calabria. — Alle quali nuove Gioacchino smarri il senno; e credendo il regno vicino a perdersi, stabili di accorrere al maggior pericolo, e con improvvido ma suo consiglio ritirar l’esercito nelle proprie terre. Il re dispose la ritirata (115).»
Dalle parole del generale Colletta, le quali qualificano il consiglio di ritirarsi nelle proprie terre d’improvvido, si porrebbe arguire, che vi si avessero i mezzi e il modo di protrarre nelle Marche la guerra contro l’Austria, e in ispezialità di dar loro il giorno seguente una seconda battaglia nella posizione di Macerata. Ma chiunque legge la pittura che esso stesso fa dello stato nel quale li 3 alla fine della giornata si trovava l’esercito napoletano, si convincerà del contrario. Aggiungasi che il conte di Neipperg trovavasi con 13 in 14 mila uomini la notte dei 3 ai 4 a Jesi, distante da Macerata soltanto circa 17 miglia italiane, e a portata di congiungersi col generale Bianchi al più tardi alle 10 antemeridiane del giorno 4, e di assalire l’ala destra del re di fianco e alle spalle. Avvi del reste come tosto si vedrà, un indizio certissimo, che il re all’arrivo del corriere speditogli dai generale Montigny già sapeva l’entrata degli Austriaci da Terni per Rieti, Civiltà—ducale e Antrodoco nell’Abruzzo occidentale, e che non solo l’Aquila, la capitale di quella provincia, ma anche Popoli, la chiave della strada sulla quale per la valle del Pescara esso intendeva di rientrare nel regno, era minacciata e nel più grande pericolo; e che conveniva al più presto portarvi un corpo di trappe in istato di difendere quel posto e di mantenervisi. La necessità di sortire col suo esercito dalle Marche gli era già allora chiara o manifesta. Ma la battaglia era troppo inoltrata per poterle fermare. Egli sperava di vincerla e la continuò. Il pensiero che in lui sapendo quanto il partilo borbonico nel suo regno era numeroso e possente, doveva essere prevalente, era, d’impedire agli Austriaci di porvi il piede. La ritirata fu appena incamminata che la si disordinò, e si converti in una fuga, e in seguito nella maggior parte dei fuggiaschi in una deserzione, e in un ritorno alle loro case. Ma la cagione n’era, non la ritirata per sé stessa, ma perché si sapeva, e si credeva, che tutto il regno dichiaravasi per i Borboni, e che gli Austriaci ricevevansi dappertutto come liberatori. Io non pretendo ce le disposizioni per la ritirala fossero tutto giudiziose, e quali avrebbero dovuto essere, ma sostengo, che la ritirata era dal complesso delle circostanze imperiosamente e categoricamente comandata.
Lo operazioni del conte Nugent, che tanto contribuirono al felice finimento di quella guerra, e tanto accelerarono, sono le seguenti. Egli marciava con 4500 uomini, dei quali più della metà erano Toscani (116) su Roma, e trovavasi già a Viterbo sulla strada sanese-romana, quando ebbe l’ordine di congiungersi con la colonna di mezzo ossia Bianchi, ch’era a Foligno. Parti subito, come deve farsi in ogni esercito ben regolato, ma rimostrò contro l’ordine ricevuto; ed essendosi trovata la sua rimostrazione giusta, potè fermarsi a Terni e rivolgersi col grosso delle sue genti verso l’alma Città, per di là entrare nel regno, e frattanto spinse giorno 30 aprile già da Terni un distaccamento di 910 uomini con 120 cavalli per Rieti, per Civita-Ducale e Antrodocco sull’Abruzzo occidentale. Egli è questo distaccamento come ho detto di soli 910 uomini in tutto, comandato da un maggiore (barone Fletté) che il generale Montigny nel suo messaggio al re disse un corpo di 12 mila nomini. Il detto maggiore sicuro di essere ricevuto dapertutto a braccia aperte, staccò da Rieti un tenente con 83 uomini nella valle del Terano, con l’ordine di avanzare il più presto che gli fosse possibile nella valle del Lire. Egli stesso era il 1.° di maggio a Civita—Ducale, sbaragliava una truppa napoletana di molto più numerosa della sua che gli opponeva il generale Montignv, e marciava, senza che nessuno lo fermasse al strettissimo passo di Antrodocco, sull’Aquila, e ne prendeva la cittadella, ancorché fosse stata a sufficienza presidiata e messa in istato di difesa. Egli era nella sua marcia accompagna da migliaja di paesani. Fa in vista di & queste dimostrazioni degli abitanti che si rese quel forte.
Il generale Montigny che vedeva nella truppa del maggiore Fletté una vanguardia, alla quale teneva dietro, cosi gli si diceva, un corpo di trappe considerevolissimo, si ripiegò il giorno 4 su Popoli, e il giorno seguente, abbandonata questa città su Chieti nella valle del Pescara. Fletté, animato, rassicurato, e fatto arditissimo dall’accoglienza che gli si faceva, occupò, ancorché non gli restassero più se non un 300 uomini, Popoli, e fece sembiante di volervi prender piede, a in caso che i Napoletani ritornassero di difenderlo. Il conte Nugent dal suo canto avanzava da Roma su tutte le strade che conducono nel regno, e vi entrava.
«Pochi soldati di Nugent» dice il generale Colletta, «campeggiavano tutta la frontiera dall’Aquila a Fondi. Il generale Manhes con la quarta legione (5 mila soldati) difendeva la frontiera del Liri. Avuta notizia sul finire di Aprile, che il nemico, per la valle del Sacco» – era il suddetto tenente con gli 83 uomini del distaccamento Fletté – «avanzava verso il regno, condusse ai 2 maggio la sua schiera a Ceprano (città pontificia): E Perché alcuni sbirri del Papa, chiuse la porte, tirarono poche archibugiate contro i nostri, la città fu maltrattata, messe a sacco molte case, e tre più grandi e più belle bracciate, asprezze del Manhes. Quelle squadre divise in due brigate occuparono Veruli e Fresanone e a’ 6, sapute le sventure di Tolentino». – Queste si seppero già durante il giorno 4, e doveva dirsi: in seguito che non solo la valle del Liri ma anche quella dell’alto 6arigliano era tutta sollevata – «furono sollecitamente ritratte a Ceperano, e di poi senza respira, bruciando i ponti a Roccasecca, Arce, Isola, e San—Germano, abbandonato il corso del Liri, o parte del Garigliano; linea difensiva del regno, che andò perduta senza aver visto il nemico (117).»
Montignv riprese il giorno 6 l’offensiva con 5 mila uomini, e attaccò Popoli. Egli aveva ricevuto tutta nna brigata, la brigata Minutillo, che dall’interno era arrivata a Fermo, 13 in 14 miglia italiano al Sud—Est di Macerata, ed era sul punto il giorno 3, durante la battaglia di Tolentino, di porsi in marcia per raggiungere Formata, quando ricevette l’ordine dal re di ritornare per la valle del Pescara nell’Abruzzo, di porsi sotto gli ordini del generale Montigny, e di riprendere ad ogni costo Popoli, qualora fosse occupato dal nemico. Non è egli quest’ordine, che deve essersi spedito a Fermo già la mattina del 3, un chiarissimo indizio, anzi una prova incontrastabile, che il re era ai 3, e ciò per tempo, in cognizione dell’entrata degli Austriaci all’Aquila?
Questo soccorso arrivò troppo tardi. Vi avea per la brigata Minutillo una via di molto più breve, che quella che le fu prescritta, cioè: la strada da Fermo per Mont’Olmo a Ascoli, e da questa città per la valle del Tronto, per Arquata e Amatrice all’Aquila. La detta brigata sarebbe arrivata in vicinanza dell’Aquila già il giorno 5, e quindi alle spalle del distaccamento Fletté. Ma il re deve aver temuto, che nna qualche squadra austriaca vi fosse entrata anche nella valle del Tronto, o ne avesse fatto insorgere gli abitanti. E in qualche modo non si sarebbe ingannato, giacché il detto maggiore non aveva perduto di vista quella valle, e vi avea inviato un 30 Toscani, i quali presidiarono il castello di Arquata. Comunque ciò sia, Fletté sorti bensì da Popoli e lo abbandonò, ma continuò coll’ajuto degli abitanti, che se anche non combattevano, facevano un chiasso tremendo, a dare molto da pensare e da fare al suo avversario; lo tratteneva tre giorni, gli faceva perdere del tempo, e lo dava al generale Eckhard, che parti va con 5 mila Austriaci il giorno 5 da Monte—Milone, e attraversava i controforti orientali della Sibilla su dei sentieri appena transitabili, di entrare dopo 4 giorni di una marcia che avrebbe scoraggiato ogni altra truppa, li all’Aquila, e di tirarlo da una situazione che diveniva di giorno in giorno anzi di ora in ora più critica. Il re si mostrò assai malcontento del Montigny, ma a torto; questo fece molto è assai col ritogliere agli Austriaci Popoli a fronte di una generale sollevazione della provincia.
La guerra con Gioacchino Murat trovossi in capo a due mesi finita con la perdita per esso del suo regno. Napoli, mentre l’armata austriaca era in seguito alla convenzione di Casa Lanza dei 20 maggio, in marcia per portarvisi, correva, ancorché vi avessero nel suo porto diversi navi di linea inglesi, il più grande pericolo di divenir preda della sua plebaglia, alla quale si erano associate migliaja di soldati napoletani fuggiaschi. La fu salvata dalla cavalleria austriaca, la quale chiamatavi in ajuto accorse a briglia sciolta ed ebbe a darvi quasi direi una battaglia. Ma parli pur ancora una volta il generale Colletta. «Non più re» dice questo, «non reggente, non reggenza; la plebe accresciuta de’ fuggitivi di Capua, che, sperando pre da arrivarono a torme nella città; i prigioni di Na poli tumultuosi, e le porte delle carceri non ancora abbattute ma scosse; la guardia di sicurezza già stanca; gli Inglesi pochi (n’erano discesi dalle loro navi trecento), i disordini maggiori; e ciò che accresceva pericolo, vicina la notte: si era sul punto che la plebaglia prevalesse, quando, esortati da messi e da lettere della municipalità, giunsero al declinare del giorno alcuni squadroni austriaci, che unili alle guardie urbane, girando per la città e gastigando quegli che avessero armi o segni di ribelli, soppressero i tumulti, e le inique speranze. Fu cosi grande ma necessario il rigore, che cento, almeno, di quell’infimo volgo perirono; ed altri mille, feriti, andarono agli ospedali o si nascosero (118)».
Quest’ultimo atto, al quale fu chiamata l’armata austriaca nella guerra d’Italia del 1815, prova, qual fosse la fiducia che ponevano, in generale, gl’Italiani nell’ordine e nella disciplina che la distinguevano fra tutte le armate d’Europa.
Or che ci dicono e che c’insegnano questi fatti relativamente ai soggetto del presente capitolo, cioè in riguardo alla condotta delle masse italiane nelle guerre, insurrezioni, e ribellioni, che dal 1815 in poi turbarono e interruppero replicatamente la pace d’Italia? Che ci dicono essi in particolare relativamente alla guerra del 1815? In quale dei due campi trovavasi, durante la detta guerra, l’Italia? Trovavasi essa nel campo austriaco, o nel campo napoletano? Nel campo ove difendevasi il riordinamento datole in conformità ai di lei voti e desiderj dagli Alleati dopo aver abbattuto Napoleone e spezzate le di lei catene, o in quello ove il detto riordinamento s’impugnava? Per quale dei duo eserciti erano in quella guerra le simpatie del popolo italiano, cioè delle masse? Per quale quello dell’Inghilterra, della Germania, della Russia, dei Paesi—Bassi, della Spagna, e della stessa Francia, vale a dire della Francia non napoleonica, non rivoluzionaria, della Francia che aveva bisogno di pace e la voleva? Quale delle due armate potè vantarsi di essere stata soccorsa dagli abitanti de’ paesi nei quali guerreggiavasi?
La risposta a tutte queste, e quant’ altre simili domande si facessero, non saprebbe esser dubbia. Nessun popolo si mosse per l’armata napoletana, neppur quello di Bologna, ancorché i settarj riuscissero a carpirle qualche segno di adesione, men Ire la popolazione campagnuola della Toscana era sul punto di alzarsi in massa, e di accerchiare la legione napoletana delle guardie, qualora non avesse, in vista del pericolo, sgombrato il paese; e mentre un cenno per parte dei generali austriaci Bianchi a Neipperg sarebbe stato sufficiente a sollevare le Marche ed in ispezialità la provincia pontificia di Ascoli e la valle del Tronto alle spalle dell’armata di Gioacchino, come la sola apparizione dei distaccamenti del conte Nugent bastò a far insorgere tutta la frontiera napoletana da una estremità all’altra. — Né si dica che il partito rivoluzionario, come pretende il Mazzini, mancasse di capi, giacché vi aveva nell’armata di Gioacchino il battaglione Negri, composto per lo più di uffiziali del fu esercito italico, che avrebbe fornito quanti valorosissimi e sperimentatissimi capi—banda mai si fossero dimandati, se mai le bande da condursi vi fossero state. — E perciò qui si risponde: che la vera Italia, l’Italia del popolo, l’Italia delle masse trovossi, durante la guerra che fece Gioacchino Murat nel 1815 all’Austria, nel campo austriaco, per quanto si facesse pompa nel campo del detto re dei verbi: unione, libertà, affrancazione dell’Italia; dichiarando con un fatto chiaro e manifesto, e parlante da sé: che la questione italiana non era se non una abominevole menzogna.
II. Di tutte le insurrezioni, ribellioni e rivoluzioni, le quali sono il suggetto degli studj esposti in questo capitolo, nessuna ha più l’aspetto di essere stata dettata da un deciso, unanime, irresistibile volere nazionale, che la rivoluzione napoletana del 1820. Essa fornisce inoltre tutta una serie di fatti comprovanti, che nelle popolazioni italiane, anzi che avervi una disposizione ad unirsi in una sola Italia, vi ha invece un ingenito, istintivo, indistruttibile spirito di vicendevole ripulsione; e che l’unione delle tre Italie in una sola non sarà mai spontanea, non saprà mai farsi da sé; e se mai si farà, sarà sempre l’opera dello straniero; ragioni per le quali, non la si saprebbe troppo, da chi vuol porsi in istato di giudicare la questione italiana con cognizione di causa, studiare.
Consideriamola innanzi a tutto dal punto di vista generale. Già da secoli le armate, cosi almeno nell’Europa civilizzata, aveano cessato di dar la legge ai loro paesi, e di farvi e disfarvi i re e gli imperatori; ed erano divenute il fermo sostegno dei governi stabiliti e legittimi. Il giuramento militare era sacro, il violarlo un delitto orrendo, e nell’istesso tempo anche turpe, che avviliva e disonorava. Dal 1815 in poi si è prodotta in questo riguardo una nuova era. Dal detto anno sino al 1821 vi ebbero nientemeno che quattro ribellioni militari. Il mal esempio fu dato dall’armata francese, che in aprile del 1815 passò dalle file di Luigi XVIII in quelle di Napoleone Bonaparte, allora reduce dall’Elba; la prima ad imitarlo fu l’armata spagnuola che in marzo 1819 abbandonò il suo re, e si diede al partito rivoluzionario democratico; la seconda, l’armata napoletana, la quale in luglio 1820 si fece carbonara; e la terza la piemontese, peraltro non tutta, la quale insorse per collegarsi coi settarj lombardi e per rivoluzionare l’italia.
La ribellione dell’armata francese è stata severamente punita con la battaglia di Waterloo e con le di lei conseguenze; le altre tre ebbero luogo in un tempo nel quale i sovrani di Russie, Austria e Prussia si erano obbligati col trattato detto la Santa—Alleanza ad opporsi con ogni mezzo legittimo che stasse in loro potere alle mene rivoluzionarie, e in generale a tutto ciò che potesse interrompere la pace Europea, e infrangere i trattati del 1814 e del 1815 che la ga rantivano. Il più minimo riflesso doveva persuadere le selle rivoluzionarie, che il successo dei loro sforzi, qualunque esso si fosse, non sarebbe se non di poca durata. Il negare alla Santa Alleanza, detta cosi perché realmente santo n’era lo scopo, alla quale accedettero, coll’approvarla in massima, anche il re di Francia e il principe reggente d’Inghilterra poi Giorgio IV, il diritto di opporsi a tutto ciò che minacciasse d’interrompere la pace che aveva costato ai popoli dei sovrani segnatari tanto sangue e in generale tanti e si immensi sagrifizj, è tale fatuità, che non si può rispondervi altrimenti che con una alzata e voltata di spalle. Qui vi era il diritto unito alla forza, e la forza unita al diritto, e dirò di più, unita anche al dovere. Le imprese rivoluzionarie erano perciò, sino a che restà nel suo pien vigore la detta alleanza, alti in ogni caso imprudentissimi, e insensatissimi; e quando si pensa al bene che impedivano, e al male che cagionavano, si può dirle abominevoli immanità e vero sceleraggini. E di quanto non accresceva la necessità e l’urgenza di combatterle, la circostanza, che le dette rivoluzioni erano state iniziate e incamminale da ribellioni militari, vale a dire, da scandali del genere più contaggioso che vi abbia.
Si dirà forse, che la rivoluzione napoletana era dal governo di Ferdinando IV provocata. Cosi è stato detto e ridetto le mille volle; ma è falsissimo. «Il regno delle due Sicilie contava all’epoca che vi scoppiò la rivoluzione, tra i regni d’Europa meglio governati; vi era felice il presente, felicissimo si mostrava l’avvenire; i governanti erano benigni, la finanza ricca» (pag. 157). È il generale Colletta ostilissimo ai Borboni che cosi ne parla. — Sir William A—Court, l’ambasciatore, che a Napoli aveva in allora l’Inghilterra, personaggio grave, onorevolissimo, stimato da tutti, scriveva al suo governo sui casi di Napoli: «Neppur un’ombra di biasimo s’avventurarono (i rivoluzionarj) a gittare al governo esistente; non altro promisero al popolo che la diminuzione del prezzo del sale. Mai non erasi avuto governo più paterno e liberale: maggior severità e meno confidenza sarebbero riuscite altro. Spirito di setta, e l’inaudita diserzione di un esercito ben pagato, ben vestito, e di nulla mancante, causarono la rovina d’un governo veramente popolare. Temo non si riesca a scene di carnificina e confusione universale. La costituzione è la parola d’ordine; ma in fatti è il trionfo del giacobinismo; la guerra dei poveri contro la proprietà (119).». — Conchiudiamo che la suddetta supposizione è del tutto infondata.
Quanto alla particolarità della rivoluzione napoletana. esse sono in riguardo al mio assunto le seguenti. Li 2 luglio del 1820 di gran mattino due sotto—tenenti, di nome l’uno Morelli, e l’altro Silvati, e centoventisei tra soldati e bassi—uffiziali di cavalleria disertano dai loro quartieri di Nola, città posta 13 miglia italiane all’Est di Napoli, e s’incamminano verso Avellino, capoluogo della provincia Principato Ulteriore. Erano accompagnati da circa venti settarj—carbonari aventi alla testa un prete, settario—carbonaro anch’esso, di nome Menichini. Si marciava su Avellino per unirsi ivi ad altri settarj—carbonari giorni innanzi sbanditi da Salerno e riparati colà, ove la sella era numerosa e potente. Strada facendo gridavasi: viva Dio, il re, la costituzione. Il Morelli si fermò in quel giorno a mezza—strada fra Nola e Avellino, insinuò però il suo arrivo e la sua impresa alle autorità civili e militari dell’ultima delle due città, e si affrettò di spedire dei messi in ogni direzione nelle limitrofe provincie, i quali annunziarono che Napoli si era sollevato, volendo e chiedendo un governo costituzionale, e che lullo il regno faceva e chiedeva lo stesso. La notizia di una sollevazione generale chiedente un governo costituzionale si sparse in tutto il regno con la celerità del lampo. Tutti vi credono, i settari schiamazzano, ognuno, per timore di questi, si affretta di mostrarsene contento; nessuno vi vuole essere l’ultimo, e creduto e trattato qual oppositore e avversario del nuovo ordine. Le truppe che s’inviano contro le truppe ribellanti a queste si uniscono e fanno seco causa comune. Il tutto non fu se non un contemporaneo inganno, nel quale incappavasi tanto più facilmente, che la notizia, ovunque giungeva, cagionava uno strepitoso tripudio, un bacano, un carnevale; situazione nella quale ben pochi Napoletani rimangono padroni di sé stessi. Il reame pareva invaso da un furor bachico.
Il re, quantunque principe di grande esperienza e capacità, dotato di molta penetrazione, e tutt’altro che pusillanime, fu preso dall’idea, che quel movimento cosi universale, cosi fortemente pronunciato fosse l’espressione di un vero bisogno che voleva essere contentato; si credette in dovere di concedere ciò che gli si chiedeva, cioè una costituzione, e la concedette di buona voglia e di buona fede; di ciò vi hanno i più certi e più sicuri indizj, e col sentimento di uniformarvisi. Cotesta costituzione era peraltro ancora da concepirsi, da discutersi, e da redigersi. Taluno dei settari ricordò avervi delle costituzioni già bell’e fatte, e tale fra le altri essere la costituzione spagnuola, che secondo lui avea il pregio di non essere infetta dallo spirito aristocratico. Non se ne avea, ciò sia detto per parantesi, in tutto Napoli un solo esemplare per poterla ristampare e diramare. Nessuno ne conosceva il contenuto. Questa circostanza non ne impedì la dimanda, la concessione e la proclamazione. Il re la concedette e la giurò con la più grande solennità e con segni indubitabili che intendeva attivarla.
Frattanto la rivoluzione era già passata dalla fase di un semplice rivolgimento in quella di un totale sfasciamento. I soldati abbandonavano a centinaja i loro corpi, e correvano alle loro case; ciò, che dell’armata rimaneva, presentava delle anomalie, e per dir meglio delle mostruosità inaudite. Il soldato per esempio era come tale subordinato a’ suoi capi e uffiziali, ma era nello stesso tempo anche settario—carbonaro, e, come tale, aveva un rango a parte, un rango di anzianità, che datava dal tempo della sua ammissione nella relativa vendita, e che lo metteva al disopra dello stesso suo colonnello, se questo vi apparteneva, e vi era entrato più tardi. — Il primo pensiero che si affacciò nell’ordinamento delle provincie e segnatamente in quello dei due Principati, della Basilicata, e della Capitanata, fu di formare governi da sé, con leggi, ed istituzioni proprie: cosicché i primi sintomi della vita nuova del regno furono i soliti sintomi di disunione politica, e di spezzamento territoriale. Nell’istesso giorno, che il re giurava la conceduta costituzione spagnuola, Palermo, notoriamente la capitale della Sicilia, secondata dalla propria provincia, e da quella di Girgenti, si alza contro Napoli, e vuole e proclama la separazione di quell’isola dal regno al di quà del Faro. — Piacque di dar alla rivoluzione napoletana il vanto di non aver costato una stilla di sangue. Questo vanto non è meritato. Se ne sparse non molto, ciò è vero, sul continente, ma pur se ne sparse, e se ne sarebbe sparso molto di più, se i settarj avessero incontrato della resistenza. Ma quanto non se ne sparse in Sicilia? Ecco la pittura che fa il generale Colletta della condizione di quell’isola: «Bruttavano», dice egli, «la Giunta Sovrana palermitana le turpitudini dell’anarchia; violente nelle città, violente nelle campagne, spoglio dei paesi contrarj, ed in ogni loco uccisioni e rapine; non fu salvo il banco dove era in deposito il danaro pubblico e privato; non furono salve le biblioteche, le case di scienza e di pietà; cose umane e divine la stessa furia distruggeva. La Carboneria, lungo tempo divisa per lo meno in tante società quante erano le provincie, si strinse in una sotto proprio reggimento col nome di assemblea generale, che componevasi dei legati delle società provinciale L’assemblea generale aveva un vasto edifizio nella città, sue leggi, sua finanza, suoi magistrati, ed un presidente. Ell’era si potente che spesso richiesta soccorreva il governo, come fu al richiamo dei disertori, all’esecuzione dei tributi fiscali, alla leva delle milizie, ed altri bisogni dello Stato. Erano soccorsi e pericoli». — Era molto di più, era uno «Status in Statu», ciò che era anche la Polizia, in ispezialità quella della capitale. Le turpitudini alle quali il governo doveva discendere, per ritenere un’ombra di autorità e conservarne se non altro le apparente di essa, fanno ribrezzo. — Ma le maggiori e più serie apprensioni ispirava il parlamento. Eletti i deputati, e adunatisi, non si crederebbe di quali e quante inezie essi si occupassero, e come sprecassero il loro tempo. Parlandosi un d da uno di loro delle riforme, delle quali abbisognava la costituzione spagnuola per divenir applicabile ad un regno tanto in ogni fisico morale, sociale e politico riguardo diverso dalla Spagna, quando gli scappò accidentalmente il dubbio: se quel consesso era un’assemblea costituita o costituente. Appena intesero le due parole che abbandonato ogni pensiero della riforma della quale si trattava, si diede principio ad una discussione la più tumultuosa, e interminabile a schiarimento del suddetto dubbio. «Passavano» dice il generale Colletta «i giorni senza nulla decidere; il re, la casa, i ministri, gli onesti sentivano spavento, ricordando la costituente di Francia, la convenzione, l’atroce (regicida) giudizio; i primi fatti della cruenta rivoluzione francese (120).
». Non dà questa condotta del Parlamento napoletano una misura del tempo che avrebbe messo una costituente italiana, alla quale gli Alleati avessero nel 1814 e 1815 ricorso per riordinare l’Italia, e un saggio della piega che gli affari d’Italia vi avrebbero presa? Or si domanda se l’Austria, se gli Stati italiani, se la Santa—Alleanza potevano rimaner indifferenti spettatrici di una si crudele situazione di quel regno, e se non solo i riguardi politici ma anche i riguardi di umanità non facevano loro un dovere di porvi un fine, e di repristinarvi il felice passato, e rimettervi in corso il felicissimo avvenire, che la rivoluzione impediva? La Santa—Alleanza fece prova tanto rimpetto alla rivoluzione napoletana che alla rivoluzione spagnuola di una rara moderazione e circospezione, che le faceva, pensando alla forza che aveva in mano, grande onore, e chiariva le calunnie con le quali volevasi discreditarla, e far la credere una cospirazione contro la libertà dei popoli in generale, e contro l’indipendenza degli Stati di secondo e terzo ordine in particolare. Essa tenne diverse riunioni in diverse forme a Carlsbad, a Troppau e in ultimo a Lubiana, ove furono invitati anche i principi italiani, in particolare il re di Napoli, che vi si portò. Il congresso dichiarò che non riconosceva il nuovo governo napoletano e non lo soffrirebbe (121).
I rivoluzionarj si diedero ogni pena di far credere, che l’Inghilterra avesse al congresso di Lubiana decisamente o francamente disapprovato il principio dell’intervento, e sostenuto quello del lasciar i popoli faro ciò che vogliono, e ciò che loro pare e piace. L’attitudine dell’Inghilterra a quell’unione potè sembrare un’opposizione, ma fu un bene e non un male in quanto, che la forza, per non divenir malefica, abbisogna di ritegno che ne rallenti il corso, e obblighi chi la possiede e la maneggia alla moderazione. Milord Castlereagh cosi si esprime nel dispaccio circolare da lui indirizzato durante il congresso di Lubiana a tutti gli agenti diplomatici inglesi residenti alle diverse corti Europee, che porta la data dei 1gennajo 1821, in riguardo alle disposizioni prese dal detto Congresso relativamente alla rivoluzione di Napoli:
«Bien qu’aucun gouvernement ne peut être plus disposé à maintenir le droit de tout État d’intervenir, lorsque sa secourité et les intérêts essentiels sont menacés d’une manière sérieuse par les événements intérieurs d’un autre État, il regarde cependant l’admission, de ce droit comme ne pouvant être justifiée que par la plus urgente nécessité et devant être limitée et régularisée par cette nécessité(122)».
I limiti assegnati agli interventi politici dal ministro inglese sono giustissimi, ma non differivano in nulla da quelli, che vi mettevano le tre potenze segnatarie della Santa Alleanza. come negare, che la condizione di quel reame minacciava la pace di tutto il rimanente dell’Italia, e quindi anche quella del regno Lombardo—Veneto, e indirettamente la pace di tutta l’Europa? qual intelletto sano poteva non vedervi un fomite di ribellione e di rivoluzioni, che le potenze Europee erano in sommo grado interessate, in dovere, e in pien diritto di combattere? come potevano esse sopportare rivoluzioni iniziate da armate spergiure? L’intervento contro Napoli non ebbe luogo se non dopo mesi di discussioni sulla di lui legittimità, convenienza e necessità. Se mai la forza si mostrò sommessa al diritto e docile, ciò fu al congresso di Troppau, e a quello di Lubiana. L’intervento concertato dalle tre potenze segnatarie non fu attuato se non dopo avervi ottenuto il formate consenso, e l’approvazione della Francia, e se non il formate però il tacilo consenso dell’Inghilterra. Tanto è certo che nessuno degli ambasciatori e ministri dei diversi gabinetti Europei, residenti a Napoli disapprovava, e imprecava più francamente, come disopra ho dato a conoscere, la rivoluzione napoletana, che l’ambasciatore inglese Sir William A’Court.
La decisione del Congresso portava che il governo rivoluzionario avesse a cessare, e il re Ferdinando a riprendere l’autorità, che aveva innanzi li 2 luglio 1820; e che qualora l’attuale governo non si dimettesse, e non accettasse la proposta, l’Austria come la più vicina delle tre potenze segnatarie della Santa Alleanza, e come la più interessata, avesse senza remora ad attuarla e ciò armata manu, mentre la Russia posterebbe un esercito di riserva, in aspettazione degli avvenimenti, nella Gallizia. E siccome il Parlamento non si arrese all’intimazione, cosi convenne per parte dell’attuale governo prepararsi a respingere la sovrastante invasione.
E valga il vero, i preparativi erano certamente benissimo intesi. E non vi ha dubbio che la guerra sarebbe riuscita per l’Austria ardua e lunga, se il popolo napoletano, tirando partito dell’elemento topografico tanto ad una guerra di bande favorevole, vi avesse cooperato; ciò che indubitatamente avrebbe fatto, se l’impresa fosse stata una impresa nazionale. Il popolo spinto dal terrore che gli metteva la carboneria fece bensì sembiante di prender parte alla difesa delle frontiere e vi corse: ma poi tutto ad un tratto, si sbandò in modo, che, sono sicuro di non esagerare e di non dire se non la pura verità, dicendo, che gli Austriaci non perdettero in tutta quella guerra un sol uomo oltre a quelli che caddero nello scontro che vi ebbe fra una loro brigala (Geppert), e l’ala destra dell’esercito napoletano; scontro col quale la guerra, in quel giorno incominciata, fu anche in quel giorno terminata.
Il nostro solito autore nelle cose di Napoli ci dà di quella guerra, il seguente ragguaglio: «Ogni schiera, dice egli, lietamente partiva pel campo. Al tempo stesso alcuni battaglioni delle milizie civili si erano mossi dalla provincia, e pareva che abbisognasse freno, non stimolo alla volontà, e che i militi (una spezie di Landwehr) soperchiassero il richiesto numero; alcuni giovanetti a’ quali erano gravi le armi ordinarie, ne presero di più alte alla debole età, e lieti marciavano; alcune donne, sorelle e madri, alcuni padri o zii, non abili per vecchiezza o per sesso a trattar le armi, indossando i fardelli scemavano ai militi le fatiche. Ma questo che pareva zelo di patria, era in gran parte timore dei Carbonari, i quali in ogni comunità per salvar sé stessi dai travagli della guerra, minacciando e forzando i più placidi cittadini, gli spingevano alla frontiera».
Non tardò a presentarsi il giorno del cimento. «Il generale Guglielmo Pepe, che ebbe gran parte nella rivolta dell’armata, assaltò il giorno 7 marzo Rieti, ove i Tedeschi ordinati a difesa lo respinsero. Le milizie civili, nuove alla guerra, trepidarono, fuggirono, strascinarono coll’impeto, e coll’esempio qualche compagnia dei vecchi soldati; si ruppero gli ordini, si udirono le voci di tradimento e salvarsi chi può, scomparve il campo… Le due legioni di Ascoli e Tagliacozzo, ignorando la cominciata guerra, stavano ferme nei campi: ma dopo il terzo di, avvisate dai grido pubblico, ritiraronsi frettolosamente, e i soldati udendo i tristi casi, e vedendo i segni della fuga trepidando fuggirono… E cosi ogni schiera fuggendo, restarono gli Abruzzi vuoti di difensori. – Miserando spettacolo! gettate le armi e le insegne; le macchine di guerra, fatte inciampo al fuggire, rovesciate, spezzate; gli argini, le trincee, opere di molte menti e di molte braccia aperte, abbandonate; ogni ordine scomposto, esercito poco innanzi spaventoso al nemico, oggi volto in ludibrio. I Tedeschi temendo agguati nella inattesa fuga si tennero più vigilanti nei campi; ma rassicurati dalla solitudine della frontiera, il giorno 10 avanzarono sopra Antrodocco, e, benché trovassero la città spopolata, i fortini e i cannoni abbandonali e giacenti, pur lentamente, procederono, e non si affacciarono sopra i monti dell’Aquila prima del 14. Stava la fortezza (cittadella) spalancata e deserta: la comunità spedi ambasciatori e doni al vincitore, la città fu occupata Cosi negli Abruzzi». — E come si disordinò quella parte dell’esercito che combatté a Rieti, si disordinò anche l’altra che avrebbe dovuto difendere il Liri in prima, e il Garigliano in seconda linea. Le sole guardie restarono unite, ma saputosi da esse, che all’armata austriaca era giunto il re da Lubiana, dichiararono che non combatterebbero contro i Tedeschi di lui Alleati. I militi, che rappresentavano in questa guerra le masse, vidersi in ultimo rivolgere le armi contro quei soldati che mostravansi disposti di combattere pel nuovo ordine, uccisero parecchi uffiziali, scaricarono le loro armi sui proprj generali, e sino sullo stesso generale supremo Carascosa.
La rivoluzione napoletana trovossi spenta in capo a due settimane di guerra. L’armata austriaca da sé sola vi avrebbe avuto da fare qualche anno. La spense l’Austria assieme coi Napoletani. Il giorno 23 la di lei armata entrava in Napoli preceduta dalla guardia reale. Le masse avevano preso parte alla sommossa come ad un tripudio, perché non ne comprendevano il significato. Venutene in cognizione e intesolo, cedettero per qualche tempo al terrore che inspirava la Carboneria, e ricorsero allo spediente di associarvisi. Questa, dal gran numero dei suoi socj impacciata nella sua azione rivoluzionaria, non fu più dessa. Avvicinatisi gli Austriaci, le masse li salutarono come liberatori e come gli alleati del loro re. Il nuovo Stato si trovò senza esercito e senza le masse, sicché senza alcun sostegno, e precipitò. Si era dato ad intendere agli Alleati, e in ispecialità agli Austriaci, che finita la guerra coll’esercito comincerebbe la guerra con le masse, e co’ suoi orrori, come accadde nell’invasione francese nell’inverno 1798—1799. Ecco la ragione perché il barone Frimont generale in capo dell’armata austriaca che attuava le decisioni del Congresso di Lubiana, impiegò, per avanzare dopo lo scontro di Rieti negli Abruzzi, tre intiere giornate. Vi entrò ed occupò l’Aquila quando vi fu chiamato dalle masse.
III. La rivoluzione di Napoli era già morta, e gli Austriaci sul punto di entrare nella capitale del regno, quando vi giunse la nuova della rivoluzione piemontese; iniziata anch’essa da una ribellione militare. Le due rivoluzioni, la napoletana e la piemontese hanno un carattere essenzialmente e totalmente diverso. La prima aveva tutta l’apparenza di essere l’espressione di un volere nazionale unanime, di abbracciare tutta la popolazione, tutte le classi, le aristocrazie e le democrazie, le città e le campagne; la sembrava piena di vita e di forza, era chiassosa, ma non professava odj, non mentiva protesti, non agognava conquiste, non voleva guerra; era una rivoluzione puramente e meramente napoletana, il che è tanto vero che il nuovo governo non accettò mai l’adesione al regno di Pontecorvo e di Benevento territorj pontificj, inchiusi nel reame. Non cosi la rivoluzione piemontese; essa non fu mai altro che una ribellione militare e anzi una ribellione soltanto parziale dell’esercito piemontese, che con gran stento riusci a rinforzarsi con degli studenti, e con la plebaglia di alcune città, e che fu sempre esecrata e maledetta dal vero popolo tanto della città che delle campagne. Essa non contò mai nelle sue file 10 mila soldati; nonpertanto si diceva essa una rivoluziono italiana e dichiarava la guerra all’Austria, potenza di primo rango da sé, e alleata della Russia, della Prussia, e della Francia; la qual ultima non più che l’Austria poteva soffrire un governo rivoluzionario in un paese limitrofo. La rivoluzione piemontese fu perciò una rivoluzione assurda, ciò che non era la rivoluzione napoletana (123)
Questa, scoppiata il 2 luglio 1820 e oppressa definitivamente li 23 marzo durò mesi; la piemontese scoppiata il 10 marzo 1821 non durò se non 4 settimane e 2 giorni. Per terminare la prima la Santa—Alleanza approntava due armate, una austriaca, quella stessa che attuò l’intervento, e l’altra russa di riserva, che sarebbe avanzata qualora le masse napoletane avessero preso parte alla difesa del nuovo governo: per terminare la rivoluzione piemontese bastarono invece due fogli di caria, firmati da Carlo—Felice, fratello e successore dell’ottimo e veneratissimo re Vittorio—Emanuele che la rivoluzione indusse ad abdicare, e a ritirarsi a Nizza.
Ho avvertito parlando della rivoluzione napoletana, che non la era in verun modo provocata. Lo stesso può, e deve dirsi anche della rivoluzione piemontese: Il sullodato re Vittorio—Emanuele non viveva che pel suo popolo; ed era da questo amato ed adorato; e sino i Genovesi gli rendevano giustizia e lo benedivano. Il paese trovavasi nello stato più prosperoso: l’agricoltura, l’industria, il commercio, le arti, le scienze, gli studj fiorenti, la religione protetta, i buoni costumi tutelati, ogni vero progresso possibilmente promosso, la giustizia incorrotta, il governo entro e fuori stimato. Che non pertanto vi fossero anche delle parti men buone, che vi si rendessero necessarie delle riforme, che qua e là vi avesse qualche massima governativa erronea, chi lo negherebbe? Ma qual è lo Stato ove tutto sia perfetto. Che se anche una riforma vi si fosse resa necessaria e fosse stata anche urgente, ciò che non era minimamente il caso, una rivoluzione, ed in ispezialità una rivoluzione iniziata da una ribellione militare non era certamente la via, né più breve, né più facile, né più sicura di arrivarvi. Aggiungerò sapendolo di certo (124), che l’animo paterno, generoso e coscienzioso di quel re non avrebbe esitato un istante a dare al suo popolo una qualunque anche liberalissima costituzione, se non ne lo avesse ritenuto il convincimento, che con essa non avrebbe fatto altro che far dipendere la sorte e la felicità del regno affidatogli dalla Provvidenza da una congrega d’imbroglioni ingordi di cariche e di situazioni lucrose, e di gente vogliosa di far a qualunque costo parlare di sé. Né l’Austria, né tutta la Santa Alleanza assieme ve l’avrebbe impedito. Egli era bensì di un carattere mitissimo, e fin umile, ma nell’istesso tempo gelosissimo della sua dignità, e della sua indipendenza come re. Se l’Austria si fosse arrogata una supremazia sul suo Piemonte, o si fosse opposta ad una qualunque siasi sua deliberazione o concessione, egli sarebbe ricorso alla Santa Alleanza, e questa non avrebbe mancato, non è da dubitarne, d’interporvi il suo «veto».
I settari lombardi non ebbero nessuna parte nulla rivoluzione napoletana. Essi vi erano dopo il 1815 disprezzatissimi; nessun Napoletano avrebbe prestato la minima fede alle loro offerte e promesso. Ma n’ebbero moltissima parte nella rivoluzione piemontese. I primi sintomi rivoluzionarj di questa apparirono nella scolaresca di Torino già in gennajo 1821. Ma il re mostrò fermezza, e lo scoppio della rivoluzione fu sospeso sino ai 10 di marzo, nel qual giorno si ribellò la maggior parte della guarnigione di Alessandria. In questa città convennero il giorno 11 le truppe spergiure da diversi luoghi, e si compose una giunta del regno d’Italia, che diede principio alla sua operosità col proclamare la guerra all’Austria. Pretesto alla ribellione era il bisogno di liberare il re dalla dipendenza dell’Austria, e di sottrarlo alle violenze che questa potenza gli usava. Né giovò che il re con apposito manifesto, da me già altrove riportato; (pag. 205 nota 26) vi dasse una solenne smentita. I ribelli per quanto il pretesto fosse assurdo continuarono a servirsene. Il giorno 12 si ribellò anche la guarnigione della cittadella di Torino. Vi ebbe un momento, che il re era per ascendere a cavallo, e presentarsi a’ suoi soldati. Né fu distolto dalla notizia datagli dal suo ministro di polizia: che non eran soltanto pochi ribaldi, bensì tutta la nazione in aperta ribellione: e che 30 mila armati del contado movevansi contro la capitale. Il re a quella notizia, che però era falsissima, ebbe il cuor spezzato, e il giorno 13 abdicò, nominando, trovandosi il suo legittimo successore Carlo—Felice assente a Modena, a reggente, Carlo—Alberto principe di Carignano (125)
Ma Carlo—Felice riceveva per la via di Parma le notizie le più rassicuranti sulla disposizione del popolo del contado e delle masse in generale, e sapeva che il movimento ora un movimento settario, e nient’altro, e che il vero popolo era anche a Torino e sino in Alessandria contrarissimo alla rivoluzione. Egli indirizzò quindi a’ suoi Piemontesi il proclama colla data 16 marzo 1821, che il Lettore troverà fra le note (126) il quale sconcertò affatto i rivoluzionarj, e ordinò contemporaneamente al reggente di partire con le truppe rimaste fedeli per Novara, e congiungerle con quelle che vi comandava il generale conte Sallier de Latour, ordine al quale il principe obbedi nella notte del 21 ai 22. Ai 16, nello stesso giorno nel quale Carlo—Felice faceva diramare mediante i Carabinieri reali, i quali da per tutto eran rimasti fedeli ai loro giuramento, quel suo manifesto, nel quale spiegava con tanta franchezza le sue intenzioni e la sua politica, comparvero a Torino dei congiurati milanesi, promettendo, come avevano promesso a Gioacchino Murat, monti e mari. Venite, passate il Ticino, dicevano essi ai Piemontesi, e questi rispondevano: alzatevi voi, e non dubitate che ci alzeremo anche noi. Da soli, replicavano i Milanesi non bastiamo, né voi, senza di noi, bastate a difendervi.
I Milanesi non si mossero. La rivoluzione piemontese sarebbe finita già ai 17 marzo, se non vi avesse avuto a Torino un conte Mocenigo ministro residente russo, che lusingava i ribelli con la speranza d’indurre Carlo—Felice, per mezzo dell’imperatore Alessandro a patti. Ma il nuovo re interruppe quelle mene col suo secondo manifesto dei 3 aprile 1821 (127)
I ribelli tentarono di attirare a sé le truppe che erano a Novara. Essi erano 2750 uomini a piedi e 1080 a cavallo. Ricevuti dai loro compatrioti a colpi di cannone, e assaliti da pochi Austriaci, che sulla richiesta di Carlo—Felice ave van passato il Ticino, si sbandarono. Il giorno 10 il conte Latour entrava in Torino. Un distaccamento di Austriaci che marciò su Alessandria vi trovò la porta della cittadella spalancata, e vi entrò.
Uno scrittore, che fu testimonio oculare della rivoluzione piemontese, parla dell’avversione, che essa aveva suscitata nelle popolazioni, e della gioja che queste provarono quando la videro terminata, nel modo seguente: « Les peuples ont prouvé, en Piémont comme à Naples, leur indifférence pour les changemens qui se faisaient en leur nom. Tout le Piémont se réjouit du retour de l’ordre et de la justice, et retrouve sous le gouvernement de son Roi le bonheur qui en avait été banni. Les troupes royales étaient à peine rentrées, que nous vîmes la confiance renaître, le commerce reprendre son activité; les rues de la ville, auparavant dé sertes, fréquentées de nouveau. Métamorphosé aussi prompte qu’elle fut remarquable. Pendant les 30 jours, Turin offrait le spectacle d’une ville, affligée de quelque grande calamité; les promenades étaient désertes, le voilures ne sortaient plus, les habitans avaient fait place à des agitateurs à figures sinistres, les cafés, vides de leurs habitués, n’entendaient plus que des déclamations incendiaires; et si les jours de la révolution n’eussent été abrégés, nous aurions vu de grands malheurs. Au brait d’un tambour, d’un passage de soldats, les marchands, l’oreille au guet fermaient leurs boutiques; et lorsque les etudians fédérés revinrent d’Alexandrie, en chapeaux ronds, en habits bourgeois, et le fusil sur l’epaule, toutes les portes des maisons se fermèrent; accueil peu flatteur pour ces héros de la patrie (128).
» — Ogni ulteriore commento su questa pittura si rende superfluo. — Conchiudiamo che quel movimento detto la rivoluzione piemontese fu tutt’ altro che un movimento nazionale e vi si vide, dal vero popolo, in tutta l’estensione, che lo meritava, esecrato. (129)
IV. La rivoluzione, abbenché vinta e compressa nel regno di Napoli e nel Piemonte, rimaneva, non senza grave pericolo per la. Francia e l’Italia, tuttora vittoriosa e trionfante in Ispagna. I profughi rivoluzionari italiani, francesi, tedeschi e polacchi collegatisi nella Svizzera, in Francia e in Inghilterra, e fattisi centro dirigente di tutte le Sette in Europa, divennero una formidabile potenza Europea. Essi riuscirono a incamminare dei moti rivoluzionari fra’ Greci sudditi della Porta, i quali moti non tardarono a guadagnarsi le simpatie russe, e quelle del liberalismo Europeo. I Sovrani alleati adunaronsi di nuovo a congresso in ottobre del 1822 in Verona, ove convennero, oltre i due imperatori d’Austria e di Russia e il re di Prussia, anche i re di Napoli e di Sardegna, il Granduca di Toscana, la duchessa regnante di Parma, il duca di Modena, nonché i rappresentanti del Sommo—Pontefice, e quelli di Francia e d’Inghilterra; fra’ quali ultimi vi avea anche il duca di Wellington. La Francia ottenne d’intervenire negli affari di Spagna. Infatti un esercito francese entrò nella penisola, e la traversò dalla Bidassoa a Cadice senza incontrare per parte del popolo spagnuolo la minima opposizione; prova la più parlante e incontrastabile, che anche la rivoluzione spagnuola era stata una impresa settaria e null’altro, e che anch’essa non ebbe nulla di spontaneo e di nazionale. I sovrani italiani partirono dai Congresso rassicurali, che ogni qualvolta avessero bisogno di soccorso contro i rivoluzionari, l’Austria, su di una loro richiesta, glielo porgerebbe (130).
Al congresso di Verona si sarebbe invano cercata «l’entente cordiale» che sussisteva fra gli Alleati negli anteriori Congressi di Aquisgrana, di Troppau, e, nonostante l’opposizione dell’Inghilterra al principio d’intervento, la quale era più formate che reale, anche in quello di Lubiana. Ad essa subentrarono le solite gelosie e diffidenze politiche. I ministri inglesi favorivano in ogni modo il distacco dell’America spagnuola dalla madre patria, e tenevano innanzi alla camera dei Comuni dei discorsi, come se l’Inghilterra fosse disposta a farsi capo dei malcontenti e dei rivoluzionari in ambidue gli emisferi (131).
Morto l’imperatore Alessandro (1 dic. 1825), la Russia, la Francia, e l’Inghilterra sposarono, senza riserva apertamente la causa dei Greci, e fondarono il regno ellenico. Ogni idea di equilibrio politico era sparita. La Russia, messo da canto qualunque riguardo, invase nel 182la Turchia, e avanzò con uno da suoi eserciti in Europa sino a Adrianopoli, e con un altro in Asia sino a Kars; e si sarebbe impadronita di Costantinopoli, se l’Austria e la Prussia non avessero scosso la Francia e l’Inghilterra dal letargo nel quale trovavansi. Nel 1830 divenne la Francia di nuovo preda di una rivoluzione, che obbligò il suo re, Carlo X, di discendere dal trono, al quale sali Luigi—Filippo duca di Orléans, del ramo cadetto dei Borboni di Francia.
Con la prefatta rivoluzione francese entrò l’agitazione rivoluzionaria italiana nel detto anno in una nuova fase. Il governo di Luigi—Filippo annunziava, qual uno dei dogmi fondamentali della sua politica internazionale, il principio di non intervento, cioè che ogni Stato avesse il diritto di darsi quegli ordinamenti politici, che ad esso e al suo popolo più convenissero, e che verun altro Stato avesse il diritto di opporvisi, fosse anche il caso, che la di lui sicurezza e tranquillità ne soffrisse. Né vi mancava la minaccia, che la Francia sosterebbe il detto principio, qualora lo si ledesse, con le armi.
Egli è chiaro che con questa dichiarazione cessava il timore che inspirava ai rivoluzionari italiani l’Austria, e che in essi potè e dovette prodursi la speranza, anzi la certezza, che l’Austria non avrebbe, per soccorrere il Papa, il re di Napoli, o il re di Sardegna, voluto invilupparsi da sé sola in una guerra con una potenza qual era divenuta dopo 15 anni di pace, la Francia; e dico da sé sola, giacché anche l’Inghilterra, la sua antica alleata nelle guerre con la rivoluzione francese e con Napoleone, professerà il principio di non—intervento; che fra la Russia e l’Austria regnavano dei serj dissapori a cagione della politica seguita da questa nell’ultima guerra russo—turca; e che l’Austria si trovava anche con la Prussia, a cagione dell’egemonia sulla confederazione germanica su di un piede tutt’altro che amichevole. I rivoluzionari italiani potevano perciò dire al popolo e alle masse italiane per la prima volta con un qualche fondamento di verità: la congiuntura si è ormai fatta favorevolissima alla vostra emancipazione dal giogo clericale e in generale da’ vostri principi—padroni. Alzatevi, non temete. L’Austria si trova in un completo isolamento politico. L’intervenire nei vostri affari le è interdetto. Peraltro astenetevi dal provocarla. tutto all’opposto accarezzatela. Fatte fatto il possibile per addormentarla. L’ora di assalirla e cacciarla oltre le Alpi non ha ancora suonato, ma tardi o a buon ora suonerà. I rivoluzionari potevano tanto più sperare di essere questa volta dal popolo e dalle masse ascoltati, che a forza di spargere contro i governi italiani e segnatamente contro il governo pontifizio delle calunnie, e denigrarli a più potere, e con una impudenza e audacia, che hanno dell’incredibile, erano riusciti a traviare totalmente l’opinione pubblica, e sino i gabinetti, nella Francia e nell’Inghilterra (132).
Ancorché il piano dei rivoluzionari per una nuova riscossa fosse da prima assai ristretto, e non abbracciasse che le Legazioni e le Marche, nondimeno, venuti essi all’alto pratico, vi compresero anche i Ducati di Parma e di Modena, e anche Roma con la sua comarca, ancorché il primo dei detti Ducati avesse per sua Duchessa regnante una Arciduchessa d’Austria figlia dell’imperatore Francesco I, e il secondo per suo Duca Francesco IV Arciduca d’Austria; e quantunque Roma fosse la capitale non tanto dello Stato pontifizio, quanto del mondo cattolico. Il segnale per insorgere fu dato nella notte dai 3 ai 4 febbrajo da un Ciro Menotti a Modena, che era uomo danaroso, ed aveva adunalo attorno a sé una banda di facinorosi, di contrabbandieri, e simile gente. Ma non un Modenese si alzò per esso. Il colpo, stante la straordinaria intrepidezza del Duca, la fedeltà della sua truppa, e la filiale devozione dei suoi Modenesi andò intieramente fallito. E per le stesse ragioni fatti esso anche a Roma. A Parma, a Bologna e in generale nelle città delle Legazioni e delle Marche, la rivoluzione, i settarj essendovi assai numerosi e la truppa infedele, ottenne il suo intento; ciò che fece, che il duca di Modena come anche la duchessa di Parma dovettero abbandonare le loro capitali, passare il Po, e ricovrarsi nel regno Lombardo—Veneto. Il popolo del contado resistette ovunque a tutte le seduzioni.
I due Ducati rimasero per lo spazio di un mese e alcuni giorni, e le Legazioni e le Marche, una e anche due. settimane di più, in balia del governo rivoluzionario. Il comandante in capo delle forze austriache nel regno Lombardo—Veneto barone Frimont mancava d’istruzioni pel caso avvenuto, e non osò senza un ordine del suo imperatore passare il confine. Il gabinetto austriaco si ricordò che gli Stati italiani, se avevano bisogno di soccorso contro: rivoluzionarj, dovevano, stando alle decisioni del congresso di Verona, chiederlo all’Austria formalmente. A Vienna si sapeva, che questa rivoluzione come quella di Napoli del 1820, e l’altra del Piemonte del 1821 non era, se non che pria rivoluzione settaria, che nulla aveva di nazionale; che il popolo del contado tutto, e nelle città tutta la gente onesta la riprovava e la esecrava; né vi si era dimenticato l’effetto che contro la. rivoluzione piemontese, avevano prodotto i due manifesti lanciatevi da Carlo—Felice; non vi si ignorava che le truppe estensi si erano condotte egregiamente: le si credevano anche. più numerose che non erano, giacché contavano circa 800 uomini, non più. In seguito a tutti questi riflessi vi si avrebbe voluto, che il duca da sé solo rimettesse l’ordine nei suoi Stati. Il duca di Modena e la duchessa di Parma, dovettero perciò portarsi in persona dall’imperatore, e ricordargli l’impegno, assuntosi si generosamente al congresso di Verona rimpetto ai principi italiani, di soccorrerli in caso di un movimento rivoluzionario.
L ’ addimandato soccorso fu dopo qualche tergiversazione accordato. Ma in che, in quante truppe, in che armata consistette esso? Esso consistette in un battaglione d’infanteria e in un squadrone di ussari per la duchessa di Parma (in tutta circa 800 uomini), e in una brigata d’infanteria e un reggimento a cavallo, ussari,circa 5000 uomini in tutto, pel duca di Modena. I primi, partiti da Piacenza bastarono, appena mostratisi, a decidere le alcune centinaja di ribelli piacentini e parmigiani a sbandarsi; i secondi, ai quali unironsi in antiguardo gli Estensi, partiti da Mantova, iscambiarono alcune fucilate coi ribelli modenesi, e entrarono il giorno marzo, col duca Francesco alla testa in Modena. Il generale Zucchi, reggiano, dell’esercito italico disertore dell’armata austriaca, preso con quella sua gente la via di Bologna. Ma tale era lo spavento che incuteva quella sua masnada; che la detta città gli chiuse le porte (133).
Gli storici italiani, che ricordano quel savio partito preso dal governo bolognese, vorrebbero farlo credere dettato da una stretta e coscienziosa osservazione del principio di non-intervento.
In questo mezzo inviava anche il Somme—Pontefice Gregorio XVI corriere sopra corriere al suo nunzio a Vienna, ingiungendogli di farvi presente la triste situazione della Chiesa per La quale la Casa d’Austria aveva pel corso di tanti secoli professato una inalterabile filiale devozione, e la necessità nella quale la si trovava di essere soccorsa contro un branco di ribaldi, fattisi sfacciatamente audaci, nella supposizione aver l’Austria aderito al principio di non—intervento dettato dal nuovo governo di Francia. E che l’Austria sembrasse ai rivoluzionari dagli schiamazzi della tribuna e della stampa dei Francesi atterrita, non vi ha punto di dubbio. Sennonché a Vienna si sapeva benissimo che Luigi—Filippo sul suo trono, che era tuttora malfermo e vacillante, tremava, e sentiva in sommo grado il bisogno, per assodarlo, di vivere in pace con tutta l’Europa, e in riguardo alle potenze continentali di vivere in pace in ispezialità con l’Austria. Le minacciose scappate parlamentarie di qualche deputato francese facevano pochissimo senso, se pur uno ne facevano, su delle personalità di tanto maturato senno nei grandi affari del mondo quali erano l’imperatore Francesco, e il suo ministro degli affari esteri Principe Metternich. L’imperatore ordinò, che la brigata comandata dal generale Geppert, lo stesso che aveva rotto e fugato i Napoletani il giorno 7 aprile 1821 a Rieti, avesse, dopo compita la ristaurazione del duca di Modena, a passare il Panaro, ad entrare negli Stati Ponteficj e a ristabilirvi il governo del Papa; ciò che anche si fece. Il giorno 23 marzo 1831 gli Austriaci entrarono in Bologna accolti come liberatori. Le truppe che si erano date alla giunta rivoluzionaria di Bologna, con quelle che la potè con grande stento entrarono in Bologna accolti come liberatori. Le truppe che si erano date alla giunta rivoluzionaria di Bologna con quello, che questa aveva con grande stento e pericolo raccozzate, ammontavano a circa 7000 uomini.
Ne prese il comando il suaccennate generale Zucchi. Il giorno 25 marzo ebbe luogo alle porte di Rimini uno scontro, che costò agli Austriaci un 20 Ussari Ira morti e feriti. Il giorno 27 Zucchi già s’imbarcava con un buon numero dei subi per Corfù, ma fu da una squadriglia austriaca intercettato e fatto prigioniero. L’intervento non ebbe a durare che una settimana.
Se mai rimanesse al Lettore sulla natura, e mille cagioni delle insurrezioni, ribellioni, e rivoluzioni italiane dei nostri tempi, dopo quel tanto che se n’è detto nell’esposizione di questi Studj, ancora qualche dubbio: i seguenti fatti e riflessi sul movimento rivoluzionario italiano del 1831 che qui ci ha occupati, basteranno, cosi credo, a chiarirlo e a dissiparlo. I due ducati di Parma e di Modena hanno assieme una popolazione di oltre a un milione, con, per lo meno, due cento mila uomini atti alle armi. Eppure in tutta questa massa di gente non si sono trovati per dir molto che due mila che impugnassero le armi in difesa della rivoluzione. Il Tirolo tedesco non conta in popolazione neppur per uno dei due Ducati, eppure ebbe esso il modo di lottare e a lungo con un Napoleone. Vi hanno da Bologna a Ancona 120, e da Ancona al Tronto ulteriori 40 miglia italiane, equivalenti tutte assieme a 40 miglia geografiche di 60 al grado. Il paese percorso dalla brigata Geppert ha una popolazione coraggiosa, fiera, capace di farsi terribile, di poco meno di due milioni, e perciò cinque volte maggiore di quella del Tirolo tedesco. Né certamente vi ha paese più fatto per una guerra di bande; né alcuno che abbia in proporzione della sua estensione territoriale un si grande numero di città murate, e murate cosi solidamente, come le Legazioni e le Marche romane. Bologna conta 71 mila abitanti, Ravenna 50, Perugia 41, Ancona 40, Ferrara 39, Forlì 36, Pesaro, Fano, Macerata, Ferino, Gubbio ciascuna 19, Spoleto 18, Rimini 15, Urbino 13, Camerino 11 mila. Fra queste città ve ne hanno diverse che i suoi abitanti potevano in una o tutt’al più due settimane mettere in istato, se anche non di sostenere un assedio regolare, pur di resistere ad un colpo di mano. Il governo rivoluzionario di Bologna non ha mancato di alzar il grido con quella maggior forza che potè: Italiani! all’armi! Chi ha un facile, una spada, una falce, la prenda e venga con noi. Il vero popolo, la gente onesta né nel contado, né nelle città, non si mosse. Presentaronsi bensì alcune centinaja di campagnuoli chiedenti armi polvere e piombo, ma la giunta di Bologna, vedutili, comprese, che quelle, armi, quella polvere, e quel piombo avrebbero servito a tutt’altro che a proteggere il nuovo Stato contro un intervento, e rimandò quella gente con buone e belle parole, ma con le mani vuote, là donde era venula. La truppa del Zucchi componevasi tutta o di soldati pontificj spergiuri, che avevan tradito il loro Sovrano, o di uomini facinorosi che aveva attirato sotto la bandiera tricolore la speranza di far del bottino.
Non è peraltro che quella truppa, tale quale e quanta la era, non avesse bastato, qualora una parte di essa fosse stata ripartita in bande, ad accerchiare la brigata Geppert, a inquietarla giorno e notte, e a forzarla di fermarsi, se non fra Bologna e Rimini, per certo fra Rimini e Sinigaglia. Ma il vero è, che né il popolo delle città né quello del contado vedeva di buon occhio quelle bande; le città murale chiudevano loro le porte, nei villaggi si si armava alla meglio che si poteva, e si suonava, per tenerle lontane, senza interruzione a stormo; e qualora ciò non giovava si ricorreva alle armi (134).
La brigata Geppert restà durante tutta quella spedizione unita, e non ebbe distaccamenti di alcuna sorte a tutela del suo fianco destro. Nessuno mai la inquietò, né nelle sue marcie, né nei suo campo. Essa non perdette un uomo fuorché negli scontri della sua vanguardia con la retroguardia del nemico. In Ispagna nella guerra contro Napoleone un Francese che si fosse allontanato dalla sua truppa o fosse rimasto in una marcia indietro per stanchezza, era pell’ordinario perduto. Non vi avea corriere, che non avesse la sua scorta, la quale rare volte ammontava a meno di due in tre cento uomini a cavallo. Gli uffiziali e corrieri austriaci viaggiavano per le Legazioni e per le Marche come avrebbero viaggiato nel loro proprio paese.
Egli è tempo di far punto. La rivoluzione delle Legazioni e delle Marche pontificie nel 1831 fu in fondo anch’essa nna rivoluzione militare. Senza l’appoggio delle truppe pontificie, che lasciaronsi, per colpa dei loro uffiziali, sedurre dai settarj, il vero popolo avrebbe contenuto i settarj dappertutto, come li contenne a Roma, ancorché questi vi si fossero rinforzali con migliaja di avventurieri e settarj forastieri. Paralizzata l’azione della truppa ribelle e spergiura col mezzo dell’intervento austriaco, i rivoluzionarj indigeni e forastieri presero la fuga. Egli è quindi chiaro e manifeste che anche nel moto rivoluzionario che nel 1831 si produsse nel Parmigiano, nel Modenese e negli Stati Pontificj, il vero popolo non solo respinse ogni solidarietà, e sino ogni relazione con la causa rivoluzionaria, ma non tralasciò di avversarla e di combatterla con tutti i mezzi che stavano in suo potere, e ciò in ogni occasione che gli si apri di poterlo fare. L’intervento austriaco fu più di nome che di fatto.
V. «Cessati» dice il signor Luigi Carlo Farini nella sua storia dello Stato Romano dall’anno 1815 al 1850, «per l’intervento austriaco i deboli moti del,l’Italia Centrale, la diplomazia alla quale stava a cuore, di prevenire nuove perturbazioni nello Stato Romano, e allontanare ogni causa di guerra, si fe ce sollecita di consigliare temperamenti di riforma alla Corte romana. Il cardinale Bernetti, il pro segretario di Stato, aveva fatto securtà ai popoli di tanta bene che pomposamente appellava il nuovo regno di Gregorio XIV: un’era novella; ma in realtà non si vedeva in qual parte il governo si innovasse e migliorasse, e vedevasi il partito clericale pertinace nelle vecchie idee, vedevasi il Sanfedismo infuriare nelle Romagne. Un Baratelli commissario per Austria lo aizzava; alcuni famosi par rochi di Faenza, un Badini che fu poi monsignore, un Bertoni ed altri di quella e di altre città furiosa mente agitavano la minutaglia contro i liberali; non vedevansi segni né di riforma né d’ordine, né di pace. Per la qual cosa i ministri stranieri ai quali tardava che lo Stato Romano venisse a termini di quiete durevole, si accordarono nel consigliare e nel proporre alla Corte di Roma quella maniera di componimento che reputavano acconcia; ed alli 10 |del mese di maggio 1831 presentarono il Memorandum che io qui reco, volgendolo in italiana favella (135)».
A me sembra superfluo il produrre cotesto Memorandum, giacché Pio IX fece non solo quanta con esso chiedevasi a Gregorio XVI, ma due e tre volte tanta, e che, come ognuno sa, l’esito. ne fu infelicissimo. i profughi italiani erano riusciti a traviare sul co nto della questione italiana l’opinione pubblica in tutta l’Europa. Né potè costare loro gran fatica —di riuscirvi in riguardo alla questione—romana nei paesi acattolici, in ispezialità nell’Inghilterra, e nella parte protestante della —Germania. Le Corti non conoscevano il vero stato delle cose italiane, non lo conosceva neppure l’Austria. Lo scopo delle rivoluzioni italiane non fu mai, e non lo è neppur ora, di venire a delle riforme. Il loro scopo fu ed è la rivoluzione, qual mezzo di abbattere ciò che esiste. Ciò che ai voleva e ciò che si vuole è la repubblica democratica—socialista, si vuole la repubblica una ed indivisibile che comprenda ed abbracci tutte tre le Italie. Io non dice che il governo pontificio non abbisognasse di riforme. qual è il governo che non ne abbisogna, quale quello che non si trovi nella necessità di rivedere di tempo in tempo i suoi ordinamenti governativi e amministrativi, e di metterli a livello colle esigenze del secolo e della civiltà? Ma di tanto sono certo, che nel 1831 il vero popolo nelle Stato del Papa non vi doveva star male e doveva anzi starvi bene, e dico ciò perché in allora non solo non dava segni di essere del suo governo malcontento, ma tutto all’opposto, gli si mostrava devotissime; e che d’altronde se ciò non fosse state, l’intervento austriaco di quell’anno che non consistette che in una specie di passeggiata son poche migliaia di soldati, i quali vi furono accolti dapertutto, nel contado, e dalla gente —onesta anche nelle città, con giubilo e come liberatori, avrebbe dovuto consistere in una guerra non meno fiera, né meno lunga che quella che Napoleone ebbe a sostenere dal 1808 sino al 1814, e ciò senza aver potuto terminarla, in Spagna; e che invece di poche migliaja di soldati si avrebbe dovuto impiegarvi tutto un esercito. Non si dica «Les Italiens ne se battent pas» né che che gli Italiani mancano di capi; l’uno e l’altro è egualmente falsissimo.
L’immischiamento della diplomazia negli affari interni del governo pontificio fu la causa involontaria, ma principale, che lo Stato Romano non riebbe più sino al giorno d’oggi la pace. Quell’alto presumeva, che al governo del Papa, perché clericale, dovesse di necessità mancare il senno, la scienza, l’esperienza, e la volontà di ben governare,confondeva le cause del male col di lei operato ed effetto, e il di lei operato ed effetto, con la causa; supponeva all’agitazione e all’irrequietezza rivoluzionaria delle ragioni e dei motivi che non aveva, e diede al male una consistenza e una vitalità che da sé solo non avrebbe mai acquistato. Il governo pontificio si trovava rimpetto ai rivoluzionarj in una situazione tanto più difficile che Stato limitrofo, la Toscana, in seguito ad un accecamento che non si saprebbe spiegare, si era fatto il centro dell’agitazione italiana, e prestava ricovero e quasi protezione ad ogni ribaldo romano, purché si dasse l’aria di essere un rivoluzionario. Non vi banno pagine nella storia più umilianti pell’umanità che quelle le quali raccontano le gesta dei rivoluzionarj italiani fra’ quali veggonsi figurare come antesignani diverse notabilità piemontesi, nei tre lustri che occupò la Santa Sede Gregorio XVI. Non vi ha mezzo per abbominevole che esso fosse, al quale coloro non ricorressero senza alcuna sorta di vergogna, se lo credevano favorevole ai loro divisamenti (136).
Gregorio XVI mori il giorno 5 di giugno del 1846, e già in capo a due settimane il sacro Collegio gli aveva sostituito in successore cardinale Mastai—Ferretti vescovo d’Imola, che assunse il nome di Pio IX. Esso parve prescelto dalla Provvidenza per aprire gli occhi all’Italia, e al mondo sul vero carattere della questione che si arroga il nome di italiana e non è se non una questione di Settarj e come questione italiana una menzogna, un fantasma evocato «ab inferis».
Il nuovo Papa andò con le concessioni e le riforme sino agli ultimi limiti che i suoi sacri doveri come Capo della Chiesa vi imponevano; amnistiò tutti i condannati per reali politici, istituì rappresentanze municipali e provinciali, sottopose il governo ad un pubblico sindacato, lo tolse in gran parte dalle mani del clero, e lo affidò a dei secolari, ridusse la censura preventiva dei libri a dei termini da dirla cessata affatto, permise che le popolazioni cittadina si armassero. Dippiù non poteva fare. Le sue concessioni che mostravansi spontanee, franche, sincere, furono ricevute dai buoni con la fede che le fossero ispirazioni provvidenziali, dai tristi con degli applausi che si avvicinavano ad un baccanale e avevano l’aspetto di una idolatria; tuttociò con lo scopo di guadagnarvi il popolo e strascinarlo, col clero alla testa, nella corrente rivoluzionaria. Nel ché quanto al popolo delle città e segnatamente a quello di Roma non riuscirono che troppo.
Giunte le cose a questi termini accadde ciò che doveva accadere. I rivoluzionarj gettata la maschera si fanno padroni della situazione, parlano, aizzano i popoli, incoraggiano i tristi, tutto ciò in nome del Papa, che ha un bel protestare contro le loro enormezze, esortare all’ubbidienza verso le autorità legittime, e alla concordia, e dichiararsi il padre comune di tutti i Cattolici. Gli urti del fanatismo convertitosi in delirio soverchiano la sua voce. La rivoluzione prende un carattere e un’estensione spaventevole. I sovrani d’Italia, coll’eccezione del giovine duca di Modena, che non volle mai promettere ciò che sapeva di non poter mantenere, diedero delle costituzioni; il re di Sardegna, Carlo—Alberto adescato dalla speranza di farsi re della nuova Italia, si collega con la rivoluzione, e se ne fa la spada. Tutta l’Italia va sottosopra. In quel mezzo, insorge Parigi. Luigi—Filippo abbandona la Francia, che si fa repubblica. La Germania si scompone anch’essa; si scompone anche l’Austria; si solleva Vienna, si solleva l’Ungheria. I rivoluzionarj italiani non dubitano, esser venuto il momento di cacciare gli Austriaci oltre le Alpi. Milano, e Venezia e con esse tutte le città lombardo—venete si ribellano. Carlo—Alberto passa il Ticino. Gli Austriaci, verso la fine di marzo e nei primi giorni di aprile del 1848, veggonsi confinali fra le loro quattro fortezze; fra Mantova; Peschiera, Legnago, e Verona, ove Carlo—Alberto li assale, ma è respinto. Gli Austriaci ripassano il Mincio, l’Oglio, l’Adda; il giorno di agosto sono di nuovo in Milano. Subentra un armistizio. Carlo—Alberto ripassa il Ticino. In tutto il regno Lombardo—Veneto sventola, con la sola eccezione di Venezia, la bandiera austriaca, a Modena l’estense, a Parma quella dei Borboni. Anche l’Italia meridionale è riordinata; non cosi l’Italia centrale, cioè lo Stato Remano e la Toscana. Ambidue, il. Sommo» Pontefice e il Granduca di Toscana dovettero abbandonare i loro Stati; Frattanto denunzia Carlo—Alberto ai 12marzo 1849 l’armistizio. La guerra fra l’Austria e—il regno Sardo—Piemontese rincomincia; termina per altro in mono di una settimana, con la battaglia di Novara. Gli Austriaci passano a comprimervi le rivoluzioni nelle Toscana, nelle Legazioni, e nelle Marche. I Francesi assediano e prendono Roma; Venezia cade; il maresciallo Conte Radetzky vi tiene il suo ingresso il 30 agosto 1849. —Or si dimanda: qual parte abbia preso il vero populo alla ribellione nel regno Lombardo—Veneto? quale nelle guerre che fece Carlo— Alberto in nome dell’Italia all’Austria? quale contro la spedizione austriaca nella Toscana, e nella Romagna?
La risposta a queste tre questioni può essere una e brevissima, e farsi con le seguenti parole. Il vero popolo non vi prese nessuna parte in favore della rivoluzione; se ne prese una, la prese in favore degli Austriaci. Ma spieghiamoci. In Italia nel secolo decimosesto riassumevasi la politica da seguirsi nei paesi soggetti, qualora irrequieti, non solo a Napoli e a Milano, che erano possedimenti spagnuoli, ma anche a Firenze, nelle seguenti parole: «A città di parte, leva armi, mozza capi, e fa cittadelle (137).
». Questa medesima politica fu anche quella, che con grande insistenza insinuava e inculcava Napoleone a suo fratello Giuseppe in riguardo al regno di Napoli e alla Spagna, e alla quale ricorse egli stesso nell’ultimo dei due paesi; al che tutto ho avuto già più volte l’occasione di avvertire. L’Austria però non volle mai e in verun modo saperne di tali misure; e a mio debole parere con ragione: essa non ricorse ad altre precauzioni che a cautele di polizia, espediente anch ‘esso, se non tanto brutto, è di più del tutto insufficiente. bi fosse dessa almen preparata ad una guerra di barricate, ed in generale, ad una guerra con dei ribelli, guerra sui generis,, che ha i suoi principj, e le sue regole come ogni altra, che vuol quindi esser studiata. La ribellione di Milano proruppe; i rivoluzionarj vi si erano preparati da gran tempo, conoscevano ogni viottolo, ogni passaggio da una contrada all’altra, ogni nascondiglio. Niente di tale avea luogo dal canto degli Austriaci. Prescindendo dal fatto che il vice—re ed il governatore eraao assorti, che nel vice—governatore si era fissata l’opinione, che nulla vi avea a temere, e che con la concessione della costituzione, e con le riforme solennemente dal governo di Sua Maestà promesse, il pubblico era pienamente appagato, mi limite ad osservare: che lo stesso esimio maresciallo conte Radetzky era bensì invecchiato nell’arte di dirigere una battaglia campale nella qualità di capo dello Stato—Maggiore, come quella di Aspérn, di Wagram, di Lipsia, di Brienne, di Parigi, ma era ancora a fare il suo noviziato in una battaglia contro le barricate e i tetti di una capitale ribellante.
Tutto ciò non toglie, che l’esito il quale ebbe la ribellione di Milano fosse un vero miracolo, e che lo si riguardasse qual miracolo dagli stessi Milanesi. La detta ribellione fu iniziata con un proditorio immane ed infame massacro di una truppa austriaca postala a guardia del palazzo governiale. Appena se ne sparse con grande sollecitudine la nuova per la città dai capi ribelli dirigenti, che i Milanesi si attesero, che i soldati di Radetzky vorranno vendicare la morte dei loro compagni e confratelli, irromperanno in Milano furibondi e non perdoneranno a sesso né a età. Tutte le case si chiudono, le porte si rinforzano il più che si può, «pavor arma ministrat»; si corre sui tetti e vi si fa provvigione di tegole. Già a qualche campanile si suona a stormo; non dura molto e tutto le campane in tutta la città suonano egualmente. Non tarda la plebaglia a gettarsi suite strade, si dà mano a delle barricate; da tutte te finestre piovono mobiglie, sedie, canapé, tavolini, tavole, armadj, lettiere, per costruirle. Tutto 1e strade, in ispezialità le strade maestro si trovano in un subito serrate, e intransitabili. Il massacro. al palazzo governiale aveva avuto luogo verso le 11 antimeridiane. Ma il Maresciallo non venne a saperlo che a mezzogiorno, «e alle 3 pomeridiane solamente», dice un testimonio oculare, un Milanese non sospetto, «cominciarono le truppe della guarnigione a farsi vedere con armi e bagaglio, cioè in movimento decisivo e minaccioso di guerra. Che se al primo indizio della catastrofe i nostri nemici avessero agito con energia, non saprei qual esito poteva avere il nostro esordio insurrezionale. Frattanto le barricate erano cresciute in numero e consistenza (138).
La guerra delle sei [cinque] giornate non consistette per parte degli Austriaci in altro che nell’avanzare nelle strade maestro, con due, tre, quattro compagnie, rare volte con qualche pezzo di artiglieria, o dei razzi incendiarj, e più rare volle ancora con un intiero battaglione di fanteria, e con della cavalleria; essi avevano l’ordine di assalire le barricate che vi aveano, di abbatterle e di disfarle; ciò facevasi con molta intrepidezza sotto una pioggia di tegole, accompagnala dallo scarico di qualche fucile. Era ben rare che i ribelli li aspettassero; questi, appena vedevanli avvicinarsi, urlando scampavano, e portavansi altrove. L’opera degli Austriaci era evidentemente un fare dei buchi nell’acqua, che da sé si racchiudono appena la mano che li fa si ritira. Anche una guerra come questa ha i suoi principj e le sue regole; anche a questa si deve dare una base, e una certa larghezza; anche in questa è necessità di non lasciar nulla su’ suoi fianchi e alle spalle.
Il numero dei Milanesi che presero parte alle fazioni guerresche della ribellione era piccolissimo; e non erano numerosi neppure i forastieri; e tutti assieme certamente di molto inferiori agli Austriaci: «Il fatto è fatto» dice un poeta «e non si può disfare». Se ciò nonostante il maresciallo Radetzky fini per andarsene, la cagione è da cercarsi in tutt’ altro, che nelle loro gesta, per quanto le si abbiano in prosa e in verso decantate. Agli Austriaci non costa mai fatica il dire: il nemico ci ha opposto oggi una resistenza eroica; oppure egli ci ha assaliti con una bravura ammirabile. Nelle loro relazioni, parlando dalla ribellione di Milano convengono, che i capi dirigenti vi hanno fatto prova di grande e straordinaria maestria per simili imprese; ma che del resto, i ribelli non vi hanno fatto altro, che fuggire, urlare, suonare a stormo, se colti prostrarsi a terra e chiedere, con le mani giunte, pietà, e misericordia. Che nelle centinaja e migliaja di persone che vi presero parte, fra’ quali il maggior numero vi fu strascinato suo malgrado, vi fosse un qualche procento di uomini coraggiosi s’intende da sé, ma che questo procento dovesse essere e fosse un minimum, ce lo dà a conoscere a chiare note e con parole franche anche il sovraccitato Milanese, vecchio militare uomo del mestiere e perciò giudice competente, ostilissimo agli Austriaci, ma in complesso veritiero: «Il giorno 21», dice egli, «il comitato di pubblica sicurezza ordinava una fazione armata per la sera. Chi ne aveva l’incombenza», — io suppongo che fosse lo stesso autore —, «riuniva perciò nella piazza dei Mercati circa duecento uomini, forniti parte d’arma da fuoco, e parte d’arma bianca. Sembravano corsieri anelanti alla corsa, non si poteva tenerli, era per essi l’indugiare un tormento, tutti gridavano: vogliam batterci. —Date le opportuni disposizioni, muove la colonna tragittando verso piazza del Duomo. Si odono diversi colpi di fucile. Il condottiero, ignaro della causa, affretta i passi, arriva premuroso ed ansante sulla detta piazza, si trova seguito da sette od otto individui. Quegli spari erano stati fatti per solennizzare la gran bandiera italiana esposta alla guglia maggiore del Duomo. Se qualcuno di quei duecento leggesse queste parole ne arrossirà, io spero, ma non avrà certamente il coraggio di darmi una smentita (139).» —
Eccomi nella possibilità di esprimere il suindicato procento con una cifra precisa. Supposto che quei sette o otto bravi, non si fossero, continuando ad avanzare, ridotti a quattro su due, il numero dei Milanesi disposti a misurarsi cogli Austriaci non era evidentemente se non il 3 ½ tutt’al più il 4 per cento, ciò che fa il 35, tutt’al più il 40 per mille, e quindi su dieci mille 335, tutt’al più 400. Né l’autore si arresta ad un caso unico e particolare, egli lo generalizza. «Io, dice l’autore, non posso ritornare col pensiero a quell’epoca di gloria, senza ricordarmi di aver veduto in pratica il proverbio: tutte le strade conducono a Roma. Sia detto ad onore dei bravi, che mentre questi correvano ove ferveva il pericolo, ove il bisogno li chiamava, molti altri armati sino ai denti, andavano invece verso la parte opposta. Quando si gridava di portarsi sopra un tal punto, e taluni venivano avvertiti che sbagliavano la via, rispondevano che appunto vi si conducevano per quella strada. Né doveva stupirsi quando si pensa che gli uomini non sono tutti eguali, e fra tanti animosi», (volendo essere conseguente doveva l’autore dire fra tanti codardi, giacché nella suddescritta colonna ve ne aveva per lo meno il 96 p. c.) «poteva essere qualche codardo» (doveva dirsi qualche animoso, cioè il 3 e ½ tutt’al più il 4 p. c.) «senza togliere o diminuire il merito» (era da dirsi il demerito) «dei primi.»
Il capitolo del quale ho citato questi passi finisce come segue: «Anche gli eroi della sesta giornata, mi pare ohe meritano un posto nelle mie povere considerazioni. Ognuno comprenderà che trattasi di commemorare quei tali che invisibili durante lo cinque giornate si presentarono baldanzosi ed armati di tutto punto, onde far bella mo stra di sé, e fruire una parte della gloria comune senza averla meritata… Comunque fossero le vicende non si può negare che risulta assai ridicolo il veder il numero degli armigeri sensibilmente aumentato dopo aver cessato il trambusto… Tanto per nulla ommettere devo ancora osservare, che col crescere strabocchevole degli uomini armati, crebbero contemporaneamente nel vestire le mode, ossia i costumi dei bravi del medio evo, nonché le soldatesche millanterie, per cui ne nacque fra gli stessi, Milanesi la sentenza, che, se tutti quelli che dissero di aver ucciso avessero detto il vero, neppur , uno dei nostri nemici se ne sarebbe andato. Allora sentenza generale in Milano dopo le cinque giornate» — vi ho già avvertito ma giova ripeterla — «la quale dimostra evidentemente in poche parole l’opinione e la persuasione dei cittadini relativamente alla cacciata degli Austriaci si fu: che nessun altro che Iddio, poteva aver operato quel vero miracolo (140)».
Che ci dicono, che c’insegnano, in riguardo al nostro tema, questi fatti? Ci dicono che la ribellione perpetratasi a Milano nei giorni 18, 19, 20, 21 e 22 marzo 1848, fu un alto premeditato, istudiato, predisposto e inizialo dai rivoluzionari; ma che il popolo milanese non che avervi avuto parte premeditata, vi fu involto, o per dir meglio strascinalo e precipitato suo malgrado, che si ebbe il modo di eccitarlo alla ribellione contemporaneamente in tutti i rioni della città, cogli urli spaventevoli della plebaglia prezzolala che vi percorreva le piazze e le strade, col suonare a stormo nell’istesso tempo in tutta la città, ma sopratutto con la paura prodottasi, che il Soldato austriaco divenuto furibondo in vista dei suoi compagni d’armi trucidali infamemente nel palazzo governiale e in diversi posti ove si riusci a sorprenderli proditoriamente, si abbandonasse senza ritegno a tutti gli orrori della guerra. Fu a queste arti più che abominevoli che il popolo milanese soggiacque. La ribellione può quindi in qualche modo scusarsi, e in ogni caso spiegarsi e comprendersi. Se mai una ribellione non fu minimamente dal suo governo provocata dessa fu la ribellione milanese. Per parte dei rivoluzionari fu questa una delle solite loro scelleraggini non scevra della solita sconsideratezza. Coloro non ebbero ribrezzo di compromettere la sorte, le sostanze, la vita, e l’onore di migliaja e migliaja di famiglie, sotto circostanze che non istavano in verun modo in loro potere, e che essi non avevano minimamente il modo di dominare. Tanto era la loro impresa azzardata, che per quanto alcune delle loro speranze si avverassero, la sarebbe nondimeno abortita, se Carlo—Alberto non si decideva, calpestando quegli stessi trattati ai quali il regno Sardo—Piemontese doveva la sua ristaurazione e il suo ingrandimento, a collegarsi con la rivoluzione, e a passare, qual nemico dell’Austria, il Ticino Seguendo l’esempio di Milano, ribellaronsi anche Como, Bergamo, Brescia e Cremona; e si sarebbero ribellate anche Lodi e Crema, se non avessero incontrato nei rispettivi presidj e nei loro comandanti una imponente resistenza. il mal—volere concentravasi dappertutto in uno, relativamente all’intera popolazione, piccolo numero di congiurati. Alla ribellione di alcune delle or mentovate città si associò pur troppo anche la deserzione, se non di tutta, della maggior parte della truppa italo-austriaca: opera anch’essa di una abbominevole seduzione, la quale riusci ai rivoluzionarj molto più malagevole che comunemente non si suppone e non si crede. La deserzione non fu tanto un abbandono delle bandiere quanto un ritorno a casa. Il numero dei soldati che passarono nelle file dei rivoluzionari fu relativamente piccolissimo. La mattina della sesta giornata, era il giorno 23 di marzo, il maresciallo conte Radetzky, sulla notizia che Carlo—Alberto era in piena marcia verso la frontiere del regno Lombardo —Veneto, prese il partilo di abbandonare la Lombardia, di ripiegarsi con tutta la sua truppa sul Mincio, e di postarsi fra il detto fiume e l’Adige nel quadrato formate dalle quattro fortezze, Mantova, Peschiere, Verona, e Legnago. Coll’eccezione di un pazzo tentativo, al quale si lasciò indurre la grossa terra di Melegnano, di chiudergli il passo, la ritirata si fece con grande ordine e senza contraste di alcuna sorta. Le comuni accorrevano con viveri, prestavano mezzi di trasporto, riparavano le strade, raccomodavano i ponti. I Milanesi venuti a conoscere la partenza degli Austriaci non credevano ai loro proprj occhi. Nessun di essi osò neppur da lontano avvicinarsi alla retroguardia del maresciallo.
Durante le cinque giornate il contado lungo il Ticino aveva dato a divedere di altamente riprovarle. I generali austriaci che vi comandavano le truppe ivi postale in osservazione di ciò che facevasi oltre al Ticino, ne trovarono le popolazioni avverse affatto alla rivoluzione; ciò che era il caso in generale di tutto il contado lombarde. D signor Cantù dandone conte nella sua Storia degli Italiani al Capitolo CXC11 intitolato: «Guerra Santa Conquassi», cosi parla della poca anzi nessuna disposizione della gente di campagne lombarde per la guerra da lui – Iddio gli perdoni l’orrenda bestemmia – detta santa: «La vittoria era assai meno facile che il trionfo. Sull’orme del nemico fuggente si cacciarono alquanti, di coraggio risoluto e intelligente; e deh come parevan belli que’ giovani, che alfine avevano qualcosa da fare! come nei loro atti sfavillava eroico. incitato; romanzesco il sentimento! Altrettanto deforme e scomposto era l’esercito austriaco, lacero, tutto mota e sangue, famelico, con un impotente anelito di vendetta, e temendo da ogni siepe un assalto, su ogni ponte una rovina, in ogni villaggio barricate e tegole; che se davanti a quello, scompigliato da tante deserzioni, dall’insolita guerra delle strade, dalla privazione di riposo, dalla incertezza degli avvenimenti viennesi, si fossero abbattute le piante, recise le vie, diffuse le acque, lanciata la morte, qual ritornava di là dai monti? Ma Radetzky ebbe ad avvedersi ben presto che il popolo non prendeva parte a quell’insurrezione; i campagnuoli non secondarono l’impulso delle città; né la bassa rispose alla risolutezza dell’alta Lombardia, sicché egli, neppur mai attaccato, potè giungere al Mincio, e dentro il formidabile quadro formato dai monti, dal mare, dall’Adige colle fortezze di Verona e di Legnago, dal Mincio con quelle di Peschiera e di Mantova, rincorare le truppe, attenderne di nuove, e prepararsi (141)».
La ribellione di Venezia fu anch’essa come quella di Milano un’impresa estranea affatto al vero popolo veneziano, premeditata predisposta e incamminata da congiurati provenienti da altri paesi italiani, che non presentava veruna probabilità di riuscita, ed era quindi azzardatissima anch’essa, che si aveva i mezzi, il modo, e il tempo di prevenire e d’impedire, e che si sarebbe formata e compressa, se ambedue le autorità, la militare non meno che la civile, non fossero state colte da una fulminante intellettuale e morale paralisi. L’occasione vi forni col giubilo e col tripudio che vi occasionò l’annuncio delle magnanime larghissime concessioni di liberalismo, che l’imperatore Ferdinando faceva in quei giorni ai suoi popoli; incominciò con degli assembramenti chiassosi piazzali e stradali, fu però in breve iniziata dalla truppa di mare, che non aveva che troppi uffiziali stati socj dei Bandiera, invasi dagli stessi principj, e in balia delle medesime tendenze, nonché dagli operai dell’Arsenale, i quali ultimi si lordarono col sangue di un eccellente Uffiziale, del Colonnello Marinovich, comandante del detto stabilimento, che trucidarono con una ferocia più che barbara.
Il presidio di Venezia componevasi di tre battaglioni di truppa levala nelle provincie venete, di due battaglioni di leva tedesca (Kinsky), e di un battaglione di Croati, (Peterwardeiner). Si diffidava di quei soldati italiani; secondo me a torlo; i granatieri italiani che il maresciallo aveva d’intorno a sé, non mancarono al loro giuramento. Il supremo direttorio militare aveva destinato ancora tutto un reggimento tedesco (Fürsterwerlher) per Venezia, ma che fu ritenuto a Trieste dal generale che vi comandava, il quale vi temeva un qualche movimento rivoluzionario se anche non nella popolazione fedelissima triestina, nella popolazione forastiera che vi è non poco numerosa. Senza questo arbitrio insolito affatto nell’armata austriaca, Venezia non cadeva. Il maresciallo Marmont che in allora trovavasi a Venezia ebbe a dire più volle che un solo battaglione di Kinsky, se, invece di tenerlo allacciato nella caserma, si fosse postato sotto le procurative della piazza di San—Marco, avrebbe più che bastato a tener in freno la marmaglia, che vi rappresentava tutto il popolo veneziano. E un uffiziale inglese di un alto grado testimonio oculare di quella giornata mi diceva le stesse cose con quasi le stesse parole. Non vi ha popolo, già per quella sua ammirabile, genuina, e vera civilizzazione che gli è propria e particolare, più meritevole di ogni possibile riguardo, che il popolo veneziano. Ma neppur a Venezia tutta la popolazione è popolo veneziano, e anche a Venezia la popolazione ha la sua feccia. La ribellione di Venezia fu fatta con la truppa della marina, con dei forastieri, e con la feccia del popolo.
Le conseguenze a danno dell’Austria della ribellione di Venezia furono di una portata molto maggiore, che non quelle della ribellione di Milano. Con essa, prescindendo dal molto danaro che trovavasi nelle casse pubbliche, cadde in potere dei ribelli un immenso materiale di guerra, e cadde anche con un parco di artiglieria e venti mila fucili, la fortezza di Palma—Nuova ed anche il forte di Osoppo con una grande quantità di polvere. Senza la ribellione di Venezia, la crociata che si forni alla guerra contro l’Austria dall’Italia centrale, non avrebbe mai passato il Pò. Ai primi di Aprile trovavasi tutto il regno Lombardo—Veneto, con l’eccezione del paese fra il Mincio e l’Adige in balia della ribellione. Ma la popolazione in generale imprecava la rivoluzione, che interrompeva la di lei pace e l’involgeva in una guerra, che non aveva altro scopo che di mettere l’Italia sotto—sopra, e di disordinarla da capo a fondo. I rivoluzionari lombardi sapendo che essi in confronto del popolo, il quale aveva bisogno di vivere in pace, e detestava la guerra, eran pochissimi, e non sostenevansi che a forza di menzogne e di fantasmagorie, erano pieni di sospetti, e si vedevano da ogni parte minacciati. Si biasima il nuovo governo lombardo per non aver lirato partito «del cinquanta mila uomini che si trovavano in Lombardia fra i 28 e i 38 anni, i quali avevano militalo nell’armata austriaca, e di non averti chiamati istantaneamente alle armi». Sta a vedere, se avessero obbedito alla chiamata, e se nel caso che si fosse riuscilo a riporre loro le armi nelle mani, non si fossero rivolti contro gli autori di quel conquasso. E lo si biasima quel governo anche per «aver rejetti dall’onor militare i tremila trecento soldati, che erano desertati dagli Austriaci, e coperti di quel sospetto che invita a tradire (142).
».( ) Essi furono rejetti, perché dicevansi imbrattati della pece austriaca, e perché vedevansi quei soldati italiani, che erano rimasti fedeli all’Austria, secondi in valore in ardore e slancio militare a nessuna altra truppa dell’armata austriaca; come anche perché il maresciallo Radetzky affidava la guardia della sua persona e del suo quartier generale con non minor fiducie ai suoi granatieri italiani, che ai suoi granatieri tedeschi o ungheresi.
La Lombardia non prestà nessun ajuto a Carlo-Alberto, e le provincie venete nessuno alla crociata dell’Italia centrale. Quella mostrò freddezza e ripugnanza di prender parte a quella guerra, queste l’avversarono quanto più poterono. Io parlo della gente del contado. Guai se l’Austria avesse lasciato fare le popolazioni campagnuole. Il capo di un villaggio nella provincie del Friuli ebbe a dirmi nel 1848, alcuni giorni dopo che gli Austriaci erano rientrati a Udine «che l’Imperatore ci lasci fare, e ben sapremo noi drizzar le gambe a quei… di Signori, che vorrebbero morderlo». Non oso pensare alla sorte che avrebbe toccata all’Italia, se l’Austria avesse anch’essa adottato il principio all’ordine del giorno nel campo rivoluzionario: che ogni mezzo é lecito qualora serve allo scopo. — Allorché Carlo—Alberto ebbe abbandonalo il Mincio, il comitato di difesa di Milano con un suo decreto del 1.° agosto bandì la leva in massa degli anni 18 ai 40, e chiamò tutti sulla linea dell’Adda, e si quelli muniti di fucili, si gli altri che non essendolo, dovevano portare con sé zappe, scuri, badili per i lavori di fortificazione di quella linea, per la difesa della quale furono anche richiamate le truppe mobilizzate comandate dal generale Zucchi, e le bande capitanate dal generale Garibaldi (143)
Ma niente di tutto ciò fu fatto. Nessuno vi si lasciò vedere. L’autore del libro: Reminiscenze di un Veterano della guerra italiana negli anni 1848 e 1849, ci sa dire – è il generale Schònhals, personaggio che poteva saperlo, e che se non l’avesse saputo non l’avrebbe detto: – « aver l’armata austriaca nel 1848 avuto a combattere con tutti, le schiatta italiana, la sola schiatta lombarda eccettuata (144)
» Non si creda, che la cagione di ciò stasse nel governo rivoluzionario lombardo; la cagione istava nel che la rivoluzione non era se non cosa della classe che non avea nulla da fare, e della plebaglia; e che ogni altra, ed in ispezialità la classe campagnuola l’abborriva; col dippiù che anche quei signorini lombardi, che l’amavano, non amavano molto la guerra, e se ne tenevano il più che potevano lontani. Mentre il Piemonte aizzato dal Gioberti si disponeva nel 184a ripigliare la guerra, vi aveano migliaja di di giovani Lombardi in Toscana, sui quali si legge la seguente relazione del capo—rivoluzionario fiorentino Giuseppe Giusti. «Le figure che passeggiano queste lastre mettono ribrezzo e terrore. Figuratevi ragazzacci con pistole e stiletti alla cintola, vestiti a mille colori, parlanti un linguaggio turpe, provocante, rifiutandosi di pagare osti e vetturini, violando il domicilio del popolo minute, per commettere stupri e rapine; insomma un principio di casa del diavolo. Mentre i campi lombardi sono insanguinati, con che cuore si può vedere una gioventù numerosa di quel paese a vagabondare?… Sono qui da cinque mesi a gridar guerra, e imperversare, e volger il paese sotto—sopra; viene la guerra, e non si muovono, come se non toccasse loro (145)».
Il governo rivoluzionario di Venezia fece mostra di molto maggior senno ed energia che il governo rivoluzionario di Milano; non ricorse neppur esso ai soldati dall’Austria congedati, né a quelli che ne avevano abbandonate le bandiere; esso si lusingò di riuscire col mezzo della classe oziosa, e particolarmente per mezzo del clero ad aizzare contro l’Austria la gente del contado, ed in ispezialità le popolazioni subalpine nel Friuli, nel Bellunese nell’Alto—Trevigiano, e nei Sette—Comuni cimbrici—vicentini, e gli abitanti delle Lagune dalla foce dell’Isonzo a quella della Piave. Esso non dubitava che una leva in massa nelle suddette contrade basterebbe col soccorso di alcune migliaja di crociati delle altre provincie venete che le si unirebbero, a fermare quel!’ armata, qualunque essa si fosse, che l’Austria nello stato agonizzante nel quale la si supponeva, saprebbe mettere assieme per soccorrere e rinforzare il maresciallo Radetzky. Non vi ha dubbio, che nelle suddette provincie venete l’elemento topografico si prestava a maraviglia per una guerra di bande. A Venezia si sperava che segnatamente l’Alto—Friuli diverrebbe un’Alta—Catalogna, il Basso, una Vandea, e Udine, la Capitale, un’altra Saragozza. E sembra che Carlo—Alberto dividesse con Venezia le stesse speranze.
Ne queste erano del tutto infondate; giacché il partito rivoluzionario si era dato e continuava a darsi ogni pena di eccitar gravi timori sui ritorno degli Au striaci; dicendoli rabbiosi e non respirando se non vendetta con saccheggi e massacri. E siccome la plebaglia di Udine si era abbandonata ad oltraggi di ogni sorta verso alcune partite di soldati austriaci, che provenienti dall’interno, dirette per l’italia, entravano nei sobborghi nei giorni del gran trambusto senza sapere che là città erasi ribellata; cosi questo timore era in qualche modo motivato e naturale. E si era altresì sparsa la voce, che l’Austria non aveva altra truppa disponibile se non i suoi Croati descritti come barbari peggiori dei Turchi. Un saccheggio. dicevano gli aizzapopoli agli Udinesi è il meno che vi aspetta; sicché mettetevi in istato di difendervi, e quando vengono difendetevi e respingeteli, e ammazzatene il più che potete. Questa è la sola via di sottrarvi agli orrori di una guerra che vi si farà fiera e terribile. — Infatti Udine erasi disposta ad una vigorosa difesa non solo delle sue mura, ma anche delle sue strade e delle sue piazze, delle sue case e dei suoi palaggi. E vi ha ogni apparenza e probabilità, che se il generale che ebbe a combatterla non vi si fosse mostralo se anche con in una mano la spada, con nell’altra l’olivo, e so esso non avesse avuto la previdenza di lasciarvi ai tristi un’uscita, gli Udinesi avrebbero fatto nel 1848 non meno di ciò che fecero nel 184i Bresciani, appunto perché compromessisi al massimo segno, rinchiusi entro alle loro mura, senza scampo, credevansi nel caso di dover vincere o morire. — Palma—Nuova, fortezza regolare di nove bastioni, con ravelini, e un sistema di lunette minate aggiuntovi da Napoleone, aveva un presidio troppo debole – erano 1600 Crociati, con centoventi artiglieri piemontesi — per difendersi contro un assedio formate, ma sufficiente contro un colpo di mano. Vi comandava quello stesso generale Zucchi che nel 1831 capitanava la truppa dei rivoluzionari, ed era stato catturato nel suo tragitto da Ancona a Corfù. Condannato a morte da una corte marziale, l’imperatore Francesco I l’aveva graziato, e viveva a Palma piuttosto come confinato che come prigioniero. Nonpertanto accettò egli il comando della piazza. — Anche Osoppo piccolo ma inaccessibile forte erasi messo in istato di difesa. — Il comitato di guerra friulano credette a proposito di fortificare anche la Pontebba al confine della Carinzia, ancorché paese non—murato, e vi postò da 2 mila crociati. Altro, a difesa della provincia, che io sappia, non si fece. Né ebbe luogo veruna distribuzione di armi, ancorché si fossero trovati a Palma come ho già avuto l’occasione di avvertire, 20 mila fucili. I signori, come tosto si dirà, avevano troppa ragione di non affidarle né alla gente del contado, né alla plebaglia.
Dal suo canto l’Austria non era rimasta oziosa. Essa erasi affrettata di mandar alquanti battaglioni di rinforzo nel Tirolo italiano, ove i rivoluzionarj avevano nella classe oziosa trovato molto ascolto, e di chiamare alle armi i bravi Tirolesi del Wintschgan, del Pusterthal, e dell’alto e basso Innlhal. Ma le truppe destinate a levare il maresciallo Radetzky dalle angustie nelle quali si trovava, e a metterlo in istato di strappare il regno Lombardo—Veneto alla rivoluzione e a Carlo—Alberto di lei alleato, dovevansi adunare al più presto nella forza di oltre a 20 mila uomini sull’Isonzo. L’adunamento e la formazione di questo corpo d’armata denominato il primo corpo di riserva, come anche il comando su di esso, e la direzione e condotta dell’impresa, fu dall’Imperatore. affidata all’allora generale d’Artiglieria, l’attuale maresciallo conte Nugent; lo stesso generale, che ho avuto si sovente l’occasione di menzionare parlando delle guerre del 1813, 1814 e 1815.
Le grandi distanze che alcuni reggimenti assegnati al corpo d’armata che sull’Isonzo stavasi formando avevano a percorrere ne ritardava di troppo l’arrivo.
Il conte Nugent dopo aversi procurate delle esatte e sicure informazioni sullo stato della ribellione e le forze dei ribelli; certo che non lo aspettava né un corpo di truppe regolari se non oltre la Piave, né una leva in massa, né una guerra di bande, e tutto al più una guerra con qualche città murata, e segnatamente con la città di Udine, e che Pahna—Nuova ed Osoppo potevano senza grandi difficoltà bloccarsi: prese il partilo di tentare frattanto la sommissione e la riconquista del Friuli, provincia di 440 mila abitanti, e nella quale univansi le due principali comunicazioni fra il regno Lombardo—Veneto e l’Austria. Egli, partendo da Gorizia e contorni, passò il confine il giorno 17 aprile con circa 14 mila uomini. Contemporaneamente ne fece discendere 1500, provenienti direttamente dalla Carinzia per Tarvis e per la valle della Fella contro la Fontebba; e ne diresse altri 400, partili dalla Sava per la valle dell’lderza e pei monti posti fra l’Isonzo e il Natisone, contro Cividale.
La Pontebba oppose qualche resistenza; vi ebbero un Tenente—Colonnello ed alcuni soldati feriti, e due o tre di questi morti. I Crociati e Volontari che vi si erano annidati si erano dati a credere, che I primo mostrarsi degli Austriaci, le popolazioni di quei monti e di quelle valli accorrerebbero all’istante con quelle armi che venissero loro alle mani in loro ajuto. Ma s’ingannarono. Con l’eccezione di qualche contrabbandiere o scappato dalle prigioni, e in generale di qualche malvivente, nessuno si mosse; sudiché quelle bande forastiere, indispettite, al primo colpo di cannone che si tirò contro un’immensa barricata che avevano eretta sul ponte pel quale si entra in quel paese, se ne andarono senza più fermarsi, ancorché la valle della Fella presenti diverse strettissime gole. La guerra in quelle valli e in quei monti fu in poche ore finita. Parle del distaccamento servi al blocco di Osoppo, il rimanente servi a presidiar il castello e la città di Udine. — Il distaccamento diretto su Cividale, erano Croati, giunto senza alcun notevole ostacolo in vicinanza di quella città, vi trovò dei Cividalesi, i quali in nome dei loro concittadini fecero conoscere all’Uffiziale che li capitaneggiava, che la loro città aveva sempre avuti cari i soldati dell’Imperatore, ma che in quei momenti di gravissimi disordini li vedeva più volentieri che mai. Che vi entrasse, che lui e i suoi vi sarebbero i benvenuti, e i bentrattati. E cosi fu. Il vero è, che le popolazioni slave di quei contorni, al sentire che Udine si ribellava, si erano, alla meglio che avevano potuto, non però senza grande spavento dei signori, armate. Fosse quel spavento fondato o no, tanto è un fatto, che la deputazione cividalese, la quale nel giorno stesso dell’arrivo di quel distaccamento, cioè li 23 aprile fu a Udine ad inchinare il conte Nugent, e a farvi un atto di sommissione e di devozione, lo pregò con grande insistenza di lasciar in Cividale quella truppa. Il generale rispose a quei Signori, che egli si fidava intieramente di essi, che li sapeva devotissimi alla Casa d’Austria, che non vi era alcun bisogno. Ma i deputati soggiunsero, che le popolazioni slave del loro territorio si erano armate, che ciò ispirava loro i più serj timori, e sino quello di un saccheggio. Il generale replicò, che sentiva ciò con sommo rincrescimento, che quella truppa aveva già ricevuto un’altra destinazione, che pel momento non era in stato di rimediarvi, che darebbe però relativamente al caso degli ordini; e li congedò confortandoli a stare di buon animo, a non temere, giacché egli vedeva nella grande maggioranza della popolazione in tutta la provincia una decisa volontà di rientrare nell’ordine (146).
Udine tenue fermo tre giorni. Il conte Nugent non tardò, appena postatosi col suo corpo d’armata rimpetto alla città, di inviarle, come è in tai casi l’uso di guerra, un parlamentario, che fu il suo primo ajutante conte Crenneville, per rimostrarle la convenevolezza e la necessità di sottomettersi. Ma uno dei caporibelli forastiero, vedendolo avvicinarsi, gli fece tirare varj colpi di cannone. Era il solito modo dei rivoluzionarj per spingere le popolazioni in delle situazioni disperale. Si stette tutto il giorno aspettando che la città dasse qualche spiegazione su di un procedere cosi irregolare e brutale. Ma essa non era padrona di sé, e vi regnava un vero terrorismo. Si attese sino verso sera, e allora, fatte avanzare le truppe con le loro batterie, ebbe luogo una spezie di bombardamento con dei razzi e delle granate, che fece più strepito che danno, e dopo due o tre ore, fattolo cessare, il generale incaricò lo stesso suo capo dello stato—maggiore, il tenente—colonnello barone Smola, di porterai come parlamentario in Udine, e di farle conoscere a quali pericoli, ostinandosi a resistere e perseverando nella ribellione, la si esponeva. Ma per quanto questo uffiziale si dasse, coi soliti ed usuali segnali, a conoscere come parlamentario, lo si lascia bensì avvicinare alla porta, ma poi gli si lancia un colpo a mitraglia che coglie lui e il suo cavallo, stende lui semimorto a terra, e gli ammazza 1uffiziale che lo accompagnava. Era sempre la stessa orridissima tattica, e proveniva come nel primo caso da uno dei capo—ribelli forastieri. — Infatti gli Udinesi si mostrarono addoloratissimi ed indignatissimi per quella violazione di una delle leggi più sacre della guerra, rispettata sino. dalle genti più selvaggie. L’uffiziale, fu raccolto, portalo in città in una delle case vicine, ove gli si prestarono tutti gli ajuti e tutta l’assistenza che la sua situazione richiedeva. Né lardarono alcuno delle primarie notabilità udinesi a visitarlo per condolersi secolui dell’avvenuto, e per discolparne la città; alle quali il tenente—colonnello ricordatosi la sua missione, la esegui in mezzo ai suoi terribili patimenti, disse a quei signori ciò che loro aveva a dire, e si fece da essi ascoltare.
I volontari—crociati forastieri, accortisi che la città si disponeva a trattare, avrebbero voluto alzare la voce, ma furono fatti tacere. Essi allora proposero una sortita in massa, ciò che non era se non un pretesto per poter dire: ebbene voi non volete battervi, noi vi abbandoniamo. Né tardarono coloro ad andarsene. La città, ridivenuta padrona di sé stessa, capitolò. L’indomani 23 aprile, era la festa di Pasqua, gli Austriaci vi entrarono. Il loro ingresso, io mi vi trovai presente, sembrava più che altro un ritorno dall’annuale campo di esercizio militare. Da un lato come dall’altro tutto pareva dimenticato. Vedendo, poche ore dopo la rioccupazione, condurre dei cannoni di grosso calibro al castello, gli Udinesi mostraronsi un momento turbali. Ma non fu difficile di far loro comprendere, che quella misura era intesa non ad altro che a prevenire il bisogno di servirai contro dei tristi del cannone; e che era, non per sparare, ma per non sparare su Udine, che se ne presidiava il castello, e lo si armava di cannoni.
Fatto in Udine ciò che vi era da farsi; presidiato il castello e fornito di viveri, presidiata e ordinata la città, prese le necessarie misure per la sussistenza delle truppe, e incamminato e rassicurato il blocco di Osoppo, il conte Nugent si volse per Campoformio e per Codroipo verso il Tagliamento, ove giunse il giorno 27, e trovato il ponte su quel torrentone che dai ribelli erasi in una lunghezza di più di 150 tese distratte, fattolo ristabilire, lo passò il giorno 28. Il ristabilimento del detto ponte si dovette in gran parte agli ajuti che vi prestò il paese con una spontaneità e alacrità senza ese mpio. Il Tagliamento era, per la molte pioggia caduta, o pei disgelo delle nevi, in uno stato poco men che di piena massima. Sembrava un rapidissimo Danubio. Cento ribelli avrebbero bastato per ritardarvi otto giorni il passaggio e impedirvi il ristabilimento del ponte. Ma non uno vi si lasciò vedere. I Crociati sortiti da Udine si divisero. Gli uni, corsero nella valle del Tagliamento, e da essa nel Cadore; gli altri passarono il detto fiume a Pinzano, poi la Livenza a Sacile, e si postarono nei monti al Nord di Geneda e di Seravalle. Il giorno 30 era il conte Nugent padrone di Sacile e di tutti i ponti sulla Livenza. Con ciò la riconquista del Friuli dalle Alpi al mare, con la sola eccezione di Palma—Nuova e di Osoppo, era un fatto compiuto, che aveva costalo appena 10 morti con 30 feriti, fra i quali ultimi vi aveano però un tenente—colon nello, e un maggiore. Anche Palma—Nuova si rase ai 24 di giugno. Osoppo resistette sino ai 9 di ottobre. Dalla poca e quasi nessuna resistenza che oppose il Friuli, il quale ha come già dissi, una popolazione di 440 mille abitanti, si rende chiaro, che la ribellione vi avea certamente pochissimi aderenti. La parte Nord—Ovest del Friuli, la valle del Tagliamento e i distretti montani detti Tramonti, ancorché in contatto col Cadore, si rifiutarono costantemente a prender, sia direttamente o indirettamente, parte alla guerra sostenuta, come a suo luogo si dirà, durante alcune settimane da un qualche migliaja di Crociati.
VI. Li 3 maggio era la vanguardia del conte Nugent giunta alla Piave sulla strada da Conegliano a Treviso. Il bel ponte—detto della Priula non vi era più; il nemico vi aveva messo il fuoco; quel fiume era anch’esso come il Tagliamento, in stato di piena poco men che massima. La riva destra, arginata come la sinistra, vedevasi occupata da numerose bande italiane venute d’0ltre—Pò, e da truppe pontificie regolari d’infanteria e cavalleria, ben fornite di artiglieria. La Piave ivi non ha sinuosità che forniscano i mezzi di forzarvi il passaggio. I pontoni che si avevano non bastavano, e non erano qualificali per un fiume con una corrente rotta, ondulosa, e rapidissima, qual è quella della Piave, quando è gonfia come era in allora. Il passaggio di questo fiume era quindi ivi una impossibilità; o non vi avea altro partito da prendersi se non quello di gettarsi nel Bellunese, e di passera la Piave, o sul ponte di legno a Capo di Ponte, o sul ponte di pietra presso Belluno. Vi aveva, una volta che si fosse padroni di Belluno e poi di Feltre, il modo di sboccare sul piano Trevigiano, fra la Piave e la Brenta, o rimpetto a Monte—Belluno, o rimpetto a Bassano, e, se ciò non potevasi fare, di portarsi da Feltre per Premolano nella Val—Sugana, di rimontarla sino a Caldonazzo e da Caldonazzo di portarsi nella Val dell’Adige e per essa di discender a Verona. L’impresa del conte Nugent era entrata in un nuovo stadio.
Tutto ormai dipendeva dalla condotta dei Crociati, che eransi postali sui monti al Nord di Conegliano, di Ceneda e di Sacile, e in ispezialità poi dalla condotta delle popolazioni montane Bellunesi,e se queste si associeranno ai primi e li ajuteranno nella loro guerra, o se ve li avverseranno. Nel primo caso egli è difficile di dire ciò che sarebbe avvenuto, nel secondo oltre che l’unione del corpo di riserva con l’armata dei maresciallo era assicurata, l’impresa affidala al conte Nugent prendeva un tutt’altro carattere, e diveniva ciò che un celeberrimo Francese chiamava «le commencement de la fin»: essa diveniva la vera iniziativa della riconquista del regno Lombardo—Veneto; ciò che essa anche divenne, e ciò che fu. Il nemico, ciò non è da dubitarsi, comprendeva tutta l’importanza che vi avea a guadagnare per la ribellione i montanari bellunesi. Né fu per sua colpa, se non riusci, col mettere in corso la voce di esservi completamente riuscito, e di aver tutta la montagna per sé, a dissuadere il conte Nugent dall’entrare in quei monti. Questi venne tuttavia a sapere il vero, prese peraltro ciò nonostante le sue misure in modo, che qualora le notizie che riceveva nel merito dagli anti—rivoluzionarj, che certamente ve ne. avevano e in molto maggior numero che i rivoluzionarj, non si avverassero, potesse arrestare le sue mosse senza ulteriori conseguenze. Egli col grosso del suo corpo d’armata e con la sua artiglieria si tenne fermo a Conegliano, e sembrava lambiccarsi il cervello per dar di fronte contro chi guardava la Piave sul piano, e per passar quel fiume fra Nervese e Cima—d’Olmo. Il giorno 3 maggio fece egli avanzare la brigata Culoz sulla strada di Allemagna verso Belluno, coll’ordine, qualora fosse possibile, di snidare quei Crociati dai monti che aveva alle spalle e sul fianco destro, e fiancheggiarla a sinistre mediante qualtro compagnie di Croati, capitaneggiate da un uffiziale di grandissimo merito, dal maggiore barone Geramb, le quali la notte dai 3 ai 4 marciarono per Corbanese nella Val di Mareno e poi pel Canal di San—Poido giunsero alla Piave. A Conegliano si diceva e lo si credeva che quel movimento non aveva altro scopo che d’indurre gli Italiani ad allontanarsi dalla Piave—Bassa. E quanto a quei Croati, i pochi tristi che vi aveano s’immaginavano che quei montanari li lascierebbero internarsi, e poi li sterminerebbero.
Ma fatto è che quei Croati tutt’all’oposto erano il giorno 5 sani ed allegri già a Belluno. Essi dovunque arrivarono furono accolti con giubilo, trovarono tavola imbandita, e poi guide, notizie, gente che raccomodava e allargava loro i sentieri. Al loro giungere in quei monti se ne diffuse tosto la notizia del loro arrivo con delle grida che di distanza in distanza raccolte ripetevansi, e vi cagionò un generale movimento, che sparse fra i Crociati, designati da quei montanari a cagione delle loro foggie e dei loro modi con le parole quei Mostri, lo spavento. I Bellunesi come prima videro da lontano quei Croati spedirono loro incontro, come avevano fatto qualche settimana prima i Cividalesi, una deputazione, che dichiarò al loro comandante, che sarebbe nella loro città accolto e ricevuto con giubilo; e che i tristi, accortisi di essere pochissimi, se n’erano andati. Il paese era. in balia di una fiera anarchie e nel massimo disordine. Quei Soldati erano appena schierati sulla piazza, che vi era anche ripristinata la pace.
La brigata Culoz aveva trovato i Crociati postali in siti cosi forti, ohe dopo di aver perduto tra morti e feriti 10 in 12 uomini ritornò a Seravalle. Rimessasi in marcia il giorno susseguente, cioè il giorno 4, si venne, mentre la si disponeva ad attaccare, a dirle, che il nemico si ritirava, e anzi fuggiva. Riunijasi la truppa nell’ordine di marcia, ciò che a cagione delle località incontrò qualche difficoltà e richiese del tempo, si giunse con essa un pò tardi a Cima-di-Fadalto, ove si passò la notte, e si ebbe notizia del cordiale ricevimento che toccò alla colonne Geramb, e dei di lei successi. Discendendo la mattine del giorno seguente verso Capo—di—Ponte, si viddero accorrere dei giovani, che da lontano si davano a conoscere apportatori di qualche buona novella. Avvicinatisi ansanti dissero, che si vedeva dalle cime dei loro monti chiaramente un buon numero di soldati dell’imperatore passera il ponte di Belluno, ed entrare in quella città, che con essi erano anche molti Bellunesi i quali eransi veduti andar loro incontro; sembrare, che siano quegli stessi soldati comparai inaspettatamente il giorno innanzi nel canal di San Poldo. — Il generale, al quale la nuova, per quanto ne fosse e se ne mostrasse contento, non riusciva in verun modo inaspettata, dati i necessari ordini alla sua brigata, fattosi da quei giovani mostrare la via più breve per portarsi a Belluno, con tre ulani e un suo ajutante vi si mise in cammino, e in meno di un ora arrivava anch’egli pel ponte di pietra nella detta città; ove trovò tutto in ordine, tutto quieto, come se nulla di straordinario vi fosse avvenuto. I Croati avevano già fatto il loro pranzo, e il loro maggiore si offri da sé, di avanzare con essi, lasciandoli riposare ancora qualche poco, verso Feltre sino al Cordevole; ove giunse ancora innanzi a sera senza incontrare un nemico, e senza aver a scaricare un fucile. Egli vi era appena arrivato, e aveva appena postate le suo avvisaglie, che vennero in gran fretta dei campagnuoli avvertirlo, che nel vicino villaggio, sulla riva opposta, era da poco giunto un uffiziale del Papa, il quale nulla sapeva, che vi aveano, a un miglio dal paese ove era, dei soldati dell’imperatore. Quell’uffiziale era il capitanio Quintini, dello stato—maggiore, inviato nei Bellunese e nel Feltrino dal generale Durando, per sapere ciò che vi si era fatto, e si faceva. Non passò una mezza ora che esso trovavasi in potere del dello maggiore, il quale sotto scorta lo mandò a Belluno. Registre questa particolarità, perché la mi sembra particolarmente qualificata a dare un’idea delle disposizioni alla ribellio11 e ostilissime di quella gente. (147)
I Crociati, passata la Piave e incendiato il ponte a Capo—di—Ponte, sarebbero corsi a Belluno, che offre all’Est, sul torrente Ardo, una fortissima posizione; ma saputolo dagli Austriaci occupato, presero la strada d’Allemagna e si volsero verso il Cadore. La brigata Culoz dovette discendere, lasciando indietro la sua artiglieria e i suoi carri di munizione, per arrivare al ponte di Belluno, lungo la riva sinistra della Piave senza che vi avesse una strada, anzi senza che vi avesse neppur un viottolo; cosicché le convenne attraversare con grande stento i boschetti, le vigne e i torrentelli incassati, che vi hanno. Essa giunse a Belluno spossatissima. Non si tardò peraltro un momento ad aprirvi una strada, che forni una ulteriore prova del contento, che quella buona e brava gente provava al veder ritornato l’ordine e la pace, e in mezzo ad essi gli Austriaci. Il loro concorso a centinaja, subito che ne viddero il bisogno, fece che si potè dar principio all’opera nell’istesso tempo su almeno venti diversi punti. Verso sera vi aveva già una strada carreggiabile; e appena giorno, la brigata riebbe i suoi cannoni e i suoi carri di munizione.
Il giorno 6 il generale Culoz entrava in Feltre. Il conte Nugent stavasi sempre ancora col grosso delle sue truppe a Conegliano. A Feltre come a Belluno i tristi che vi facevano i terroristi, quando si trattò di menar le mani, si accorsero di essere assai pochi, e se ne andarono verso Primolano, attirando a sé tutti i pessimi del paese e dei paesi vicini. Il generale, più per tenere in occhio quella nuova crociala, che per produrvi ciò che, come tosto si dirà, ne risultò, fece partire alla volta del vicino ponte sul Cismone, sul quale passa la strada da Feltre per Primolano e pel canal di Brenta a Bassano, un tenente (Magdeburg) con 30 soldati. Questo uffiziale non aveva ancora fatto 3 miglia di strada, e già lo precorre la voce, che il corpo d’armata del conte Nugent s’incammina verso Primolano, e si porta, non pel canal di Piave su Castelfranco, ma pel canal di Brenta su Bassano. L’allarme si propaga, arriva a Bassano, e da Bassano a Pederoba, allo sbocco del canal di Piave, ove la notte dai 6 ai 7 stavasi il generale Durando comandante in capo delle truppe italiane venute d’Oltre—Po raccolte nelle provincie venete. Simili notizie allarmanti erano divenute l’espediente, al quale le popolazioni nei Friuli, nel Bellunese, nel Feltrino, e nel Trevigiano ricorrevano per tener lontani i Mostri; o se li avevano in casa, per indurli ad andarsene.
Il generale Durando era il giorno 6 a Quero con 4 mila uomini, dei quali 3400 svizzeri, e il rimanente italiani. Rimpetto a Cornuda, ove incomincia, per chi viene da Feltre, il piano trevigiano, sulle alture di Montebelluna, stavasi l’altro generale degli Italiani, Ferrari, con 11500 uomini. Quero è distante da Feltre miglia 7j, da Pederoba miglia 3, e da Montebelluna, cioè dalle alture ove stavasi il generale. Ferrari, miglia 9. A Quero apprese il generale Durando l’entrata degli Austriaci a Belluno e a Feltre, e l’accoglienza che loro erasi fatta in tutto il paese da essi percorso, ed in ispezialità nei monti sulla sinistra della Piave. Queste nuove portarono la costernazione al detto generale, e cosi anche, qualche ora più tardi, al generale Ferrari; e fecero poi sulle loro truppe, alle quali non poteronsi celare, una terribile impressione, che in un subito le disordinò, e vi distrusse ogni disciplina, e subordinazione, e vi seminò la diffidenza contro i loro uffiziali e generali, dicendosi orribilmente ingannale e tradite. Quella gente, se si eccettuano gli Svizzeri, aveva cessalo da un momento all’altro di essere una truppa, ed era divenuta un’orda disordinata, un numerus non exercitus e peggio; il che tutto era intieramente l’opera delle masse bellunesi e feltrine, dalle quali doveva quella truppa riceversi a braccia aperte, e ricevevasi invece con un non—celato disdegno. Il generale Durando si ripiegò il giorno 7 su Pederoba, ove pernottò, e ove ebbe la notizia, sparsasi nel modo suindicato, che il conte Nugent marciava su Bassano, e vi discendeva pel canal di Brenta. Egli sapeva che quegli Austriaci, i quali erano entrati il giorno 15 a Feltre non sommavano che a poco più di 2 mila uomini; e ne arguiva che il conte Nugent contava di tenerlo a bada con quelle poche truppe che da Feltre entravano nel canal di Piave, e sfilerebbe col grosso del suo corpo d’armata per Primolano a Bassano. lo seguito a ciò, corse egli coi suoi 4 mila uomini a Bassano, credendo di veder arrivare quanto prima, seppure non vi era già arrivato, il conte Nugent; e non vedendolo arrivare fece avanzare verso Primolano uno dei suoi reggimenti svizzeri.
Il giorno 8 giungeva a Feltre la brigata Schwarzenberg. Quel tenente che aveva avuto l’ordine con 30 uomini di portarsi sul Cismon, giovane, un pò inesperto, ma di gran coraggio, non si curò nulla affatto dei molti armati che raggiungeva per strada, e si spinse in mezzo ad essi. Questi lo circondano e lo obbligano a gettarsi in una casa isolata, ove, secondato dai suoi bravi soldati, si difende con grande valore, e vi si mantiene. Conosciutasi a Feltre la sua situazione, il principe Felice Schwarzenberg mette all’istante in manda 4 compagnie per tirarnelo. Gli abitanti del paese pel quale le dette quattro compagnie di fanti s’incamminano, ne fanno subito 4 battaglioni e vi aggiungono ancore 6 pezzi di artiglieria, e li dicono la vanguardia del corpo d’armata del generale Nugent, il quale, secondo essi, la segue a poche miglia di distanza. Il tenente che volevasi salvare, si salva da sé. Le quattro compagnie ritornano a Feltre, e si ricongiungono con la loro brigata. Ma quei montanari e quei valigiani non rinunziano a farne uno spauracchio pei loro odiatissimi ospiti. La voce per strada ingrossandosi arriva agli Svizzeri postati a Primolano, i quali non dubitano, che il conte Nugent è, con 10 mila uomini per io meno, a poche miglia dal posto che occupano. Essi se ne vanno a Bassano e vi arrivano nel tempo che il generale Durando, che n’era partito la mattina, marciava in soccorso del generale Ferrari.(148)
Il generale Culoz discese il giorno 7 a Quero, e vi si fermò per aspettare, che il conte Nugent arrivasse a Feltre, e vi si trovasse con le due brigate le quali erano rimaste a Conegliano, a portata, qualora gl’Italiani lo attaccassero, di soccorrerlo. La brigata Schwarzenberg trovavasi bensì la notte dai 6 ai 7 a Cima—di—Fadalto, fra Seravalle e Capo—di—Ponte. Ma il conte Nugent era la mattina dei 7 ancora a Conegliano, e vi avea anche tutta la brigata Supplicalz. Il conte Nugent era quindi come si vede, rimasto intieramente padrone della situazione sino al dopopranzo del 6, e in qualche modo sino alla mattina del 7, e aveva sino allora tenuti stretti nelle sue mani i suoi dardi senza lanciarli; né li lanciò se non quando fu sicuro di cogliere con essi nel segno. — Il generale Culoz lasciata il giorno 8 la sua brigata a Quero, ne parti, suonava appunto mezzo giorno, con sole 2 compagnie del reggimento arciduca Carlo (296 uomini), 50 ulani e una batteria di razzi, per esplorare le ultime tre miglia del canal di Piave dal villaggio di Fener a quello di Pederoba. Giunto nel secondo dei detti villaggi, gli ulani che lo precedevano gli annunciano che vedevasi venire verso di essi una grossa colonna nemica composta d’infanteria e di cavalleria.
Il generale Culoz aveva tanta fiducia in quel pugno di gente che aveva seco, che prese il partito di mantenersi in quel posto, il quale in fatti era la vera porta d’ingresso nel canal di Piave; spedi l’ordine alla sua brigala di raggiungerlo al più presto che fosse possibile, e si preparò alla lotta. Né tardò il suo avversario ad accalcarlo, ma fu respinto; ritornò e fu respinto una seconda volta. Il combattimento continuò, ma da lontano. lu quel mezzo cominciarono a mostrarsi i soccorsi. Il generale Ferrari si ripiegò e ritornò nel suo campo. Gli Austriaci lo seguirono prima sino a Onigo, e poi sino a Cornuda. Essi ebbero 3 morti e 17 feriti.
Il generale Ferrari, di ritorno nel campo di Montebelluna trovò la sua piccola armata per la caduta di Fellre e di Belluno tumultuante in un modo spaventevole; malediva la guerra, insultava i suoi uffiziali. La truppa, che aveva combattuto sotto ai suoi ordini a Pederoba, non si era condotta male. Il generale ne poteva essere e n’era contento. Anch’egli sapeva che il suo avversario era debolissimo e avrebbe perciò voluto assalirlo il giorno seguente; ma temeva, che i suoi Italiani, anzi che secondarlo, se ne andassero. Non si perdette però di coraggio, cercò di calmarli, infine li assicurò, che gli Austriaci che stavano loro innanzi erano pochissimi, e che sarebbe un’onta eterna per essi, se trovandosi almeno cinque contro uno, non li schiacciassero. Egli spedi ancora in quella notte al generale Durando a Bassano un uffiziale, annunciandogli, che l’indomani maggio verrebbe cogli Austriaci alle mani, e sollecitandolo a portarsi con la sua truppa in di lui ajuto. Durando promise nella sua risposta che verrebbe. Il generale Culoz dal suo canto aveva dato atto sua brigata gli ordini più precisi, pei caso che fosse attaccata, di difendere ad ogni costo la posizione, ed era partito per Feltre collo scopo di abboccarsi col suo generale in capo, che sapeva di trovarvelo.
La mattina del gl’Italiani condotti dal generale Ferrari discendevano verso le della mattina in diverse colonne con sufficiente ordine dalle alture di Montebelluna verso Cornuda; si svilupparono su due linee e una riserva, ed avvanzando con un grido generale avanti, avanti giunsero coi loro tirailleurs sino alla portata del cannone austriaco, ove si fermarono senza che si potesse farli avanzare, con l’eccezione però della cavalleria, che avanzò, ma che fu respinta con perdita. Frattanto ritornava il generale Culoz, giungeva verso mezzo giorno un battaglione di rinforzo, e verso le 3 anche il generale in capo con la brigata Schwarzenber—g.
Il generale Durando era in quella mattina, partito da Bassano per Pederoba, come aveva promesso nella sua risposta al generale Ferrari. Se non che giunto a mezza strada fra Crespano e Possagno a 6 miglia da Pederoba, ricevette da Bassano la nuova, che finalmente la venuta del conte Nugent ’in quelle parti avveravasi; che gli Svizzeri per non aver a combattere con un nemico di tanto superiore, erano ritornati da Primolano a Bassano; che l’arrivo del conte Nugent vi era imminente. Il dello generale volse su di ciò le spalle alla Piave, e si mise in marcia di nuovo verso Bassano. Il generale conte Nugent riceveva l’avviso certo e in un modo da non dubitarne, della marcia del generale Durando, al momento che entrava in Onigo, ciò che lo obbligò a prender le necessarie misure, quando giungesse, di respingerlo. Il generale Ferrari ebbe la prudenza di non aspettare che i soccorsi i quali andavano arrivando agli Austriaci e vedevansi arrivar da lontano, giungessero tutti, per battere la ritirata. Esso si ritirò senza essere inseguito, e potè effettuarla senza grande perdita, lasciando sul campo di battaglia un 30 morti e circa 150 feriti. Il conte Nugent non volle inseguirlo tanto perché non poteva supporre che frattanto il generale Durando ritornava a Bassano, e che gli supponeva, e aveva ogni ragione di supporgli, oltre ai 3400 Svizzeri anche almeno due reggimenti di truppa di linea pontificia; ma anche, e in principalità, perché per esso il punto essenziale era l’annodamento di tutte le brigate del suo corpo d’armata, delle quali, due, una vi era arrivata dall’interno da poco, erano ancora oltre la Piave, senza che vi avesse ancora un ponte. Ma ancorché la truppa del generale Ferrari potesse, perché non inseguita, riguadagnare sufficientemente in ordine il campo di Montebelluna d’onde era partita, appena vi era dessa rientrata, che se ne impadronì nuovamente la furia dell’indisciplina. Non meno di due mila Volontari se n’andarono, abbandonandosi ai più gravi eccessi, e spandendo ovunque arrivavano lo spavento ed il terrore (149).
Il generale Nugeut partendo da Conegliano aveva dato alla truppa rimasta sulla sinistra della Piave l’ordine di stare attenta all’arrivo dei suoi a Pederoba e a Onigo, e che vedutili sboccare, apparisse un fuoco vivissimo di artiglieria alla Priulla, o anche più sotto, contro la riva opposta. Per uno di quegli accidenti che si sovente sconcertano in guerra i migliori piani, la vanguardia era 24 ore e più in quei contorni, e non vi si era tiralo ancora un colpo di cannone. Già passavano, la Piave, guadandola con grande pericolo quattro ulani apportatori al generale che comandava la truppa rimasta sulla sinistra di quel fiume, dell’ordine di eseguire quanto gli era stato ingiunto, quando l’artiglieria, erano le 5 pomeridiane, cominciò a tuonare. La riva destra si trovò in meno di mezz’ora dai suoi pochi difensori abbandonata. Ma il fiume era ancora a tal segno in trattabile e indomabile, che nonostante che si avessero. tutti i materiali che vi si richiedevano, e in abbondanza, e nonostante la somma abilità della truppa tecnica, vi vollero 15 ore d’immensi sforzi per avervi un ponte transitabile anche per l’artiglieria; ciò che fornì una ulteriore e quella tanto più convincente prova, che la fu una prova pratica; che un passaggio della Piave in presenza del nemico era in quella stagione una impossibilità.
Li 10 disponevasi il generale conte Nugent ad attaccare il nemico nella posizione di Montebelluna, quando si ebbe la notizia, che la era stata affatto e nel massimo disordine sgomberata, e che il generale Ferrari aveva raccolte le sue truppe dietro Treviso, e dietro il Sile (150).
Per compiere l’annodamento del suo corpo d’armala, il generale conte Nugent si avvicinò da Falzè il giorno 11 con le tre brigate che aveva seco, alle altre due che erano addossate alla Piave. Mentre questo ravvicinameuto effettuavasi, il generale Ferrari si avvisò di assalire le dette due brigate con tutte quelle fra le 9ue truppe che mostravansi disposte a seguirlo. L’esito però ne fu infelicissimo. Il giorno 11 contava il corpo d’armata del conte Nugent, come già ho avvertito, 18356 combattenti, senza gli artiglieri; e si trovava nel caso o di rinforzare l’armala del maresciallo conte Radetzky, per la quale era in origine destinato, o di completare la riconquista si felicemente iniziata e già tanto inoltrata delle provincie venete poste fra l’Isonzo e la Brenta.
Dai fatti qui esposti tanto credo si renda chiaro ed evidente, che nel 1848 nelle provincie venete traversate col suo corpo d’armata dal generale conte Nugent, ancorché le fossero in istato di ribellione, il partito rivoluzionario era quasi nullo, e che il detto generale ebbe nel vero popolo veneto un vero alleato. Io sarò certamente l’ultimo a disconoscere la lode che il conte Nugent in quella sua campagna di appena quattro settimane si è meritata. Esso si fece, innanzi a tutto, una chiara idea della situazione nella quale andava a mettersi. Conosciutala, se ne impadronì, e la padroneggiò sino quando ammalatosi, o per dir meglio consuntosi nelle prolungate incessanti cure e fatiche, ebbe a rimettere il comando della sua truppa al tenente—maresciallo conte Thum—Valsassina, militare anch’esso di un merito distintissimo e degno di succedergli. Io voglio anche ammettere che la sua personalità, coll’inerente carattere blando ma fermo, abbia saputo rinfrancare i buoni, e contenere i cattivi; e che quel suo corpo d’armala avesse generali, uffiziali e soldati che nulla lasciavano a desiderare. Tutto ciò era molto; ma non avrebbe bastato. I due generali che gli furono opposti, il generale Durando e il generale Ferrari erano ambidue uomini di vaglia. Se nonché non conoscevano la loro situazione, e vi s’ingannavano. La loro piccola armata oltre che aveva nei Ire mila Svizzeri un validissimo appoggio, se anche conteneva del ferraccio, non mancava di contenere anche del buon ferro, e anche dell’argento e sino dell’oro. Ma lo spirito rivoluzionario è lo spirito del disordine; o il disordine in una armata guasta tutto. La situazione dei detti generali era una corrente che li strascinava ora qua ora là come voleva. Ma di ciò quale e chi n’era la causa? La causa n’era che il vero popolo vi avversava quella guerra. E se la loro armata invece di disciplinarsi divenne da un momento all’altro intrattabile, il movente ne fu la scoperta, che la causa, per la quale, la avrebbe avuto a combattere, era una menzogna, e che, se la si diceva ingannata e tradita, non lo diceva senza ragione (151).
Non ho finito ancora, restandomi a dire alcune poche parole sui dimenarsi che fecero alcune bande di armali, dai 3 di maggio sino alla metà di giugno nel Cadore, nella valle del Cordevole, nel Canal di Brenta, e nei distretti di Ennego e di Primolano. Una parte dei Crociati che avevano abbandonato Udine, dopo passalo il Tagliamento e la Livenza, postaronsi, come già è stato avvertilo, al Nord di Ceneda a cavallo della strada cosi detta d’Allemagne, e vi si mantennero il giorno 3 contro un primo tentativo che si fece per parte degli Austriaci di sloggiarneli. E non vi ha dubbio, che se coloro avessero trovato negli abitanti un qualche appoggio, e non fossero invece stati da essi ricevuti come perturbatori della loro pace, e come gente che veniva a fare in mezzo ad essi una spezie di guerresco carnevale, avrebbero dato al conte Nugent non poco da fare. Ma quei montanari non li volevano; essi quindi incalzati dagli. Austriaci passarono in fretta a Capo—di—Ponte la Piave. Prevenuti dai Croati del barone Geramb a Belluno, andarono a postarsi, inseguiti da un distaccamento che vi fù mandato già il giorno 5 o la mattina dei 6 da Belluno, e che prese loro un cannone, fra Longarone e il Cadore. Ma già l’indomani furono raggiunti da un numeroso stuolo di altri Crociali, in parte provenienti com’essi da Udine, ma i quali invece di passare il Tagliamento lo avevano rimontato sino alla sua origine, in parte provenienti dalla Pontebba; e crebbero a più di due mila armati. Gli Austriaci si rinforzarono anch’essi. Se non che tutte le valli subalpine venete, e in ispezialità la Val—di—Piave, come l’ho già più volte detto, sono tanto facili a difendersi contro chi vi ascende, che difficili contro chi vi discende. Vi ebbero nell’ultima settimana di maggio fin quattro battaglioni di Austriaci impiegali a snidarli da quei monti. Ma le posizioni dei Crociati erano da quel lato inabbordabili. Convenne andar a prendere la volta sino all’origine del Tagliamento. Il generale Welden vi inviò un battaglione di Sluini pel canal di San—Stefano, il quale con un altro battaglione al quale si uni, diretto dal capitanio Ramming dello stato maggiore, uffiziale pratichissimo del paese, riusci a guadagnare la Piave superiormente al Cadore. I due battaglioni, venendo dall’alto, e discendendo al basso, posero a quella guerra un fine in un pajo di giorni con la perdita di 1 morto e 4 feriti. — Ma costò maggior fatica, o tempo, o soldati il terminarla nella valle del Cordevole e nel distretto di Ennego, subito che si ebbe il modo di penetrarvi pei monti e per le valli tirolesi. In quelle bande vi avea della gente di tutti i paesi veneti, e sino di tutti gli stati limitrofi. La perdita che vi fecero gli Austriaci nell’or menzionata guerra dagli 8 maggio sino ai di giugno, ammontò a 30 morti, e 150 feriti.
Il maresciallo conte Radetzky urgeva, che le truppe raccolte sulla Piave gli fossero in conformità alla loro primitiva destinazione, quanto prima condotte e rimesse. Ciò fece abbandonare ogni altro pensiero. Il giorno 18 maggio furono esse, poco prima dei tramonto del sole nonostante un pessimo tempo, dal tenente—maresciallo conte Thurn messe in marcia sulla Postumia per Castelfranco e per Verona. Vi aveano 62 miglia italiane da farsi; cioè sino alla Brenta 26, altre 10 sino a Vicenza, ulteriori 15 sino a San Bonifazio, e altre 10 sino a Verona. Trattandosi di una marcia di quattro giorni attraverso un paese per un considerevole tratto tutto frastaglialo di fiumicelli incassati o arginali, e da fossi e canali irrigatorj, e occupato dal nemico, la qual marcia poteva perciò convertirai in una guerra di qualche settimana, cosi vi si rese necessaria una requisizione, preparazione, e distribuzione di vettovaglie, e una requisizione di carri altellati; ciò che richiese del tempo, e avvertì tutte le popolazioni all’intorno, che si trattava di portarsi sull’Adige. Si sparse la voce che si attaccherebbe Treviso; ma non vi si credette. Eppure nessuno corse ad avvertire il generale Durando della partenza degli Austriaci, e della strada da essi presa, il quale perciò restà all’oscuro di tutto. Sarebbe mai occorso nulle di tale, se quella gente fesse stata avversa agli Austriaci, e non tutto all’opposto avversa e ostilissima a chi faceva loro quella guerra iniqua e abominevole? Dippiù gli Austriaci giunsero a Castelfranco, il tempo si era abbonaccialo, alle 7 della mattina, e avevano ancora miglia da percorrere di pieno giorno attraverso un paese popolatissimo per giungere al ponte sulla Brenta, già da giorni predisposto ad essere al loro avvicinarsi abbrucciato. Eppure nessuno avvertì la guardia, che vi aveva, del loro arrivo. La vanguardia austriaca, giunta a Cittadella, spinse la sua cavalleria di gran galoppo per Fontaniva verso la Brenta, che s’impadronì del ponte tuttora intanto senza che il nemico avesse il tempo di prendere le armi e di raccogliersi. Torno a dimandare, se poteva mai accadere nulla di tale, per poco che gli abitanti fossero stati favorevoli a quella guerra e non l’avessero anzi imprecata? Era superato un grande ostacolo. La Brenta era grossissima; e gli Austriaci, se vi avessero trovalo il ponte abbrucciato, si sarebbero trovati nella stessa situazione come si trovarono alla Piave, quando si viddero senza ponte per passarla. Ma restava sempre ancora l’ostacolo maggiore; restava a traversare il paese dalla Brenta ai monti Lessini e ai monti Berici, e ad aggirare, per esso, Vicenza, che sapevasi presidiata e messa a difesa; paese, che poche ore di lavoro avrebbero bastato, qualora la sua popolazione vi si fosse lasciata adoperare, a renderlo col taglio, delle strade, con la rovina dei ponti, e con la formata delle acque, impermeabile. E poche centinaja d’insorgenti sarebbero stati sufficienti ad arrestarvi gli Austriaci, e a fornire al generale Durando il tempo di accorrervi, e di respingerli definitivamente. Ma nulla di tale era fattibile stante le disposizioni di quei campagnuoli, ostilissime ad ogni sua impresa che vi avesse prolungata la guerra. Il dello generale si chiamò contento di poter sostenersi a Vicenza. Uno dei suoi corpi franchi composto di Francesi, e di altri soldati di ventura, si scagliò sugli ultimi Austriaci, quando sortivano da quel mal—passo e riguadagnavano, all’Olmo, la strada maestra. Ma ebbe a pentirsene. Il giorno 22 il conte Thurn era col suo corpo d’armata a San Bonifazio, e aveva la sua vanguardia a Caldiero, a poche miglia distante da Verona. L’unione con l’armata del maresciallo conte Radetzky era fatta, e questa ormai in istato di passar dalla difensiva nell’offensiva.
Le ulteriori operazioni per la riconquista dello provincie venete consistettero durante il mese di giugno, nella presa di Vicenza il giorno 11, e che fruttò anche la convenzione con la quale il generale Durando si obbligò di ripassare il Pò con tutte le sue truppe, e di astenersi da ogni ostilità con esse contro l’Austria nei tre prossimi mesi; poi il giorno 13 la rioccupazione di Padova e di tutta la Terra—ferma sino al Pò; poi la presa di Treviso, che dopo un bombardamento si rese il giorno 15 al generale barone Welden, e quella di Palma, che capitolò il giorno 24. Nel seguente mese di luglio ebbe luogo il giorno 25 la battaglia di Custozza, e già il giorno 6 di agosto entrava il maresciallo conte Radetzky in Milano. La riconquista del regno Lombardo—Veneto era, con la sola eccezione di Venezia e di Osoppo, terminata. Il Polesine, il Padovano, il Vicentino fornirono alla guerra del 1848, assieme, tre o quattro battaglioni di volontari. Vicenza fu difesa due volte, la prima con successo, non cosi la seconda; però in ambidue i casi non già dai suoi cittadini, ma sempre da gente, se anche italiana, né lombarda, né veneta. E lo stesso è da dirai anche della difesa di Treviso, e lo stesso di quella di Venezia. Se vi ebbe Qualche eccezione la fu cosi poco rilevante, da non meritarsi che se ne parti.
Riassumiamoci. La guerra, che ebbe a sostenere l’Austria nel 1848 per riconquistare il regno Lombardo—Veneto, ancorché iniziata da una ribellione, non ebbe niente di nazionale. Essa fu bensì una guerra dell’Austria con degli Italiani, ma tutt’altro che una guerra dell’Austria co’ suoi Lombardi, e co’ suoi Veneti. Né essa vi ebbe mai a combattere una insurrezione. I ribelli erano ovunque cosi pochi, che all’avvicinarsi degli Austriaci, guardandosi l’un l’altro, contandosi e valutandosi, se ne andavano altrove, imprecando la mancanza di patriottismo dei loro concittadini, come essi ne chiamavano il buon senso, e la fede dovuta al legittimo sovrano, che d’altronde nel regno Lombardo—Veneto non aveva mai cessato di essere il governo più mite e più paterno del mondo (152).
Tanto in riguardo alla guerra del 1848 nel regno Lombardo—Veneto. Mi resta ancora a ricordare un episodio accaduto fuori del detto regno, che volontieri passerei sotto silenzio, se esso non gettasse gran lume sulla natura, e la tendenza, delle insurrezioni italiane, che sono rare volte altro che insurrezioni di gente facinorosa. Il caso è questo. Nel tempo che il maresciallo conte Radetzky rientrava in Milano e Carlo—Alberto ripassava il Ticino, una brigata austriaca riconduceva il Duca di Modena Francesco V. nei suoi Stati. La marcia di quella brigata che aveva alla testa il detto Duca, fu un continuo commovente trionfo (153).
In quegli stessi giorni passò il Pò con una brigata austriaca, ed entrò nelle Legazioni anche il generale Welden, e marciò su Bologna, che era divenuta contro ogni di lei volere un rifugio di banditi, e il centro di tutte le loro trame contro le truppe austriache, che bloccavano Venezia. La città era da coloro 0 dalla propria plebaglia orrendamente terrorizzata, ed era ben contenta dell’avvicinarsi e dell’arrivo degli Austriaci. Si è menato gran rumore per quella invasione degli Stati pontificj. Ma Dio buono! se fu permesso e lecito a delle truppe di quegli Stati di passare il Pò, di far sua la causa dei ribelli del regno Lombardo—Veneto, e d’incominciarvi con la Casa d’Austria la guerra la più ingiusta del mondo: perché aveva ad essere un delitto, se gli Austriaci passavano il Pò per far loro la causa del vero popolo, cioè della gente onesta nelle Legazioni, la quale si vedeva oppressa e terrorizzata dai rivoluzionarj tanto proprj che forastieri, e abbandonata dal suo governo, al quale nessuno obbediva? Il vero popolo bolognese desiderava, e ardentemente, la venuta degli Austriaci. In fatti appena la si seppe, che una gran parte di quella pessima gente sorti dalla città, e si sparse nei villaggi vicini.
Il generale Welden arrivava innanzi Bologna il giorno 6 agosto; vi occupa senza opposizione una o due porte, e incomincia le trattative. Egli espone ad una deputazione municipale, che Bologna alimentava contro il suo corpo d’armata una guerra sorda, ma non per questo meno pregiudicevole alla causa austriaca, e favorevole ai ribelli annichiatisi in Venezia, che da lui non si poteva in verun modo tollerare. — Gli si dà ragione, si promette di rimediarvi; e le due parti si separano contente l’una dell’altra, e si continua a trattare. Ma giunge frattanto un messaggio del maresciallo conte Radetzky che disapprova quella passata del Pò, ed ordina al barone Welden di ripassarlo. Questo come era ben naturale si dispone immediatamente ad obbedire, prende alcune misure per la sussistenza della sua truppa, ne rimette il giorno 7 comando al tenente—maresciallo conte Perglas, e gl’ingiunge di rimettersi con esse, il giorno 8, in marcia; e parte. Il conte Perglas prendeva nel detto giorno le opportune disposizioni per effettuare ciò che gli era stato ingiunto, quando sente suonare a stormo, di tratto in tratto anche qualche colpo di fucile e gli si viene a dire: che alcuni dei suoi uffiziali, i quali eransi addentrati nella città per vederla, e alcuni dei suoi soldati, ai quali era stato permesso di entrarvi per farvi delle provigioni, vi erano stati dai popolaccio insultati coi modi più oltraggiosi, e alcuni anche gravemente feriti. Né si tardò a tirare dalle vicine case sulle guardie delle porte Galliera e San—Felice, e dalle mura sulle truppe che in vicinanza vi stavano a campo.
Il generale conte Perglas con ragione geloso dell’onore dell’armi austriache credette, di dover respingere questi insulti, e chiedere per essi, e pell’assassinio dei suoi uffiziali e dei suoi soldati la dovuta riparazione; e fece entrare in Bologna alcune centinaja di soldati parte a piedi parte a cavallo, con un uffiziale incaricalo a dimandar conto dell’avvenuto. Questo non aveva ancora fatto duecento passi, che si vide venire incontro dei carabinieri pontificj con la bandiera bianca, i quali gli dichiararono, che all’istante si porterebbe presso del generale una deputazione municipale a discolpare la città degli attentati dei quali esso lagnavasi, e a promettere, in nome di questa, ogni soddisfazione che pel momento stasse in di lei potere; sulla quale dichiarazione l’uffiziale non esitò un momento a indietreggiare e a farne al suo generale la relazione. Ma la città era di nuovo in balia dei rivoluzionarj e dei facinorosi, che affluivano dai contorni ove si erano all’arrivo del barone Welden intannati. Il generale aspettava, ma invano l’annunciatagli deputazione; quando tutt’ad un tratto si senti ad ogni campanile di nuovo suonare a stormo, o si assalirono i presidj delle porte; procedere che determinò il generale Perglas a far appuntar verso la città varj obizzi che aveva, e a lanciarvi un cento granate. Alle della sera dello stesso giorno 8 agosto, il generale si mosse, come ne aveva l’ordine, da Bologna verso il Pò.
Questa è la genuina storia di un avvenimento, che non fu altro che una serie di attentati da sgherani, e che non saprebbe se non che far onta agli autori di essi. Non per tanto vorrebbero gli scrittori della storia degli Italiani del 1848 farne un argomento per una nuova Iliade o Gerusalemme liberala. Sentiamone ora le conseguenze, come ce le racconta uno dei capi—agitatori italiani, e perciò scrittore certamente non sospetto di quell’avvenimento. Egli le annebbia il più che gli è possibile, e le colorisce a suo modo, ma il vero vi si scopre e si fa largo da sé. Sentiamolo dunque:
«Dopo i casi dell’8 agosto la nobile Bologna era venuta in termine di grande afflizione. I cittadini ed i popolani onorali, i quali avevano prese le armi nel giorno della battaglia, cessalo il pericolo di nuovi assalti, le avevano posate; ma in armi era rimasta potente e prepotente la moltitudine, per mezzo alla quale erano paltonieri usi a contrabbandi, a rapine, ad ogni profligata opera proni. A pre testo di salvare la patria, cotestoro avevano incettate le armi per le case de’ cittadini, le avevano nel tumulto tolte alla Guardia Civica, avevano tratte fuori da lor caverne quelle con cui solevano misfare. A pretesto di difendere la patria da nuovi assalti incettavano legname, pigliavano le paghe come sol dati e come lavoratori, le pigliavano doppie e triple, perché a quegli acerbi e spiritati visi pericoloso era riguardare e rispondere del no. Entrarono a Bologna legioni di Guardie Civiche volontarj, entrarono turbe di gente senza nome, lirate quelle da generosi sensi, queste da cupidità Le legioni delle Guardie Civiche romagnuole, cessato il pericolo, tornarono alle case loro, ma restarono i corpi franchi, che si andavano ingrossando delle reliquie di quelli che dopo i disastri dell’esercito sardo, lasciavano l’Alta Italia per condursi a Venezia, o scendere in Toscana e nello Stato Romano a procaccio di faccende. Alla indisciplina della sciolta plebe bolognese s’aggiunse cosi l’indisciplina degli armati venuti di fuori, e Bologna parve deserta de’ suoi cittadini e popolata da tribù nomade vario vestite, e vario—armate, e da una tribù semi—ignuda e scalza, che del popolo bolognese profanava l’onorato nome e la dignità… La gloria dell’8 agosto forniva mirabile occasione a celebrare la potenza del popolo; lo stato di Bologna dava mate ria a sperimento. Precipitaronsi a Bologna capi, oratori, soldati di ventura, e riscaldarono il sangue, la bile, la cupidigia, la vendetta delle turbe armate: fomentarono tutti i rumori, tutte le indiscipline, tutte le anarchie…
«La ciurmaglia maestra di rapine che era stata scatenata, e che sentivasi rialzala e nobilitala dal nome del popolo, in mezzo al quale versavasi, credè giunto il giorno del regno suo, quel giorno di libertà e d’impero che ne’ scellerati sogni della prigione aveva lungamente sospiralo. Entrò per violenza nelle carceri, e libertà i compagni, predò la casa di un ricco signore (che villeggiava ne’ d’intorni; a’ villici, a’ cittadini impose taglie; rapinò sulle pubbliche vie, rapinò in città; pose le mani nel sangue di un giudice, cercò a morte giudici, uffiziali di polizia, processanti, birri e carcerieri. L’anarchia minacciava distendersi nelle provincie…
«In Settembre i mali erano cresciuti e cresce vano: erano due giorni che gli scherani uccideva no nelle vie e nelle piazze della città ogni lor ne mico, afficiali di governo, tristi e diffamati in verità alcuni, altri onesti. Li uccidevano coi colpi d’archibuso, e se caduti davano segno di vita, ricarica vano le loro anni al cospetto del popolo e de’ sol dati, e le sparavano di nuovo, o li finivano colle coltella; davano loro la caccia come a fiere, entravano nelle case, e li traevano fuori a macello. Un Bianchi ispettor di polizia giaceva in letto ridotto all’agonia per tisichezza polmonare; entrarono, gli furono sopra e lo scannarono, presente la moglie ed i figliuoli; i cadaveri restarono nelle pubbliche vie, spettacolo orribile. Io il vidi, e vidi dur morte, e la scelerata caccia. Il cardinale Amat, che aveva annunciato il suo arrivo, giunse il di appresso, e gli fecero scorta i popolani armati, nel tempo medesimo in cui gli scherani continuavano ad ammazzare. Non vi eran più giudici, non più uffiziali di polizia; chi non era morto, era fuggito o nascosto; la Guardia Civica inerme, rimpiattati i cittadini; i pochi soldati di linea o confusi co’ sol levati, o nulli per animo; i carabinieri ed i dragoni incerti; le legioni di volontarj, i corpi franchi ausilio ai tumulti non all’autorità del Governo. Mandammo a Roma, chiedendo facoltà di mettere Bologna in istato di assedio; ma venne risposto che il Ministero, udilo il parere del Consiglio di Stato, credeva che senza ricorrere a questo mezzo estremo si potesse restaurare l’ordine. Con quelle industrie che si potevano migliori studiavasi via di tirare al Governo i carabinieri, i dragoni, e gli onesti capi popolani; ma si faceva poco profitto. Era voce che il Bellucci stesso avesse data balia di uccidere, come dicevano, le spie; un Masina veniva a noi innanzi proponendo per via di transazione, mandar in bando coloro che erano cercati a morte; gli armali erano nello stesso palazzo di governo, eravamo noi stessi a discrezione loro. Il caso fece d’un tratto ciò che noi con lentezza ed a stento avremmo potuto. Un assassino attentò alla vita d’un carabiniere: i compagni s’accesero nel l’ira, lo inseguirono, lo raggiunsero in chiesa, si profersero ad ogni risoluta opera di repressione, e fu ordinalo che uscissero, arrestassero, disarmassero i masnadieri; i dragoni assecondarono i carabinieri; il giovane Pepoli comandante la Guardia—Civica riunì qualche compagnie; il Bianchetti e gli onorali cittadini del Comitato di Salute—Pubblica si strinsero a noi intorno; chiamammo in fretta gli Svizzeri da Forlì. La popolazione cominciò a rialzare l’animo, a plaudire ai carabinieri, che arrestavano gli assassini. Alcuni corpi franchi, ed i sollevali presero a gridare contro i governanti, vantarsi difensori dei popolo, minacciare assalti al palazzo. I cannoni puntati, gli Svizzeri schierati, i carabinieri risoluti, agghiacciarono le voglie di sollevazione». (154)
Tale era sino in Bologna città notoriamente delle più riguardevoli d’Italia, nella quale l’agitazione rivoluzionaria non aveva mai cessato di sviluppare una straordinaria. operosità, tale dico, vi era il solo popolo del quale la rivoluzione disponeva. Qualunque altro le era rimasto inaccessibile. E che vi pare Lettor mio del quadro che qui ho creduto dover mettere sotto i vostri occhi? Lo potete voi riguardare senza inorridire? Chi non vi vede i futuri destini d’Italia, se mai, ciò che Dio tenga lontano, venisse fatto alla rivoluzione d’impadronirsene?
VII. L’armata di Carlo Alberto era giunta a Milano nel massimo disordine, malediva quella guerra, ed i promotori e autori di essa; e trovavasi in un tale stato di prostrazione, che i suoi generali e uffiziali disperavano di raggiungere con essa il Ticino. E non vi ha dubbio, che, senza l’armistizio di Milano dei 5 agosto, la si sarebbe sciolta e sbandata. Appena aveva essa Milano dietro di sé, che vi si produsse una fortissima diserzione, la quale dopo passato il Ticino, crebbe a tal segno, che non vi si contavano più neppur 20 mila soldati.
Quanto a Milano, esso stavasi sull’orlo di un abisso simile a quello nel quale pochi giorni più tardi, come si è veduto poco fa, erasi precipitata la città di Bologna. Un numero immenso di facinorosi non solo dei suoi contorni, ma anche dei monti comaschi, della Valtellina, e dei vicini cantoni svizzeri vi si era, con la speranza di farsene padroni, affollata. Fu questo affollamento, e furono le angoscie dei Milanesi, al vederlo prodursi, che i rivoluzionarj non ricorressero al solito espediente di compromettere la città con qualche atto atroce, e di strascinarla suo malgrado in una insurrezione, che fecero abbandonare Milano, a molte e molte migliaja di famiglie il giorno 5, e la notte dal 5 al 6. Gli Scrittori italianissimi attribuiscono questa partenza e spezie di emigrazione al timore, che il soldato austriaco pensasse, una volta entrato in Milano, di vendicare la morte di tanti suoi compagni, in parte proditoriamente uccisi, nelle famoso cinque giornale. Ma ciò è falsissimo (155)
Ciò che mosse il popolo milanese ad abbandonare in quell’incontro, la sua città, era il timore che gl’ispiravano quelle orde di gente armata che col loro aspetto, tratto, e vestito si palesavano qual gente masnadiera e assassina; e perché si aspettava, che i rivoluzionari si servissero di esse per rompere l’armistizio, e riaccendere la guerra.
Milanesi erano tanto lontani dal temere gli Austriaci, che quantunque l’armistizio avesse fissalo qual termine per la loro entrata nella città il mezzodì del giorno 6, il loro podestà Paolo Bassi si portà di gran mattino dal maresciallo pregandolo e supplicandolo, di entrare quanto più presto fosse possibile in Milano, giacché era minacciato di un saccheggio. Rimostranza e richiesta che indusse quel generoso a dar l’ordine di presidiare immediatamente le porte e di affrettarsi di entrarvi, ciò che fece, che l’armata si trovò tutta già alle 10 antimeridiane sul terrapieno che cinge la città, suite di lei piazze, e sulla spianala del castello.
Il maresciallo fu ricevuto da quei Milanesi che avevano osato rimaner la notte dei 5 al 6 in Milano con pochi applausi, ma tanto più cordialmente e riverentemente salutalo dai buoni che vi aveano fra di essi, e che sembravano volergli dire: perdonaci. L’armistizio statogli chiesto da Carlo Alberto non poteva per lui aver altro scopo, che di preservar Milano dal divenir un inferno.
Carlo Alberto aveva ripassalo il Ticino, e non aveva più armata. Il maresciallo conte Radetzky disponevasi a riprendere con la sua animatissima e ordinatissima armata le ostilità, quando, era il giorno agosto, gli si presentò il generale capo dello stato—maggiore piemontese conte Salasco, e gli propose, in nome del suo re, un armistizio di sei settimane, passate le quali starebbe nell’arbitrio delle parti contraenti di denunciarlo, e, dopo otto giorni, di ricominciare la guerra. L’armistizio doveva servire d’iniziamento ad un trattato di pace. Il vero popolo e fin il soldato piemontese era furibondo contro il partito rivoluzionario che si era del Piemonte impadronirlo. Se il maresciallo passava il Ticino, l’Italia guarivasi, salvavasi; quel popolo, che ora religioso, costumato, lenle, colto, con pochi oziosi, si sarebbe strappalo dagli Erostrati che lo terrorizzavano; il re sarebbe risorto dal suo letargo. Ma l’armistizio fu accordalo; purtroppo servi esso non ad iniziare la pace, ma a fornir al regno sardo—piemontese il tempo di divenire, e farsi sistematicamente l’Etat malfaisant che esso è, e che l’Europa con sua eterna onta tollera e fin protegge. Messosi quel regno alla testa della rivoluzione italiana non vi ebbe, nei selle mesi che durò l’armistizio, mezzo turpe e vituperevole, al quale non ricorresse, per mettere l’Italia sotto—sopra onde con essa tentare una seconda volta la conquista del regno Lombardo—Veneto. Ma il vero popolo d’Italia, che seppe resistere a tutte le anteriori seduzioni, non eccettuate quelle che perfidamente si avevano potuto incamminare dalla seconda metà del 1846 sino al 1848 in nome di Pio. IX, resistette anche a quelle, che la rivoluzione in generale e il suo alleato il ministero sardo—piemontese in particolare ebbe durante il detto armistizio tentato. Verità, che i seguenti fatti, ancorché, i limiti, nei quali devo tenermi in questo mio lavoro, me li facciano non tanto esporre e raccontare, quanto semplicemente accennare, metteranno, cosi spero, fuori di dubbio.
Il giorno 12 marzo 184alle 2 pomeridiane denunciavasi, per parte del ministero piemontese, l’armistizio. Il giorno 20, poco dopo il mezzodì, passò Carlo Alberto a piedi il primo il Ticino sul ponte di Magenta. Aveva il capo scoperto, non altrimenti, dice il generale Schonhals, che Goffredo, avanzando verso le mura di Gerusalemme. Lo seguiva tutta la divisione comandala dal suo secondogenito, dal duca di Genova, e con essa avanzò sino al villaggio di Magenta, ove gli abitanti gli fecero una cosi fredda accoglienza, che n’ebbe il cuore agghiacciato. La loro risposta alle sue domande, in riguardo alle truppe austriache che si fossero trovate in quei contorni, e a Milano, era sempre la stessa: Sire non sappiam nulla; dimodoché accade ad esso, in riguardo alle mosse dell’armata del maresciallo, ciò che era accaduto, in riguardo alla marcia delle truppe austriache dalla Piave alla Brenta, al generale Durando, che non vi fu, in tutto Milano, e in tutto il paese percorso in quell’incontro dagli Austriaci, una sola persona, che si fosse data la pena di mettere l’armata sardo—piemontese al fatto di ciò che a quell’ora accadeva, per rapporto alla guerra, oltre il Ticino, ed oltre il Pò. Il maresciallo lasciava Milano il giorno 18, e ne sortiva non per la porta vercellese sulla strada di Torino ma per la porta romana sulla strada che conduce a Lodi, e pernottava a Sant’Angelo a poca distanza dell’Adda; ma si volse il giorno seguente verso Pavia, attorno alla quale aveva adunato la mattina del giorno 20 non meno di 60 battaglioni di fanti, 40 squadroni di soldati a cavallo, e 186 pezzi di artiglieria. I partigiani di Carlo-Alberto ebbero per lo meno due intiere giornate per fargli sapere, che il maresciallo, nonché passare l’Adda ed abbandonargli la Lombardia, disponevasi evidentemente a passare il Ticino, e marciava con tutto il suo esercito su Pavia. Questa circostanza dice, relativamente alle disposizioni favorevoli o avverse all’impresa del detto re della popolazione lombarda, più che non saprebbe dirsi con qualunque lungo discorso; essa doveva bastare a convincerlo, che tutte le abominevoli mene del suo ministero e dei suoi agenti ed emissarj, per indurla ad una cooperazione, erano intieramente abbortite.
La sera dei giorno 20 stava già l’armata austriaca a campo oltre il Ticino; il giorno 21 ebbe luogo lo scontro di Mortara; il giorno 25 si diede la battaglia di Novara, nella quale l’armata sardo—piemontese si trovò verso sera presa di fianco e alle spalle da un corpo d’armala, che, con l’eccezione di qualche battaglione, non aveva ancora combattuto; mentre la si sarebbe assalita di fronte dalla riserva, che non aveva ancora scaricato un fucile, e dal rimanente dell’armata. Aggiungasi che l’infanteria piemontese rientrava in Novara disordinatissima, ricusando ogni obbedienza, e abbandonandosi ad ogni eccesso. Ma l’ho già detto, il maresciallo, pensando, che vi avrebbe avuto non una battaglia ma un macello, fermò la sua armata. La situazione si mostrò a Carlo—Alberto a tal segno disperata, che abdicò. Eransi presentati, appena cessato il fuoco, replicatamente dei parlamentari, che non furono ricevuti; ma poi si diede loro ascolto, le ostilità si sospesero; il maresciallo segnò col nuovo re un armistizio, che permise ad un nemico atterrato cui i trattali sono un nulla, di raccogliere le armi da sé lanciate, per servirsene, alla prima occasione impunemente, contro il troppo generoso suo avversario.
Uno dei corpi d’armala del maresciallo, il quarto, rimase oltre il Ticino nel Novarese; un altro, il secondo, ebbe ordine di presidiare i due Ducati; il primo rientrò con la riserva a Milano; il terzo si mise in marcia per Brescia, della quale, nel tempo che guerreggiavasi sulla destra del Ticino, sugli eccitamenti del governo sardo—piemontese, col solito espediente di commettervi dell’atrocità, la rivoluzione si era impadronita, e l’aveva precipitala in una ribellione forsennata. Il caso di Brescia ridotto a’ suoi veri e più semplici termini è il seguente.
Le valli e i monti bresciani abbondarono sempre di gente facinorosa e masnadiera. In allora, parlo del mese di marzo 1849, vi abbondavano non poco anche i coscritti—refrattarj ed i disertori. Un certo Boissava prete, subito che seppe non avervi in Brescia altra truppa che il presidio del castello, si fece capo di quelle bande, e si avvicinò con esse alla detta città, ove il ministero sardo—piemontese aveva un comitato segreto rivoluzionario. Questo, vedute quelle turbe dimenarsi nei contorni, fermare e spogliare corrieri e convogli, colse l’occasione di una multa che si voleva riscuotere dalla città, per spingere la plebaglia bresciana a gettarsi addosso a dei soldati che scortavano dei cari con dei viveri pel castello, a disarmarli, ed imprigionarli; ad arrestare il comandante di piazza, aggiungendovi oltraggi di ogni sorta, e ad assalire i due ospitali militari, dei quali uno fu da essa invaso ed ebbe sino dei soldati massacrati nel loro letto, mentre l’altro, ove erano i convalescenti, la respinse.
«Gettato a questo modo il dado» — dice un scrittore bresciano ostilissimo all’Austria, ma di una grande ingenuità, il quale senza volerlo dissipa molte delle nubi, nelle quali si è involto quel tragico e in sommo grade deplorabile avvenimento «gettato a questo modo il dado, i membri del Comitato secreto fecero di pubblica ragione gli ordini dell’insurrezione avuti dal generale Chrzanowskv, le istruzioni ricevute dal ministero sardo, il prossimo arrivo di due mila fucili, e la nomina del Camozzi a generale dell’insurrezione (156)».
Il comandante del castello ricordò ai ribelli i pericoli e i danni nei quali precipitavano la loro città; il municipio fece, con un coraggio ammirabile e una rara perseveranza, tutto il possibile, per preservare Brescia dall’eccidio che le sovrastava; ma tutto invano. Il cittadino onesto, e in generale quello che aveva qualche cosa da perdere, si affrettò di abbandonare la città con la sua famiglia, e con quel tanto che ne potè tirare, e lasciò, che i rivoluzionarj, ancorché pochissimi, se ne impadronissero, e, con la plebaglia che stipendiarono, la terrorizzassero. Il comandante del castello dopo aver ripetutamente richiamato i ribelli alla sommissione e all’obbedienza, volendo loro dare un saggio del trattamento che alla loro città sovrastava nel caso, che essi pertinaci persistessero nel loro iniquo operare, lanciò il giorno 23, durante due ore, delle bombe, che per altro non fecero verun danno, perché lanciate negli spazi ove non ne potevano fare; ma quella demostrazione non cangiò nulla nel modo di pensare di coloro; e la mattina seguente si aprirono le porte alle masnade del Boissava, e di. altri, che il municipio con varj pretesti avea tenute sino allora lontane dalla città, temendone un saccheggio.
Il giorno 26 soltanto arrivarono da Veruna e da Mantova i primi Austriaci destinati ad agire contro Brescia e a comprimerne la ribellione. Erano comandati dal general—maggiore conte Nugent, nipote del generale d’artiglieria dell’istesso nome, componevansi di 6 compagnie di Rumeni—transilvani, e di 4 compagnie del reggimento Ceccopieri, Italiani, con 30 in 40 cavalleggieri del reggimento Lichtenstein, e con 2 cannoni; distaccamento che tutto assieme non contava che 930 combattenti. Il conte Nugent si postò con esso nel villaggio di Sant’Eufemia a due miglia di Brescia sulla strada di Verona, ove i ribelli ebbero l’ardire di attaccarlo, ma dal quale furono respinti con grave perdita. Il giorno 30 aveva il detto generale sotto ai suoi ordini 4 battaglioni di fanti, 1 squadrone di cavalleria, che assieme non sommavano se non 2300 uomini, e 4 cannoni. Un battaglione era ancora in marcia, e non giunse se non tardi dopo il mezzodì il 1 di aprile. Li 30 marzo arrivò in Santa Eufemia anche il tenente—maresciallo, comandante del 2.° corpo di riserva e del blocco di Venezia, barone Hainau, il quale dettò e prese all’istante le disposizioni per attaccare i ribellanti in Brescia all’indomani, che era il 21 aprile []marzo.
Effettivamente , appena erasi fatto giorno, che la città fu accerchiata con una catena di posti, che ne impedissero ogni comunicazione col paese all’intorno. Il generale Hainau si portò, attraversando i colli che sorgono al Nord—est di Brescia, con un battaglione nel castello, per gettarsi da esso sul centro della città; mentre il conte Nugent assalirebbe la porta di Verona (Torrelunga.) L’attacco su questa porta, contro della quale furono puntati i 4 cannoni che si avevano, fu secondato con una bravura eroica da una partila di 100 reconvalescenti, i quali eransi dall’uno degli ospitali riparati nel castello, e che, condotta da un tenente, rovesciò i ribellanti che tentarono fermarla, e assali i difensori della detta porta alle spalle, mentre il conte Nugent li assaliva di fronte. La. porta fu presa e in meno di due ore anche tutto l’angolo Sud est della città, assieme con la porta di San-Alessandro, ossia di Cremona. Azione vigorosissima, nella quale fu ferito il suddetto generale, che di quella ferita da li a pochi giorni morì, e anche un colonnello con un numero considerevole di uffiziali e di soldati, parte feriti, parte morti. — L’attacco dal castello ebbe meno felici risultati; il battaglione che ne discese, condotto dal tenente—maresciallo Hainau in persona, avanzò sino sulla gran piazza e nelle. strade laterali, ma dovette indietreggiare sino alle ultime case di esse, e contenterai di farvisi forte, e avervi pell’iudomani una spezie di «téte—de—pont». La resistenza aumentava a misura che le turbe bresciane condensavansi nel centre, nei quartier! occidentali e nell’angolo Nord—est della città. Anche il detto battaglione perdette comparativamente, molta gente, e fra gli altri il suo tenente—colonnello, che, ferito, code nelle mani dei ribelli e fu da essi, in un modo più che barbaro, scannato.
Il 1.° di Aprile, ai primi albori del giorno ripigliaronsi dagli Austriaci le ostilità, però con più cautele, maggior circospezione, e più metodicamente, avanzando passo a passo, di casa in casa, e perciò con meno perdite. Verso mezzo—giorno Hainau era già padrone di più di due terzi di Brescia. Alle 4 pomeridiane arrivò il battaglione di Croati che si aspettava, al quale toccò lo sgombro dell’angolo Nord—ovest fra porta San—Giovanni ossia di Milano, e porta Pile ossia Settentrionale. Ma la resistenza aveva verso sera diminuito di assai, e si era fatta fiacca al massimo segno. Alle cinque, l’opera di quella truppa era terminata. Essa non ebbe che qualche ferito. Le bande che vi aveano, si precipitarono dalle mura, e riuscirono per la maggior parte a salvarsi. Il giorno seguente, ossia li 2 aprile giungeva il secondo [terzo] corpo di armata, che nulla trovò più da fare.
Tutto ciò premesso, egli è ora di mio uffizio di rispondere alle solite questioni, che formano il soggetto di questo capitolo. Che guerra fu nei 184la guerra di Brescia? I ribelli di Brescia che gente erano? In che proporzione stanno essi colla popolazione di tutta la provincia, in quale con quella della città? Fu dessa una insurrezione delle masse bresciane? Che fu dessa? Si tratta di cifre; le risposte si faranno da sé, e potranno essere brevissime, e definite. Gli Austriaci che assalirono Brescia, questo è un fatto, erano, compreso il presidio del castello e i riconvalescenti, che vi si erano ricoverati, tutto al più 3200 uomini. Le turbe che loro opposero i rivoluzionarj contavano appena 2500 armati, fra’ quali neppure 500 cittadini bresciani. Brescia abbandonata da’ suoi abitanti, che previdero la sorte alla quale essa soggiacque, di venuta una solitudine, non avrebbe resistito un’ora, se i rivoluzionarj non fossero riusciti a raccogliere le rimanenze dei corpi franchi che avevano guerreggiato nel 1848 ai confini tirolesi, e le bande di disertori, di coscritti—refrattarj, e simili, che assieme giravano nei monti bresciani, bergamaschi, e grigioni, e a introdurveli. Che se costoro fossero stati in maggior numero, non so se il generale barone Hainau non si fosse trovato nella necessità di differire l’attacco sino all’arrivo del secondo corpo d’armala. Essi combatterono in ispezialità il primo giorno da disperati, ebbero più giorni di tempo per prepararsi ad una guerra di strade, di barricate, e di case, e predisporvi la città; come anche per farsi famigliari col fuoco del castello. Se fossero stati in più, vi si sarebbero, sino all’arrivo del secondo corpo d’armata, mantenuti. Or siccome la provincia di Brescia ha una ‘popolazione di 340, e la città di 35 mila abitanti, cosi avrebbe fornito la prima supponendo che i suddetti 2500 armali fossero tutti bresciani., meno dell’1, e la città, qualora tutti li di lei 500 combattenti fossero stati suoi cittadini l’1 e ½ per cento; mentre le insurrezioni tirolesi del 180ammontavano dal 30, al 35 e sino al 40, ed in Ispagna nella difesa di Saragozza, e di Girona, sino al 20 e 25 per cento. Il che tutto ben considerato, sono certo di non dire se non il vero dicendo: che anche nella ribellione di Brescia non vi ebbe niente affatto di spontaneo, niente di nazionale, e che anche quella sciagurata città fu nella ribellione, con la solita tattica rivoluzionaria di compromettere con degli atti atroci le popolazioni, strascinata da pochi ribaldi.
VIII. La rotta toccata all’armata sardo—piemontese a Novara il giorno 25 luglio 184fuit segnale per Genova, di ribellarsi contro il Piemonte, e di provarsi staccarsene. Il ministero sardo—piemontese in un caso simile, e qualora, per esempio, le ribellioni da esso ordite durante l’armistizio di Milano in Lombardia avessero avuto il loro pieno effetto, messo in non calle l’armistizio di Novara, si sarebbe affrettato di farle soccorrere dal generale La Marmora, che trovavasi nei Ducati, e di raccozzare lo sperperato suo esercito rimpello agli Austriaci postati nel Novarese, certo che il maresciallo conte Radetzky avrebbe rinunciato ad ogni idea di avanzare contro Torino. Il maresciallo Radetzky invece si ricordò che la rivoluzione padroneggiava e tiranneggiava l’Italia centrale e la disordinava quanto più poteva, e mise la massima sollecitudine a restaurarvi i legittimi governi, impiegandovi tutto il suo secondo corpo d’armala. E dicasi pure che il vero popolo toscano erasi riscosso da sé, eccettuato in Livorno, e aveva, se anche non pienamente, in gran parte al male rimediato (157).
Livorno gemeva sotto l’impero della sua plebe, alla quale si era aggiunto un gran numero di gente raminga avventuriera francese, inglese, svizzera e sino polacca. Il generale barone d’Aspre, comandante del corpo d’armata, prese Livorno di viva forza, ma vi entrò non di meno come un liberatore, che lo strappò dalle mani di un branco di scherani. Egli si rivolse poi verso Firenze. La sua marcia fu, come quella del principe Lichtenstein l’anno precedente nel ducato di Modena, un vero, commovente trionfo. Non vi aveano schiamazzi, ma vi aveano molte lagrime.
Restavano ancora, oltre Venezia, le Legazioni con Bologna, e le Marche con Ancona, nelle quali la rivoluzione aveva avuto non solo giorni e mesi, ma più di un anno, per consolidarsi, e in ispecialità dopo la fuga del Sommo—Pontefice da Roma, il modo di procedervi nei suoi divisamenti senza alcun ritegno di predisporvi una guerra di bande, e una leva in massa. Mo tutti quei preparativi non servirono ad altro che a render sempre più chiaro, che le popolazioni pontificie in quella provincie erano inaccessibili alle seduzioni rivoluzionarie. Gli Austriaci vi furono ricevuti ovunque, non altrimenti che nel 1831, cioè come liberatori. A comandante di cotesta guerra fu scelto il generale conte Wimpfen, che vi si trovò alla testa di soli 9000 uomini a piedi, 470 a cavallo, e 630 artiglieri. I rivoluzionarj avevano a Bologna 6000 armati, fra’ quali 1860 parte a piedi, parte a cavallo attinenti a dei reggimenti di linea pontificj, e 4140 attinenti alla guardia civica. La città disponevasi già a inviare incontro al conte Wimpfen una deputazione con la proposta di una convenzione, quando vi giunse la notizia di una grande vittoria, che i repubblicani di Roma volevano aver riportata sui Francesi sbarcali a Civitavecchia per rimettere il Papa sul suo trono. Questa notizia cangiò in Bologna affatto la situazione delle cose. Essa rinfrancò i rivoluzionarj, i quali fattisi col mezzo della plebaglia padroni della città, fecero professione di difenderla, accada ciò che vuole, e di conservarla alla nuova repubblica romana, alla quale con essa avrebbero conservate anche le Legazioni e le Marche.
E per alcuni giorni tennero essi anche parole, poiché respinsero una brigata austriaca, che fuori di tempo e isolatamente attaccò porta Galliera, accerchiarono il campo del conte Wimpfen con delle bande armate che ne resero la comunicazione con Modena e con Ferrara malsicura, e obbligarono questo generale a sospendere le sue operazioni sino all’arrivo del generale di cavalleria Gorzkowskv, che lo raggiunse il giorno 14 maggio con un considerevole rinforzo in truppe e in artiglierie. Bologna fu già l’indomani assalita con una grandine di granale e di bombe, che come al solito ridusse i rivoluzionarj ad andarsene. La plebaglia rimasta senza capi potè facilmente ammansirsi; le autorità municipali ripresero il loro uffizio, trattarono, ed ottennero condizioni, che nessun’altra armata, alla quale si fossero assaliti degli uffiziali e dei soldati a tradimento, avrebbe accordate. Gli austriaci occuparono il giorno 16 tre delle più frequentale porte della città, e vi entrarono il giorno 17. Il generale Gorzkowsky ne prese il comando, e ristabilì il governo pontificio. Il generale conte Wimpfen n’era partito con in 10 mila uomini già il giorno 16 per Ancona, nei sobborghi della quale giunse il giorno 24.
Non è da negarsi, che l’impresa alla quale accingevasi questo generale appariva molto diversa dall’intervento del 1831, al quale bastarono pochi battaglioni d’infanteria, con alcuni squadroni di ussari. In Ancona si erano eseguili grandiosi lavori di fortificazione, i quali facevano prevedere un lungo assedio. A Cagli sulla Flaminia, che da Rimini per Fossombrone e pel Furlo conduce a Foligno e a Spoleto, siedeva un Comitato rivoluzionario di guerra, che vi spiegava una grande attività nello spingere col terrorismo le popolazioni, e tanto quelle del contado, che quelle delle città, contro gli Austriaci. Le prime avevano all’avvicinarsi del Tedesco ad alzarsi in massa, ad armarsi alla meglio che loro fosse possibile, a sortire dai loro villaggi, ad accerchiare, tenendosi ad una distanza da non poter ricever danno, le colonne austriache, e ad inquietarle incessantemente, in ispezialità durante la notte; le seconde di chiudere le loro porte e di difendere le loro mura, e nel caso che queste fossero superate, le loro case. numerose bande di volontarj indigeni e forastieri dovevano farsi l’anima di questa guerra e tenerla viva. Urbino, città che la sua località rende fortissimo, fu scelto a centra di questa guerra pel paese fra la Marecchia e l’Esino.
Il tutto però non fu che un sogno, il quale, quando si venne all’alto pratico, svani. Il vero popolo, nelle città come nel contado, non solo si rifiutò ad ogni cooperazione con le dette bande, ma fece tutto ciò che stava in suo potere per tenersele lontane, e per indurle a partire, se si trovavano nel paese. Il buon senso e lo spirito ratio, proprio all’Italiano non corrotto e non pervertito, seppero resistere, come già dissi, ad ogni sorta di tentazioni, e di seduzioni. I rivoluzionarj regnavano col loro terrorismo finché il popolo al rimbombo dei cannoni, e allo scoppio delle granate e delle bombe riscuotevasi; sudicché i rivoluzionarj, consapevoli del loro piccolo numero, abbandonavano il campo di battaglia, e correvano a mettersi in salvo.
Ancona fece come Bologna. Il partito rivoluzionario si mantenne fermo nel potere, ricorrendo per mantenersi ad ogni, anche infamissimo mezzo, ed anche agli assassinj, sino all’arrivo delle artiglierie. Ma appena furono queste giunte, e messe in opera, che il popolo alzò la testa, e menò le mani, e incarcerò il capo rivoluzionario politico, e il capo rivoluzionario militare. Ciò visto, non vi fu uno di quello spietato ed abominevole partito, che non si rifugiasse su qualche legno o francese o inglese. La città, liberatasi in questo modo dai suoi tiranni, capitolò. In Urbino stavasi un Inglese con 600 scherani armati sino ai denti, che parevano disposti a vincere od a morire. Ma avvicinatisi il giorno 14 giugno gli Austriaci, ancorché non fossero che 4 compagnie di fucilieri, e 1 compagnia di cacciatori, la popolazione urbinate prese un’altitudine si minaccevole, che quella gente per quanto l’Inglese (Forbes era il suo nome): si sforzasse di trattenerla, si diede ad una precipitosa fuga, e corse senza fermarsi sino a Foligno. La patria di Raffaele solennizzò la di lei liberazione col suono a festa di tutte le campane, con una brillantissima illuminazione, e il giorno seguente con un Tedeum. E, quanto all’esito, accadde lo stesso anche con una forte banda che tentà annidarsi nei contorni di Macerata-Feltria all’Ovest di Rimini; appena d’essa comparsa, le popolazioni invase spedirono deputazioni sopra deputazioni a Bologna al generale Gorzkowskv per averne della truppa. Questo vi spedi un battaglione di Haugwilz, reggimento di leva bresciana, al quale, coll’ajuto degli abitanti, bastarono due giorni per disperderla. Un battaglione di reclute partito par Firenze giunse a Foligno, passando per Arezzo e Perugia, e facendo 70 e più miglia italiane di strada, senza che gli venisse fatta la benché minima offesa. Il famoso Garibaldi, allorché abbandonata Roma entrò nella Toscana, non trovò città murala che non gli chiudesse le porte, né villaggio che non fosse abbandonato. Le truppe austriache che gli furono opposte e gli diedero la caccia, ricevevano ovunque arrivavano ogni possibile sussidio, e venivano messe al fatto con la massima sollecitudine di ogni suo movimento. Queste operavano in un paese amico e alleato, esso trovavasi in un paese nemico, ed ostilissimo. In somma per quanto vi avessero le più forti ragioni per temere il contrario, egli è certo, che la rivoluzione non ebbe, sia nelle Legazioni sia nelle Marche più partigiani nel 1849, che nel 1831. Le popolazioni pontificie del contado le furono nell’uno e nell’altro anno egualmente avverse. V’ebbero anche nel 1849, ciò non può negarsi né si nega, molti partigiani nelle città fra la parte oziosa delle classi agiate e nella plebaglia, quale pur troppo da per tutto e sempre pronta a vendersi a chiunque ha del danaro per pagarla; ma il numero vi fu, come nel 1831, non altro che una minima frazione della popolazione. Né vi mancavano dei paesi nei quali le popolazioni campagnuole si sarebbero gel la te addosso ai rivoluzionari, e ciò non senza considerare in generale tutti i signori come rivoluzionarj, e li avrebbero per poco che gli Austriaci li avessero lasciati fare, senza pietà sterminati. —La reazione, in ispecialità nei contorni di Fermo e di Ascoli, e nei monti e nelle valli attorno alla Sibilla minacciava di prendere un carattere terribile e fierissimo, e non costò poca fatica il frenarla e l’impedirla. Guai al partito rivoluzionario, se la coscienza degli Austriaci avesse loro permesso di ricorrere alle masse campagnuole e alla plebe della città per porre una volta per sempre fine alla guerra che esso loro faceva. Guai al regno Lombardo Veneto, guai alle Legazioni ed alle Marche, se anche ad essi, come a lui, fosse sembralo lecito e permesso tutto ciò che giova, e che conduce allo scopo.
IX. Mentre il generale Wimpfen procedeva per parte dell’Austria alla restaurazione del governo pontificio nelle Legazioni e nelle Marche, e a strappare le dette provincie alla rivoluzione, il generale Oudinot faceva lo stesso, per parte della Francia, a Roma, dalla quale il Sommo Pontefice aveva dovuto fuggire. I Francesi capitaneggiati dal detto generale incontrarono innanzi questa città, ancorché senza altro riparo che delle semplici mura, una molto maggiore resistenza che gli Austriaci innanzi Bologna, e sino innanzi Ancona, ancorché questa fosse coperta da una fortissima cittadella e da un campo trincierato. Essi giunsero —alle di lei porte il giorno 2 aprile, e non vi entrarono se non li 3 di luglio, con un assedio formale e regolare di due settimane, e impiegandovi non meno di 35 mila nomini. — Or si dimanda, anche per rapporte alla difesa di Roma, come si è dimandato per rapporte alla difesa di Brescia di Bologna di Ancona, se essa fu un alto della popolazione romana, oppure di gente, se anche italiana, o se anche dello Stato-Romano, non romana? La voce correva avvalorata, o ne conviene lo stesso Farini nel suo Stato-Romano che Roma fosse stata difesa da soli stranieri. Egli qualifica questa voce come menzognera. Io la credo bensì una esagerazione, però non dubito, che il numero dei soldati forastieri vi fosse considerevole. Ma atteniamoci pure alle di lui ciffre.
Alla fine di maggio, dice il summenzionato scrittore, l’esercito francese sommava 35 mila uomini con 60 cannoni in parte da campo, in parte d’assedio; quello della Repubblica, con i rinforzi avuti dopo il 30 aprile dalle provincie, 1mila uomini, dei quali regolari mila cinquecento di fanteria, o 800 di cavalleria e 7 mila circa di fanteria irregolare costituita di volontarj e di guardie nazionali, e 1300 circa di soldati di artiglieria. Fra questi soldati erano soli 350 stranieri all’Italia. Gli Italiani non nati nello Stato—Romano erano 1800. Or dato, ancorché non concesso, che queste ciffre fossero le vere, che ne risulta in riguardo alle suddette dimande? Risulta 1.° che lo Stato—Romano il quale conta 3 milioni di abitanti ha fornito alla difesa della sua capitale poco più del p. c. della sua popolazione. I volontarj dello Stato erano 7 mila, fra quali appena mille nativi romani; e quindi siccome Roma conta oltre a 170 mila abitanti cosi ne segue 2. che essa non forni alla sua difesa neppur 1’1 p. c. dei suoi abitanti. Conchiudiamo che, cosi come Brescia, Bologna ed Ancona, istessamente anche Roma è stata difesa non da’ suoi abitanti, ma da gente ad essa straniero se anche italiana, e se anche non forastiera. Roma, qualora fosse stata padrona di sé stessa, avrebbe fatto rimpello ai Francesi come Civita—vecchia, che, sentito l’ordine venuto da Roma di opporsi al loro sbarco, si prese, lo dice il Farini, a gridare pace, pace, si mosse a tumulto, e non volle saperne di guerra. E perciò finiscano una volta i signori Italianissimi di contare, fra le glorie del loro paese si ricco di vere glorie, le difese delle dette città nel 1849, giacché le furono ovunque non altro che l’opera del terrore rivoluzionario. Ecco il quadro che presenta la difesa di Bologna tracciato non da me, ma dal suddetto Farini:
«Ma intanto i popolari avevano tumultuato, abbattute le bandiere bianche, tassato di tradimento il preside del municipio e ricercatolo a morte; vano ogni ammonimento, minaccie di vendetta, furor dei malandrini che l’anno prima ave vano tiranneggiato. Fra il rombo delle artiglierie e lo stormo delle campane, udivi canti e suoni bellicosi, e forsennate grida, e fra la spaventosa luce degli incendj che le bombe qua e là appiccavano, vedevi freneticare la plebe che intrecciava danze intorno all’albero della libertà; e cosi mentre la città era dall’austriaca barbarie fuori travagliata, trepidava dentro pei flagrante pericolo di plebea barbarie. Non più ombra di disciplina ne’ soldati; al Pichi non obbedivano, il Marescotti obbediva ai capi—popolo per conservare qualche autorità; non più freno di legge o di civil costume fra la sciolta plebe (158)».
Simili quadri presentò Brescia, simili Ancona, simili e più orrendi ancora Roma. Volgiamo lo sguardo altrove, volgiamolo su Venezia.
X. L’Austria ha trattalo Venezia sempre dal primo giorno che la fu aggiunta al di lei impero, con i più grandi riguardi, ne ha rispettata sempre la storia, e valutata l’ammirabile civiltà, che la distingue. Egli è col massimo ribrezzo, e ciò non senza aver esauriti tutti i mezzi che stavano in suo potere per risparmiarla, che il maresciallo conte Radetzky le ha fatte l’aspra guerra che le fece. Lo parole che esso le ha replicatamente indirizzate, erano quelle non già di un capitano che aveva spezzata due volte la spada dei rivoluzionarj italiani, ma di un padre a dei figli sconsiderati, desideroso di perdonare e di obbliare. Il Vero popolo veneziano non avrebbe esitato un momento a darvi ascolto. Ma esso non era padrone di sé. Era anche esso terrorizzato da uomini senza viscere, che volevano ad ogni costo immortalizzarsi, e guazzare a spese dei loro concittadini. Un Veneziano, che condanna decisamente le ribellioni, spazialmente qualora, come era il caso di Venezia, improvocate, e dirette contro un governo legittimo, mitissimo e paterne, peraltro scrittore di una rara pacatezza di animo, ci dà il seguente ragguaglio dell’indole e degli atti dei rivoluzionarj che in allora comandavano ai Veneziani.
«Se i sedicenti padri della patria» dice egli, «avessero amato il vero bene di essa, non avrebbero certamente esitato a por riparo ai commessi errori col rientrare nell’ordine; ma essi non volevano che prolungare il più possibile il loro regno, ed adagiati sulle ricchezze che non avevano mai possedute, non avendo niente da perdere, anzi desperare maggior vantaggio da una ulteriore resistenza, sordi alla voce dell’umanità e guardando con tutta indifferenza un popolo sull’orto del precipizio, fecero ogni possibile sforzo per mantenerlo in quell’affascinamento in cui lo avevano fatto miseramente cadere. L’asaemblea dei rappresentanti ispirata dal grande cittadino, che chiama alla mente il 22 marzo nella altra seduta segreta del 2 aprile decretava che Venezia resistere all’austriaco ad ogni costo e che a tal uopo il presidente Manin è investito di poteri illimitati. Da questo sconsigliato decreto, ebbero origine tutti quegli estremi mali, a cui fu sottoposta Venezia, e le cui conseguenze per lunghi anni ancora si avranno a deplorare, ed è ben da stupirsi come un’assemblea abbia potuto lasciarsi abbagliare a tal segno da chi fino allora aveva date si poche caparre d’ingegno e di onestà. Dell’inettezza e slealtà del Governo parlava la gelosia dimostrala del proprio potere che lo faceva guardar biecamente e sfrattare chiunque cominciasse ad acquistare opinion pubblica o popolarità; parlava il costante allontanamento degli onesti ed intelligenti dai pubblici impieghi; parlava l’estrema corruttela introdotta in ogni ramo d’amministrazione; parlava la dilapidazione dell’erario, frullo degli enormi sacrificj dei cittadini; parlava l’assoluta mancanza di provvedimenti onde rendere meno pesante il servigio alle truppe incadaverite dalle febbri, da cui restava colpito ognuno tostochè si avesse presentato sui forti; parlavano quelle promozioni a gradi militari di individui macchiati di ogni sorta di turpitudini, il vero merito negletto, la sfrontatezza e la millanteria innalzata; parlava la guardia nazionale presieduta da inetti aderenti del Governo, trascurata affatto nella sua istruzione, e che si poteva risguardare, non già come la forza armata del popolo, ma come molta del Governo: parlava l’alterigia dei pubblici funzionarj, ognuno dei quali era un despota; parlava un Comitato di vigilanza, che per imbecillità, arbitrii, soperchierie de’ suoi membri era caduto nella generale esecrazione; parlavano le carceri riboccanti di onesti cittadini colà gettati dall’odio personale dei vili proposti; parlava il permesso monopolio dei generi di vittuaria; parlava finalmente il baccante gavazzar della plebaglia e l’insoccorsa inedia del probo cittadino (159).
Tale era la fazione che in Venezia volle la guerra, e la ebbe. E quanto ai fatti che qui dal nostro autore ci si palesano, essi non lasciano verun dubbio, che anche la difesa di Venezia non ebbe niente affatto di spontaneo, e che anch’essa non fu che l’opera del terrorismo rivoluzionario.
Quanto alle forze militari delle quali il governo rivoluzionario Veneziano disponeva, esse erano considerevoli, e ammontavano già in luglio del 1848 a poco meno di 20 mila uomini. «Guardie civiche mobilizzate» cosi leggesi nella Storia dell’assedio di Venezia alla quale qui ricorro, «squadre di veneti crociati e volontarj, civiche legioni pontificie o lombarde, frazioni distaccatesi dall’armata napoletana, studenti, cacciatori, reliquie di corpi distrutti o disfatti, pellegrini, avventurieri d’ogni parte d’Italia, ed anche di Francia, di Svizzera e di Pologna erano in Venezia, o giunsero in quel torno. In breve le forze propriamente venete delle quattro armi, infanteria, cavalleria, artiglieria e genio, formavano un complesso di 13833 uomini; e gli alleati e sussidiarj quello di 6124, per cui il presidio intiero di Venezia e dell’estuario, fuor delle truppe maritime e dell’arsenale, ossia l’esercito di cui si disponeva nei forti, e verso la terraferma, era di 19843 uomini (160)».
Secondo il signor Cantù avrebbe il generale Pepe, napoletano, condotto in Venezia un battaglione di cacciatori e due di volontarj napoletani, uno di lombardi, uno di bolognesi e una balleria di campagna. Se le qui addotte ciffre fossero esatte, avrebbe Venezia fornito alla propria difesa in proporzione della sua popolazione (114 mila anime) un senza confronto magg ior numero di combattenti, che non ne ha fornito Roma alla sua.
Il blocco di Venezia per terra non incominciò se non dopo la resa di Treviso, e dopo la sommissione, di tutto il paese veneto, Osoppo eccettuato, e Fu un’impresa difficilissima. Gli Austriaci occuparono Mestre il giorno 18 giugno 1848, e successivamente tutto l’arco formato dai canali che derivano le acque dolci dalle Lagune, il quale si estende dallo sbocco del Sile sino a quello dell’Adige, e misura oltre a 50 miglia italiane, mentre i Veneziani erano in possesso della di lui corda e lo minacciavano tutto da una estremità all’altra da posti poco distanti e agli Austriaci inaccessibili, spezialmente dalla città, cioè da Venezia, qual centro del sistema di difesa, mediante il ponte di pietra e dal forte, o per dir meglio dalla fortezza di Marghera, che n’è il «tête—de—pont». Il vero è peraltro, che l’esercito di Venezia non tirò verun partito da questa sua vantaggiosissima posizione. Il blocco per mare non potè aver luogo se non dopo la partenza della flotta sarda, e andò anch’esso come quello di terra soggetto a delle grandi difficoltà, tanto per là ristrettezza del naviglio che vi si potè dedicare, che per la moltiplicità dei porti che dovevano guardarsi. E non fu se non un mese dopo la battaglia e l’armistizio di Novara, che vi ebbe principio la guerra attiva con il formate assedio di Marghera, il quale durò dalla notte dei 2 ai 30 di aprile sino a quella dei 25 ai 26 di maggio, nella quale quella piazza fu subitaneamente abbandonata, ancorché vi avesse il modo di cangiarne i difensori, nel caso avessero sofferto perdile considerevoli, o le veglie ed il travaglio li avessero sfiniti.
Con Marghera cadde anche la prossima isola detta di San—Giuliano, l’occupazione della quale ravvicinò gli Austriaci molto alla città, ma sempre non quanto faceva d’uopo per raggiungerla con la loro artiglieria e scuoterne il popolo, e indurlo a liberarsi da’ suoi tiranni. Ma finalmente pur n’ebbero di una molto maggior portata, e che col modo di postarla, potè accrescersi. La notte dei 2ai 30 luglio lanciavansi senza interruzione dalle batterie austriache palle roventi che giungevano sino a poca distanza dalla piazza di San—Marco, e che sparsero lo spavento e la costernazione su più di due terzi della città, che furono dai loro abitanti abbandonati. Alla guerra che ora vi piombava si associò anche il coleca, sicché una specie di peste, ed anche la fame. Ma niente valse ad ammolire il cuore dello spietato dittatore che vi imperava, e che vi disponeva di forze cosi imponenti, che nessuno osava senza correre il pericolo di essere incarcerato lasciarsi scappare neppur un lamento, e tanto meno un grido di opposizione e di resistenza a’ suoi dettami. Nessuno gli prestava più la minima fede, non per tanto continuava egli ad annunciare potentissimi soccorsi, ora dalla Francia, ora dall’Inghilterra, ora dall’Ungheria. Con questi bugiardi pretesti prolungaronsi alla sciagurata città i dolori e gli spasimi sino a che il giorno 18 agosto vi ebbero degli indizj, che nel di lei popolo la pazienza disponevasi a trasformarsi in furore. Manin e i suoi satelliti cominciarono a tremare. Il municipio sorti da’ suoi ceppi, potè definitivamente trattare, e il giorno 24 del detto mese conchiudere. Il giorno seguente sventolavano i colori austriaci di nuovo sulla piazza di San—Marco, e sui forti che cingono Venezia.
Che se qui ricerchiamo, come abbiam fatto in riguardo alla difesa di Brescia di Bologna di Ancona e di Roma, sino a qual segno la difesa di Venezia sia stata una difesa spontanea e nazionale, sono certo, di non dire se non la pura verità, dicendo, che anch’essa non fu se non l’opera di un immane terrorismo, però facilitata in un modo particolare dal di lei elemento topografico, e che anch’essa non ebbe nulla di spontaneo e di nazionale.
La guerra veneziana consumò per sé stessa, ciò è vero, poche vite. I Veneziani non vi ebbero che 210, gli Austriaci inclusivamente a 8 ufficiali che 236 morti, i primi 820, i secondi, inclusivamente a 13 ufficiali, 444 feriti. Ma tanto maggiori furono le perdite da ambe le parti per malattie. La truppa in Venezia si trovò ridotta alla fine a soli 11554 uomini. Nell’armata austriaca la mortalità fu ancora e di molto maggiore. L’artiglieria veneziana fece certamente prova di molto valore tanto nella difesa di Marghera, che nella incessante tolta della batteria sul piazzale della strada ferrala con le batterie austriache che la bersagliavano dall’isola di San—Giuliano. E anche l’infanteria fece in diversi incontri bene. La marina all’incontro si condusse tanto male, che peggio non avrebbe potuto condursi; né altro si poteva aspettare da gente che aveva infamemente calpestalo il suo giuramento. L’autore della storia dell’assedio di Venezia qui da me più volle citalo, cosi finisce il suo opuscolo:
«La resistenza di Venezia dovrà biasimarsi sino a tanto che, a fondamento degli umani giudizj, starà fermo il principio, in qualunque impresa doversi avere un ragionevole intendimento, una probabile riuscita; i dispendj dover essere proporzionali all’utilità probabile e certa da derivarsi dall’impresa. Ed in quanto alle rivoluzioni, non è difficile farne: un momento d’irreflessione, un poco di audacia talvolta possono bastare a compierle, ma compiute che sieno, quali ne sono le conseguenze? Lutto e pentimento. Ma i rivoluzionari vestano pure il cilicio, si coprano pure di cenere; qual pena che si vorranno imporre varrà ad espiare la loro colpa di aver cagionato tanti danni di sostanze e di sangue ai loro concittadini? Ed a quale sacrificio potranno essi assoggettarsi per meritare l’assoluzione dei posteri? Miseri!»
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Noi abbiamo nei procedenti capitoli, cosi mi sembra, potuto e dovuto convincersi cogli studj, che vi si sono esposti, che la questione cosi detta italiana, ha per oggetto e per iscopo una causa pessima, ingiusta, iniqua, sovversiva di ogni ordine, e la quale in fondo non è che un’idea, e un’idea sconsiderata e insensata, un’idea che poggia intieramente sul falso e su principj incompatibili, i quali si contraddicono e vicendevolmente si distruggono, con pretensioni assurde, che non si saprebbero attuare se non in onta agli esistenti trattati, e mettendo sotto—sopra e disfacendo l’Europa. In questo capitolo i fatti che vi si sono contemplati ed istudiati ci dicono e c’insegnano: che la questione, detta italiana, ma affatto impropriamente, e che dal 1815 al 1831 avrebbe dovuto denominarsi la questione carbonara e poi la questione Mazzini, ed in seguito la questione Balbo—Gioberti, e dal 1840 in poi la questione sardo—piemontese, non è, tanto ne’ suoi rapporti generali che ne’ suoi rapporti particolari e speziali, e tanto nei suoi principj che nelle sue conseguenze, altro che un tessuto d’illusioni, d’inganni, di fantasmagorie, di menzogne e di calunnie, nel quale si avverrà in un modo e in un grado superlativo il «mentita est iniquités sibi».
Essi, parlo degli studj che si sono in questo capitolo esposti, ci dicono e c’insegnano 1.° che il vero popolo italiano non ha mai riconosciuta cotesta questione per sua, e che l’ingenito suo buon senso gliel’ha fatta sempre e ovunque con disprezzo respingere; come anche che esso, nelle guerre, ribellioni e insurrezioni, con le quali i rivoluzionarj hanno dal 1815 in poi funestata l’Italia, si è sempre trovato nel campo che loro fece la guerra, cioè in quello dell’ordine, della pace, della legittimità, della fede ai trattati, della verità, e della giustizia. 2.° Che nelle dette ribellioni i sommovitori sono stati sempre e dapertutto una minima frazione della rispettiva popolazione; e che queste vi furono sempre col mezzo di una abominevole tattica, loro malgrado, strascinate, e mediante delle atrocità compromesse, e poste in situazioni a dover farsi loro complici e perseverarvi. 3.° Che fra tutto queste ribellioni non ve ne ha neppur una che fosse motivata, cioè che si fosse dai rispettivi governi con un sopruso del potere, con una malefica e tirannica disposizione, o anche con una ritrosia a fare il bene e a rimediare al male, provvocata. Le riforme dai rivoluzionarj addimandate non furono mai, assolutamente mai, se non maliziosi pretesti i degli agira-cervelli per guadagnare con le loro mene l’opinione pubblica nell’estero, e il suffragio dei gabinetti di Francia, d’Inghilterra, di Prussia e di Russia; come le concessioni che coloro ottennero non furono mai usate, se non come leve e molle rivoluzionarie. 4.° I capi ribellanti non furono mai se non persone divorate dall’empia ambizione d’immortalizzare il loro nome a qualunque costo, e se non altrimenti con l’eccidio della loro patria, o da quella di sovrastare e comandare agli altri, o dal bisogno di occupar posti lucrosi; e i loro partigiani sempre o gente attinente alla feccia della popolazione, vendutasi alla rivoluzione, o oziosi della classe agiata che devono aver qualche cosa da fare «per non impinguar troppo, e acciò in essi non si sviluppi in grassume quello che deve fortificare i muscoli (161)».
Ecco i veri imperché pei quali l’Europa ba du disfarsi, e ad andar tutta sotto—sopra.
Nel seguente capitolo, che sarà l’ultimo, istudieremo i mezzi, se non di porre un fine all’agitazione tanto attiva che passiva italiana, almeno di confinare la prima negli Erostrati, e negli affamati del potere e dell’oro, e la seconda negli incorreggibili.
CAPITOLO VIII
Sugli elementi o fattori provvidenziali, che finora
banno determinato i destini d’Italia, e sulla necessità,
per essa e per l’Europa tutta di studiarli e di conoscerli a fondo, e di tenerne il massimo conto.
Il dettato: conosci te stesso, tanto inculcato dai Sapienti d’ogni età, e che implica anche l’altro non men commendevole né men necessario: «istudiati», qual mezzo prossimo e immediato di riuscire ad attuare il primo; e cosi quelle gravissime parole di un antico, che in italiano suonano:
«Ad esser tale, qual Iddio ti volle,
Ed il tuo posto nelle umane cose
Apprendi (162)».
risguardano non solo noi singoli mortali come individui, ma anche i popoli, anche gli Stati. L’uomo che non si conosce, che non si è studiato, che è al bujo delle sue forze e della loro portata, e al quale la propria situazione è una terra incognita, si troverà su di una strada, che invece di avvicinarlo alla meta, non cesserà di allontanarnelo. Egli finirà per cadere in qualche abisso. Istessamente, un popolo, o uno Stato non riuscirà mai, senza studiare le sue relazioni e dipendenze, e gli elementi, fattori, agenti, o cause, che si voglia dirti, i quali banno determinato il suo passato, a darsi quell’avvenire che maggiormente e veramente gli conviene; non verrà mai a conoscere la vera sua missione provvidenziale, e se ne darà invece una, che nulla avrà che fare con quella che gli era destinata e riservata. Le conseguenze del darsi una missione falsa sono sempre amare e tormentose. I popoli e gli Stati, che si mettono in un simile caso. Sono, l’ho già detto e qui lo ripeto: il proprio flagello, e il flagello dei loro vicini. — Iddio permette talvolta che un popolo o uno Stato si dia sino una missione satanica, come sarebbe l’incendiare la propria casa, per veder ardere quella dei suoi vicini. Egli è questo uno dei suoi più tremendi modi di castigare la corruzione e depravazione del secolo.
I destini di un popolo, di un paese, o di uno Stato sono il prodotto di varj e di molti e diversi fattori, dei quali taluni durevoli, permanenti, indistruttibili, perciò da dirai, come li dico, provvidenziali, e taluni variabili, accidentali, transitorj: alcuni chiari e manifesti, parlanti ai nostri sensi; ed altri nascosti, reconditi e latenti, che non si palesano se non negli avvenimenti da essi causati, dimodoché conviene indagarli nei ragguagli che di questi si hanno; la quale indagine è poi tutt’altra che facile. — Or se anche talvolta sta nel potere dell’uomo di padroneggiare i detti fattori, e anche, se non di tutti, di alcuni di modificarne, rinforzarne, neutralizzarne, e sino d’invertirne l’azione; il caso è però per l’ordinario tutt’’altro; vedendosi per lo più risultare dall’azione complessiva dei detti fattori, una di quelle situazioni, che i Francesi designano con le parole: «Force des choses» (163) rimpetto alla quale l’uomo riflessivo e prudente si vede forzato, a scanso di mali maggiori, e onde lu situazione non peggiori di assai, e non si converta in un conquasso, o in un abisso, di fermarsi, e talvolta d’indietreggiare. Fortunato lui se lo può fare con una tal quale spontaneità, ed a tempo.
Questi pochi cenni basteranno, cosi mi sembra, per comprendere la necessità che vi la per l’Italia di uno studio esteso, profondo, esauriente dei fattori che ne hanno finora determinati i destini, ossia degli elementi fattivi della di lei storia, fra i quali primeggiano, come l’ho notato nelle prime pagine del sesto capitolo di questi miei studj, l’elemento geografico, l’elemento topografico, e l’elemento etnografico; da me degli elementi provvidenziali, perché il loro principio attivo è indistruttibile, per quanto la loro azione particolare possa nell’azione complessiva di tutti gli agenti, e entro certi limiti e per un maggior o minor spazio di tempo anche dall’uomo, modificarsi, sospendersi o ammortirsi. L’ordine derivante dai summenzionati elementi tende sempre a riprodursi e il:
«Naturam expellas furca, tandem usque recurret.»
non manca mai in riguardo ad essi di tosto o tardi avverarsi.
Ha mai l’Italia istudiati questi elementi? Li hanno mai istudiati per lo meno i di lei Istoriografi, ai quali pur incombeva non solo di ricordare gli avvenimenti patrii, ma anche, onde servissero di lezione ai posteri, di spiegarli, e di addurne le cause efficienti? Se uno di questi devo avervi ben seriamente pensato, quel desso è immancabilmente il Segretario fiorentino Niccolò Machiavelli, tanto per l’acume e la potenza della sua mente, ammiralo ed ammirabile. In fatti ha esso più di una volta e primieramente ne’ suoi Discorsi sopra la Prima Deca di Tito—Livio, e più tardi nelle sue Istorie Fiorentine posata la questione dell’unità e dell’indipendenza d’Italia, indirettamente se si vuole, ma pure nettamente e con molta precisione. Egli vi si addimanda, qual sia la causa, che l’Italia non era come Francia e come Spagna unita, e capace di difendere la sua indipendenza, e di respingere le invasioni dello Straniero. — Non collimano queste dimande con la seguente: Quali sono le cause fattive determinanti dei destini d’’Italia e della sua storia? — La risposta non saprebbe essere se non affermativa, ed io perciò non dubitava, che, per sciogliere il problema, il nostro Segretario avesse riandato tutte le incursioni dei Barbari, e tutti i cangiamenti di dominio che l’Italia ebbe a soffrire da’ tempi di Onorio in poi; le quali incursioni ebbero luogo dai 400 sino al 568, dunque per più di un secolo e mezzo, e mentre l’Italia era ancora unita, giacché non la fu spartiti in più Stati se non con la venuta dei Longobardi. — M’ingannava la grande fama di quel Grande, che non pensò, e sarei per dire, che non volle pensare a’ quel tempi, i quali avrebbero troppo chiariti gli ostacoli che si opponevano all’idea della quale era invaso e che egli voleva far valere. I Barbari che s’impadronirono dell’Italia sarebbero stati contentissimi di tenersela unita; il Machiavelli si astenne dall’avvicinarsi a dei tempi, nei quali l’Italia non solo era unita, ma eransi inoltre compile tutte le condizioni esterne della di lei indipendenza, pur troppo senza che ne potessero impedire lo sfasciamento. Ora parli il nostro Segretario, Ascoltiamolo.
«E veramente alcuna provincia non fu mai unita o felice, se ella non viene tutta alla ubbidienza d’una repubblica o d’un principe, come è avvenuto alla Francia è alla Spagna. E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch’ella o una repubblica, o un principe che la governi, è solamente la Chiesa; perché avendovi abitalo e tenuto imperio temporale, non è stata si potente né di tal virtù che abbia potuto occupare il restante d’Italia, e farsene principe. E non è stata dall’altra parte si debile, che, per paura di non perdere il dominio delle cose temporali, la non ab bia potuto convocare un potente che la difenda contro a quello, che in Italia fosse diventato troppo potente, come si è veduto anticamente per assai esperienze, quando mediante Carlo Magno, fa ne cacciò i Longobardi, ch’erano già quasi Re di tutta Italia; e quando ne’ tempi nostri ella tolse la potenza ai Veneziani con l’ajuto di Francia, dipoi no cacciò i Francesi con l’ajuto degli Svizzeri. Non, essendo dunque stata la Chiesa, potente da potere occupare l’Italia, né avendo permesso che un altro la occupò è stata cagione che la non è potuta venire sotto un capo, ma è stata sotto più principi e signori da’ quali è nata tanta disunione, e tanta debolezza, che la si è condotta ad essere stata preda, non solo de’ barbari potenti, ma di qualunque l’assalta. Di che noi altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, o non con altri (164)».
Cosi scriveva il Machiavelli in un’opera che era destinata a servire di manuale ad un partito che in Firenze covava un cangiamento di governo, una rivoluzione, e la cacciala dei Medici., Questo brano non ha in riguardo all’argomento che n’è il soggetto premesso, cosicché, la sentenza: É veramente alcuna provincia non fu mai unita e felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d’una repubblica, o d’un principe, vi si fa apparire come un assioma chiaro e manifesto da sè, e il quale non abbisogna né di una dimostrazione né di essere dilucidata. A prima vista essa crederebbesi identica con la sentenza, con la quale esordiscono le Speranze d’Italia del conte Balbo: «Io parto dal fatto che l’Italia non è politicamente ben ordinata, poscia che ella non gode tutt’intiera di quello, che è primo ed essenziale fra gli ordini politici, quello che anche solo procaccia tutti gli altri buoni necessarj, quello senza cui tutti gli altri buoni son nulli o si perdono, la indipendenza nazionale. — Ma il senso e il significalo, se mal non mi appongo, n’è affatto diverso. Il Machiavelli intende di dire: che volendo fondere diversi paesi in uno Stato, si rende necessario che una repubblica o un principe per amore o per forza li riduca tutti, e li abbia ridotti sotto la sua obbedienza; che da sé i paesi ed i popoli cercano il più che loro fia possibile di isolarsi, e che questa preliminare soggezione e conquista è una indispensabile condizione d’ogni loro prosperità, vale a dire, che senza di ciò non vi ha fra diversi paesi accordo e pace, ma gare, collisioni, lotte, e un reciproco respingersi. Tutto ciò è bastantemente ragionevole; mentre in vece il preteso assioma balbiano è sostanzialmente assurdo. Stando a quest’ultimo l’Alsazia paese tedesco, l’ho già detto, ma qui devo ripeterlo, per essere aggiunto alla Francia non saprebbe prosperare, e sarebbe inoltre un impedimento ad ogni prosperità per tutta la Germania; la Savoja, paese francese aggiunto al Piemonte paese italiano, sarebbe nell’istesso caso come l’Alsazia, e la Francia nell’istesso caso come la Germania; e cosi il canton Tesino paese italiano, perché annesso alla Svizzera non saprebbe essere felice, e non saprebbe esserlo neppur l’Italia. — L’assioma del Machiavelli non ha nulla che ne impedisca l’ammissione, mentre quello del conte Balbo è al di sotto di ogni critica.
Or dimando io: se per unire in uno Stato più paesi, come sonosi uniti quelli che formano Francia e Spagna, era, ed è necessario, che una repubblica o un principe se li sottometta, vale a dire, ne faccia la conquista, che colpa hanno i Pontefici se non si è fatto lo stesso con i paesi coi quali dovevasi fare l’Italia? E se un Pontefice chiamò Carlo Magno in Italia, che infatti si assoggettò la maggior parte di essa e ne fece la conquista, non fu questo il primo passo per compiere la condizione posta dal Machiavelli dell’unione e della fusione in uno stato dei paesi italiani? Dicendo, che la Chiesa perché non a sufficienza potente da occupare e conquistare tutta l’Italia non ha permesso che un altro la occupi e la conquisti, il Machiavelli si mette evidentemente in contraddizione con la chiamala di Carlo Magno in Italia da lui attribuita al Papa allora regnante, Adriano I, e con la conquista dell’Italia per parte del detto Imperatore. Il Machiavelli dunque discolpa egli stesso la Chiesa dall’imputazione da lui messa in campo contro la medesima. E perciò conchiudiamo che il Machiavelli non fa nei suoi Discorsi sopra la Prima Deca di Tito—Livio mostra di aver studiata col suo solito acume le cause della spartizione dell’Italia in più Stati, né quella della di lei nessuna attitudine a respingere le invasioni forastiere.
Ma egli ha trattalo lo stesso argomento, come l’ho dissopra avvertito, però alcuni anni più lardi ed ai tempi di Clemente VII anche nelle sue Istorie fiorentine. Egli vi discorre come segue:
«Seguitando i Papi ora di essere amici dei Longobardi, ora dei Greci, la loro dignità accrescevano. Ma seguita di poi la rovina dell’Imperio Orientale la quale segui in questi tempi sollo Eraclio Imperatore, perché i popoli Slavi, dei quali facemmo disopra menzione assaltarono di nuovo l’Illiria, e quella occupata chiamarono dal nome loro Sclavonia, e le altri parti di quello Imperio furono prima assaltalo dai Persi, dipoi dai Saraceni, i quali sollo Maometto uscirono di Arabia, ed in ultimo dai Turchi, e toltogli la Soria, l’Affrica e l’Egitto, non resta va al Papa per l’impotenza di quello Imperio più comodità di rifuggire a quello nelle sue oppressioni; e dall’altro canto crescendo le forze dei Longobardi, pensò che gli bisognava cerca re nuovi favori, e ricorse in Francia a quei Re. Dimodoché tutte le guerre che a questi tempi furono dai barbari fatte in Italia, furono la maggior parte dai Pontefici causale, e tutti i barbari che quella inondarono, furono il più delle volte da quelli chiamati. Il qual modo di procedere dura ancora in nostri tempi, il che ba tenuto e tiene l’Italia disunita ed inferma… Dico poi che come per venne al Papato Gregorio III, e al regno dei Longobardi Aistolfo, stccome questi contro gli accordi fatti occupò Ravenna e mosse guerra al Papa, Gregorio per le ragioni soprascritte, non confidando nell’imperatore di Costantinopoli per esser debole, né volendo credere alla fede dei Longobardi, che l’avevano molte volte rotta, ricorse in Francia a Pipino II per ajuto che promise mandarlo… Mori dipoi Pipino, e successe nel regno Carlo suo figliuolo… Al Papato era intanto successe Teodoro primo. Costui venne in discordia con Desiderio che era succeduto a Aistolfo, e fu assedialo in Roma da lui, talché, il Papa ricorse per ajuto a Carlo, il quale superate le Alpi assediò Desiderio in Pavia, e prese lui e i figlioli, e gli mandò prigioni in Francia (165).» — In questa guisa fin l’anno 774 il regno dei Longobardi che aveva duralo oltre a due secoli.
Il Machiavelli ripiglia nelle sue Istorie fiorentine le medesime infondate e false accuse contro i Pontefici, ove paria detta venuta in Italia di Carlo d’Angiò principe francese fratello del Re di Francia, chiamato, in suo soccorso contro Manfredi Re di Napoli e di Sicilia da Urbano IV. Secondo lui i Pontefici indotti dai timori che loro inspirava la sempre crescente potenza di quel Re si sarebbero rivolti all’Imperatore Ridolfo per abbatterla. — Ma il fatto è tutt’altro. «Seguitava» dice egli «Manfredi Re di Napoli le inimicizie contro la Chiesa secondo i suoi antenati, e tenea il Papa che si chiamava Urbano IV in continue angustie; tante che il Pontefice per domarlo gli convocò la Crociata contro, e ne andò ad aspettare le genti a Perugia. E parendogli che le genti venissero poche pensò che a vincere Manfredi bisognassero più certi ajuti, e si volse per i favori in Francia e creò Re di Sicilia e di Napoli Carlo d’Angiò. Vinto poi Manfredi e morto, e vinto e morto anche il di lui figlio Corradino, Carlo sali sul trono delle due Sicilie. In questo mezzo stette l’Italia tranquilla, tanto che successe al Pontificato Adriano V. E stando Carlo a Roma, e quella governando per l’uffizio che egli aveva di Senatore, il Papa non poteva sopportare la sua presenza e se n’andò ad abitare a Viterbo, e sollecitava Ridolfo a venire in Italia contro Carlo. E cosi i Pontefici ora per carità della Religione, ora per loro propria ambizione non cessavano di chiamare in Italia umori nuovi, e suscitare nuove guerre; o poiché eglino avevano fatta potente un principe se ne pentivano e cercavano la sua rovina, né permettevano che quella provincia la quale per la loro debolezza non potevano possedere altri la possedesse (166)».
Il Machiavelli ha nelle or citate pagine dato une smentita al detto:
« che cime di giudizio non si avvalla»
Egli non ha istudiato il suo soggetto come, volend0 adeguatamente rispondere alle domande. che, egli si, faceva, avrebbe dovuto istudiarlo. Prescindendo che vi avrebbe tanto da rettificare nei fatti da lui adotti u sostegno delle sue tesi, i quali se rettificati conducono in parte a tutt’altre conclusioni, che non sono quelle, che egli ne ha dedotte su di che voglia il Lettore ricorrere agli annali del Muratori che gli offriranno nei rispettivi anni tutti i mezzi per giungere al vero — anche prescindendo da ciò, non si sa comprendere come un pensatore di tanto acume e di tanta penetrazione non si sia accorto, ch i per decidere per esempio Pepino 6 Carlo Magno a passare le Alpi, e a incominciare una guerra in Italia coi Longobardi non bastava che essi Vi si chiamassero dai Pontefici; e che se quei Re si mossero, ciò fu perché le circostanze erano tali dà essere sicuri del buon esito della guerra, il quale dipendeva dall’ascendente sull’Italia—continente che dava ai Franchi l’essere padroni delle Alpi dalle Alpi—Cozzie sino al Quarnero. Se anche si voglia ammettere, che la situazione precaria dei Pontefici rimpetto ai Longobardi, e il bisogno che essi avevano di essere protetti contro le violenze dei Longobardi inspirassero ai Re Cristianissimi figli primogeniti della Chiesa sentimenti di doverosa devozione per essa, questi sentimenti possono bensì aver accelerala l’impresa, ma non ne furono certamente l’incentivo vero e principale. Quei Re avrebbero già ai tempi di Carlo—Martello tolta l’Italia ai Longobardi ed ai Greci, se loro non avessero dato tanto da fare i Saraceni.
La storia diceva e insegnava al Machiavelli a chiarissime note, che l’Italia non ebbe neppure ai tempi della repubblica romana sia il modo sia i mezzi d’impedire ai Barbari di discendervi; che vi vollero degli sforzi superiori di molto a quelli dei quali essa da sé sola sarebbe stata capace, per ripararsi dai Pirati che ai tempi di Pompeo, di Cicerone e di Giulio—Cesare, non solo ne infestavano le coste, ma rendevano l’interno del paese, fuorché nelle città murate, inabitabile; che Pompeo non ebbe il modo di difenderla contro le legioni di Giulio Cesare reclutata per la maggior parte con gente che a Roma passava per barbare, cioè cisalpine, veneta, e ligure; che Galba non la difese contro Ottone, Ottone non contro Vitellio, Vitellio non contro Vespasiano, e cosi via via sino a Massimo ed Eugenio che non valsero a difenderla contro Teodosio. In tutte queste guerre il pretendente all’Impero che vinse, assaliva l’Italia dal lato delle Alpi e ne discendeva. come non arguire da una tale serie. di fatti la dipendenza provvidenziale dell’Italia da quei monti? come non vedervi il dito di Dio? Ve lo pur vedeva nelle Alpi già Cicerone? (167)
L’Italia dopo che Teodosio ebbe diviso l’Impero Romano fra i suoi due figli, Arcadio e Onorio, non potè più, quando assalivasi dai Barbari, contare come pel passato sui soccorsi di tutto un mondo; anzi frappoco neppur sui soccorsi delle provincie addette alla stessa ripartizione dell’Impero, cioè a quella dell’Impero d’Occidente, che contemporaneamente invadevasi anche nelle Gallie, nella Rezia, nel Norico, nella Pannonia. La restà però unila. Ma, perdute le Alpi e perduto il dominio del mare, non la ebbe più pace né riposo; e isolala, le mance intieramente ogni altitudine a difendersi. I primi ad entrarvi furono in quei tempi i Goti, che vi vennero attraversando le Alpi—Giulio. Essi non solo la percorsero in ogni direzione e da un capo all’altro, ma presero anche Roma o la misero a sacco. (a. 409.) E lo stesso fecero nel 455 i Vandali che vi vennero dall’Africa per mare. Attila che aveva tentato d’impadronirsi nel 451 delle Gallie ma che ne fu respinto, si rivolse l’anno seguente verso l’Italia; vi penetrò, e giunse sino al Po, ove si fermò; ma non solo saccheggiò tutto l’angolo orientale d’Italia, e quasi tutta l’Italia transpadana, ma vi distrusse anche, a cominciare da Aquileja, poco non che tutte le città che vi avevano, e fra le altre anche Verona. E finalmente l’invasero nel 476 gli Eruli ed i Rugi, condottivi da Odoacre, sotto ai colpi dei quali ]’Impero d’Occidente ebbe a crollare senza più poter rilevarsi. Anche allora aveavi il vezzo di ricorrere per spiegare le sciagure d’Italia a delle cause immaginarie ed assurde; anche allora era alla Chiesa, cioè al Cristianesimo, che quei Romani che erano rimasti idolatri, attribuivano la caduta dell’Impero (168).
L’Italia aveva in Odoacre un Re di molta capacità tanto in guerra che in pace. Era desso, ancorché barbaro di provenienza e di nascila, umanissimo; e ancorché ariano, come lo erano gli Eruli e tutte le sue genti, non che dare qualsisia fastidio alla Chiesa cattolica la protesse in ogni occasione. Egli comprese benissimo la dipendenza dell’Italia—penisola dai due mari nei quali la avanza, e cosi quella dell’Italia—continente dalle sovrastanti Alpi; e non mancò di diminuire l’una col far sua la Dalmazia, e l’altra coll’estendere i limiti del regno sino al Danubio, e coll’impadronirsi del Norico. Ma già disponevansi alle di lui spalle in Oriente nella Pannonia o nella Mesia gli Ostrogoti sotto Teodorico loro Re, i quali malcontenti del paese ove stanziavano ne cercavano un migliore e sapevano che lo troverebbero oltre le Alpi, ad assalire l’Italia. Fu in riflesso a questa circostanza e alla necessità di concentrare le sue forze, e di tenerle unite, che Odoacre si decise di abbandonare tutti i suoi possedimenti alpini (169).
La sua situazione era certamente tanto più critica, che vi avevano nella Gallia Meridionale e nelle Alpi Occidentali dei connazionali degli Ostrogoti, vale a dire i Visigoti, i quali secondo ogni probabilità avrebbero assalita l’Italia—continente all’Occidente, al primo avviso che avrebbero avuto, che i loro confratelli l’assalivano all’Oriente. Egli non portante non si perdette d’animo, si rinforzò nell’Italia coll’attirarvi il più che potè degli abitanti del Norico che doveva essere gente accostumala ed alla alla guerra; e cercò di guadagnarsi i popoli dei paesi, che Teodorico sul suo cammino doveva traversare, e d’indurli a contrastargli il passo.
L’invasione della quale l’Italia era minacciata non tardò ad avverarsi. Teodorico si mise in marcia per avvicinarsi alle Alpi—Giulie e per superarle nella seconda metà del 488; incontrò nel suo cammino una non lieve resistenza per parte dei Gepidi, dei Sarmati e dei Bulgari, dovette valicare lo Alpi nel forte dell’inverno, e non giunse sul Lisonzo, ai piedi del versante occidentale di quei monti, se non lardi nel mese di marzo 489, ove trovò Odoacre che lo aspettava. Si venne ad una battaglia che andò per quest’ultimo perduta; se ne diede in seguito una seconda sull’Adige presso Verona, nella quale Odoacre non fu più fortunato che nella prima, e che valse a Teodorico la detta città. Questo corse poi su Milano, ove, dice il Muratori, trovavasi il miglior nerbo delle forze di Odoacre, ma le quali si diedero per la maggior parte a lui, e ove non pochi accorsero dai paesi vicini e anche da Payra a riconoscerlo per loro Signore. Odoacre col rimanente dei suo esercito, dopo aver munito e presidiato Ravenna e Cremona si mise in marcia per Roma coll’intendimento di farne il perno della guerra. Senonché gli furono chiuse le porte, cosicché gli fu giuoco forza di riguadagnare il Pò, e di rannodare le sue genti attorno a Ravenna. Non può certamente non sorprendere la condotta degli Italiani in quei terribili momenti, giacché pur non si trattava di altro che d’iscambiare un padrone che conoscevano, e che aveva reso degli eminenti servigj alla loro patria, per uno che non conoscevano se non come attinente ad un popolo della stessa schiatta di quello, che nel primo decennio del secolo, aveva percorsa, devastandola, più volle l’Italia, e posta Roma a sacco.
Comunque ciò sia, la condizione di Odoacre contro ogni aspettazione si migliorò, e lo mise in istato di riprendere l’offensiva, ancorché Teodorico ricevesse dai Visigoti dei rinforzi. In quel mezzo discesero i Borgognoni dalle loro Alpi, posero a soqquadro il sottoposto angolo Nordwest dell’Italia—continente, presero Milano, e, dato il guasto con straordinaria ferocità a tutto il paese, ritornarono alle loro case, strascinando seco un immenso numero di prigioni d’ogni sesso e d’ogni età. Odoacre diede a Teodorico il giorno 11 agosto del 490 sull’Adda ancora una battaglia, la quale ebbe per lui un esito non men disastroso delle precedenti. Ricoveratosi a Ravenna, vi si mantenne, dando con le frequenti vigorose sue sortite non poco da fare al suo avversario, finché la fame lo costrinse ad arrendersi, (5 marzo 493.) Teodorico lo trattò da prima con grandi riguardi; ma poi un giorno, ciò che possa avervelo indotto non si sa, l’uccise di sua mano, e ordinò lo sterminio delle di lui genti (170).
Vi hanno poche guerre nelle quali il carattere tragico si trovi più pronunciato che in quella, che Odoacre sostenne contro Teodorico, e contro gli elementi fattivi della storia e dei destini d’Italia. L’Italia—contiente, l’Italia—penisola e. l’Italia—isola, questa almeno in riguardo alla Sicilia, erano unite. Vi mancavano la Sardegna e la Corsica, ma le quali per Odoacre sarebbero state non un ajuto ma un peso. Le tre Italie avevano un Re di gran senno, valoroso, attivo, impegnatissimo ad assicurare al suo regno sa avveniro prosperoso. D di lui esercito, comecché i più grandi disastri non giunsero scoraggiarlo deve essere stato in nulla inferiore agli eserciti degli antichi Romani. Nel regno di Odoacre compivansi tutte le condizioni poste dal Machiavelli ad un regno italiano per difendersi contro le invasioni forastiere. Quali furono le cause della caduta di quello di Odoacre? — Esso cadde perché non si può fare delle Ire Italie un sol fascio e legarle assieme in un modo durevole, e impedirle di staccarsi da sé, e perché Odoacre non ebbe il modo di tenerle assieme. Esso si trovò nella necessità di concentrare le sue Forze nell’Italia—continente, ed ecco che l’Italia—penisola abbandonata a sé stessa, e non a sufficienza presidiala perché troppo distante, si stacca dall’Italia—continente invece di concorrere alla di lui difesa. Odoacre passa il Po per annodarvi il suo esercito; ed ecco che Milano apre le porte e si dà a Teodorico con tutta l’Italia transpadana, contenta di cangiar padrone. Il suo regno cadde perché nessun regno d’Italia può sussistere senza essere padrone delle Alpi in tutta la loro estensione, e senza che l’Adriatico e il Mediterraneo siano laghi italiani.
Il nostro Segretario non si è data la pena d’istudiare la storia del primo regno d’Italia; esso — non l’ha istudiata, e non ha istudiato il gran movimento dei popoli orientali e settentrionali che scompaginò l’Impero Romano e abbatté l’Impero d’Occidente. Egli ha considerato quel diluvio di genti che dall’Asia si rovesciò sull’Europa, come lo scarico di una popolazione sovrabbondante, simile quello ai quale ricorrevano gli antichi Greci quando il paese che abitavano non bastava alla loro sussistenza; mentre esso fu un seguito di emigrazioni di popoli, i quali vicendevolmente urtavansi e spingevansi innanti.
«I popoli» cosi egli «i quali nelle parti settentrionali di là del fiume del Reno o del Danubio abitano, sendo nati in regione generativa o sana, in tanta moltitudine molte volte crescono, che parte di loro sono necessitati abbandonare i terreni patrj, e cercare nuovi paesi per abitare. L’ordine che tengono, quando una di quelle provincie si vuole sgravare di abitatori, è, dividersi in tre parti, compartendo in modo ciascuno, che ogni parte sia di nobili e d’ignobili, di ricchi e poveri ugualmente ripiena. Dipoi quella parle, alla quale la sorte comanda, va a cercare sua fortune, e le due parti sgravate del terzo di loro si rimangono a godere i beni patrj. Queste popolazioni furono quelle, che distrussero l’Imperio Romano, alle quali ne fu data occasione dagli Imperatori, i quali avendo abbando nata Roma, sedia antica dell’Imperio, e ridottisi ad abitare in Costantinopoli, aveano fatta la parte del l’Imperio Occidentale più debole, per essere meno osservata da loro, e più esposte alle rapine dei ministri, e dei nemici di quelli».
La divisione dell’Impero Romano non fece altro che regolare un avvenimento che riproducevasi di tempo in tempo disordinatamente da sé. L’Imperio Romano era uno Stato smisurato. L’Imperio d’Occidente poteva dirsi men forte, non già più debole, dell’Imperio d’Oriente. l’uno e l’altro rimasero sufficientemente e più che sufficientemente forti. E che l’imperio d’Occidente potesse bastare e più che bastare a sé stesso, ha dimostralo col fatto il regno di Teodorico.
Machiavelli ci dà poi la storia della lotta che ebbero a sostenere contro le irruzioni dei barbari i due Imperj dai tempi di Arcadio e di Onorio sino a quelli di Zenone e del suddetto Re, e ne deduce pei suoi Italiani le seguenti certamente gravissime lezioni: «— E veramente se alcuni tempi furono mai miserabili in Italia ed in queste provincie corse dai barbari, furono quelli che da Arcadio ed Onorio infino a Teodorico erano corsi. Perché se si considererà di quanto danno sia cagione ad una repubblica o a un regno variare principe o governo, non per alcuna estrinseca forza, ma solamente per ci vile discordia, dove si vede come le poche variazioni ogni repubblica ed ogni regno, ancora che potentissimo, rovinano, si potrà di poi facilmente immaginare quanto in quei tempi patisse l’Italia e le altre provincie Romane, le quali non solamente variarono il governo e il principe, ma le leggi, i costumi, il modo del vivere, la religione, la lingua, l’abito, i nomi; le quali cose ciascuna per sé, non che tutte assieme, fariano, pensandole, non che vedendole e sopportandole, ogni fermo e costante animo spaventare (171).
Tutto ciò è bello e buono ma non spiega la detta storia che comprende uno spazio di novantatré anni, sicché poco meno di un intiero secolo.
E lo stesso è il caso di quanto si legge nell’introduzione alle di lui Storie fiorentine , sul regno di Teodorico, su quello dei Greci, e su quello dei Longobardi. L’Italia restà unita ancora ottanta anni, e non cominciò ad avere più padroni cd a spezzarsi che sotto ai Longobardi. Il più importante, la spiegazione della caduta dei detti tre regni vi manca affatto. Il Machiavelli non se n’è occupato, o non ce l’ha voluto dare. Vediamo per quanto le debole nostre forze e i limiti entro i quali devonsi questi miei studj tenersi, lo permetteranno, di ripararvi.
Teodorico non ebbe gran fatica a connettere assieme le tre Italie in nno Stato, e in qualche modo a compiere tutte le condizioni per fare dell’Italia uno Stato potentissimo e indipendente quanto mai uno Stato può esserlo in mezzo ad altri Stati. Egli intrattenne il più che gli fu possibile la pace fra gli Stati limitrofi, e professò poi particolari riguardi e una specie di rispetto e di riverenza per l’imperio d’Oriente. Erano sue oltre le tre Italie e la Dalmazia anche le Alpi in tutta la loro estensione; e fu poco men che padrone anche delle Spagne, che egli reggeva come tutore di un suo nipote. Era già l’anno sedicesimo del suo regno, e non aveva ancora una marina. l’avergli Anastasio Imperatore d’Oriente successore di Zenone nel 508 invasa per mare e saccheggiata la Calabria, gli fece comprendere la necessità di darsene una. Egli se la diede, cioè la creò. Pur troppo però se anche ebbe il modo di crearsi un naviglio, non ebbe quello di fare dei suoi Goti dei marinai. Egli morì, dopo aver regnato trentatré anni, non senza che appunto i suoi ultimi giorni non gli fossero amareggiati da sintomi di trame e di, cospirazioni per parte degli Italiani, che lo spinsero a. degli atti i quali non poco macchiarono la sua memoria. Egli ebbe a successore un suo nipote, Atalarico, il quale non contava che selle anni. In sua vece e in suo nome regnava Amalasunta sua madre e tutrice, figlia di Teodorico, donna di gran senno, di un animo virile e coltissima. Atalarico, divenuto per gli stravizzj infermiccio, mari nell’ottavo anno del suo regno, cioè nel 534. Amalasunta si prese a sposo e correggente, Teodato, un di lei cugino, uomo pessimo, che per regnar solo la chiuse in un castello, ove anche la spense. Il regno, m seguito a questa e ad altre vicende che lunghe sarebbero a dirai e per noi fuor dl proposito, si sconcertò. Goti e Italiani cospiravano alla sua caduta e rovina. Giustiniano, Imperatore d’Oriente di allora, vide in quel!’andamento di cose la possibilità di riconquistare all’Impero Romano l’Italia. Egli era riuscito poco fa ad abbattere il regno dei Vandali nell’Africa, e ad impadronirsi non solo di quella provincia, ma anche della Sardegna, della Corsica, e delle isole Baleari. L’impresa, iniziata nella seconda metà di settembre del 535 sotto la condotta di Belisario suo valentissimo generale con soli quindici mila uomini era in dicembre dello stesso anno, sicché in meno di quattro mesi, compila. Con l’Africa e le dette isole ebbe Giustiniano anche il naviglio del regno vandalico, il quale era una formidabile potenza marittima; acquisto, che gli accrebbe di molto i mezzi per la guerra d’Italia che meditava. I Goti invece dimenticando le massime e i principj di Teodorico, avevano negletto del tutto h loro marina. Questa inferiorità fu la causa, se anche non esclusiva e la sola, pur la principale della piega infelicissima che prese dai primi momenti la guerra che loro fece Giustiniano, e la quale, come tosto si vedrà, durò poco meno di venti anni. Il regno di Odoacre cadde perché gli mancava il possesso delle Alpi; quello di Teodorico perché i suoi successori perdettero il dominio dei mari che bagnano le coste italiane.
I ministri di Giustiniano erano avversi all’impresa d’Italia. La Persia dava da sé sola assai da fare all’Impero. E sembra che anche l’Imperatore vi vedesse dei grandi pericoli. Ma pur vi si decise, e fece contemporaneamente assalire la Dalmazia e la Sicilia: questa da Belisario e quella da un altro generale di vaglia, di nome Mundone. I Goti non ebbero né il tempo, né il modo di presidiare convenevolmente la Sicilia; e Belisario la potè sottomettere tutta Dello spazio di quattro mesi. Mundone fu meno fortunato. La Dalmazia non cadde in potere di Giustiniano, se non l’anno seguente, durante il quale Belisario passò in Italia, e dalla Calabria avvanzò sino a Roma, che gli fu abbandonata. Teodato, codardo e vile in un grado sorprendente paralizzava ogni resistenza. I Goti datisi finalmente un altro re in Vitige valoroso capitano della scuola di Teodorico, la guerra cangiò di carattere e divenne una guerra guerreggiata.
La situazione dei Goti rimase nondimeno sempre assai difficile e fin critica in quanto, che i Greci padroni del mare minacciavano il regno da una estremità all’altra, e che il mare apriva loro, purché non si allontanassero dalle coste, ovunque la via ai soccorsi, sia in truppe o in provigioni da bocca. Belisario potè nel terzo anno della guerra da Roma ove era, con soli mille uomini che spedi per mare a Genova, sollevare contro i Goti tutta la Liguria e Milano, e accendere alle spalle di questi una guerra terribile. D’altronde possedeva il detto generale in un grado straordinario la grand’arte di passare secondo le occorrenze dalla guerra offensiva nella guerra difensiva e viceversa, arte la quale in guerra, se anche non la è tutto, è certamente assai. Questa tattica gli sarebbe stata senza il possesso del mare più di una volta impossibile. La lunga resistenza che, opposero i Goti è una prova incontestabile, che qualora essi fossero rimasti padroni dei mari aggiacenti, come lo erano sotto Teodorico, il loro regno si sarebbe sostenuto. A che dovette Totila i suoi successi? Li dovette all’aver esso compresa la necessità, per vincere, di darsi un naviglio, e che egli riusci a darselo, se anche non superiore a quello dei Greci, pur tale che potesse con esso lottare. Misura di una immensa portata, che gli forni i mezzi di riconquistare tutta l’Italia—continente, tutta l’Italia—penisola, e sino tutta l’Italia—isola cioè la Sicilia, la Sardegna e la Corsica. Ma neppur egli non ebbe il tempo di fare dei suoi Goti dei marinai. l’armata dei Greci alla quale Totila, che aveva tutto le virtù di Teodorico senza i suoi difetti in ultimo soggiacque, comecche fu adunata nella Dalmazia, non avrebbe avuto il modo di guadagnare le Lagune di Venezia e per esse di giungere al Pò e a Ravenna, se i Goti fossero stati padroni dell’Adriatico (172).
La guerra fra’ Greci e i Goti era terminata, quando raccoltosi nelle Alpi un esercito, forte di settantacinquemila avventurieri Franchi e Alemanni, datosi da sé due capi, ne discese, e percorse senza alcun ritegno l’Italia sino alle sue estremità meridionali, malmenandola e desolandola nel modo più orribile, e coprendola su tutte il suo cammino di stragi e di rovine. — L’Italia non riebbe la pace se non nel 555. La rimase unita, ma divenne provincia dell’Impero d’Oriente, che poteva bensì difenderla contro le invasioni forastiere marittime, ma non mai contro le invasioni dei Franchi, degli Alemanni e dei Longobardi, i quali dorante la tolta coi Goti impadronitisi delle Alpi, vi si erano postali. Tutte le porte dell’Italia vennero e rimasero in potere dei Barbari.
Il Muratori giunto coi suoi Annali d’Italia alla caduta dei Goti, fa su quell’avvenimento, col quale cangiaronsi i destini d’Italia, e che segnò per essa un’era novella i seguenti riflessi:
«Con questa azione, (la presa di Compsa oggidì Consa nel regno di Napoli; che i Goti difesero durante tutto l’inverno del 554 al 555 contro Narsete) ebbe fine la guerra e il regno dei Goti; regno che era durato circa sessantaquattro anni; regno non usurpato,. perché conquistato con la permissione dell’imperadore, e regno glorioso finché visse il re Teodorico; ma che in fine fu l’estermio d’Italia, non già per colpa dei so li Goti, ma perché chi volle privarli del loro di ritto ed abbatterli, fece loro una si lenta e lunga guerra. Al nominarsi ora i Goti in Italia, si raccapricciano alcuni del volgo, ed anche i mezzo letterati, quasi si parli di Barbari inumani e privi affatto di legge e di gusto. Cosi le fabbriche antiche malfatte si chiamano d’architettura gotica, e gotici i caratteri rozzi di molte stampe fatte sul fine del secolo quintodecimo e sul principio del susseguente. tutti giudizj figliuoli dell’ignoranza. Teodorico e Tolila amendée re di quella nazione, certo non andarono esenti da molti nei, tuttavia tant» fu in essi l’amore della giustizia, la temperanza, l’attenzione nella scella dei ministri ed uffiziali, la continenza, la fede nei contratti, con altre virtù, che potrebbero servir di esemplare pei buon governo dei popoli anche oggidì. Basta leggere le lettere di Cassiodoro, e in fin le storie di Procopio; nemico per altro dei Goti. Né quei regnanti variarono punto i magistrati, le leggi o i costumi dei Romani; ed» è una fanciullagine ciò che taluno immagina del loro pessimo gusto. Lo stesso Giustiniano Augusto ebbe bensì più fortuna che i re goti; ma se è vero almeno per metà, quanto di lui lasciò scritto Procopio, fu di gran lunga superato da essi Goti nella virtù. Credo io nulla dimeno che influisse non poco alla rovina dei Goti, l’esser eglino stati infetti dell’eresia ariana. Perché quantunque lasciassero agi’Italiani libero l’esercizio dell’antica loro religione cattolica e rispettassero i vescovi, il clero e le chiese e neppur castigassero chi della loro nazione passava al cattolicismo, tuttavia nel cuor de’ popoli e massimamente dei Romani stava fitta una segreta avversione contro d’essi, mal sofferendo di essere signoreggiati da una barbara nazione, e tanto. più perché diversa di religione, dopodiché i più bramavano di mutar padrone. Lo mutarono in fatti, ma con pagare ben caro l’adempimento dei loro desiderj, per gl’immensi danni che seco portà una guer ra di tanti anni; e, quel ch’è peggio, perché questa mutazione si tirò dietro la totale rovina dell’Italia da li a pochi anni, con precipitarla in un abisso di miserie,: siccomme vedremo andando innanzi (173)».
Negli Annali d’Italia del Muratori non vi ha secondo fine. L’egregio Scrittore non ha altro pensiero che di arrivare al vero, e di chiarirlo; egli non ha motivi di occultarlo o di falsarlo per servirsene qual puntello di qualche sua idea o opinione, come non è disgraziatamente che troppo il caso, non dirò di tutti; ma certamente dalla maggior parte degli istoriografi, dei nostri giorni e specialmente degli istoriografi italiani. Che gli Eruli e cosi i Goti fossero ariani, mentre i Romani erano cattolici è un fatto, ma l’avversione della quale qui parla il Muratori è una induzione. Qui il nostro esimio annalista si è detto: i Romani e’ gli Eruli, i Romani i Goti erano di nna diverse credenza, dunque dovevano odiarsi. — Ma questa induzione è una pura supposizione priva di ogni fondamento. Per quanto cercassi negli autori di quell’epoca non ne ho trovate la minima traccia; mentre vi hanno delle testimonianze autorevolissime (174).
, che la parte maggiore e miglioro degli Italiani rendeva piena giustizia a quei barbari, vedeva m essi della gente in complesso di buona indole, dotata di una mente sana in un corpo sano, che aveva ricondotta e fermata in Italia la pace; che la difendeva contro ulteriori irruzioni; Che le lasciava le sue istituzioni, le sue leggi, le sue costumanze. Essa era infetta di eresia, ciò è vero; —nonpertanto era la Chiesa cattolica più indipendente più libera nella sua azione, e più padrona di sé stessa sotto l’ariano Teodorico a Roma, che non sotto il cattolico Giustiniano a Costantinopoli. qual riverenza non portavano quei barbari ai Vescovi cattolici? E poi, non era l’armata di Belisario e di Narsete composta per lo più di Unni, di Eruli di Longobardi in parte ariani, in parte fin pagani? Che fiducie in un miglior avvenire poteva inspirare una tal armata ragunaticcia di svariatissime genti, collegate non da altro sentimento che dalla speranza di una ricca preda? — Conchiudiamo, che se anche vi avesse avuto un’avversione negli Italiani contro i Goti, sia in conseguenza di una diverse credenza religiosa o di altro (175).
, la composizione dell’armata dei Greci e tutto il di lei contegno, ne doveva paralizzare l’azione.
Il vero è, che anche allora vi avevano, come ai nostri giorni, i «Sardanapali» delle grandi città, i quali avevano al loro soldo nelle plebaglie una spezie di armata permanente e stabile, che da essi, appena i barbari accorrevano alla frontiere per respingere una invasione, sollevavasi, e mette va la rispettiva città in istato di ribellione. Ma non è men vero che gl’Italiani direttamente non hanno prestato verun ajuto né ai Goti nella guerre contro Odoacre, né ai Greci in quella contro i Goti. Entrambe quelle guerre sono guerre forestiere e non altro. In nessuna di esse apparisce una truppa e tanto meno un’armata Italiana. Le perdite e le battiture che ebbe a soffrire l’Italia nella guerra gotica sorpassano ogni idea; ma né le nne né le altre apportarono alcun durevole vantaggio ai nuovi invasori. Prescindendo dalle migliaja di campagnuoli e dalle intiere popolazioni che perivano negli anni di fame, — il solo Piceno ne perdette nel terzo anno della detta guerra cioè nel 438 cinquanta mila — a che ha servito la ribellione di Milano nell’anno susseguente? Essa non ha servito ad altro, che a forzare i Goti di ricorrere ai Borgognoni, d’indurli, ciò che fu cosa facilissima a discendere dalle Alpi, e a mettere l’infelice città a fuoco e a sangue. Milano ebbe in quell’incontro tutta la popolazione mascolina, non eccettuati i fanciulli, passata per le armi, e le donne condotte, come nel 490, prigioni oltre i monti. La sorte degli Italiani non entrava per nulla nelle viste, e nelle operazioni dei Greci. Questi non avevan per essi il minimo riguardo. Durante l’invasione dei Franchi e degli Alemanni condotti da Leutari e da Buccellino, Narsete rimase in comodi quartieri d’inverno, e non si mosse che dopo che coloro avevano fatto all’Italia tutto il male che mai le si poteva fare. Come, torno io a dimandare, potevan gli Italiani essere propensi a questi sedicentisi loro liberatori? Insomma tenghiamo per fermo e comprovato, che né il regno di Odoacre né quello dei Goti sarebbe caduto, se quello fosse stato padrone delle Alpi, e questo padrone del mare, come era il caso in ambidue i riguardi del regno di Teodorico.
Facciamoci ora ad indagare la causa o le cause della caduta del regno dei Greci. I Goti avevano durante la guerra coi Greci ceduto ai Franchi e ai Borgognoni tutte le Alpi e gran parte dei paesi subalpini attinenti all’Italia continentale. Il Norico era stato col consenso di Giustiniano occupato dai Longobardi. Narsete tolse ai Franchi, se anche non tutti i detti paesi, però la maggior parte di essi. Ma le Alpi, come già è stato avvertito, rimasero in potere dei barbari, ed andarono per l’Italia perdute. La caduta del regno dei Goti fondalo da Teodorico divenne con ciò un avvenimento, che cangiò i destini d’Italia e dell’Europa. Cosi come i Galli Cisalpini e i Veneti, sotto Roma si trasformarono in Italiani ossia Romani, perché sono gli Stati che creano le nazionalità, cosi sarebbersi fatti italiani anche i popoli alpini, e l’Europa avrebbe avuto in una Italia sino al Rodano sino al lago di Costanza, e sino al Danubio il suo centro e il suo stato normativo. Non solo la storia d’Italia, ma quella del mondo sarebbesi fatta del tutto diversa da quella che si fece.
Che c’insegnano in riguardo agli elementi fattivi provvidenziali della storia d’Italia i due secoli, che durò, dopo la caduta del regno dei Goti, la lotta tra Greci e tra’ Longobardi, e che fini con la rovina degli uni e degli altri?. La storia di questa lotta ridotta a’ suoi minimi termini è la seguente. I Longobardi, i più feroci di quanti altri barbari invasero l’Italia, ma nell’istesso tempo anche i più. avveduti, ingrossatisi con. una infinità di altri barbari, di Gepidi, di Pannonj di Bulgari, di Sarmati, di Unni, e di Sassoni, i quali ultimi da sé soli contavano ventimila armati, abbandonarono il Norico e la Pannonia ove erano stanziali, il primo giorno di aprile dell’anno 568; calarono, condotti da Alboino loro re per le Alpi—Giulie nell’odierno Friuli e per esso in Italia, e s’impadronirono già m quell’anno, senca incontrare per parte dei Greci veruna opposizione, con l’eccezione delle lagune che vi hanno lungo le caste dell’Adriatico, di tutto il di lei angolo orientale sino a Padova e ai Colli—Euganei, e sino al Mincio. L’anno seguente passarono essi il Pò, s’internarono nella penisola, correndo sino sotto le mura di Roma, e passarono anche il Ticino, avanzarono sino alle Alpi e le valicarono, e assediarono nell’istesso tempo Pasvia, che oppose loro una vigorosa resistenza pel corso di tre anni ed alcuni mesi. — Queste tante imprese condotte contemporaneamente e che dovettero cagionare une spartizione delle forze in più corpi distinti operanti separatamente, furono dal conte Balbo, nella sua Storia d’Italia sotto i barbari, qualificate come atolide, ed anche il Muratori chiama le spedizioni oltre le Alpi, balordaggini. lo invece non vi vedo se non nna prova, che il numero di quei barbari dovette essere sterminato, e non vedo nelle spedizioni oltre le Alpi se non dei tentativi di sloggiarne i Franchi; il che era tutt’altro che una balordaggine. Il conte Balbo suppone ad Alboino non più di 62 mila armati. Ma se già i Sassoni gliene fornivano 20 mila? A mio debole parere dovette quel re disporre per lo meno di 120 mila uomini. E qual ragione havvi di credere quel re uno spensierato, quando tutto all’opposto le sue gesta ne fanno un uomo di guerra compito, se anche id altri riguardi egli apparisca qual uomo feroce sino alla brutalità? fu fondò a quella spartizione di forza vi stava il pensiero dell’approvvigionamento di quell’immensa moltitudine, di non lasciarla esposta al pericolo di morirsi di fame, di ripartirla nel paese a misura che lo si conquistava, è di fissarvela.
Le notizie che si hanno della lotta ira i Longobardi e i Greci sono scarsissime. Ma gli avvenimenti parlano e si chiariscono da sé. Il primo atto di Alboino subito disceso dalle Alpi, fu di ordinare il paese che incontrò, cioè l’attuale Friuli in modo, che il presidio che vi lascïerebbe, tirando partito della forza dei siti, e delle città murate che vi avevano, potesse fermarvi qualunque irruzione di barbari, trattenerla, e fornirgli il tempo di annodare il grosso dei suoi Longobardi, per soccorrerlo, e per respingere definitivamente gli assalitori. Il Friuli divenne una spezie di principato distinto, che aveva là sua capitale, il suo sistema di difesa, le sue milizie, e il suo proprio principe. Esso fu una colonia longobardica, come erano le colonie romane, il quale servi va a presidiare il paese, e a stanziarvi parte dell’immigrazione. Or siccome questa misera era imposta da dei bisogni generali, e dalla necessità di ripararsi dapertutto contro gli assalti sia dei barbari che stavansi suite Alpi, sia dei Greci che eransi ricoverati nelle città meglio munite lungo il mare, cosi accadde che i Longobardi si spartirono in trentasei stabilimenti o Ducati simili al ducato del Friuli. Non lardarono poi essi a rinforzare questo ordinamento con diverse altre misure, alle quali, per dire, il vero, soltanto un popolo ferocissimo e immane come coloro erano, e che facevasi lecito tutto ciò che serviva al suo scopo, poteva ricorrere. Esso spesso spietatamente i potenti, ossia ultimati italiani, e s’impadronì dei loro fondi, che affittò, verso la retribuzione di un terzo del frutto che se ne ricavava, alla classe campagnuola.
Il modo di guerra che nacque da questo ordinamento dei paesi da quei barbari conquistati fu il seguente. Assalivano i Greci o i Franchi uno di cotesti ducati, i Longobardi stanziati in esso riparavano, con il loro avere mobile, con le loro famiglie, e con quanto più di viveri potevano raccogliere, nella. capitale e nelle città murate più forti, e nei siti più inaccessibili, spogliandone il paese tutt’all’intorno quanto più e meglio potevano. L’invasore si trovava presto in lolla con la mancanza di vettovaglie. Non vi aveva rimedio, conveniva fermarsi e decidersi ad assediare una o l’altra di quelle città. Frattanto non solo il re, ma anche gli altri duchi, persuasi che lasciando cadere p. e. il ducato di Benevento presto toccherebbe. la stessa sorte anche al ducato di Spoleto, e cosi di seguito, adunavano le loro genti. Si correva quindi alle armi da un capo all’altro del regno; l’esercito di soccorso raccoglievasi. L’esercito invasore aveva frattanto fatto nell’assedio. e per malattie perdite considerevoli. Il caso era ben raro, che ’esso si trovasse in condizione di aspettare l’esercito dei Longobardi; esso se ne andava; e se non se n’andava era per lo più sconfitto. Questa è all’incirca la guerra con la quale i Longobardi si mantennero per due se. coli in mezzo fra i Francesi e i Greci. (176)
Ma avrebbero essi avuto la possibilità di ridurre la somma delle loro cose a una tal guerra, se là natura stessa non avesse loro con i monti e con i fiumi frastagliata e divisa l’Italia in paesi distinti convertibili in tanti stati capaci di dipendersi un dalo tempo da sé? — No certamente, ed eccoci al terzo elemento fattivo della—storia d’Italia; ecco il mezzo che ebbero i Longobardi di durare due secoli e più fra due stragrandi potenze, delle quali l’una era padrona del mare e l’altra padrona delle Alpi. Senza quella conformazione telluria la storia d’Italia sarebbe stata in tutto quel lungo periodo tutt’altra.
Ed anche i Greci dovettero in Italia la loro salvezza e la durata del loro regno, se anche in principalità al mare, pur (a parte e in gran parte anche all’elemento topografico, ciò alla forza dei siti e alle città murate munitissime che possedevano in prossimità del mare. Essi erano ancora nel decimo anno della calata in Italia dei Longobardi padroni della Sicilia, della Sardegna e della Corsica; di Genova con tutta la Liguria marittima; della maggior parte dell’odierno regno di Napoli; e della maggior parte dell’odierno Stato Romano con Roma e Ravenna. Fu l’elemento. topografico che permise ai Greci di spartire il paese che loro rimaneva in varj Ducati, e di organitzarvi . una guerra difensiva simile a quella dei Longobardi, che dava il tempo ai soccorsi per mare di arrivare, e ai presidj dei ducati di adunarsi e di respingere gli , assalitori. Egli è vero che anteriormente alla pace che riuscì ai Longobardi di conchiudere nel 590 coi Franchi, pace che durò quasi senza interruzione più di un secolo, i Greci a forza di oro riuscirono più volte a far calare in loro ajuto i Franchi dalle Alpi in Italia. Ma questo espediente cessò con quella pace intieramente. Ed è vero altresì che alla difesa della città e dei paesi dei Greci concorressero anche gl’Italiani. Pavia fu certamente difesa in principalità se anche non esclusivamente da’ suoi cittadini; ed è certo che correvano alle armi all’avvicinarsi—dei Longobardi anche i Romani, anche i Ravennati. Ma il caso era lo stesso se non già nel primo certamente nel secondo secolo anche nei paesi dei Longobardi, cosicché in questo guardo si trovavano ambedue le parti nelle medesime circostanze.
Tale è la storia d’Italia dal 568 sino al 750 circa, cioè dall’invasione, o, per dir meglio, immigrazione longobardica, sino all’epoca nella quale i Franchi avendo cacciati i Saraceni oltre i Pirenei, ed essendo passati sotto una nuova dinastia, energica, intraprendente, risoluta, ambiziosa, si rivolsero verso 1’1talia, e che le Alpi ridivennero vive, e si fecero di nuovo sentire all’Italia, ciò che da. gran tempo non era più stato il caso. Con Pipino figlio di Carlo—Martello ricomincia per gl’Italiani in generale, e pei Longobardi in particolare una nuova era. In quel mezzo aveva avuto luogo un grandissimo cambiamento anche coi. Greci, i quali avevano perduto il dominio del mare, e con ciò l’elemento della loro possanza nell’Italia. La Sicilia. la Sardegna e la Corsica erano divenute isole saracene. Senza i Franchi sarebbe divenuta saracena come l’italia—isola anche l’Italia—penisola, e anche se non tutta l’Italia—continente per lo meno la Liguria marittima. Gl’Italiani nella lotta fra i Greci e i Longobardi non si stettero passivi come nella guerra fra Odoacre e Teodorico, e come in quella fra i Greci e i Goti, ma, come poco fà ho avvertito, vi presero parte gli uni coi Greci e gli altri coi Longobardi, cosicché vi cangiarono di carattere e riacquistarono lo spirito guerriero, che gl’împeratori romani avevano in essi spento. Ma da Costantinopoli non venivano se non soldati e per lo più mercenarj e barbari e pochi, e negli ultimi anni pochissimi. Ciò fece che gl’Italiani nei paesi dei Greci rimasero Italiani, mentre in quelli dei Longobardi divennero Longobardi come i Galli—Cisalpini, in meno di un secolo assimilandosi ai loro padroni, divennero Romani ossia latini (177).
Cosi trovossi l’Italia spartita fra due popoli con dialetti modi, costumi, leggi, governi, interessi diversi, che s’intralciavano uno nell’altro. Qui erano dei Longobardi in mezzo ad un possedimento greco, lì un territorio dei Greci in mezzo al paese dei Longobardi. Quindi ovunque, come è il solito in tali casi, le inimicizie e gli odj reciproci. Gl’Italiani di puro sangue avrebbero preferito di passare sotto i Saraceni che di divenire Longobardi (178).
Minacciati da questi ogni giorno di più, abbandonati dai Greci, chiamarono essi in loro ajuto i Franchi, pel qual passo i Pontefici Romani, pi si fecero loro interpreti, e loro oratori. Questi non comprendevano e non prevedevano che troppo, che gl’Italiani nei Francesi invece di protettori si davano dei padroni. Ed è un fatto essersi dessi dato ogni pena, per indurre i Longobardi a starsi in pace per tener i Franchi lontani e oltre le Alpi. Non vi riuscirono. Non sono i Pontefici che hanno fatta la storia d’Italia.
Questi sono gl’insegnamenti che fornisce la storia d’Italia dalla caduta dell’Impero d’Occidente, anzi, dalla divisione dell’Impero Romano sino pi tempi di Carlo Magno, epoca di quasi quattro secoli, qualora la si studia nei di lei elementi fattivi provvidenziali, nella azione complessiva di questi, e pelle modificazioni della detta azione per parte dell’uomo il quale non cessa di esserne il principio vivificante. Una cittadella senza guarnigione è per la città sottoposta come se non la vi fosse; cosi sotto le Alpi senza l’uomo come se si fossero spianate o inabissate; e cosi è il mare, senza un naviglio che lo padroneggi, coma se lo si fosse asciugato.
Non è del mio assunto e non saprebbe esserlo di ripassare, in riguardo ai di lei elementi fattivi. tutto la storia d’Italia. Io volli soltanto dimostrare, che il Macchiavelli ancorché si avesse potuto egli stesso posto la questione: a chi, e a quali cause fosse da ascriversi la sorte che toccò all’Italia, e che la condusse nei termini nei quali la si trovava ai tempi quando egli scriveva il suo Principe, i suoi Discorsi, e le sue Istorie fiorentine, (1513—1525) che il Machiavelli dico non ha istudiata la storia d’Italia in riguardo ai detti elementi. E lo stesso è da dirai anche degli Storici italiani che vennero dopo di lui. Se anche taluno ne parla, lo fa per incidenza e di passaggio. Nessuno vi si ferma. Ecco per esempio ciò che se ne legge nella Storia italiana del Signor Cantù. L’egregio Istorico dopo aver dedicate sette intiere pagine a delle notizie geografiche, geologiche, e geognostiche passa alle seguenti osservazioni, e ai seguenti riflessi:
«Pochi paesi ebbero da natura confini come l’Italia, cosi ben determinati per crescervi una nazione autonome, dagli stranieri separata pei mare, e per le montagne; eppure da quello e da queste le vennero continuamente abitanti, educatori, deva statori, padroni. Polibio un secolo e mezzo avanti Cristo indicava quattro passaggi ne’ monti verso la Gallia: uno per le Alpi Marittime litorali, aperto anticamente da Ercole, e dove fu poi tracciala la via Aurelia; una per le Alpi Cozie, e la piccola Dora, ai Taurini; il terzo pei Salassi della val d’Aosta scendendo il monte di Giove, che ora è il San—Bernardo; il quarto pei letto del Ticino. I Romani poi resero accessibili nelle Alpi Retiche le vallate del. Reno e dell’Adige, e nelle Carniche quelle del Tagliamento e dell’Isonzo; a tacere il litorale adriatico, ove le montagne si chinano sino al mare».
«Lo svilupparsi delle coste per duemila miglia, con tante insenature, e con eccellenti porti, e il riuscire poco discosti del mare anche i paesi dell’interno rendono l’Italia appropriatissima al commercio, e a divenire potenza marittima. Ma la sua lun0 ghezza di sei cento settanta miglia dal capo Rizzuto fin al monte Bianco ch’è la più elevala. cresta 0 d’Europa, sopra una larghezza che varia da venti 0 sino a trecento miglia; e tanti fiumi e valli che 0 la frastagliano, sembrano disporla a rimanere frazionata in piccoli Stati, quale la sua storia ce la 0 mostra, senza quell’unità di governo e di capitale., 0 di cui si compiacciono altre nazioni». — Quivi, come si vede, non isfuggì al nostro autore, che una tale estensione di coste con tante insenature e con eccellenti porti, rendeva appropriata l’Italia al commercio, e a divenire potenza marittima. Ma se non gli sfuggi questa qualificazione al commercio e a divenir potenza marittima, è mai possibile che gli sia sfuggita la dipendenza nella quale questa stragrande estensione delle sue coste metteva e aveva sempre messa l’Italia da chi era padrone dei due mari aggiacenti? Ben vide egli nel frastagliamento dell’Italia un elemento fattivo della di lei storia, ma se ne spiccia con pochissime parole, e si astiene affatto dal parlare della dipendenza dell’Italia—continente dalle Alpi, e da chi ne aveva il dominio; e ciò abbenché ne parli altrove, ma di passaggio, ove discorre del corpo d’armata raccolto dal generale conte Nugent a piedi delle Alpi sull’Isonzo per esser condotto in rinforzo al maresciallo conte Radetzky, e dove dice:
«Quelle Alpi che sgomentano l’immaginazione e. fan bel giuo0 co alla poesia, non furono mai insuperabili ad eserciti forastieri, da Ercole fin adesso, quando Nugent 0 meno per le Carniche ventimila uomini a soccorso 0 di Radetzky (179)».
Egli era certamente cosa ben naturale che lo scrittore di una storia degli Italiani si occupasse pur anche della spiegazione di un fatto di tanta importanza,e ricercasse il perchè quei monti abbenché sgomentino l’immaginazione sono sempre stati superabili. Questa indagine questi studj non sarebbero stati a uno scrittore di tanto polso difficile Egli ciò nonostante non la fece.
Vi ha poi ancora una categoria di Scrittori Italiani dai quali si doveva aspettare uno studio ed esame rigorosissimo ed esauriente degli elementi fattivi dei destini e della storia d’Italia, cioè dai promotori della questione cosi detta italiana, e delle pretensioni che la costituiscono. L’hanno essi fatto? l’ha fatto il conte Balbo nelle sue Speranze d’Italia? L’ha fatto l’abate Gioberti nel suo Rinnovamento civile d’Italia?
Il conte Balbo ha parlato a lungo nel summenzionato sue libre dell’elemento etnografico, è vi ha Veduto un ostacolo insuperabile alla fusione dell’Italia in un solo ed unico Stato. Il Lettore troverà ciò che il detto conte ha saputo dirci in questo proposito per intiero nel capitolo VI. pagina 218 di questi studj. Esso poi rinviene sull’istesso argomento in uno dei seguenti capitoli vale a dire nel quinto, e ivi si legge.
«L’Italia come avverte molto bene il Gioberti, raccoglie da settentrione a mezzodì provincie e popoli quasi cosi diversi tra sé, come sono i popoli più settentrionali e più meridionali d’Europa; ondeché fu e sarà sempre necessario un governo distinto per ciascuna di tutte o quasi tutte queste provincie. E come in Europa rimasero, salvò le brevi eccezioni, quasi sempre distinte quelle sue di visioni di Britannia, Gallia Spagna, Germania, Italia e Grecia; cosi nell’interno della penisola nostra rimasero quasi sempre distinte: la punta meridionale, la valle Tiberina co’ suoi monti e sue maremme, il bel seno( 😉 dell’Arno, e l’Italia settentrionale divisa o non divisa in occidentale ed orientale; la Magna—Grecia o Regno di Napoli, il Lazio o Roma, l’Etruria o Toscana, la Liguria o Piemonte, la Insubria o Lombardia, con nomi e suddivisioni varie ma tornanti alle prima rie. Ma ei vi son pure somiglianze in queste varietà; unità in queste divisioni, comunanze di schiatte, di lingua, di costumi, di fortune, di storie, d’interessi e di nome tra queste provincie; è una antica ed incontrastabile Italia. E quanto men sovente queste comunanze si manifestarono in produrre uno stato universale italiano, tanto più sovente elle produssero confederazioni or provinciali or nazionali». —
Ma la fine di questo discorso, la conclusione, non è ammissibile.(180)
Parziali confederazioni vi ebbero nella penisola innanzi che Roma fosse fondala, è v’ebbero delle parziali sovente contro di essa; ma di una confederazione di tutti i popoli italici contro l’eterna città non vi ha traccia; questo accordo non ha mai avuto luogo neppur nella guerra italica alla testa della quale si era messo Pirro, e che fini con la presa di Tarante nell’anno di Roma 482. La Storia c’ insegna tutto l’opposto di ciò che qui le si fa dire. L’Italia è stata, non soltanto sotto Odoacre, ma anche sotto gli ultimi Imperatori romani, e dopo Odoacre sotto Teodorico e sotto i Greci, unita. La si spezzò in molti piccoli Stati ‘distinti con la venuta dei Longobardi; e d’allora innanzi vi ebbero bensì più volte delle confederazioni parziali, e delle leghe; ma una confederazione generale di tutto tre le Italie mai, e neppure una confederazione delle tre isole, o della penisola, o dell’Italia settentrionale. Il conte Balbo se pur ha studiato l’elemento etnografico italiano non l’ha studiato a dovero. Questo è il solo fra gli elementi fattivi dei destini e della storia d’Italia la di cui azione può non solo sospendersi ma anche comprimersi, se anche non distruggersi. In fatti i Romani riuscirono a comprimerlo in poco men che in tutte le loro provincie europee, e particolarmente nell’Italia (181).
Ma risorse con l’immigrazione longobarda, e con lo spezzamento dell’Italia—penisola, e dell’Italia—continente in diversi Stati distinti. L’Italia porge anche dopo la caduta dell’Impero d’Occidente esempj di una fusione per opera del forastiero in un solo ed unico Stato; all’incontro nessuno di una confederazione generale. Gli altri elementi fattivi della storia e dei destini d’Italia si sono dal conte Balbo intieramente trasandati.
L’abate Gioberti ha, come si e da me più volte avvertito (Veg. al cap. V. la nota 1. pag. 193) lanciato una spezie di anatema contro ogni discussione dei suoi cosi detti pronunciati assiomatici: unità, libertà, indipendenza italiana: e quindi anche contro Io studio che qui ci occupa. La necessità di questo studio non può essergli sfuggita; egli non portante non l’ha fatto. Eccone la prova. «Chi oserebbe» dice egli nel Tomo IL pag. 38 del Rinnovamento «ridotta l’Italia una e forte, chiederne lo smembramento, pogniamo che in cuor suo, che per fini privati lo bramasse? E se pur tal follia annidasse in alcuni, chi può credere che sarebbe assentita dall’universale? — Né torna a proposito l’obbiettare le condizioni geografiche, e le usanze, le gare, le invidie, gli interessi municipali. Imperocché non si tratta di dare all’Italia una tale unità che sia viziosa, e di scordi dalla sua natura, o troppo contrasti alle sue abitudini. Le unità fattizie e innaturali non provano e non durano, come quelle che troppo allargano o troppo stringono; tengono più conto dell’apparenza che della sostanza; disgiungono invece di unire, e accrescono le sette invece di spegnerle; quali furono nel medio evo l’unità papale dei guelfi e l’unità imperiale dei ghibellini. Il sistema federativo non è già falso da ogni parte; poiché tanto giova nell’amministrazione quanto nuoce nella politica. L’Italia par destinata a comporre dialetticamente i suoi pregi e vantaggi con quel dell’ordine contrario… La dualità della Toscana e del Lazio, la moltitudine delle città principi, la forma sprolungata della penisola, le consuetudini antiche richieggouo in Italia una certa diffusione; e per contro il vapore, scemando le distanze e ravvicinando gli estremi, facilita una certa uni là, e scioglie l’obbiezione del Bonaparte a questo proposito».
Questo è tutto il frutto che l’abate Gioberti ha tratto dagli lucidissimi additamenti che leggonsi sulla conformazione geografica dell’Italia nelle Memorie dettate da Napoleone nell’isola di Sant’Elena. Delle Alpi e dei mari che con esse circondano le tre Italie parla egli nel seguente brano della succitata sua opera Tomo II pag. 184.
«Italia e Francia appartengono alla famiglia delle popolazioni latine e cattoliche; e nelle prime s’infusero alcune stille di quel sangue celtico e germanico che fu temperato nella se conda dal romano legnaggio e dal baliatico della santa sede. Oltre la contiguità del sito, l’affinità del costume e dell’idioma, corre fra esse similitudine di postura: amendue littoranee a sopraccapo di un mar comune, che più vale a congiungere con le acque che non servono a partirle di verso terra i macigni e le nevi delle Alpi».
Queste poche righe provano, che l’abate Gioberti non si è mai seriamente occupalo delle relazioni politiche fra la Francia e l’Italia derivanti dal mare Mediterraneo qual mare comune, né delle Alpi, che sono monti italiani soltanto alla loro estremità meridionale e ovunque altrove monti o francesi o svizzeri, o austriaci (182).
L’Italia divenuta potenza marittima di primo rango riprodurrebbe nel mediterraneo rimpetto alla Francia il caso di Roma e di Cartagine. La Francia non ammetterà mai una comunanza di possesso del detto mare. Essa la soffre con l’Inghilterra, per ché i preparativi per porvi un fine non sono ancora giunti a maturità e a quel punto da togliere ogni dubbio sul buon esito dell’impresa. E anche l’Inghilterra è interessata, che l’italia non divenghi una potenza marittima da poter, unendosi alla Francia, cooperare a escluderla dal Mediterraneo. Il possesso di questo mare è tanto per la Francia che per l’Inghilterra una questione vitale. Se la Francia riesce a escludere l’Inghilterra dal Mediterraneo, l’Egitto finisce per divenire una provincia francese. Il taglio dell’Istmo di Suez ridurrà le difficoltà per la Francia di accostare le Indie orientali alla metà di quelle che sono stato finora. Il canale dell’Istmo di Suez sarà un canale esclusivamente francese (183).
E perciò mi credo autorizzato di conchiudere, che l’Italia non ha in verun modo studiato i detti elementi fattivi della sua storia e dei suoi destini; e quindi che non la conosce sé stessa, e che la è all’oscuro delle relazioni impostele dalla natura coi paesi limitrofi, e della di lei dipendenza da essi in particolare, e dall’Europa in generale. Donde poi segue che tutti i progetti di un riordinamento, o rinnovamento dell’Italia sono spensieratezze avventuratesi a occhi chiusi, e creando un mondo fantastico ideale senza principj, senza diritti, senza Leggi. L’italia del Congresso di Vienna era nel più perfetto accordo cogli elementi fattivi provvidenziali detta di lei storia e dei di lei destini, soddisfaceva intieramente alle condizioni di una pace solide, durevole, perpetua, che è il «bonum potissimum» pegli uomini «bonae voluntatis». L’ordinamento dell’Italia dettato dal detto congresso oltre ad essere fondate nel diritto che impartisce una guerra qual era quella che l’Europa faceva negli anni 1813, 1814 e 1815 a Napoleone Bonaparte, e oltre al corrispondere poco men che senza eccezione ai voli delle popolazioni italiane, metteva il più perfetto accordo fra gli interessi dell’Europa e quelli dell’Italia, alla qual ultima diede nell’Austria non una padrona, ma una salvaguardia sotto la sorveglianza di tutte le grandi potenze, tutte egualmente garanti della di lei pace e prosperità. Non vi ha vero progresso che dall’ordinamento del congresso di Vienna non fosse all’Italia assicurato. Se esso aggiungeva col regno Lombardo—Veneto un quinto dell’Italia all’Austria, aggiungeva anche l’Austria all’Italia; e l’Italia diveniva parte integrante del concerto Europeo.
note
p> L’infanteria napoletana passava a’ tempi di Carlo I per la miglior infanteria d’Europa. Furono i reggimenti napoletani che nella guerra che il prefatto imperatore ebbe con la lega smalcaldica gli guadagnarono la battaglia di Mühlberg. — p>La cavalleria napoletana che faceva nel 1796 parte dell’armata austriaca contro Bonaparte , diede, durante il breve tempo che il suo re ve la lasciò, in ogni incontro prove di gran valore. — I Lazzari di Napoli sostennero nei primi mesi del 1799 contro i Francesi diversi combattimenti in un modo che avrebbe fatto onore a qualunque truppa regolare. — Le truppe napoletane che Giuseppe Bonaparte, e poi Gioacchino Murat fornirono in diverse epoche alle armate di Napoleone in Spagna in Germania e in Russia aveano nome di valere quanto le migliori dell’armata italica. — Io stesso sono stato testimonio nel 1812 di un combattimento in Catalogna presso Villafranca fra Taragona e il Lobregat, nel quale la cavalleria anglo-sicula rovesciò e ruppe la cavalleria, erano corazzieri, del maresciallo Sachet, che passava per invincibile. Vi aveano quattro squadroni del reggimento Dragoni Val—di—Noto, per lo più veterani napoletani con pochi Siciliani. I Napoletani non superarono gli Inglesi in bravura, ciò che sarebbe stato assai difficile, ma bensì nello slancio e nel maneggio delle armi. Conveniva ferire di punta e nel volto. I prigionieri che essi fecero, e ne fecero molti, erano la maggior parte feriti, e feriti nel volto. — La battaglia di Tolentino andò per Gioacchino perduta, ma non certamente per colpa del soldato napoletano. — 1 molti uffiziali della fu armata del Vice—Re che si sono massi alla disposizione di Gioacchino nella guerra del 1815 non gli si. sarebbero dati, se non fossero stati persuasi che la di lui armata aveva le qualità necessarie e richieste per servire di nodo all’impresa da esso annunziata e proclamai, Non è adunque per mancanza di fiducia nell’armata napoletana e nel suo re, che l’italia nel 1815 non si sollevò contro i suoi principi e contro l’Austria, ma perché lu causa che dicevasi la causa d’Italia non era che una causa settaria, verità di fatto che non si saprebbe troppo ripetere.112
p>La detta nota, che il suo contenuto rende molto rimarchevole, era del tenore seguente: «Avendo avuto luogo alcuni movimenti di truppe verso le frontiere del regno, nel momento istesso in cui si parlava di un viaggio del Re negli Abruzzi, e forse nelle Marche già da lungo tempo annunziata; alcuni speculatori, degli uomini facili ad allarmarsi, e qualche mal intenzionato si sono abbandonati alle congetture le più assurde, e le hanno diffuse nel pubblico. Da esagerazioni in esagerazioni si è giunto fino a dire che vi era un Ordine del giorno, che annunziava alle truppe la guerra, e un piano d’operazioni militari. Dopo aver supposto che questo ordine del giorno esisteva, si è supposto che ne circolavano alcune copie. Niuno ha potuto dire di averlo letto ma ognuno ha creduto che esso era stato letto da altri, in modo che le false voci si sono accreditate. Noi siamo autorizzati a dichiarare che tutte queste voci sono prive di fondamento, e che il preteso Ordine del giorno, di cui si è tanto parlato non ha giammai esistito. Se qualche scritto di questo genere fosse circolato sarebbe esso. un documenta inventato a capriccio, ed i di cui autori avrebbero incorso tutta il rigore delle leggi. Il Re è in pace con latte le potenze, e se alcune truppe si sono avanzate sulle frontiere, questa misura comandata dalla previdenza non ha nulla che debba fare temere d’alcuna sorta di ostilità. Un avvenimento straordinario può dar luogo a grandi disposizione nei diversi gabinetti di Europa. S. M. ha giudicato necessario di esser pronta a regolare le sue a norme di quelle delle grandi Potenze, e sopra tutto secondo le determinazioni dei Sovrani co? quali ella ha le relazioni più intime.»
«Ecco il solo scopo dei movimenti di truppe che S. M. ha ordinato. Ciò che ella ha fatto non può esser considerato che come nna nuova prova della sua costanza nella sua politica, e degli sforzi che ella sarebbe pronta s fare, se le circostanze lo esigessero per it riposo del suo regno, e dell’Italia». —Questa nota che porta la data dei 13 marzo 1815, e che si legge nelle: Memorie Storiche intorno la vita di S. A. R. Francesco IV Duca di Modena. Compilate dai sacerdote modenese Don Cesare Galvani, vol. II. p. 22. mostra sino a che segno si portava l’impudenza del mentire a pro della causa italiana. Il sommo pontefice Pio VII come si può ben credere non prestò la mini ma credenza a quelle parole, protesta contro il passaggio delle truppe napoletane pei suoi Stati, e parti da Roma. il Pro—Segretario di Stato cardinale Pacca promulgò una notificazione assai rimarchevole che può leggersi nell’or citata opera.113
p>Il generale Colletta era tutt’altro che ben informato sulla situazione delle guardie napoletane, che sotto gli ordini del generale Livron e del principe Pignatelli Strongoli erano entrate in Toscana. Dopo finita quella guerra, io mi sono trovato più volte a Genova nei caso di sentire i lamenti e le invettive di uno dei due comandanti delle prefatte guardie, del principe Pignatelli Strongoli contro i Toscani, e contro le loro disposizioni ostilissime all’impresa del suo re. Egli assicurava che vi si trattava di niente meno che di rinnovare con la truppa napoletana i Vespri—siciliani, che vi si era Ordita col mezzo del clero, e di alcuni uffiziali toscani una vasta cospirazione fra le masse della campagne, che egli non aveva mancato d’informarne il re, il quale si ostinava a non credervi. E che un capitano Gasparini toscano avesse disposto a insorgere le popolazioni della capipagina da Ruelio all’Incisa trovo notato anche nei periodico militare austriaco dell’anno 1822 fascicolo 7.° p. 59.114
p>Il generale p>Pietro Colletta avrebbe potuto consultare , allorché scriveva i ragguagli della guerra di Gioacchino Murat in Italia nei 1815, quelli della stessa guerra pubblicati già nel 1819 dagli Austriaci. Non lo fece, e perciò cadde in grandi esagerazioni in riguardo ai numero delle truppe, che essi vi impiegarono, p>e cadde anche in altri abbagli , che, facendo ciò che qui insinuo, avrebbe facilmente evitati. Secondo lui avrebbe la colonna del generale Neipperg contato 16, e quelle del generale Bianchi e del generale Nugent assieme, 30 mila combattenti. Il vero è, che tutto l’esercito austriaco, prescindendo dai Toscani, (2005 a piedi e 200 a cavallo) non ammontavano se non a 29274 combattenti a piedi, e 293a cavallo. La colonna centrale era di soli 10308 uomini a piedi e 1157 a cavallo (ved. l’òster. Zeitschrift Anno 181fas. 8. pag. 122.) Esso generale assegna a Murat nella battaglia di Tolentino 16000 uomini, e a Bianchi lo stesso numero, e fa correre, per conto di questo, altri 4000 il paese fra il mare e Tolentino, cioè fra le due colonne, mentre Bianchi avea seco soltanto 980uomini a piedi, e 933 a cavallo, e mentre i suoi distaccamenti non componevansi se non di 733 uomini.115
p>Si legge una relazione della battaglia di Tolentino anche nella biografia del generale Bianchi, pubblicata a Vienna in un grosso volume nel 1857 col titolo: Friedrich Freiherr von Bianchi, Duca di Casalanza, k. k. Feldmarschall-lieutenant , con l’epigrafe: «L’histoire doit tout dire, parcequ’elle a pour principal but l’expérience et la leçon des peuples», la quale contiene molte interessantissime particolarità. Dalla detta relazione si ricava, che realmente l’esito della battaglia di Tolentino fu per più ore incerto, e che la vittoria si dovette io gran parte a tre cannoni, co’ quali un uffiziale di artiglieria, che non si lasciò spaventare degli ostacoli che sembravano assolutamente insuperabili, ma che egli coi suoi bravi artiglieri riusci a superare, comparve iuaspettatamente per ambedue le armate, ma assai a proposito per gli Austriaci, sul campo di battaglia. La battaglia di Fontenoy, vi è dello, fu decisa da quattro, la nostra da tre cannoni. (pag. 454.) Sull’aver accettata la battaglia malgrado la grande superiorità numerica che vantava l’armata nemica, dice il generale Bianchi: che una «ancorché rapidissima perlustrazione delle località gli aveva dato a conoscere tali vantaggi topografici, che egli potè con la massima fiducia, stante la bontà delle truppe che comandava, aspettare l’attacco». (pag444.)116
p>La truppa toscana che faceva parte della colonna comandata dal conte Nugent rese in quella breve guerra servigj eminenti. Fra la cavalleria toscana e gli ussari austriaci della colonna del conte Nugent si produsse durante quella guerra una fratellanza che ha del meraviglioso. I distaccamenti a cavallo componevansi di ussari, e di dragoni toscani. Questi non vedevano mai un Ussaro in pericolo senza accorrervi e tirarnelo, e cosi facevano gli Ussari in riguardo ai Toscani. Pare che gli Ussari fossero già a tempi del Segretario fiorentino nella Toscana in fama di gran valore leggendosi in nna delle sue commedie la risposta di una serva:
«La mia padrona ha più fede in voi che l’Ungaro nella sua spada».
Nel succitato giornale anno 1822 fasc. p. 325. vi ha il ragguaglio circostanziato di una carica che fecero 7 ussari e 14 dragoni sulla vanguardia, composta di ulani napoletani, di una colonna che marciava (i aprile su Poggio a Cajano. Vi ebbero due scontri, nel primo cadde l’uffiziale nemico comandante gravemente ferito fra molti ulani morti, il rimanente disordinato fuggi; ma arrivato alla colonna si fermò, e riordinato avanzo una seconda volta, ma fu rovesciato di nuovo, perdette 32 prigionieri, e mise lo spavento nella colonna che seguiva, e che, pensando di aver a fare con forte superiori, rinunziò all’attacco del ponte sull’Arno che voleva occupare. I Toscani erano comandati da un tenente (Mancini) che il Gran—Duca creo Cavaliere dell’ordine di San Stefano; il tutto da un capitano austriaco dello Stato maggiore (Radossiz). Il distaccamento ebbe due morti e cinque feriti. —Ho citalo questo caso, perché il generale Colletta pretenda che i Toscani assai di malincuore seguissero in quella guerra gli Austriaci. Vi ebbero dei Toscani anche nell’assalto del campo di Mignano la notte del 16 al 17 maggio, che fini con la totale sconfitta e la più disordinata fuga del corpo di riserva napoletano. I Toscani vi fecero meraviglie. Se avessero servito cogli Austriaci di malincuore non, ne avrebbero fatte.117
p>Colletta u. s. lib. VII. c. V. 94.118
p>Colletta u. s. lib. VII. e V. 99.119
p>Cantù storia degli Italiani Nota 17 al Capo CLXX11. Vol. VI. pag. 506.120
Il fin qui detto sulla rivoluzione napoletana desunto poco men che per intiero dalla Storia del generale Colletta, il quale a quell’epoca era ministro della guerra nel nuovo governo. Veg. nel . Lib. IX. i capi II. e III. o veggasi per altro anche nella Storia del Signor Cantù il cap. 183 nel Vol. VI a p. 487—493. L’autore dice: che la rivoluzione di Napoli non sarebbe caduta si di corto, se le fosse ita di pari quella di Piemonte. Io credo ch’egli s’inganna. La rivoluzione del Piemonte non avrebbe fatto ché accellerare le decisioni della Santa Alleanza.121
p>Quante falsità non si sono messe in campo sul conto degli interventi, coi quali l’Austria ristauro il potere legittimo nel 1821 a Napoli e a Torino? Si vorrebbe farli passare per dei soprusi della forza brutale, e attribuirli alla sola Austria. Se colpa vi avesse, che non vi ha, la sarebbe comune a tutte le grandi potenze Europee non eccettuate la Francia e l’Inghilterra. I sovrani e i loro ministri di quell’epoca erano sulla necessità degli interventi armali contro l’irrequietezza rivoluzionaria che facevasi ogni di più minacciosa tutti d’accordo in massima e nei principj, se anche non tutti parlassero lo stesso linguaggio. Allego a schiarimento di questa importantissima verità una serie di documenti che non riusciranno, cosi spero, discari al Lettore.
Acte de la Sainte Alliance, signé a Paris par l’empereur d’Autriche, l’empereur de Russie, et le roi de Prusse.
Au nom de la très sainte et indivisible Trinité.
LL. MM. l’empereur d’Autriche, le roi de Prusse et l’empereur de toutes les Russies, par suite des grands événemens qui ont signalé en Europe le cours des trois dernières années et principalement des bienfaits qu’il a plu à la divine Providence de répandre sur les États dont les gouvernemens ont placé leur confiance et leur espoir en elle seule, avant acquis la conviction intime qu’il est nécessaire d’asseoir la marche à adopter par les puissances dans leurs rapporte mutuels, sur les vérités sublimes que nous enseigne l’éternelle religion du Dieu sauveur; Déclarent solennellement que le présent acte n’a pour objet que de manifester à la face de l’univers leur détermination inébranlable, de ne prendre pour réglé de leur conduite, soit dans l’administration de leurs États respectifs, soit dans leurs relations politiques avec tout autre gouvernement, que les préceptes de celte religion sainte, préceptes de justice, de charité et de paix, qui, loin d’etre uniquement applicables à la vie privée, doivent au contraire influer directement sur les résolutions des princes et guider toutes leurs démarchés, comme étant le seul moyen de consolider les institutions humaines et de remédier è leurs imperfections.
En conséquence. Leurs Majestés sont convenues des articles suivans: Article I.
Conformément aux paroles des Saintes Écritures, qui ordonnent à tous les hommes de se regarder comme frères, les trois monarques contractas demeureront unis par les lieus d’une fraternité véritable et indissoluble, et, se considérant comme compatriotes, ils se prêteront en toute, occasion et eu tout lieu assistance, aide et secours, se regardant envers leurs sujets et armées comme pères de famille,. ils les dirigeront dans le même esprit de fraternité, dont ils sont animés pour protéger la religion, la paix et la justice.
Article II.
En conséquence, le seul principe en vigueur, soit entre les dits gouvernemens, soit entre leurs sujets, sera celui de se rendre réciproquement service, de se témoigner, par une bienveillance inaltérable, l’affection mutuelle dont ils doivent être animés, de ne se considérer tous que comme membres d’une même nation chrétienne, ces trois princes alliés ne s’envisageant eux mêmes que comme délégués par la Providence pour gouverner trois branches d’une même famille, savoir: l’Autriche, la Prusse et la Russie, confessant ainsi que la nation chrétienne, dont eux et leurs peuples font partie, n’a réellement d’autre souverain que celui a qui seul appartient en propriété la puissance, parce qu’en lui seul se trouvent tous les trésors de l’amour, de la science et de la sagesse infinie, c’ est A dire Dieu, notre divin Sauveur Jésus—Christ, le verbe du Très Haut, la Parole de vie. Leurs Majestés recommandent en conséquence avec la plus tendre sollicitude à leur peuples comme unique moyen de jouir de cette paix qui nait de la bonne conscience et qui seule est durable, de se fortifier chaque jour davantage dans les principes et l’exercice des devoirs que le divin Sauveur a enseignés aux hommes.
Article III.
Toutes les puissances qui voudront solennement avouer ces principes sacrés qui ont dicté te présent acte, et reconnaîtront combien il est important au bonheur des nations trop long—terne agitées, que ces vérités exercent désormais sur les destinées humaines toute l’influence qui leur appartient, seront reçues avec autant d’empressement que d’affection Jans cette sainte alliance.
Fait triple et signé a Paris, l’an de grâce 1815 le 14 (26) septembre.
FRANÇOIS, FREDERIC—GUILLAUME, ALEXANDRE.
Manifeste Je l’empereur Je Russie en publiant à Saint Petersbourg l’acte Je la Sainte—Alliance,
Nous Alexandre I., empereur et autocrate de toutes les Russie» savoir faisons; Avant reconnu par l’expérience et des suites funestes pour le monde entier, qu’antérieurement les relations politiques entre les différentes puissances de l’Europe n’ont pas en pour bases les véritables principes sur les quels la sagesse divine a, dans la révélation, fondé la tranquillité et le bien—être des peuples, nous avons conjointement avec LL. MM. l’empereur François I. et le roi de Prusse Fréderic—Guillaume, formé entre nous une alliance à la quelle les autres puissances sont aussi invitées d’accéder. Par cette alliance nous nous engageons mutuellement à adopter dans nos relations, soit entre nous, soit par nos sujets, comme le seul moyen propre à le consolider, le principe puisé dans la parole et la doctrine de notre Sauveur Jesus—Christ, qui a enseigné aux hommes qu’ils devaient vivre comme frères, non dans des dispositions d’inimitié et de vengeance, mais dans un esprit de paix et de charité. Nous prions le Très—Haut d’accorder à nos vœux la bénédiction; puisse cette alliance sacrée entre toutes les puissances s’affermir pour leur bien—être général, et qu’aucune de celles qui sont unies avec toutes les autres n’ait la témérité de s’en détacher.
En conséquence nous joignons ici une copie do cette alliance, et nous ordonnons qu’elle soit publiée dans tous nos États et lue dans les Églises.
Petersbourg le jour de la naissance de notre Sauveur le 25 décembre 1815.
ALEXANDRE.
Lettre du Prince relent de la Grande—Bretagne, adressée sua empereurs d’Autriche Ci de Russie et au roi de Prusse, concernant son adhésion à la Sainte Alliance.
Monsieur mon frère et cousin, l’ai eu l’honneur de recevoir il y a peu de jours, la lettre de V. M. ainsi que la copie du traité signé a Paris le 26 septembre par V. M. et ses augustes alliés. Comme les formes de la constitution britannique, que je suis chargé d’administrer au nom et de la part du roi mon père, ne me permettent point d’accéder formellement à ce traité dans la forme sous la quelle il m’a’ été présenté, j’ai recours à la présente lettre pour transmettre aux augustes souverains qui ont signé ce traité mon entière adhésion aux principes qu’ils ont établis, à la déclaration qu’ ils ont faite d’adopter les principes divins de la religion chrétienne comme maximes invariables de leur conduite dans toutes leur relations sociales et politiques, et de cimenter l’union qui devrait à jamais subsister parmi toutes les nations chrétiennes. Ce sera toujours l’objet de mes efforts les plus ardents de régler ma conduite, dans la situation où la divine providence a daigné me placer, sur ces maximes sacrées, et de coopérer avec mes augustes alliés i toutes les mesures qui peuvent contribuer à la paix et au bonheur du monde. Je suis avec les sentiments les plus invariables d’amitié et d’affection, monsieur mon frère et cousin, de V. M.
le bon frère et cousin
GEORGES, Prince regent
p>11 Sulla decisione del congresso di Laybach, e sul modo come la fu comunicata al nuovo governo napoletano si legge nella storia del generale Colletta quanto segue: «Gli ambasciatori russo, prussiano e austriaco presentarono le lettere dei loro Sovrani al vicario del re». Dicevano esse: che la rivoluzione di Napoli nelle prime segrete trame come nei mezzi e nel fine offendeva i sistemi politici dell’Europa, minacciava la sicurtà dei governi d’Italia, perturbava la pace universale, nuoceva col fatto e coll’esempio, era incomportabile dai reggitori dei popoli. Ma per operare maturatamente, avendo consultati l’esperienza ed il senno del monarca di Napoli, era stato necessità stabilire che un esercito austriaco in prima linea, ed altro russo in riserva, marciasse sopra quel regno, amichevolmente se ritornava all’antica obbedienza, e da nemici se l’ostinato proponimento persisteva; e che per pace o per guerra vi rimarrebbe temporalmente un esercito tedesco in sicurtà del re, delle leggi, della giustizia. Indi a poco, nel giorno stesso, il ministro di Francia dichiarò al reggente che il suo governo aderiva alle decisioni del congresso di Laybach, ed il ministro inglese, che l’Inghilterra sarebbe neutrale nelle presenti contese (Colletta lib. IX. capo III. 29.) Peraltro anche il ministro inglese ebbe a dichiarare rispondendo ad una nota: « Le gouvernement de S. M. Britannique n’interviendra en aucune façon dans les affaires de ce pays. à moins qu’une telle intervention ne soit rendue indispensable par des insultes personnelles, ou par des périls aux quels la famille royale pourrait—être exposée». Naples 11 février 1821. (Veg. B. de Marient. Guide dipl. 1. 2. ch. IV. p. 329). Conchiudiamo che in fondo tutte le cinque grandi potenze aderivano alle decisioni del Congresso di Laybach. Degli Stati Italiani non occorre parlare. La sola riserva che interposero i ministri sardi iu nome del loro re, fu che l’intervento non avesse ad aver luogo che in seguito ad una formate dimanda dello Stato che si trovasse minacciato dai rivoluzionari o fosse ad nna impresa rivoluzionaria soggiaciuto. Ancora nel 1833 dichiarava il ministro degli affari esteri sardo conte de Latour al barone Barante ministro residente francese alla corte di Torino: « Le roi de Sardaigne regardera comme un acte d’hostilité l’entrée dans ses États, de tout corps de troupes qu’il n’aurait pas appelé». (Guide Dipl. u. s. chap. IV. p. 380.)
Per quanto cercassi non mi fu dato di trovare il dispaccio circolare di Lord Castlereagh, del quale ho dato un brano nel testo, il quale è tolto dall’Histoire du progrès du droit des gens en Europe et en Amérique par Henry Wheaton tome II. p. 200. Quel dispaccio è nei documenti annessi al Congrès de Vienne del signor Capefigue, ma non intiero.122
Allorch i Francesi, dopo disfatto l’esercito napoletano, col quale il generale ack, di sventurata memoria, era nel 179sortito dal regno od entrato nell’Italia centrale, marciavano su Napoli, e non incontravno truppe che loro si opponessero, il re Ferdinando IV. indirizz al suo popolo le seguenti pochissime parole: Nell’atto che io sto nella capitale del mondo cristiano a ristabilire la santa Chiesa, i Francesi, presso i quali tutto ho fatto per vivere in pace, minacciano di penetrare negli Abruzzi. Correron poderoso esercito ad esterminarli; ma frattanto si armino i popoli, socorrano la religione, difendano il re e padre che cimenta la vita pronto a sacrificarla per conservare a’ suoi sudditi gli altari la roba, l’oor delle donne, il viver libero. Ramentino antico valore. Chiunque fuggisse dalle bandiere o dagli attruppamenti a masse, andrebbe punio come ibelle a noi, nemico alla Chiesa e allo Stato. «Fu, continua il nostro generale, quell’editto quanto voce di Dio; i popoli si armano; i preti, i frati, i più potenti delle città e dei villaggi li menano alla guerra; e dove manca superiorità di condizione, il più ardito è capo, i soldati fuggitivi, a quelle viste fatti vergognosi, unisconsi a’ volontari; le partite piccjle in sul nascere, tosto ingrandiscono, e in pochi dl sono masse e moltitudini, le quali, concitate da scambievoli discorsi e dalla speranza di bottino, cominciano le imprese; non hanno regole se non combattere, non hanno scopo fuorché distruggere; secondano il capo, non obbediscono; seguono gli esempi, non i comandi. Le prime opere furono atroci per uccisione di soldati francesi rimasti soli perché infermi o stanchi, e per tradimenti nelle vie o nelle case; calpestando le ragioni di guerra, di umanità e di ospizio. Poco appresero inanimiti da’ primi successi, pigliarono la città di Teramo, quindi il ponte fortificato sul Tronto, e, slegati i battelli che lo componevano, impedirono il passaggio ad altre schiere; mentre in Terra di Lavoro torme volontarie adunate a Sessa, correndo il Garigliano, bruciato il ponte di legno, s’impadronirono di quasi tutto le artiglierie di riserva dell’esercito francese, poste a parco sulla sponda; e poi, trasportando il facile, distruggendo il resto, uccidendo le guardie, desertarono quel paese. Le tre colonne (francesi) dell’ala sinistre non più comunicarono tra loro né con l’ala dritta, impedita dai Napoletani, che in vedetta delle strade uccidevano i messi e le piccole mani di soldati.»
«Stupivano i Francesi, stupivamo noi stessi del mutato animo, senza esercito, senza re, senza Mark, uscivano i combattenti come dalla terra, e le schiere francesi, invitte da numerose legioni di soldati, oggi menomavano d’uomini e di ardimento contro nemici quasi non visti.» (Collette u. s. Lib. III. c. III. 37.) — Ecco la guerra che le masse napoletane avrebbero fatto all’Austria nel 1821, se la rivoluzione napoletana fosse stata una rivoluzione del popolo, e non un rivoluzione meramente settaria; ecco la guerra alla quale gli Alleati, falsamente prevenuto sul carattere della detta rivoluzione, si aspettavano, e che induceva il generale in capo austriaco barone Frimont a non entrare negli Abruzzi se non con la massima circospezione.123
p>La ribellione dell’armata piemontese, che da principio credevasi generale, destò al congresso di Laybach con l’assurda sua baldanza la massima indignazione. L’imperator Alessandro appena la seppe, che spedi ordini sopra ordini alla sua armata di riserva, che aveva già passato il confine, di accellerare quanto più potesse la suo ma:cia verso l’Italia. Il congresso prese occasione della rivoluzione piemontese per pubblicare in nome dei sovrani alleati la seguente dichiarazione, onde far sapere al mondo, che la Santa—Alleanza contro i tentativi dei perturbatori sussisteva ancora in tutta la sua forza.
Déclaration publice au nom des cours d’Autriche, de Prusse et de Russie lors congres de Laybach
L’Europa connaît les motifs de la résolution prise par les souverains alliés d’etouffer les complots et de faire cesser les troubles qui menaçaient l’existence de cette paix générale dont le rétablissement a coûté tant d’efforts et tant de sacrifices.
Au moment même où leur généreuse détermination s’accomplissait dans le royaume de Naples, une rébellion d’un genre plus odieux encore, s’il était possible, éclatait dans le Piémont.
Ni les liens qui, depuis tant de siècles, unissent la maison régnante de Savoie à son peuple, ni les bienfaits d’une administration éclairée sous un prince sage et sous des lois paternelles, ni la triste perspective des maux aux quels la patrie allait être exposée n’ont pu contenir les désirs des pervers.
Le plan d’une subversion générale était tracé. Dans cette vaste combinaison contre le repos des nations, les conspirateurs du Piémont avaient leur rôle assigné. Ils se sont halés de le remplir.
Le trône et l’État ont été trahis, les serments violés, l’honneur militaire méconnu, et l’oubli de tous les devoirs a bientôt amené le fléau de tous les désordres.
Partout le mal a présenté les même caractère, partout un même esprit dirigeait ces funestes révolutions.
Ne pouvant trouver de motif plausible pour le justifier, ni d’appui national pour les soutenir, c’est dans de fausses doctrines que les auteurs de ces bouleversements cherchent une apologie; c’est sur de criminelles associations qu’ils fondent un plus criminel espoir. Pour eux l’empire salutaire des loix est un joug qu’il faut briser. Ils renoncent aux sentiments qu’inspire le véritable amour de la patrie et mettant à la place des devoirs connus les prétextes arbitraires et indéfinis d’un changement universel dans les principes constitutifs de la société, ils préparent au monde des calamités sans fin.
Les souverains alliés avaient reconnu les dangers de celte conspiration dans toute leur étendue, mais ils avaient pénétré en même tems la faiblesse réelle de conspirateurs à travers le voile des apparences, et des déclamations. L’expérience a confirmé ces pressentiments. La résistance que l’autorité légitimé a rencontrée a é:é nulle, et le crime a disparu devant le glaive de la justice.
Ce n’est point à des causes accidentelles, ce n’est pas même aux hommes qui se sont si mal montrés le jour du combat, qu’ on doit attribuer la facilité d’un tel succès. Il tient à un principe plus consolant et plus digne de considération.
La Providence a frappé de terreur des consciences aussi coupables, et l’improbation des peuples, dont les artisans des troubles avaient compromis le sort, leur a fait tomber les armes des mains.
Uniquement destinées à combattre et à réprimer la rébellion, les forces alliées, loin de soutenir aucun intérêt exclusif, sont venues au secours des peuples subjugués, et les peuples en ont considéré l’emploi comme un appui en faveur de leur liberté et non comme une attaque contre leur indépendance. Dès lors la guerre a cessé; des lors les États que la révolté avait atteint n’ ont plus été que des États amis pour les puissances qui n’avaient jamais désiré que leur tranquillité e leur bien—être.
Au milieu de ces graves conjonctures, et dans une position aussi délicate, les souverains alliés, d’accord avec LL. MM. le roi de Deux—Siciles et le roi de Sardaigne, ont jugé indispensable de prendre les mesures temporaires de précaution indiquées par la prudence et présentées par le salut commun. Les troupes alliées, dont la présence était nécessaire au rétablissement de l’ordre ont été placées sur les points convenables, dans l’unique vue de protéger le libre exercice de l’autorité légitimé et de l’aider à préparer sous celte égide les bienfaits qui doivent effacer la trace de si grands malheurs.
La justice et le désintéressement qui ont présidé aux deliberations des monarques alliés régleront toujours leur politique. A l’avenir, comme par le passé, elle aura toujours pour but la conservation de l’indépendance et des droits de chaque État, tels qu’ils sont reconnus et définis par les traités existants. Le résultat même d’un aussi dangereux mouvement sera encore, sous les auspices de la Providence, le raffermissement de la paix, que les ennemis des peuples s’efforcent de détruire, et la consolidation d’un ordre de choses qui assurera aux nations leur repos et leur prospérité.
Pénétré de ces sentiments les souverains alliés, en fixant un terme aux conférences de Laybach, ont voulu annoncer au monde. les principes qui les ont guidés Ils sont décidés a ne jamais sans écarter, et tous les amis du bien verront et trouveront constamment dans leur union une garantie assurée contre les tentatives des perturbateurs.
C’est dans ce but que LL. MN. II. et RR. ont ordonné à leurs plénipotentiaires de signer el de publier la présente déclaration.
Laybach le 12 avril 1821.
Autriche METTERNICH
le baron do VINCENT.
Prusse KRUSEMARK.
Russie de NESSELRODE
Capo d’ISTRIAS
Pozzo di BORGO.
(Veg. Martens Le Guide diplomatique chap. II)124
p>Il generale conte Sallier de Latour, personaggio sotto ogni rapporte autorevolissimo, mi diceva un giorno nell’inverno del 1819 a Torino, aver egli sentito più volle Vittorio—Emanuele dichiarare, che egli darebbe ai suoi Stati all’istante una costituzione, se non fosse certo, che i malvaggi ne farebbero un arma per sovvertirvi ogni ordine, e per turbare la pace dei suoi sudditi; che in teoria e al primo aspetto niente aveavi di più spezioso che una costituzione, ma che in pratica la cosa facevasi tutt’altra. Era a questo discorso del conte Latour presentò il vecchio maresciallo suo padre, che si affrettò di prendere la parola, per dire, aver anch’egli sentito dalla bocca di quell’ultimo e magnanimo principe la di cui candidezza d’animo non permetteva dubitare della sincerità dei suoi detti, varie volte discorsi simili. — D’altronde chi non sa, che in quel torno, la maggior parte dei Sovrani d’Europa propendevano a dare ai loro popoli delle costituzioni. Che se essi non le diedero, la cagione ne fu, che già nei primi saggi, che con esse si fecero, si rese chiaro e manifeste, che i rivoluzionarj se ne sarebbero serviti per disordinare di nuovo l’Europa.125
p>Per comprendere la parte che ebbe il principe di Carignano, poi Carlo Alberto, alla rivoluzione del Piemonte nel 1821, basterà ricorrere alla Storia della detta rivoluzione scritta del conte di Santarosa, ove trovasi tutta una serie di fatti comprovanti la sua reità e complicità, i quali fino ad un certo segno giustificano, e in ogni caso spiegano i rigori usati da Carlo—Felice contro quel principe, e il partito da lui preso, di escluderlo dalla successione al trono sardo-piemontese, e di farla aggiudicare alla sposa del duca di Modena, alla figlia primogenita di Vittorio—Emanuele. Carlo—Felice dovette deporre quel suo pensiero non solo per l’opposizione che vi fecero gli uomini di Stato del Piemonte, ma anche per quella dell’Austria e del di lui ministero, e per quello dell’istesso duca di Modena, il quale ebbe a dire al principe di Metternich: «che l’escludere il principe di Carignano dalla successione, oltre all’essere una violazione dei principi fondamentali del jure pubblico Europeo, e perciò un cattivo esempio, sarebbe anche una sorgente di guerre, poiché esso principe vedendosi escluso dal trono, si metterebbe subito sotto la protezione della Francia o di altra potenza, che sosterrebbe i suoi diritti.» (Veg. su di ciò le Memorie Storiche intorno la vita di S. A. B. Francesco IV. Duca di Modena. (Vol. 111. c. 3. p. 55 — 57.)
Ciononpertanto, ci sono gli Italianissimi, e in ispecialità quella calunnia incarnata del Gualterio, congiurati ud ascrivere ai raggiri del detto Duca Francesco IV di Modena il partito preso da Carlo-Felice di escludere il principe Carignano dalla successione al trono sardo—piemontese. Oltre che si legge nel Memorandum Storico-politico del conte Solaro della Margarita, che fu pel corso di più lustri ministro presidente di Carlo Alberto le seguente dichiarazione «All’idea di diseredare il principe di Carignano era contraria la Corte di Vienna, e intendo indicare il medesimo imperatore Francesco e il principe Metternich; né ciò è un’induzione o una congettura, ma cosa che posso con piena cognizione dell’affare nel modo più positivo asserire. Chiaramente entrambi lo dichiararono a Carlo—Felice; questo depose il suo pensiero, sia per l’opposizione della Corte di Vienna, sia per quella degli uomini di Stato del Piemonte» oltrediciò dico, avvi una voluminosa raccolta di lettere autografe di Carlo—Alberto a Francesco IV scritte dopo di essere divenuto re, nelle quali egli si espande nell’espressione dei più vivi e più caldi sentimenti di riconoscenza, di devozione e di altissima stima, verso di questo. Cosi leggesi in una di coteste lettere:
«Dans toutes les circonstances V. A. B. me donna de si constantes preuves de bienveillance, que nun cœur reconnaissant ne peut les lui rendre que par un attachement illimité. E in un’altra: Je ne puis assez lui dire combien je vé né re ses vertus, combien j’attache de prix à son estime, à son approbation, et à son attachement. E in un’altra: il est impossible de Vous porter un attachement plus vif que le mien, de Vous être plus entièrement dévoue’, et de partager plus complètement sur tous les points Votre manière de penser». (Veg. le Memorie u. s. Vol. III. c. 3. p. 57, e anche la Storia degli Italiani del Signor Cantù. Nota 17. al cap. 184. p. 536 del Vol. VI.)
Quella lucidissima mente del conte Solaro della Margarita indirizza agli Italianissimi relativamente all’affare che qui ci ha occupato una dimanda, che se mai non m’oppongo è giustissima e in sommo grado rimarchevole.
«Siete voi, dice egli, conseguenti quando fatte un delitto al duca di Modena di aver, come voi supponete, pensato ad estendere il suo dominio e diventare Re della parte occidentale d’Italia con tutte le speranze unità alla corona di Sardegna, mentre tanto esaltate Carlo—Alberto per questa medesima idea; se questo chiamate magnanimo e glorioso per aver tentato d’estendere dalle Alpi all’Isonzo il Regno, racchiudendovi Modena, Parma, o Piacenza, perché non saziarsi d’improperar al nome di Francesco IV: Egli non avea diritto ai Trono di Sardegna ciò è certo: (a) ma qual diritto, aveva sugli Stati Estensi e sul Lombardo Veneto Carlo Alberto? Il mio sventurato Signore per sua gran disgrazia si lasciò adescare dai rivoluzionarj, ecco il suo merito agli occhi loro: il Duca di Modena non li accarezzò mai, ecco il suo delitto. Questa é la bilancia dei moderni amici d’Italia».
L’or considerata accusa contro il Duca di Modena se anche falsa, poteva esser vera; non aveva nulla che fosse incredibile, e che si passasse con una inerente assurdità a prima vista una calunnia. Vi ha nel capitolo trentesimo settimo dei Rivolgimenti italiani del Gualterio, intitolato: La rivoluzione del 1821 in Piemonte, una accusa contro l’Austria, che nessun intelletto sano saprebbe leggere senza essere tentalo di gettar da sé il libro con dei segni di un sommo disgusto per non dir di un sommo disprezzo. Parlando dei tumulti piazzali del 14 e 15 marzo, che imposero al principe di Carignano reggente la Costituzione spagnuola, avverte l’autore, che] l’Austria anelava di allontanare dal trono sardo—piemontese un principe qual era il principe di Carignano altamente italiano, e che essa aveva in Torino dei partigiani, che dalla rivoluzione piemontese volevano trar profitto per essa. Questo asserto è bensì gratuito, ma non implica nessuna incongruenza: tutto ciò poteva benissimo essere. Tutt’altro è il caso di ciò che segue.
«Infatti cosi prosegue egli, molte persone sospette si aggiravano quel giorno (il 14) sulla piazza Carignano ad. eccitare il popolo ed impedire che non venisse dal principe accettata transazione veruna, e per la sola Costituzione spagnuola insistesse ostinatamente. Gli avvenimenti del giorno appresso provarono chiaramente un fatto allora a molti incredibile, ma non tale in appresso, perché replicato più volle: che cioè quelle sinistre faccie, quei misteriosi provocatori erano agenti dal conte di Binder, ministro d’Austria a Torino… Tutta questa parte del moto di piazza fu opera della setta Carbonaresca e dell’Austria. La prima spingeva le cose all’impazzata, secondo i suoi principj e le sue abitudini, e la seconda non cercava che un pretesto d’intervento… Il giorno appresso (15) la reazione cominciò a mostrarsi. Lo spirito d’insubordinazione seminato nell’esercito germinò amari frutti, e l’Austria non indugiò a trarne profitto. Si viddero infatti numerosi agenti provocatori, quei medesimi che eccitavano il popolo il giorno innanzi gettarsi tra le file delle truppe, ed invitare i soldati alla diserzione, dicendo loro ohe erano liberi dal giuramento… l’identità di siffatti perturbatori in un senso cosi opposto, il 14 e il 15, addita chiaramente a qual padrone servissero. L’Austria aveva compreso fin d’allora essere in Italia molto facile il far cadere le rivoluzioni negli ec cessi e in questi essere la loro morte: quindi cominciò a prov vedere alla propria salute col render utile sé i cervelli più bollenti e la parte più corrotta». (Vol. III. p. 71 e 72 dell’ed. di Firenze.)
Io mi asterrò da ogni ulteriore commentario su questa accusa con la quale l’autore evidentemente si versa il ranno sui proprio capo, e si dà colla zappa nelle proprie gambe. Dirò soltanto che quando mi accinsi al presente mio lavoro aveva divisato di dedicare tutto un capitolo all’analisi di quelle menzogne e calunnie che più hanno servito a traviare l’opinione pubblica sulla cosi detta questione italiana fuori d’Italia, e in ispezialità in Francia, e nell’Inghilterra; traviamento il quale è una delle principali ancorché indirette cagioni, che l’Italia è tuttora si orribilmente malmenata dai partito rivoluzionario. Ma col detto capitolo avrei di troppo allungato questo scritto, che oltrepassa già cosi e di molto e assai i limiti che gli aveva assegnati. Con questa ommissione, ne convengo, si produce in esso un notevolissimo vuoto, al quale pero il Lettore vi potrebbe facilmente ricorrendo alla Storia riparare, giacché per lo più i fatti vi parlano e si rettificano, ad ogni imparziale attento e studioso lettore, da sé.
a) Non posso ammettere quel «certo» per la ragione, che se anche non vi avea nessun diritto nel Duca stesso, ve ne aveva, rimpello a! principe di Carignano nella figlia primogenita di Vittorio Emanuele tua consorte certamente non meno, che nell’attuale regina di Spagna rimpetto all’infante Don Carlos. Francesco IV. non volle saperne di quella successione, poiché il suo diritto non avrebbe bastalo a impedire dissidj e guerre.126
Primo Manifesto di Carlo – Felice da Modena
NOI CARLO FELICE DI SAVOIA Duca del Genevese etc. etc. Etc
Dichiariamo colla presente, che in virtù dell’alto di abdicazione alla Corona emanato in data del 13 marzo 1821 da S. M. il Re Vittorio Emanuele di Sardegna nostro amatissimo Fratello, e da Esso a Noi comunicalo, abbiamo assunto l’esercizio di tutta l’Autorità, e di tutto il Potere Reale che nelle attuali circostanze a Noi legittimamente compete; ma sospendiamo di assumere il titolo di Re, finché S. M. il Nostro amatissimo Fratello, posto in istato perfettamente libero, ci faccia conoscere essere questa la Sua Volontà.
Dichiariamo inoltre che ben lungi dall’acconsentire a qualunque cambiamento nella forma di Governo preesistente alla detta abdicazione del Re nostro amatissimo fratello, considereremo sempre come Ribelli tutti coloro dei Reali Sudditi, i quali avranno aderito o aderiranno ai sediziosi, ed i quali si saranno arrogati o si arrogheranno di proclamare una Costituzione, oppure di commettere qualunque altra innovazione portante offesa alla pienezza della Reale Autorità, e dichiariamo nullo qualunque alto di Sovrana competenza che possa essere stato fatto o farsi ancora dopo la detta abdicazione del Re nostro amatissimo Fratello quando non emani da Noi sanzionalo espressamente.
Nel tempo istesso animiamo tutti li Reali Sudditi o appartenenti all’armata o di qualunque altra classe essi siano, che si sono conservai fedeli, a perseverare in questi loro sentimenti di fedeltà e di opporsi attivamente al piccolo numero de’ ribelli, ed a stare pronti a qualunque Nostro comando o chiamata per ristabilire l’ordine legittimo, mentre Noi metteremo tutto in opera per portar loro pronto soccorso.
Confidando pienamente nella grazia ed assistenza di Dio, che sempre protegge la causa della giustizia, e persuasi e h e 1 i Augusti Nostri Alleati saranno per venire prontamente con tutte le loro forze al Nostro soccorso, nell’unica generosa intenzione da essi sempre manifestata di sostenere la legittimità dei Troni, la pienezza del Real Potere, e la integrità degli Stati, speriamo di essere in breve tempo in grado di ristabilire l’ordine e la tranquillità, e di premiare quelli che nelle presenti circostanze si saranno resi particolarmente meritevoli della nostra grazia.
Rendiamo nota colla presente a tutti i Reali Sudditi questa Nostra Volontà per norma della loro condotta.
Dato in Modena il di 16 marzo 1821.
Firmalo CARLO FELICE127
Secondo Manifesto di Carlo – Felice da Modena
NOI CARLO FELICE DI SAVOIA Duca del Genevese etc. etc. etc.
Per togliere a chicchessia ogni pretesto d’ignoranza della Nostra Volontà e del modo con cni noi riguardiamo la ribellione accaduta nel Piemonte e nel Ducato di Genova, e per ismentire le false interpretazioni della Nostra Volontà, le quali ebbero luogo lin ora, vogliamo che sia pubblicamente noto quanto segue: 1. Dichiariamo ribelli tutti coloro dei Reali Sudditi, i quali in qualunque modo osarono insorgere contro S. M. il Re Vittorio—Emanuele nostro amatissimo Fratello, e che tentarono d’immutar la forma di Governo dopo la di lui abdicazione. Cosi egualmente chiunque dopo aver avuto cognizione del Nostro Proclama datato da Modena del 16 marzo 1821 ha persistito a favorire il partito dei rivoltosi, o non avrà prestata la dovuto obbedienza ai Governatori generali da Noi istituiti, non che tutta quella parte di truppa reale, la quale seguendo il partito dei sediziosi, si uni ai loro corpi d’armata.
II. Volendo però usare di clemenza verso quelli che possiamo credere ingannati e illusi, accordiamo amnistia ai soldati comuni che rientreranno nel loro dovere; dei bassi uffiziali di detta truppa non otterranno però da Noi grazia che quelli che dopo maturo esame si saranno giustificati; ma gli uffiziali di qualunque grado i quali sordi alle voci del dovere e dell’onore o presero parte alle prime ribellioni delle truppe, o seguirono le bandiere dei ribelli, sono con la presente da Noi dichiarati felloni, e saranno accordate ricompense pecuniarie a chi li consegnerà prigionieri all’armata fedele sotto gli ordini del Nostro Governatore Generale Conte della Torre.
Ordiniamo a tutti i bassi uffiziali e soldati che trovansi all’armata ribelle ad Alessandria, e nella cittadella di Torino, di ritornare alle case loro, e proibiamo ai contingenti di ubbidire qualunque ordine dei ribelli di unirsi alla loro armata.
Dichiariamo che nell’obbedire alla chiamata della Provvidenza col!’ addossarsi il grave peso dell’esercizio della Sovrana Autorità riconosciamo che il nostro primo dovere si è quello di separare alfine i pochi individui ribelli e sediziosi dalla maggiorità dei sudditi fedeli ed attaccati alla Nostra Reale Famiglia; e che in ciò consiste il più gran beneficio che giustamente attendono questi fedeli Reali sudditi, qual unico mezzo di ridonare loro quella felicità e quella quiete di cui mai porrebbero godere stabilmente, finché costoro si troveranno ad essi frammischiati.
Dichiariamo pertanto che per giungere a questo salutar fine (sdegnando ogni trattativa coi felloni) giudichiamo necessario che la parte d’Armata Reale che è rimasta fedele sia sostenuta nella rioccupazione dei paesi sconvolti dalla rivoluzione dalle Armate dei Nostri Augusti Alleati, e perciò abbiamo invocato il loro soccorso, del quale siamo stati da essi assicurati, coll’unico generoso scopo di assisterci nel ristabilimento del legittimo Governo, ovunque la sedizione ha osato sconvolgerlo. Quindi ordiniamo che ogni buon suddito riguardi dette truppe come amiche ed alleate.
Il primo dovere di ogni fedele suddito essendo quello di sottomettersi di vero cuore agli ordini di chi trovandosi il solo da Dio investito del esercizio della Sovrana Autorità, è eziandio il solo da Dio chiamato a giud care i mezzi i più convenienti ad ottenere il vero lor bene, non potremo riguardare come buon suddito chi osasse anche solo mormorare di queste misure che Noi giudichiamo necessarie.
Nostra cura sarà di tutelare li buoni e fedeli Reali Sudditi in modo che soffrano il meno possibile dei pesi inevitabilmente congiunti con misure le quali debbono portare la loro felicità, e che questi pesi principalmente cadano sui felloni, quali autori e rei di tutti i mali dello Stato.
Nel pubblicare a norma della condotta di chiunque questi nostri voleri, dichiariamo che solo colla perfetta sommessione ai medesimi, i Reali Sudditi si possono render degni del Nostro ritorno fra di loro, e frattanto preghiamo Dio che si degni illuminare tutti ad abbracciare quel partito al quale sono chiamali egualmente dal dovere, dall’onore, e della Santa Nostra Religione.
Dato in Modena il di 3 aprile 1821.
CARLO FELICE
I manifesti qui dà me dalle anzidette Memorie Storiche prodotti, dei quali il primo non si legge nel Gualterio se non in francese, e il secondo vi manca affatto, fecero non solo nel Piemonte ma anche a Lubiana al Congresso, una straordinaria impressione. Un linguaggio cosi franco. Cosi fermo, non si era ancora coi rivoluzionarj italiani tenuto. Le parole «ribelli, feloni» non eransi ancora in Italia udite. I Sovranni Alleati pensavano che modi siffatti potessero spingere i rivoluzionarj a degli atti di disperazione. S’ ingannavano. Quei due manifesti li atterrarono e schiacciarono. I timorosi, che loro eransi associati perché li temevano, temettero più ancora Carlo—Felice, e se ne staccarono. I buoni ne furono rinfrancati. Il Principe di Carignano abbandonò Torino e si ridasse, con la maggior parte delle truppe che vi erano, a Novara, ove arrivato, fece di pubblica regione la seguente dichiarazione egualmente dal Gualterio ommessa:
CARLO ALBERTO Principe di Carignano.
Allorquando assumessimo le difficili incombenze di Reggente non peraltro il femmo, fuorché per dar prova dell’intiera nostra obbedienza al Re, e del caldo affetto che ci anima pei pubblico bene, il quale non ci permetteva di ricusare le redini dello Stato momentaneamente a noi affidale per non lasciarlo cadere nell’anarchia, peggiore dei mali onde possa una Nazione essere travagliata, ma il primo nostro giuramento solenne fu quello di fedeltà all’amatissimo nostro Re Carlo Felice. — Pegno della nostra fermezza nella giurata fede si è l’esserci tolti dalla Capitale insieme colle trappe che qui precediamo, e il dichiarare ora qui giunti, come apertamente dichiariamo, che, rinunziando dal di d’oggi all’esercizio delle dette funzioni di Principe Reggente, altro ambire non sapremo che di mostrarci il primo sulla Strada dell’onore, e dar cosi a tutti l’esempio della più rispettosa obbedienza ai Sovrani voleri.
Dato in Novara il 23 marzo 1821.
CARLO ALBERTO.128
I giovani soldati del reggimento Genova che formavano la guarigione della cittadella di Alessandria, spaventati al l’idea di aver a sostenere le fatiche di lungo assedio, eransi sollevati, avean fato foco si loro uffiziali, e non era stato possibile contenerli, che appuntando contro loro due pezzi di cannone. Il comandante trasi determinato ad aprire una porta di soccorso lasciando da quella uscire gli ammutinati. Il forte Ansaldi, cui nulla aveva sgomentato, gi si disponeva a rinchiudersi nella cittadella con la guardia nationale, ma la paura e lo sconforto erano (nei rivolzionarj) universali. Ansaldi si vide costretto a prendere la strada di Genova con quei pochi Soldati che fedeli non vollero abbandonarlo. (Santarosa u. s. p. 131 e 132.)129
Les rente jours de la Rvolution du Pimont. . . p. 73. Chi poi non volesse credere al qui citato scrittore comecch evidentemente contrario ai Rivoluzionarj creder alla seguente lettera di uno di quegli studeni i quali presero parte al moto rivoluzionario che ebbe luogo ad una delle porte di Torino il giorno 10 marzo:
«Tout était en mouvement, dice quell’adolescente dans l’intérieur de la ville, exceptée la masse des habitans, qui, sans désapprouver notre con a duite estimait pourtant plus conforme à ses intérêts du moment de garder le silence. Quel spectacle douloureux pour nous de voir au pied de la colline des citoyens mus par le seul aiguillon de la curiosité, mais trop indolents pour partager nos sentiments, nos fatigues, notre bonheur et nos peines». (Gualterio Vol. III. c. 37. p. 63.)130
Europa al congresso di Vienna vedeva e considerava nell’Austria la naturale e principale salvaguardia del riordinamento, della sicurt, e della pace d’Italia. La detta potenza aveva tanto in rileso alla sicurt e tranquillit del suo regno LombardoVeneto, e alle sue, dal jure pubblico Europeo riconosciute relazioni dinastiche con la Toscana e con Modena, il diritto, e, in riguardo a diversi particolari trattati col regn delle Due Sicilie e con quello di Sardegna, il dovere d’intervenire negli afari d’Italia contro le imprese dei rivoluzionarj. L’Inghilterra stessa ammetteva, come incontrastabile, il diritto in ogni Stato d’intervenire, quando la sua sicurezza, e i suoi essenziali e vitali interessi venivano seriamente e immediatamente compromessi dagli avvenimenti interni di alcuno degli stati limitrofi. Poteva mai 1Austria non vedere nella ribellione dei Ducati, delle Legazioni, e delle Marche una minccia e sommi pericoi pel suo regno LombardoVeneto? Eppure atese essa, per soccorrere il Papa il duca di Modena e la duchessa di Parma, di esserne da essi richiesta.131
Veg. lo scritto: De la Force du Droit, et du Droit de la Force, par E. de Valm ancien dput. (Paris 1850. 2partie. Questions internationales. III. p. 216.)132
Sono stato lungamente in forse se dovessi o non dovessi ammettere i seguenti due documenti tolti dl Gnalterio Tomo I. docum. 84. e 85. Li ho alla fine ammessi, perch in ispezialit il secondo in gran parte soccorre alla mancanza della quale ho fatto menzione alla fine della nota 15.
Protesta del conte di Sainte—Aulaire ministro di Francia a Roma, contro l’intervento austriaco nelle Romagne in data del 37 marzo 1831
Il sottoscritto ambasciatore di Francia presso la Santa Sede avendo avuto contezza che le truppe austriache sono penetrate nelle terre della Chiesa, ed occupato la città di Bologna, si trova nell’obbligo di dichiarare al gabinetto pontificio, che il governo francese non saprebbe ammettere il principio in virtù del quale si è effettuata questa occupazione, né consentire ad uno stato di cose che, dilatando le armi dell’Austria al di là dei limiti de’ suoi proprj dominj, porta un colpo funesto al sistema politico dell’Italia, e distrugge per via di fatto l’indipendenza della Santa Sede. E nell’interesse di tale indipendenza medesima, di cui la Francia si è sempre mostrata gelosa, non meno che del sostegno detta dignità della nazione, che il sottoscritto ha ricevuto l’ordine di protestare, e che egli protesta nella maniera la più solenne contro la occupazione di una parte qualunque degli Stati del Papa per parte di una forza straniera, e contro le conseguenze che ne potrebbero risultare in detrimento della pace, che il governo francese si è applicato fino a questo giorno di conservare con quei mezzi che sono in suo potere. Nel tempo medesimo che egli divide tutte le amarezze delle quali il cuore del romano Pontefice è stato abbeverato fino dai primi giorni del suo regno, il governo di S. M. Cristianissima è convinto, che la via della clemenza e la concessione volontaria delle riforme riconosciute necessarie sulle amministrazioni delle provincie dove la rivolta si è accelerata, dovessero essere de’ rimedj più salutari e più soddisfacenti, che l’appoggio pericoloso sempre di una forza materiale straniera. Egli pensa e spera ancora, che questi mezzi saranno presi in considerazione dall’alta saviezza di Sua Santità, come i soli efficaci mezzi per ricondurre gli spiriti ad una sommissione sincera, e per accelerare il termine di una assistenza estranea, che può far nascere si gravi complicazioni.
27 marzo 1831.
Sainte—Aulaire ambasciatore di Francia.
Note diretta dal cardinale Bernetti a S. E. il signor conte di Saint – Aulaire, ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, in replica alla Protesta del 27 marzo 1831.
Roma li 28 marzo 1831.
Il sottoscritto cardinale pro—segretario di Stato ha l’onore di accusare il ricevimento della Nota di S. E. in data di jeri, e di accettarla, come era suo stretto dovere. Egli è stato sollecito di porta sottocchio di Sua Santità e di unirvi la più fedele relazione di quanto V. E. ci aveva aggiunto in voce nelle conferenze di cui lo ha favorito. il Santo Padre sensibile a tutto ciò che di obbligante V. E. ha espresso nella Nota in nome di S. N. Cristianissima e nel di lei proprio nome, ha prima di tutto ordinato al sottoscritto di renderle per questo le più vive azioni di grazie; e quindi passando al grave, oggetto della Nota medesima non ha potuto Sua Santità dissimulare la grande sorpresa onde è stata colpita nel leggere la protesta emessa in nome della lodata M. S. contro il generoso soccorso accordato dall’imperatore d’Austria per reprimere una turba di ribelli, che si avvisarono di sconvolger a mano armata il governo pontificio. Nel sentire qualificato questo stesso soccorso implorato, col nome di occupazione, e nell’apprendere che il governo di Francia non credo ammissibile il principio in forza di che il soccorso medesimo è stato accordato, quasiché questo principio e questo soccorso fossero dementi a turbare la pace di Europa; geloso come è il Papa di far conoscere al mondo intero la illibatezza costante delle sue intenzioni e quelle principalmente che possono in qualche modo riferirsi agli interessi dei suoi augusti alleati, non saprebbe come meglio parlare della sua condotta nel caso di cui si tratta, che facendo genuina la storia di quanto ha preceduto la invocazione delle forze austriache. La più semplice esposizione di essa varrà assai meglio di ogni più ingegnosa confutazione, che forse non saprebbe riuscire del tutto inutile ove piacesse di entrare in esame di que’ principj e di queste massime che formano il soggetto attuale delle dissenzioni de’ gabinetti. Non era ancora Sua Santità assisa sul trono pontificio, che una turba smaniosa di turbolenti insorse in Bologna, collegata co’ rivoltosi di Modena per rovesciare la dominazione detta Santa Sede. La prima sua impresa fu quella di rapire con inganno, misto alla più svergognata violenza, l’autorità del pontificio rappresentante. Obbligato questo a partire, si costituirono que’ ribelli in un governo provvisorio: questo sedusse ed inganno la truppa colà stanziata l’assoldò al suo servigio; s’impadronì delle pubbliche casse, e ne dispose a sua volontà; obbligò tutti i cittadini ad armarsi, inalberò la bandiera tricolore, proclamò la libertà, e dichiarandosi nazione e potenza, decretò e proclamò decaduti i papi di diritto e di fatto da ogni dominio in quelle provincie. A questi fatti ne seguirono tanti altri della natura medesima, quanti potea suggerire la rabbia feroce detta più sfrenata licenza. Quei rivoltosi si credettero chiamati a sconvolgere la intera Penisola; e creando e raccogliendo armali in ogni classe del popolo, andarono suite prime in soccorso de’ ribelli di Modena; quindi scorrendo come forsennati la Romagna ed il ducato di Urbino e di Pesaro, andarono colla forza e coll’inganno rivoluzionando quelle provincie pacifiche. — Sventuratamente le truppe del Santo Padre quasi tutte abbandonarono le di lui bandiere e popolarono i ranghi dei rivoltosi. Progredirono queste masse fin sotto il forte di Ancona, e questo ancora, dopo breve resistenza cadde in loro potere coll’intiera guarnigione. Fra pochi giorni le Marche e l’Umbria subirono 1a stessa sorte, e quindi in meno di un mese furono i ribelli vicinissimi alla capitale, e coprendola di calunnie e d’insulti gli minacciarono la tranquillità. Essi aveano in questa ancora non pochi compagni; che se non si vide scoppiare qui ancora la rivoluzione, si dee allo immenso amore di questo popolo pel suo principe, e pel di lui regime paterno. La capitale adunque schivò gli orrori dei disastri detta rivolta: ma occupando i ribelli una parte detta provincia e del Patrimonio, rimase al punto che le sole vie di Civitavecchia e Napoli restarono, ma non senza pericolo per le estere corrispondenze. I demagoghi frattanto profondevano con ogni mezzo e per ogni parte scritti quanto assurdi, altrettanto incendiarj e sanguinosi; vantavano in essi efficaci, possenti e generose protezioni; e quindi all’ombra di una imperturbabile sicurezza, non si videro mai ribelli né più audaci, né più schernitori, né violatori più franchi de’ più sacri diritti degli uomini e dei governi. De’ nomi non ha molto illustri, ora dai consenso di tutta l’Europa proscritti, ma troppo ancora invocati dai turbolenti di ogni paese si mischiarono nella scella tragica della nostra rivoluzione, e si imponeva con essi alle popolazioni.
V. E. non ignora di qual famiglia si parti; ignorerà per altro che un individuo della medesima giunse all’audacia di scrivere direttamente al Santo Padre in tuono insultante e minaccioso: que les forces qui avançaient sur Borne sont invincibles consigliandolo perciò di spogliarsi del suo temporale dominio, e concludendo col dimaudargli una risposta. — In uno stato di cose sotto ogni rapporto così funeste, cosi umiliante, cosi amaro e precursore certo di mali imminenti inevitabili, che far poteva il Santo Padre per salvare la sua persona, che sempre è pronta, ove il bene della Chiesa e dei suoi popoli lo richiedesse, sacrificare? Ma per salvare la Chiesa e i popoli da ulteriori calamità, egli non ascoltò che la sola voce del|a clemenza. Egli assicuro di accorrere volonteroso ai bisogni di tutti, egli profuse beneficenze sui popoli rimastigli fedeli, onde convincere colla prova de’ fatti, più che persuadere colle parole. Che più? Egli spedi ai rivoltosi un Legate a latere, onde richiamarli all’ordine ed alla tranquillità coi mezzi della dolcezza, del|a generosità della munificenza. Questo fu proclamato, ed il proclama esprimeva sentimenti paterni e pacifici dell’oltraggiato sovrano. Una tale missione sa bene l’E. V. in qual maniera fu accolta, sa come fu calunniata con pubbliche stampe, sa infine con quali modi atroci fu accettato esso Legato, personaggio che pochi anni addietro avea formate la dilizia di quella stessa provincia da lui con tanta saviezza governata. Al sottoscritto rifugge l’animo di inoltrarsi in un dettaglio di orrori che troppo sconvolgerebbe il cuore ben fatto e sensibile di V. E. Soggiungerò soltanto, per esattezza di storia, che quel personaggio medesimo, il cardinale Benvenuti, fu tolto ultimamente del suo luogo di arresto in Bologna per ordine del disertore Zucchi, conduttore da’ ribelli Modanesi e Reggiani, per condurlo in Ancona esposto a nuovi oltraggi ed a reiterate sofferenze. Insomma, fu tutte inutile quanto opero il Santo Padre tenendo la via della longanimità e della clemenza. Ma poteva essere altrimenti trattandosi con de’ ribelli, che tali aveano voluto essere prima di conoscere il loro nuovo sovrano: che non gli aveano avanzate una istanza, che non aveano conosciuto una volontà, un pensiero, un desiderio? Potevano quei sciagurati accettare concessioni mentre pretendevano di dettar leggi? La più ingrata ripulsa, i sarcasmi più amari, le ingiurie e le minaccie più sanguinose fu ciò che i ribelli contrapposero alla bontà, ed alla clemenza del Santo Padre. I proclami che essi distesero, gli scritti che pubblicarono, i fogli loro periodici ne faranno fede immortale alla posterità. Dopo tutto ciò, sia permesso al cardinale scrivente di riportarsi internamente al giudizio di S. M. Cristianissima, perché decida se il Santo Padre ha nulla tralasciato di quello che poteva allontanarlo dalla necessità di implorare quel pronto ed efficace rimedio ai tanti mali che lo circondavano, vale a dire quel soccorso austriaco che ha ottenuto; o se non si è indotto a questo passo dopo di avere esaurito quanto era in poter suo di tentare. D’altronde polea la Santa Sede non ricorrere a questo mezzo unico di salvezza senza mancare alli suoi più sacri doveri di conservare intatti li suoi dominj per trasmetterli, come li ha ricevuti, alli suoi successori; e senza correre pericolo di rimanere mancipio di una mano di faziosi, e cosi perdere coll’esercizio del suo ministero diffuso sul mondo intero, quella libertà e quella indipendenza che tutti i sovrani d’Europa riconoscono necessaria, indispensabile, per le quali esistono le garanzie più solenni ne’ stipulati trattati, ove egli avesse trascurato cosi importante dovere di ricorrere spontaneamente, in cosi urgente bisogno, a quelli principalmente che alle sovra esposte considerazioni uniscoD0 quelle che emanano dall’immediato contatto di territorio? Quando dunque V. E. non dubiti della verità de’ fatti esposti, e si compiaccia di rappresentarli alla M. S., il sottoscritto non saprebbe temere un solo istante che il Re Luigi Filippo, che l’E. V, che la Francia intera, lungi dal riprovare quel principio in forza del quale S. M. I. R. A. è venuta in soccorso detta Santa Sede e de’ suoi dominj medesimi, e lungi infine di prendere interesse di sorte alcuna a favore dei nostri ribelli: approveranno altamente il partito preso dal governo pontificio, converranno che mercé soltanto di tale partito si è conservata lu indipendenza della Santa Sede, ed abbandoneranno al rimorso e all’obbrobrio coloro che altro non respirano se non se allo sconvolgimento di ogni ordine, sovversione di ogni principio, odio alla pace ed alla tranquillità di ogni governo. A questo proposito, il sottoscritto non vuole tacere all’E. V. che il Sunto Padre, coerente sempre a sé stesso nel desiderio di allontanare dalla mente di chicchesia ogni più remota idea di sinistra interpretazione della sua condotta in un affare cosi grave qual è quello di cui si tratta, non ebbe deciso di esporre la penosa sua situazione a S. M. l’Imperator Francesco I, che portò alla cognizione di questo eccellentissimo Corpo diplomatico il passo che faceva, onde ogni individuo di esso fosse al caso di renderne instruita la propria Corte; e nessuno già testimone delle dolorose vicende ha trovato finora riprensione da contrapporgli. Del rimanente il cardinale sottoscritto non vuole terminare la presente nota senza assicurarlo in nome del Santo Padre:
1. Che il soccorso implorato dalla M. S. I. e R. A. non è stato accompagnato da alcun trattato;
2. Che detto soccorso si è ottenuto colla sola espressa condizione per parte della M. S. I. e R. A. che è quella di comprimere la ribellione; ristabilire la tranquillità nei dominj pontificj, e nulla immischiarsi negli affari governativi nel più esteso senso.
3. Che la presenza dell’armata austriaca sarà la più breve possibile in questi Stati.
4. Finalmente, che il Santo Padre, ansioso com( 1) è di procurare alli suoi sudditi ogni possibile e vero bene, affretta con i più fervidi voti la pacificazione dell’attuale tempesta, onde poi assicurarne la calma con tutti quei miglioramenti amministrativi de’ quali V. E. sembra far cenno nella ripetuta sua Nota. Egli già si occupa di quest’opera interessante, e, mercé i lumi che si compiace accogliere da ogni parte, spera di compirla colla maggior sollecitudine.
Il cardinale scrivente profitta di questa circostanza per dichiararsi ecc.
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La protesta del conte di Sainte—Aulaire fu una formalità diplomatica, niente altro. La nota, con la quale il pro—segretario cardinale Bernetti vi rispose, valse a Luigi Filippo e al suo ministero a rispondere alle interpellazioni che relativamente all’intervento austriaco surgevano nelle camere francesi; e il detto intervento fu attuato senza alcuna ulteriore obbiezione con poco più di una brigata; e consistette, come è stato detto e ridetto, non in altro che in una marcia di essa, giacché la ribellione si limitava ad una piccola frazione della rispettiva popolazione, e che il vero popolo era alla ribellione avverso ed ostilissimo. Pur troppo né i Francesi né gl’Inglesi vollero mai comprendere che ciò che veramente ostava alla rivoluzione italiana era la circostanza, che le popolazioni pontifizie erano contente e avevano ogni regione di esserlo, e che il malcontento che loro si supponeva era un puro ritrovato dei pochissimi rivoltosi, e le addimandate riforme puri pretesti. I Francesi e gl’Inglesi spiegavano la nessuna resistenza che incontravano gli Austriaci col: « p>Les Italiens ne se battent pas ». Quegli Italiani si sarebbero alzati tutti come un sol uomo, e come nel 1799 si alzarono negli Abbruzzi e più tardi nella Romagna e nella Toscana contro i Francesi, qualora avessero avuto un motivo di farlo.133
Cant u. s. cap. 184 pag. 524 del 6. Vol.134
Veg. nel Gualterio Vol. I. i documenti 75, 76, 77, 78, 7e in particolare il documenta 82, cioè l’Editto di Gregorio XVI. del 5 aprile 1831 contro i ribelli, nel quale è detto, oltre molta altro: «Ma se colla sincerità di riconoscenza la più viva, ravvisiamo nell’imperiale reale esercito quelle elette schiere di prodi, alle quali volle Dio riservato il trionfo sopra la perversità dei rivolto si.; gloria sia pure e lode a quegli onorati cittadini, che riunitisi premurosi in Milizia Civica vegliarono indefessi sotto le armi, fra i travagli di servizio il più stretto, alla salvezza della nostra persona ed alla quiete di questa città, Noi osservammo con tenerezza gareggiare in questo generosamente e indistintamente col popolo persone tratte dalla nobiltà più illustre, e da quanto avvi in tutti gli ordini di scelto e di attivo… Ma in cosi decisa fedeltà e in si nobile intendimento emule ebbe il popolo romano le convicine provincie, che dopo essersi disposte alla difesa dei loro territorj, ebbero a gloria d’inviare dei volontarj, i quali lasciali i proprj focolari corsero ad aumentare quella parte preziosa delle nostre truppe, che sotto esperti ed onorati condottieri senti la forza dei giuramenti a noi prestati, e seppe difendere e far rispettare uh suolo sacro alla fedeltà».135
«Vorremmo pur dilattare con eguali espressioni il cuore sopra tutti gli altri popoli ancora, che Dio affidò al nostro temporale governo. Ma se furono essi strascinati nelle disavventure della rivolta ci è ben nolo che non furono nella massima parte che vittime della coazione e del timore; siccome ben dimostrò la esultanza e la gioja con cui, appena apparve un raggio di prossima liberazione, scosso il giogo umiliante loro imposto dai sediziosi, e sostituito alle insegne della fellonia, il pacifico vessillo del pontificio governo, proclamossi il ritorno a quel padre e sovrano, dal cui senno gli aveva strappati miseramente il delitto di pochi»«.
Promette poi il Santo Padre nello stesso editto provvidenze che migliorino felicemente lo Stato de’ suoi sudditi. Sennonché niente era più contrario ai divisamenti e alle speranze della rivoluzione, che qualunque vero e reale miglioramento governativo e amministrativo che avesse potuto accrescere l’affetto, la devozione e la sommissione nei di lui sudditi. Essa si mise quindi a chiedere riforme, o per dir meglio concessioni che non erano in fondo che licenze, porte e scale per giungere alla repubblica democratica socialista che era l’ultimo e finale suo scopo. In vista di ciò Gregorio XVI. si fermò, e
«Per non perder pietà si fe’ spietato.»136
Pio IX suo successore si provò a fare ciò che il suo antecessore non aveva osato. Purtroppo riuscirono i rivoluzionarj a corrompere e a guastargli ogni sua opera; e la repubblica si fece. Merita per certo in sommo grado di essere osservato e ricordato che il governo di Francia, cioè il governo di Luigi Filippo previde che il fuoco rivoluzionario il quale accendevasi nel 1846 in Italia si estenderebbe tosto o tardi agli Stati limitrofi; il che già da lì a pochi mesi si avverò, e, anzi prima che altrove, nella Francia, ove l’esistente governo monarchico—costituzionale fu atterrato, per far luogo ad una repubblica che fa sul punto di convertirai in nna anarchie socialiste. Il signor Guizòt ministro degli affari esteri di Luigi—Filippo cosi scriveva li 18 settembre 1847 al barone di Bourgoing incaricato d’affari di Francia a Torino.
«Je vous sais gré de la franchise avec la quelle vous m’avez rendu compte des impressions qui se manifestent autour devans sur notre attitude en Italie, le m’étonne peu de ces impressions Les populations italiennes rêvent pour leur patrie des changements qui ne pourraient s’accomplir que par le remaniement territorial et le bouleversement de l’ordre Européen, c’est à dire par la guerre et les révolutions. Les hommes même modérés n’osent pas combattre ces idées, tout en les regardant comme impraticables, et peut—être les caressent eux—mêmes au fond de leur cœur avec une complaisance que leur raison désavoue, mais ne supprime pas. Plus d’une fois déjà l’Italie a compromis ses plus importants intérêts de progrès et de liberté, en plaçant ainsi les espérances dans une conflagration européenne. Elle les compromettrait encore gravement en rentrant dans cette voie. Le gouvernement du roi se croirait coupable si, par ses démarches, ou par ses paroles, il poussait l’Italie sur une telle pente. E scrivendo al conte Rossi ambasciatore francese a Roma in una lettera confidenziale li 27 settembre dello stesso anno: Il y a, chez le Pape et en Europa des gens, qui veulent qu’il bon lever se tout, qu’ il remette toutes choses en question, au risque de se remettre en question lui—même, comme le souhaitent au fond ceux qui le poussent en ce sens… On dit que nous nous entendons avec l’Autriche, que le Pape ne peut pas compter sur nous dans ses rapports avec l’Autriche. Mensonge que tout cela, mensonge intéressé et calculé du parti stationnaire, qui veut nous décrier par ce que nous ne lui appartenons nullement; et du parti révolutionnaire qui nous attaque parfont parce que nous lui résistons efficacement. Nous sommes en paix et en bonnes relations avec l’Autriche, et nous désirons y rester, parce que les mauvaises relations et la guerre avec l’Autriche, c’est la guerre générale et la révolution en Europe. Nous croyons que le Pape aussi a un grand intérêt à vivre en paix et en bonnes relations avec l’Autriche, parce que c’est une grande puissance catholique en Europe, et une grande puissance en Italie. La guerre avec l’Autriche c’est l’affaiblissement du catholicisme, et le bouleversement de l’Italie. Le Pape ne peut pas en vouloir». (Veg. nel: «Guide diplomatique del Martens, la Correspondance diplomatique sur les affaires d’Italie 1846—1847» Chap. IV. p. 420, e 421…)137
Fa parte di una risposta che diede Ottaviano de’ Medici principale nel governo della Toscana sotto Cosmo I. ad un orator Sanese inviatovi per discolpar Siena dall’aver rotta la capitolazione con la Spagna. Sta nel «Gentiluomo» del Muzio Giustinopolitano. Ven. 1575. Libro IL p. 120.138
Considerazioni sopra gli avenimenti del 1848. in Lombardia del maggiore Francesco Lorenzini. Tprino 184pag. 24. Lorenzini u. s. p. 30 e 31.139
Lorenzini u. s. p. 30 e 31.140
Lorenzini u. s. p. 36.141
Cantù. Storia degli Italiani cap. CXCIII pag. 734 del Vol. VI.142
Cantù. U. s. cap. CXCIII. p. 735.143
Costanzo Ferrari. Marij di Brescia cap. XXIII. Vol. II. p. 157. E’ un romanzo—storico, che contiene degli interessantissimi particolari sulla guerra d’Italia del 1848 e 1849.144
« Erinnerungen eines österreichischen Veteranen , ossia Reminiscenze di un Veterano austriaco della guerra d’Italia nel 1848 e 1849». Vol. I. pag. 168.145
Cantù u. s. cap. CXC1I. pag. 768.146
La gente del contado mostravasi in generale in tutto il Friuli adiratissima contro i Signori, per la guerra attirata sul paese, come essa diceva, per spasso. Ma non era difficile di comprendere che sotto vi stava un malvecchio, un odio inveterato, un astio che cercava l’occasione di sfogarsi. La truppa del conte Nugent non si metteva nelle di lei fermate a campo, senza che dei campagnuoli vi accorressero ad aizzar quanto più potevano il soldato contro le prossime case di campagna dicendole apparterrete a dei nemici dell’Austria. Dovrò ancora parlare di questo spirito ostile ai Signori che del resto s’incontra non solo nel Friuli, ma più o meno, in ogni paese italiano. Se in Italia i Signori non avessero altro argomento per non disordinarla, il detto spirito predominante nella gente del contado vi dovrebbe bastare.147
Sulla missione di questo uffiziale veggasi: La Relazione succinta delle operazioni del generale Durando nello Stato Veneto di Alassimo Azeglio Milano. 1848. pag. 10.148
Relazione u. s: pag. 15. L’autore Massimo Azeglio personaggio attinente alla primaria nobiltà piemontese il quale figura fra’ principali e più operosi agitatori che si adoperarono a pervertire l’Italia centrale, (Montanelli. Memorie Vol I. cap. XV. pag. 112.) assistete alle marcie e contromarcie del generale Durando come colonnello dello stato maggiore. —Alla mia relazione delle operazioni del conte Nugent ba servilo di base il ragguaglio officiale di esse, pubblicato dagli Austriaci intitolato: « Kriegsbegebenheiten bei der K. Ôsterreichischen Armee im Venezianischen, im Küsteulande, und auf dem adriatischen Meere vom 1. April bis Ende October 1848. Wieu 1851». Ma ho col risultato pur anche la relazione Azeglio.149
«Lo Stato Romano dall’anno 1815 al 1850»«, di Luigi Carlo «Farini». p>Quest’opera traboccante d’inesattezze, di falsità, e di calunnie, poco meno che gli «Ultimi Rivolgimenti italiani», del Gualteriop>, e che le «Istorie Italiane del 1846 al 1853 del Ranalli» è, per le rivelazioni che di tratto in tratto scappano al poco avveduto e incauto scrittore, ma pur anche per i molti e interessanti documenti che vi si trovano, di una grande importanza per chiunque vuol mettersi in istato di giudicare la questione italiana con cognizione di causa. Di quest’opera p>si erano fatte già nel 1853 tre edizioni , e se ne aveva p>anche una traduzione inglese , che dovevasi ad uno dei prominenti membri del Parlamento inglese, al rappresentante per Oxford, l’onorevolissimo signor W. E. Gladstone: traduzione che ha indotto il «Quarterly Review», notoriamente una delle più accreditate reviste d’Inghilterra a parlarne a lungo in un, sotto ogni rapporto, maestrevole articolo, del quale avvi una traduzione in francese stampata nel 1857 presso Carlo Geibel a Lipsia con una introduzione scritta anch’essa da mano peritissima. I,’articolo inglese come anche la traduzione francese incominciano con dei cenni biografici sull’autore che gli assegnano uno lei primi posti fra gli agira—cervelli italiani, fra’ quali citerò i seguenti:
«En 1834 il prit part aux mouvements insurrectionnels en Romagne. Puis il s’échappa à Florence, d’où il dirigea les tenta lives révolutionnaire faites à Rimini en 1845… Il est l’auteur du Manifeste aux puissances Européennes etc». E premessi i detti ed altri cenni l’egregio redattore e con lui il traduttore ci dice: « La réputation de M. Farini toute seule aurait nécessairement attiré notre attention sur une histoire sortie de sa plume; mais quant nous avons vu qu’ un homme d’État et un écrivain de l’élévation de H. Gladstone y avait prêté sou temps précieux, et la sanction plus précieuse encore de son nom, notre attention fut singulièrement éveillée. Allors nous nous attendîmes avec assurance à quelque surprenante révélation de faits, — à quelque franc aveu des erremens dans les quels le parti libéral s’était laissé entraîner, — à quelque exposé des arts par les quels ils avaient été pris. Nous espérions quelque déclaration hardie et honnête d’une vérité peu savoureuse, — quelque avertissement solennel que de nobles des seins ne peuvent être réalisés par des moyens indignes, — que les calomnies, les complots, et les assassinats ne profitent jamais à la longue la cause de la liberté, — qu’ils rendent le gouvernement constitutionnel impossible et la réaction terrible, — que les sociétés secrètes démoralisent quelque peu au delà de toutes les oppressions de la tyrannie. —Nous nous attendions à une déclaration que la régénération politique ne peut être assurée que par le progrès moral, et que tenter de l’obtenir en éveillant les plus mauvaises passions des plus mauvaises classes de la société, c’est essayer de guérir une plaie purulente en y appliquant le vitriol. Nous nous croyions être en droit d’attendre quelque chose de celte espèce — mais notre désappointement est complet… Rigoureusement d’accord avec les précédents établis, l’auteur commence par attribuer tous les crimes et tous les malheurs de l’Europe aux traités de 1815». (Veg. la Question Italienne, et les Partis en Angleterre.)150
Il signor Farini (Stato Romano libro III. c. VII. Vol. II. pog. 130 dell’ed. di Firenze) ricorda un alto di quella gente che non ha in atrocità il suo simile se non nella storia della repubblica Mazzini—romana del 1849. (Veg. Farini, c. s. libro VI. cap. III. vol. III. p. 57 della 3. edizione.)151
Le relazioni del signor Farini dei fatti darmi di Pederoba il giorno 8, di Cornuda il giorno 9, e di Castretta il giorno 11 maggio, se mai si sono lette dal generale Ferrari non possono non avergli fatto dire più di una volta; oh che bugiardo! Parlando del fatto di Castretta lo storico racconta: «aver i fuggenti levato tal romore, e tal nembo di polvere, che gli Austriaci credendo forse essere assaliti da numerosa cavalleria, volsero le spalle». Fatto è, che i fuggenti non possono aver levato verun nembo di polvere, perché gettate le loro armi e bagagli, e abbandonata la strada maestra, fuggivano attraverso i seminati di quelle campagne. Quante volle, leggendo quelle sue relazioni, non fui al caso di ricordarmi il «risum tenentis»?152
Gli scrittori italiani si sono guardati di ricordare l’immenso senso che fece sulla truppa tanto del Durando, non eccettuati neppure i di lui Svizzeri, quanto del Ferrari, ma in ispezialità Su questa ultima, la condotta dei montanari bellunesi e feltrini verso le bande che si eran cacciate, sperando di trovare un forte appoggio, in mezzo ad essi, e che invece vi si videro abbortite e imprecate. Essi attribuiscono lo scoraggimento ed il disordinamento di quelle genti in principalità all’allocuzione del Santo—Padre del giorno 2aprile 1848. Ha questa allocuzione conoscevasi nei campi degli Italiani già il giorno 5 maggio, e non vi cangiò in nulla il fare baldanzoso di quelle turbe. — Tutt’altro fu il caso allorché vi si seppe che le suddette popolazioni maledivano quella guerra, e sfogavano senza ritegno l’aborrimento che loro inspiravano gli eroi che intraprendevano per liberarle dalla schiavitù che secondo essi le opprimeva. Io stesso ebbi a sentire il giorno 10 a Palzè paese vicino a Montebelluna dei testimonj stati presenti a quelle scene Essi dicevano che vi avevano interi corpi di volontarj che parevano imbestialiti. Diffatti il problema cangiavasi intieramente, e ad una guerra facilissima, e da farsi danzando a cantando, s uh entra va una di carattere essenzialmente e totalmente diverso.153
La spedizione del conte Nugent ha avuto la disgrazia di essere mal compresa e mal esposta non solo dagli Storici italiani e italianissimi, ma anche dal generale prussiano Wïllisen, il quale ne parla nel suo Libro intitolato: «Der italienische Feldzug des Jahres 1848» alle pag. 139, o 140. (a) Egli dice, che qualora il corpo d’armata del conte Nugent fosse stato compenetrato dell’importanza del suo problema, che secondo lui non era altro, che di raggiungere al più presto l’armata del maresciallo Radetzky, avrebbe lasciato il giorno 20 Udine e facendo anche sole 3 miglia geografiche di 15 al grado al giorno, sarebbe giunto già li 25 a Conegliano e al più tardi coi primi di maggio a Verona; mentre invece arrivo il 1° di maggio soltanto a Pordenone.
Il generale Willisen, come si vede, pensava che non avendovi fra l’Adige e il Lisonzo né truppe piemontesi, né trappe romagnole, il paese in discorso non presentasse veruna difficoltà, e si potesse come in tempo di piena pace traversarlo, e percorrerlo. Egli s’ingannava a partito. Il paese era tutto in balia della rivoluzione, e di numerose bande d’armati. Vi aveva nel. Friuli un generale italiano che aveva servito nell’armata italiana di Napoleone con distinzione; la situazione imponeva al conte Nugent tutt’altri calcoli e fl essi, che non erano quelli del generale Willisen. — Il corpo d’armata arrivava sul Lisonzo alla spicciolata, ed era in gran parte ancora per istrada; arrivato che fosse doveva ordinarsi e fornirsi dell’occorrevole materiale di guerra. Il conte Nugent non perdette un’ ora di tempo a passare il confine subito che ebbe assieme la truppa che potesse bastare a combattere la rivoluzione nel Friuli. Egli lo passo il giorno 17 aprile con soli 14 mila uomini, coi quali ebbe a bloccare Pal ma e ad assalire Udine, ove entrò non il giorno 19, ma il giorno 23 del detto mese. Il ponte sul Tagliamento erasi frattanto dai rivoluzionari, direttivi dal generale piemontese La Marmora, in gran parte già abbruciato, e conveniva ristabilirlo; ciò che non era in verun caso, se anche non vi s’incontrasse alcuna opposizione, l’opera di qualche ora, ma bensì se non di una intera settimana, di parecchi giorni. Né potevasi dubitare che come si era abbruciato il ponte sul Tagliamento, si abbrucierebbe anche il ponte sulla Piave alla Priula, e cosi quello sulla Brenta presso Fontaniva. E non si era certi di trovare intatto neppure il ponte, ancorché di pietra, sulla Livenza in Sacile. E dato anche che si fossero superati i detti quattro fiumi, restava sempre ancora a superare il passo fi a i monti Berici e i monti Lessiui, nel quale è posta Vicenza, città per la sua situazione suscettibile ad essere in pochi giorni converti la in una fortezza.
In riflesso a tutto ciò, dovette nel conte Nugent prodursi già al Lisonzo il pensiero giustissimo, che superato il Tagliamento e superata la Livenza vi aveano tre strade per raggiungere l’armata del maresciallo sull’Adige: quella pel piano trevigiano e per Vicenza, e se non per Vicenza e per San—Bonifazio, purché si fosse passata h Brenta, per Schio, e per Roveredo; la seconda per Belluno, per Feltre, per Primolano e per la Valsugana, e poi per h Fulgaria e per Caliano, o per Pergine, e per Trente; e la terza per Capo—di—’Ponte, pel Cadore, e pel Pusterthal, e discendendo poi per la Val dell’Adige a Trente. Giunto il conte Nngent il giorno 30 di Aprile a Sacile, apprende che il ponte sulla Piave alla Priula è distrutto, e ché la Piave è, come sempre in primavera, assai gonfia. Il suo problema divenne allora il seguente: far credere al nemico di voler ad ogni costo aprirsi la prima delle suddette strade, ma impadronirsi al più presto dei ponti sulla Piave a Cepo di Ponte e a Belluno, e assicurarsi delle altre due strade, e in ispecialità di Feltre, che gli riapriva la strada di Vicenza pel canal di Piave e Pederoba, e pel canal di Brenta e per Bassano, e gli assicurava nell’istesso tempo la strada per la Valsugana. Or ecco ciò che dal conte Nugent si è anche fatto.
a) Il generale Willisen fece tutta la campagna del 18.18 cogli Austriaci, e si ebbe e merit0 la stima di tutta l’armata154
Un uffiziale di un reggimento croato (Peterwardeiner) parla, in una spezie di giornale di ciò che il detto reggimento ebbe a fare nella guerra in Italia nel 1848, di quella marcia nel modo seguente:
«Il giorno 5 agosto passammo il Pò a Ostiglia, ai 7 della sera eravamo a Modena, che il nemico aveva poche ore prima senza far la minima resistenza abbandonata. Dal momento che entrammo nel Modenese la nostra marcia somigliò ad una marcia trionfale, giacché la popolazione campagnuola devota con sincero attaccamento al suo cavalleresco Duca ci salutava come suoi liberatori.» E parlando poi delle mene del partito rivoluzionario, il quale si appigliava ad ogni mezzo che potesse giovare ai suoi divisamenti, ed aveva assoldato un miserabile per assassinare il Duca, racconta come quel coraggioso Signore, avesse da sé solo disarmato quel scellerato nell’atto che stava per consumare l’orrendo misfatto… ( Skizze der Ereignisse an der untern Donau in den Jahren 1848 und 184mit besonderer Beziehung auf das Peterwardeiner Régiment. Wien 1852} La testimonianza di un forastiero, di un soldato, che menziona un fatto estranio al suo soggetto, mi parve la testimonianza meno sospetta che in tal caso si possa ci tare. L’ opuscolo è d” altronde, ancorché aiionimo, tanto per rapporta allo stile che alla chiareua e alla moderazione, un opuscolo aureo.
Farini. c. s. L. III. c. XIV. pag. 296 dd Vol. IL ed. di Fir. 1853.156
Cosi è. Milano non temeva per certo vendette da un Radetzky, né da una armata da lui comandata e che non sapeva disobbedirgli, bensì nuovi orrori dai ribaldi, che mesi prima l’avevano strascinato nella ribellione. Il Signor Cantù non dice altro nel proposito se non: «La notte Carlo—Alberto usciva celatamente da Milano: il domani rientravano i Tedeschi in una città muta e vuota d’abitanti, che a migliaja rifuggivano in Piemonte o in Svizzera». Vol. VI. pag. 751. — Ma il generale Schònhalls testimonio oculare, uomo franchissimo, che non l’avrebbe detto se non l’avesse potuto dire, ci dice: II contegno della popolazione rimastavi era affatto (vollkommen) amichevole. Se anche vi aveva qualche tetra fisionomia sulla quale leggevasi chiaramente l’odio e la rabbia che vi covavano, vi aveva un molto maggior numero di volti a noi noti che con mute lagrime di gioja ci rendevano grazie di averli liberati dalla situazione nella quale trovavansi (Vol. II. p. 145 e 146. delle sue Reminiscenze.)157
Costanza Ferrari. Maria da Brescia, c. s. Vol. II. c. XXI. pag. 329.
Non sarà per quanto a me sembra, fuor di proposito di qui dedicare alcuni momenti a considerare le bestemmie lanciate dagli Italianissimi contro l’armata austriaca per gli strazzi ai quali si trovò esposta Brescia nel 1819, allorché i di lei rivoluzionarj eccitati dall’Etat malfaisant dei nostri tempi, la strascinarono in una ribellione che supponevasi dover divenire il segnale di una generale sollevazione delle popolazioni lombarde alle di lei spalle, mentre l’armata piemontese l’avesse assalita di fronte. L’istoria fornisce difficilmente in tutti i suoi annali un disegno più diabolico di quello al quale i rivoluzionarj bresciani si hanno lasciati dal suddetto stato associare.
Prescindendo du tutto quel tanto di giusto, e di vero, che in riguardo ai diritti della guerra che fanno parte del diritto delle genti, si legge in Ugo Grozio e nei suoi commentatorj, e anche nel Vattel e nei pubblicisti più moderni, prescindendo dico da tutto ciò, mi fo a pregare gli Italianissimi di dirmi, qual sarebbe stata la sorte che avrebbe toccata ad una città nel caso di una ribellione, fosse dessa anche lontanissima dai disegni quali erano quelli dei ribelli bresciani, per parte dei Romani e ciò anche qualora capitaneggiati, non già da un Mario o da un Sylla, ma da un Giulio—Cesare, o da un Tito—Vespasiano. — Mi si deve rispondere, che una città che mettevasi in un caso simile, sterminavasi. Egli è per altro vero che né Cesare, né Tito erano Cristiani, e che il Cristianesimo aveva essenzialmente modilicati, e se non cangiati, certamente temperati i diritti detta guerra, come in generale i diritti internazionali, giacché il Cristianesimo proclama la fratellanza dei popoli. — Sia cosi. Mi fo ora a pregare che mi si dica, come Gastone de Foix generale del re Cristianissimo Luigi XII. e principe del sangue, e la sua armata francese nella quale pur vi era il cavalière sans peur et sans reproche trattassero Brescia il giorno 1febbrajo 1512, e i di seguenti, per essersi non già ribellata, che questo non era il caso, ma soltanto sollevata contro il presidio del detto re cristianissimo, e forzatolo senza mortalità di uomini a rinchiudersi nel di lei Castello?
Il de Foix che trovavasi, quando gli venne la notizia di quella sollevazione a Bologna, corse su Brescia con parte del suo esercito, vi arrivò il nono giorno dopo partito da Bologna, e Passa li, era il giorno 1febbrejo 1512, discendendo dal castello con circa 7 mila uomini. La città aveva per sua difesa oltre più migliaja di Bresciani parte cittadini, parte montanari e valigiani, 8 mila soldati veneziani. Gastone de Foix riusci non pertanto ad impadronirsene in poche ore, e ciò con grande strage dei di lei difensori. Cessata questa, incominciò il saccheggio della città, la quale secondo quanto si legge nel Guicciardini (Storia d’Italia lib. X. cap. 4) stette esposta «sette giorni continui all’avarizia, alla libidine, e alla crudeltà militare». Aggiungo dal signor Cantù. (Storia cap. CXXI. pag. 124 del Vol. VI.) «Che fattovi un bottino di tre milioni di scudi, fu l’Avogadro, che era uno dei principati sommovitori, con due figliuoli ed altri generosi inviati al supplizio dei traditori, volendo assisterci il cavalleresco G astone, e ricevendo lode da storici e poeti» — Chi non ricava da queste parole del signor Cantù la prova, che il trattamento terribile, che aveva in quei sette giorni toccato a Brescia, consideravasi dai contemporanei come imposto a quel generale dalla sua situazione, e permesso dai diritti di guerra? — Che se consideriamo p>il saccheggio di Pavia ordinato da Bonaparte il giorno 24 maggio 1796, sicché ai nostri giorni, e che fu attuato sotto i suoi occhi, si troverà che anch’esso non fu da nessuno biasimato. Eppure la resistenza vi fu quasi nulla. — Il caso come lo racconta il detto autore è il seguente: «Pavia era occupata da Aagereau e Busca, tutt’ altro che moderali, i quali dissero, star male in faccia all’albero della libertà la statua di un tiranno; tale giudicando quel monumento di bronzo antico, che non si sa cosa rappresentasse.
E subito la plebe gli fu attorno a ruinarlo, gridando morte agli aristocratici e ai preti. Questi invece pascolavansi della speranza che l’occupazione fosse momentanea, e ad un giorno fisso insorgerebbe Milano, e dal Tirolo tornerebbero i Tedeschi. Due sol dati prigionieri fuggiti si credettero l’avanguardia; si diè nell’armi; le campane delle ventotto chiese toccarono a martello, e barricate e lumi; i soldati che non cadono uccisi hanno appena tempo di ricovrar nel castello, ove non avendo da vivere e da curar i feriti capitolano in numero di quattrocento. Pensate che feste, che trionfi, che accorrer di popolo dalla campagna, che trescare di capitani improvvisati! Ma Bonaparte saputone, accorre, manda a ffuoco e sacco Binasco che resisté; e poiché a Pavia spedi invano l’arcivescovo di Milano persuasore di pace, v’entro a forza e abbandonolla al saccheggio. p>Molti perirono tra cui il vicario di esso arcivescovo; e Bonaparte giurava di voler la testa di cento aristocratici; poi s’accontentò di far passar per l’armi il curato di San—Gerone , il cancelliere di Bereguardo e alcuni altri, colpevoli o no; portare ostaggi sessanta fra nobili e preti; gettar una tassa; contento di atterrire coll’esempio in su quelle prime». (Storia c. s. cap. CLXXV1. pag. 23Q del Vol VI.) Qui come si vede non vi ha una parola di biasimo; qui Bonaparte non è detto un agnello, ma neppur una tigre, né una jena, qui lo si fa figurare come un leone. Carlo Botta parlando dell’or esposto fatto. (Storia d’Italia Lib. VII. an. 1796 pag. 331 del vol II dice: «p>Ordinava Bonaparte il sacco; dava Pavia in preda ai soldati durante 48 ore… Queste erano le primizie della libertà. Al che, se per Bonaparte si rispondesse che il sangue de’ suoi soldati trucidati, e la sicurtà del suo esercito queste esorbitanze necessitavano, nessuno sarà per negare». — L’autore adunque qui ammette senza riserva e riconosce il diritto di ricorrere contro una città ribellante alle esorbitanze alle quali ricorse Bonaparte contro Pavia; e riconosce la necessità nella quale si trova un generale in capo e il dovere che per lui ne segue la sicurtà del suo esercito di usarne. — Egli aggiunge bensì che la sollevazione dei Benaschesi, e dei Pavesi era stata provocata da spoliazioni, insulti, derubamenti, e conchiude: che le enormità messe in opera contro quelle genti, devono in ultima analisi imputarsi alfa vera loro origine, cioè a quelle spoliazioni, e a quegli insulti, e derubamenti; siccome, aggiunge egli, le imputa il sommo Iddio, giusto estimatore, delle opere mortali. — Sentenza giustissima. — fila che ne segue in riguardo alla ribellione di Brescia, e alle di lei conseguenze? A chi la colpa? Esaminiamolo.
Volendo esser giusti nel giudicare il caso di Brescia del 1849, non si dimentichi, che non era ancora passato un anno che la detta città si era ribellata contro l’Austria, e ciò senza alcun motivo, senza che vi avesse avuto luogo qualsisia provocazione, anzi senza che vi avesse neppur un pretesto, se pure non si voglia ammettere, che s’abbia a disfare l’Europa per rannodarla secondo il principio nuovo, gratuito, e falso delle nazionalità; non si dimentichi che la ribellione del 4era la seconda nello spazio di un solo anno, e che questa seconda ribellione era una cospirazione con uno stato limitrofo, ed aveva per iscopo di coadjuvare all’esterminio dell’esercito austriaco, che si sarebbe trovato implicato in una guerra guerreggiata col detto Stato. Una siffatta circostanza avrebbe da sé sola bastato all’armata francese, all’armata inglese e a qualunque armata Europea, per non lasciare in una tale città pietra sopra pietra, né sortire dalle di lui rovine anima vivente; non si dimentichi che le masnade che vi si annidarono opposero per più giorni una ostinate, e per due giorni una disperata resistenza; non si dimentichi sopratutto che ciò nonostante a Brescia nel 4non vi ebbe saccheggio, e né ordinato né acconsentito, né tollerato; non si dimentichi che nel 1513 Brescia non resistette che poche ore, e che ciò nonostante dopo finita la lotta, dopo cessato il bollore del combattere, è stata data di sangue freddo, al più sfrenato saccheggio, e ciò durante sette giorni continui; non si dimentichi finalmente, che nel 1796 Pavia non fece veruna difesa che tal nome si meritasse, e che non pertanto fu data pei corso di due intere giornate a sacco anch’essa.
A fronte di tutte le suddette tanto aggravanti circostanze nulla di tale, torno a dire, ebbe luogo l’anno 4nel caso di Brescia. Il vero è, che tanto il giorno 31 marzo, che il giorno susseguente, (*) ciascuna delle colonne d’attacco era seguita da un apposito distaccamento a uso di riserva e di retroguardia, che aveva inoltre l’incarico dl perlustrare i quartieri sgomberati, raccogliervi tutti i soldati che vi si trovassero, e diriggerli ai loro rispettivi corpi; misura che fu attuata col massimo vigore e rigore, e che si rendeva indispensabile, se pure non si voleva che alla fine i combattenti si trovassero in numero affatto insufficiente al bisogno. Cosi passò la prima giornata.
Durante la nulle dai 31 marzo al 1.° aprile; la truppa prossima al nemico si aspettava ad ogni momento di essere assalita, e non depose un istante le armi. Le case in capo alle strade furono disposte a difesa da dei distaccamenti forniti dalle riserve, i quali del resto nulla vi trovarono da guastare, nulla da saccheggiare, giacché tutto vi era già guastalo dai suoi difensori. Le case erano tutte vuote dei loro soliti abitatori, tutte in sommo grado manomesse. Il giorno 1 aprile la lotta andò dal mezzo giorno in poi di ora in ora declinando, e la resistenza, come già è stato avvertito, era già fiacco e di poco, quando giunse un battaglione di Croati, che la finì. e che per finirla ebbe pochissimo da fare. Cessalo il fuoco non solo che il generale Hainau non sbrigliò la sua truppa, esso tutto all’opposto, si mise con piccola scorta a percorrere le vie, e a richiamare con la tremenda sua voce dalle case i suoi soldati e a riordinarli, e ciò, ancorché già ai primi passi che fece, gli si tirassero due colpi a pochissima distanza, senza coglierlo ciò è vero, ma i quali davano a sufficienza a conoscere, che l’opera non era ancora finita. — Dai che tutto si vede che a Brescia il saccheggio fu fuor di questione. Che se non pertanto in qualche appartalo quartiere il soldato divenuto furibondo si fosse abbandonato agli orrori del saccheggio e anche a degli eccessi e degli orrori maggiori. ciò è possibile, non lo so, non lo posso negare, ma neanche ammettere. Ma di tanto sono certo, che, se alcunché di tale è accaduto, ciò si è fatto in onta degli ordini severissimi elle vi aveano, e da dei soldati che dimenticarono di appartenere ad un’ armata, nella quale, accada ciò che vuole, mente di tale è permesso.
Si è fatto al generale Hainau un delitto di lesa—umanità anche perché sapevasi da lui e dalla sua truppa l’esito glorioso e decisivo della battaglia di Novara, e l’esistenza dell’armistizio che vi era seguito. Ma il detto generale sapeva altresì, che se l’incendio di Brescia dilatavasi, né l’armistizio, né una pace, per quanto la potesse essere solenne, avrebbero ritenuto il ministero sardo—piemontese dai soffiarvi entro a più potere e da ogni lato; che la divisione La—Marmora avrebbe passato il Pò, e che Venezia e le Legazioni sarebbero state spinte a prendere l’offensiva. Egli si fece quindi un dovere di soffocarlo e di spegnerlo senza dilazione e a qualunque costo. A mio debole parere meglio fora stato se si fosse, come a Udine, lasciala ni ribelli un’ uscila. 1) generale Hainau però credette di dover togliere ai Bresciani ogni speranza di soccorso dal contado. Riflesso, ne convengo, di non piccolo peso.
Conchiudiamo che la colpa dello strazio che ebbe a soffrire Brescia nel 184cade intieramente sugli autori di quella ribellione, che fu una abominevole immune cospirazione tramata col governo sardo-piemontese. Quanto poi ai generale Haynau dirò, che se gli uomini non fossero tanto più ingiusti, quanto più hanno torto o sono più in colpa, i Brcsciani vedrebbero in esso un personaggio, resosi nella sua situazione, della loro patria, pel male che le ha risparmiato, in sommo grado meritevole.
*) Nel testo è detto per sbaglio il giorno 30 marzo e il giorno seguente, deve dirsi il giorno 31 marzo e il 1 giorno di aprile.158
Non è, che i rivoluzionarj della Toscana non facessero l’impossibile per sollevare le masse contro gli Austriaci, che venivano a rimettervi il Gran—Duca, si poco ne conoscevano essi le disposizioni. Rimarchevolissimo è il linguaggio che alle popolazioni tenevasi: «Per ogni città o terra dove» l’aizza—popolo, dirò tosto chi colui fosse «passava, arringava la moltitudine. Il tedesco essere alle porte; minacciare di entrare; svaligerebbe le case; brucierebbe i campi; stuprerebbe le vergini; contaminerebbe le spose; profanerebbe te chiese; fanciulli e madri, giovani e vecchi, ogni cosa metterebbe a ferro e a sangue. Non tratterai ora di liberare dalla loro tirannide fratelli lontani, ma si di difendere le nostre case, i nostri talami, le nostre sepolture, e quanto v’ha di più caro al mondo, la libertà. Levatevi come l’anno innanzi, quando suonò caro il grido di guerra agli Austriaci». (Veg. le Istorie Italiane di Ferdinando Ranalli dal 1846 al 1853 lib. XX. vol. III. pag. 253.) — Questo linguaggio si tenne dal Signor Giuseppe Montanelli, da me in questo mio lavoro più volte menzionato, e che divenne nel 4 in Toscana Presidente del consiglio dei Ministri, Triumviro del governo provvisorio. Egli aveva nel 4 servito contro l’Austria, se non sbaglio, come gregario, nella legione toscana, e s’era come tale trovato al fatto di Curtatone. Se vi avea un Toscano al quale quel linguaggio dovesse apparire infamemente bugiardo, quel desso era certamente cotesto Signor Montanelli. Egli nel summenzionato fatto d’armi era stato ferito. Ma parli egli stesso: «Dal deliquio che mi aveva dato lo uscire abbondante del sangue, mi riebbi in una stanza del mulino al fracasso delle irrompenti orde croate. Due miei commilitoni, Morandini e Colandini avevano sfidata la prigionia per assistermi. Dicono al capitano croato che entra nella stanza: — Fate quel che volete di noi, ma salvate il nostro ferito. — E il capitano (di quelle orde croate) al cuore rispose col cuore, dicendo: — Non temete, siamo tutti cristiani. — E raffrenò la soldatesca infuriata che voleva darci addosso… Levato dalla casa del mulino, una stridula voce di cui sento ancor dentro l’asprezza, diceva: — I feriti da sé — e fui separato dai miei angeli tutelari… — E trovarmi fra soldatacci briachi, che a schermo mi urlavano in faccia il: Viva Pio IX, e in vece del nostri bei tre colori vedere l’odiato giallo e nero, e rappresentarmi la morte in un lercio spedale austriaco, e sentirmi diviso dalla vita dell’Italia sorgente. oh come tetro a’ miei sguardi il sole del 2maggio imporporava le torri di Mantova». (Memorie sull’Italia e specialmente sulla Toscana del 1814 al 1850 di Giuseppe Montanelli Ex—Presidente etc. Vol. II. cap. XLI. p. 344.)
Le menzogne che dal signor Montanelli si sono volute dare a bere a’ suoi concittadini contro l’esercito austriaco, come se essi non avessero mai veduto o avuto in paese dei di lui soldati, o la Toscana fosse tanto distante dalle Legazioni e dalle Marche che non vi si fosse potuto sapere la di lui ammirabile fin da un generale Colletta e da tanti altri accaniti avversarj dell’Austria i ammirata disciplina nelle guerre contro Murat nel 1815, contro la rivoluzione napoletana nel 1821, e nell’intervento del 1831: quelle menzogna dico gettano molto lume sull’inverecondia con la quale i rivoluzionarj italiani si appigliano ad ogni anche basso e vigliacco mezzo, dal momento che lo trovano conducente al loro scopo. Ordinando in questa bassezza e vigliaccheria nel mentire non mostrano esse, che La civiltà che costoro tanto vantano, non è se non una civiltà bastarda, che anzi che essere civiltà la è una vera e reale barbarie; e che la vera civiltà in Italia si debba cercarla con sicurezza di trovarla nel di lei popolo, ma pur troppo non in quelli che avrebbero a insegnarla con la voce e coll’esempio. — Chi non vede nella surriferita scena descrittaci dallo stesso signor Montanelli da un alto un capitanio croato che vi dovrebbe secondo gli Italianissimi rappresentare la barbarie, e dall’altro un professore di Pisa che vi dovrebbe rappresentare la civiltà, un vero e brutale barbaro nel professore, e un vero fior di civiltà nel Croato?
Consideriamo questa scena da vicino. Premetto l’osservazione, che il soldato assalendo un trinceramento non può far uso delle sue armi, mentre chi lo difende le può usare come gli pare e gli piace. Per quanto i momenti sian brevi essi pur bastano per accender nell’assalitore, che vi si crede leso, uno spirito di vendetta contro chi si trova contro di lui in tanto vantaggio, e quando superali gli ostatoli felicemente giunge nel trinceramento, si crede in diritto di non dar quartiere. Lo stesso accade anche nelle cariche della cavalleria contro C infanteria, se questa non getta le armi, in tempo utile. — Il capitanio croato, dice il professore, al cuore rispose col cuore. — Ma no; il capitano non risponde. I due commilitoni del professore ferito, col dire: fatte quel che volete di noi, ma sul va te questo ferito, dissero delle parole incongruenti, il senso delle quali è: Barbari! con noi fatte come siete soliti di fare, fatteci in pezzi, ma siate umanj con questo eletto. — Il croato non ha il tempo di dare a quei due Toscani la conveniente risposta che sarebbe: noi non siamo barbari, non facciamo la guerra da barbari, se anche i Vostri insulti, e oltraggi, e la vostra baldanza non cessino di provocarla. E poi qual ragione, avrebbevi di essere barbari con due di voi, e non anche col vostro compagno? E poi perché avremo noi a salvare lui solo e non anche voi? — Il Croato invece di rispondere a quel parlare, per non dir altro, confuso, prende lui stesso la parola e dice: «Non temete», — Il primo pensiero che esala quel bell’animo è, di rassicurar e di calmare quella gente, che tenta e trema per la propria vita, e ba ogni motivo di temere e di tremare, e vi aggiunge; siamo tutti cristiani. Non dice siamo cristiani, «siamo tutti cristiani», cioè voi come noi, siamo perciò fratelli, e quindi non avete nulla a tenere. E tosto si mette all’opera e raffrena la soldatesca, come la dice lo stesso professore, infuriata, che voleva dar loro addosso. Infatti nessuno toccò quei Toscani, a’ quali si lasciò non solo la vita, ma anche la roba. Il professore di Pisa pero non comprese un acca né a quel parlare del Croato degno certamente del maestro dei maestri della civiltà vera, cioè della civiltà cristiana, né a quell’istantaneo affrenarsi di quegli infuriati soldati; affrenarsi, che avrebbe dovuto sembrargli un vero miracolo. — Sorpreso, che la guerra gli si affacciava come guerra, e non come un passatempo, mancante interamente di quella rassegnazione che caratterizza il vero soldato, divenuto rabbioso, lo inorridisce tutto ciò che sente, gli ai fa nero tutto ciò che vede, e tetro più il sole che in quel giorno, era il 2maggio del 48, al suo tramonto, «imporporava le torri di Mantova». — Ah! signori Italianissimi! deh cessate una volta di essere tanto abbondevoli con la parola barbaro. Non son io il primo che ve lo dice. Maggiori barbari di voi, cui non ripugna d’involgere la vostra patria e i vostri concittadini in un totale, sociale, civile, politico, morale, religioso disordinamento, e nelle tremende sue conseguenze; cui non ripugnerebbe, se ciò stasse in vostro potere, spinti dalle vostre immani passioni di mettere a fuoco e a sangue l’Europa tutta, maggiori barbari di voi, non vi hanno, né vi saprebbero avere.
Devo qui menzionare un fatto di un tutt’altro genere, nu che sta in una immediata relazione con ciò che dico nel testo: cioè, che il riordinamento della Toscana erasi all’arrivo degli Austriaci in gran parte già dallo stesso suo popolo compilo. Lo ricorda la più volte da me citata relazione uffiziale austriaca della campagna del 1848. Ivi è detto, che un ingegnere impiegato alla strada ferrata che congiunge Firenze con Pisa di nome Berghini dispose a parte un treno di vagoni, nei quali si mise con soli 100 uomini armati non di altro che di bastoni; e che arrivato a Pisa sorprese il presidio della prossima porta, lo disarmò, corse poi alla caserma ove vi avean 400 uomini armati, e che disarmatili, abbatté il governo rivoluzionario, e rimise quello del Gran—Duca. (Kriegsbegebenbeiten. Sez. II. Pag. 7.)159
Farini c. s. Lib. VI. cap. VII. vol. IV. pag. 12t. l’autore fa precedere alla da me citata sua descrizione dell’interna situazione di Bologna quella dell’esterno, cioè dello stato delle cose «extra muros». — Spirato, dice egli, il termine della tregua, «l’Austriaco tornò all’assalto, con impeto e copia maggiore d’artiglierie, e di bombe, deviò le acque del canale di Reno, sbrigliò la soldatesca nelle amene ville circostanti e le diede balia di sacco, onde furono tutte contamina te e guaste; le suppellettili spezzate, le vettovaglie predate e gettate al vento, rotte le statue, appiccato il fu oco alla villa Bignami, (era questi il generale della guardia nazionale di Bologna,) e tenuto un manipolo di soldati ad impedire fosse spento l’incendio, che tutto divorò in breve ora». — Il vero è , che anche nelle Legazioni e nelle Marche, e in ispecialità nel Bolognese, oltre ad una grandissima avversione contro la rivoluzione e contro quella guerra, vi avea, nella gente del contado, ciò che, parlando della spedizione del conte Nugent nel Friuli, chiamai un malvecchio, il quale era un odio inveterato, un astio che voleva sfogarsi contro i Signori; e che anche quivi come nel Friuli i campagnuoli aizzavano a più potere il soldato contro le ville dei loro padroni, dicendole appartenenza dei capi—rivoluzionarj, e a dei rabbiosi nemici dell’Austria. Il soldato austriaco inoltre era contro i Bolognesi, che, per aver l’anno innanzi il giorno 8 agosto feriti proditoriamente alcuni uffiziali e soldati entrati di buona fede nella loro città, vantavano una gran vitoria sull’esercito del generale Welden, conte se l’avessero totalmente sconfitto e posto in fuga, era dico addiratissimo. Or, che in tali circostanze si rendesse difficile di ritenerlo dall’abbandonarsi a delle rappresaglie, e che qualche guasto da lui siasi fatto, è possibile. — Ma che i generali austriaci vi sbrigliassero il soldato è certamente una mera calunnia. Il generale Wimpfen era un generale troppo esperimentato, per non sapere quanto nuocerebbe alla spedizione alla quale esso disponevasi, se le popolazioni dei paesi che egli doveva, traversando, pacificare e togliere alla rivoluzione, avessero perduto la fede che avevano nella disciplina austriaca. — Peraltro so, che in parte i guasti che si erano commessi attorno a Bologna derivavano dagli stessi villici, e in ispecialità dalle bande armale, che conte ho nel testo avvertito, vi si aveano, subito dopo l’arrivo degli Austriaci, dai rivoluzionarj contro questi attirate.160
Storia dell’assedio di Venezia, 1848 — 1849. Volume unico. Venezia 1850. pag. 85—87. È un operetta anonima, peraltro pregevolissima.161
Storia. c. s. pag. 44. — Veg. anche la relazione uffiziale austriaca nelle « Kriegsbegebenheiten III. Abschnitt» .162
Fra le Satire di A. Perio Flacco, ancorch tutte ripiene di massime con appena qualche eccezione sanissime ed in sommo grado meritevoli di essere riposte profondamente nella mente e nel cuore, la pi pregiata per comune consenso la terza, la quale s’indirizza a quella giovent della classe agiata, che impoltronisce e intorpidisce nell’ozio, principio di ogni viio, invece d’istudiarsi, e d’istudiare nelle sue cause il bene ed il male, per fuggire questo e frire di quello. Nella detta saira trovasi fra i tanti memorabilissimi versi anche l’ seguenti:
«Discite, o miseri, et causas cognoscite rerum;
Quid sumus) et quidnam victuri gignimur; ordo
Quis datas; aut metae qua mollis flexus, et node;
Quis modo argenti; quid fas,optare; quid asper
Utile nummus habet; patriae, charisque propinquis
Quantum elargiri deceat; quem te
Dens esse Iussit, et humana qua parte locatus es in re.
Disce.» (Satyra 111 v. 66—73.)
Questi versi i quali ebbero l’onore di essere citati da Sant’Aostino in uno dei più profondi capitoli detta sua ammiratissima opera: «De Civitate Dei. Lib. Il c. 6.», sono cosi tradotti da Vincenzo Monti nella sua versione delle Satire di quel poeta:
«ll come arcano
Delle cose, infelici, ah conoscete!
L’uomo che sia, perché nasca e perché viva,
D’onde partir, dove piegar dovete;
Qual regola civil, qual si prescriva
Modo all’oro, qual sia désir permesso,
L’util fin dove del danaro arriva; Quanto alla patria dar ti sia concesso,
Quanto ai parenti, ed in qual posto il Nume
Nell’umana repubblica t’ho messo.
Questo impara.»
Il lettore si sarà accorto che qui manca all’atto il «quem te Deus esse jussit», che io, alla meglio che ho saputo, ho tradotto col: «Ad esser tale, qual Iddio ti volle.»
Anche nel Dante si trovano degli insegnamenti che, una volta letti e compresi, non si dimenticano nui più, come per esempio fra qualche migliajo i seguenti:
Siate, Cristiani, a muovervi più gravi; Non siate come penna ad ogni vento,
E non crediate ch’ogni acqua vi lavi.
Avete ‘l vecchio e ‘l nuovo Testamento,
E ‘l pastor della Chiesa che vi guida
Questo vi basti a vostro salvamento.
Se mala cupidigia altro vi grida, Uomini siate, e non pecore matte.»
(Parad. Canto V v, 73—803 )163
Tra le doti più necessarie all’uomo di stato occupa certamente uno dei primi posti il conoscere nelle situazioni politiche questa «force des choses», e il sapere se esse sono tali da poterle padroneggiare, o se fia necessario di seco accordarsi; se si debba opporsi alla corrente e fermarla ad ogni costo, o imbarcarvisi e limiterai ad evitare gli scogli fra i quali la scorre; e con altre parole, se vi ha ad aver luogo il «submilto mihi res, non me rebus» o l’opposto. Il «necessitati subditi estote» del grande Apostolo delle genti è uno dei principj fondamentali! e dirigenti di ogni sana politica. Senonché la necessità talvolta più apparente che reale. Il saper discernere nelle situazioni politiche la realtà dall’apparenza, e il prendere un partilo con prontezza d’intelligenza e di volontà, non è cosa che di pochissimi. Molli fra i maggiori disastri che hanno afflitto l’umanità sono in ogni tempo e in ispecialità ai nostri giorni derivano dalla mala scelta fra i due partiti; giacché le spessissime volte è o l’orgoglio, o la pusillanimità che la detta. — Vi hanno che richiedono nell’uomo di stato, innanzi a tutt’altro, prontezza nel conoscere e destrezza nell’afferrare le opportunità, e le occasioni. Infelici quei popoli e quei paesi la di cui sorte si fa dipendere da questa specie di caccia. Sono i principj, e il saper attuarli in armonia cogli elementi fattivi provvidenziali detta storia dell’umanità, che costituiscono, non dico esclusivamente, ma in principalità l’uomo di stato. — opportunità e l’occasione sono, dice l’abate Gioberti nel suo Rinnovamento civile d’Italia Tomo II. pag. 435, il riscontro del tempo colle cose da farsi, e quasi un invito all’uomo di operare; il quale, secondandole, accorda l’azione sua concreatrice con quella di Dio, e della natura. — Ma se l’opportunità e l’occasione fossero, come qui ci si insegna, un invito all’uomo di operare, come si potrebbe ascrivere a colpa a quel servo, che trovando lo scrigno del suo padrone aperto e ravvisandovi una borsa piena di zecchini la intascasse e se ne fuggisse? Egli non è che troppo vero, che anche in politica l’occasione fa il ladro. E perciò preghino pur anche gli uomini di stato ed i potenti sulla terra, e in ispezialità i potentissimi di cuore il: «e non indurci in tentazione».164
In questi miei studj mi sono trovato sovente nella necessità di ripetere delle cose già dette. Egli è questo un inconveniente inerente alla natura di siffatti studj. Se si vuole, come qui è il caso, che ciascuno di essi presenti un tutto perse, e ciò non per tanto faccia parte integrante dell’opera non si può fare altrimenti. Voglia il cortese Lettore rileggere la prima notà del capitolo III. pag. 92, ove troverà una spiegazione di questa necessità.165
Niccolò Machiavelli può e deve considerarsi come il maestro di color che satinoin cospirazioni e in rivoluzioni; ed è dalle sue opere politiche e segnatamente dal suo Principe, e dai suoi Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio, che si sono cavale le massime dirigenti dagli innovatori e revoluzionarj dei nostri giorni in generale, e dagli innovatori e rivoluzionarj italiani in particolare. Il Machiavelli scriveva il suo Principe pei fratello di Leone X, Giuliano de’ Medici, al quale supponeva il pensiero di farsi signore d’Italia. Esso vi parte dal principio, che chi vuole lo scopo, debba volere anche i mezzi che vi conducono, nonché afferrarli e impiegarli senza alcuno sia morale o religioso o altro riguardo o ritegno, e fuggire in ogni caso le mezze misure. Questo è il riassunto di quel suo famosissimo opuscolo; e questo è anche in fondo il riassunto dei suoi Discorsi sopra la Prima—Deca di Tito Livio.
In prova che non dico se non il vero, ecco alcuni saggi della politica insegnata dal Machiavelli nelle or menzionate sue opere. Il capitolo è il 18. mo del Principe, ed è intitolato: In che modo i principi debbano osservare la fede. — «Quanto sia laudabile, dice egli, in un principe mantenere la fede e vivere con integrità, e non con astuzia, ciascuno lo intende. Nondimeno si vede per esperienza nei nostri tempi, quelli principi aver fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare i cervelli degli uomini, ed alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. Dovete adunque sapere, come sono due generazioni di combattere; l’una con le leggi, l’altra con la forza; quel primo modo è proprio dell’uomo, quel secondo delle bestie; ma perché il primo spesse volle non basta, convien ricorrere al secondo». — Ciò detto insegna l’autore a fare la bestia; cioè a fare ora il lione o ora la volpe, o poi soggiunge: «Non può per tanto on signore prudente, né debbe osservare la fede, quando tale osservanza gli torni contro e che sono spente le cagioni che fa fecero promettere. E se gli uomini fossero tutti buoni, (presto precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non l’osserverebbero a te, tu ancora non hai da osservarlo a loro. Né mai ad un principe mancheranno ragioni legittime di colorare la inosservanza. Di queste se ne potrebbero dare infiniti esempj moderni, e mostrare quante paci, quante promesse; sono state fatte irrite e va ne per la infedeltà dei principi; e quello che ha saputo meglio fissare la volpe è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore, e tanto obbidiscono gli uomini alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare». — Il fine del capitolo è il seguente: «Faccia adunque un principe conto di vincere e mantenere lo stato, i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodati; perché il volgo ne va sempre preso con quello che pare, e con l’evento della cosa; e del mondo non è se non volgo, e i pochi ci banno sfogo, quando gli assai non banni dote appoggiarsi. Alcuno principe dei presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo, e l’una e l’altra quando ei l’avesse osservata, gli avrebbe più volle tolto e la riputazione e lo stato».
Il saggio che segue è tolto dal 1.° libro dei Discorsi, ed è l’intiero capitolo 26.° intitolato: Un principe nuovo in una città o provincia presa da lui, debbe fare ogni cosa nuota. — «Qualunque diventa principe o di una città o di uno stato, e tanto più quando i fondamenti suoi fossero deboli, e non si volga o per via di regno ( o di;repubblica alla vita civile, il miglior rimedio ch’egli abbia a tenere quel principato, è, sendo egli nuovo in quello stato, —come è, nelle città fare nuovi governi con nuovi nomi, con nuova Autorità, con nuovi uomini, fare i poveri ricchi, come fece David quando ei diventò re: qui esurientes implevit bonis, et divites dimisit manes. Edificare oltre di questo nuove città, disfare delle vecchie, cambiare gli abitatori da un luogo ad un altro, e insomma non lasciare cosa niuna intatta in quella provincie, e che non vi sia né grado, né ordine, né stato, né ricchezza, che chi la tiene non la riconosca da te, e pigliare per sua mira Filippo di Macedonia padre d’Alessandro, il quale con questi modi, di piccolo re diventò principe di Grecia. E chi scrive di lui, dice, che tramutava gli uomini di provincia in provincia, come i mandriani tramutano le mandrie loro. —Sono questi modi crudelissimi e nimici di ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, e volere piuttosto vivere privato, che re con tanta rovina degli uomini. Nondimeno colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere, conviene che entri in questo male. Ma gli uomini pigliano certe vie di mezzo, che sono dannosissime; perché non sanno essere né tutti buoni, né tutti cattivi».
Nelle opere politiche del Machiavelli vi hanno delle cose eccellentissime, e ammirabili, che lo dimostrano un ingegno straordinario. Nessuno che siasi data la pena di studiarle, saprebbe negarlo. Ma ciò non toglie che le più essenziali di esse e quelle che formano la sostanza delle dette opere, sono tutto l’opposto. La politica del Machiavelli è le politica della mala fede, alla quale appunto perciò si è dato il nome di Machiavellismo. — Il vero è che vi hanno non un solo, ma più Machiavelli. Nella dedica delle Istorie fiorentine a Clemente VII. dell’edizione romana del Blado apparisce il nostro Segretario fiorentino come il più abietto adulatore che mai vi abbia avuto; nell’opera stessa si mostra egli invece libero scrittore sino al cinismo; nell’Arte della guerra è egli religiosissimo, nelle altre sue opere non di rado peggio che pagano; in una delle sue comedie si trova tuttociò di più licenzioso e di più immorale che vi ha nelle comedie degli antichi; eppure non manca egli con un solo tratto di chiarire tutta la degradazione, che patisce la donna nel di lei pervertimento. (Mandragola. Alto V. scena 5. ta) Ma sentiamo ciò che in riguardo a questa doppiezza dice di 6è, e del suo amico e compare Francesco Vettori egli stesso: «Chi vedesse le nostre lettere, onorando Compare, e vedesse la diversità di queste, si meraviglierebbe essai, perché gli parrebbe ora che noi fossimo uomini gravi, tutti volti a cose grandi, e che ne’ petti nostri non potesse cascare alcun pensiero, che non avesse in sé onestà e grandezza. Però dipoi voltando caria gli parrebbe quelli noi medesimi esser leggieri, incostanti, volli a cose vane. E questo modo di procedere se a qualcuno pare sia vituperoso; a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia, e chi imita quella non può esser ripreso». (Lettere familiari Lettera XL.) A questa doppiezza di caratteri o—piu che doppiezze non si è pensato nel giudicare il Machiavelli, che io il sappia.
E vi si è trasandata anche la circostanza seguente, che lo assolve innanzi a qualunque giudico di tutto il male che i suoi scritti politici possono aver cagionato nel mondo. Egli non ha inteso di scrivere poi pubblico né il suo Principe, né i suoi Discorsi, né le suo Istorie fiorentine. Infatti esse non si sono pubblicate se non diversi anni dopo la sua morte, che accadde net 1527; cioè i Discorsi neglj ultimi mesi del 1531, e il Principe con altri piccoli scritti e le Istorie fiorentine durante l’anno 1532. D’altronde si sa, che il Machiavelli voleva ben si pubblicare i Discorsi, ma con delle ommissioni e delle correzioni (V. la dedica dei Discorsi nell’edizione di Firenze di Bernardo Giunta a Ottaviano de Medici.) Egli è poi un fatto, che il Principe e i Discorsi del Machiavelli non sono trattati di politica generale, ma istruzioni speziali subordinale ad uno scopo determinalo, che si vuol conseguire in onta ai principj e diritti in ogni modo, con ogni mezzo, e ad ogni costo. Nel Principe s’insegna il da—farsi a Giuliano de Medici fratello di Leone X. qualora voglia divenire signore d’Italia, e il come rendere la sua signoria durevole; e nei Discorsi, il come si fanno e si consolidano gli stati nuovi. — Il Machiavelli era in bisogno d’un impiego che lo mettesse in istato di vivere da signore. «Io non posso stare così, scriveva egli al Vettori, che io non diventi per povertà contennendo; sono avvezzo a spendere, e non posso fare senza spendere». (Lelt. fum. XIV. XXVI. XXIII.) E cosi scriveva egli il Principe nella seconda meta del 1513 in modo da far comprendere, che servirebbe a modo di chi lo impiegasse e lo pagasse. (Veg. nel «Machiavel, son génie et ses erreurs» par F. A. Artaud chap. XLIX. Tome IL p. 439. Il signor Artaud fu uno dei più caldi difensori del Machiavelli.) I Medici non vollero di lui, e allora si rivolse egli nel 1515 ad una congrega di giovani Fiorentini che divisavano disfarsi dei Medici, e scrisse per essi i Discorsi non senza trarne degli emolumenti. (Nardi. Ist. detta città di Fir. Lib. VII.) E scrisse anche le Istorie fiorentine per Clemente VII. allora ancora Cardinale e anch’esse sotto la pressione di esserne pagato. (Let. fam. LX.)
Nicolò Machiavelli nacque nel 1469. Fece alcuni anni di pratica per qualificarsi a degli impieghi pubblici, divenne nel 1498 uno dei cancellieri della repubblica di Firenze, servi con zelo e fedeltà, e con grande intelligenza e giudizio, in ispecialità in legazioni. Le sue informazioni sull’andamento ed esito delle sue missioni sono modelli di chiarezza, e di ragione. Ma perdette all’occasione che i Medici ridivennero padroni di Firenze, il suo impiego (1512); fu nell’anno seguente imprigionato per sospetto di aver preso parte ad una cospirazione contro di essi, ed ebbe in tal incontro a patire la tortura. D’allora in poi visse sino al 1526 da privato, nel qual anno fu impiegato come commissario per Firenze assieme con Francesco Guicciardini lo storico, commissario pel Papa presso Tarmata della Lega italiana. Roma andò in quel tempo a sacco, (6 maggio 1527) e li 16 del detto mese insorse Firenze contro i Medici. — Il Machiavelli mori, come già e stato avvertito, nel 1527 li 22 giugno. I Fiorentini gli hanno eretto nel penultimo decennio del secolo passato in Santa—Croce uno dei loro più magnifici tempj, un grandioso monumento coll’iscrizione.
Tanto Nomini Nullum Par Elogium
Nicolaus Machiavelli.
Oblt. Au. A. P. V. CI3IXXVII.
E Atto Vanucci nel suo Discorso intorno alla vita e alle opere di Donatto Giannotti, lascio scritto «che del Machiavelli debba dirai ciò che quel bizzarro spirito di Benvenuto Cellini diceva di sé, cioè che degli uomini come lui ne è uno per mondo».166
Machiavelli. Istorie fiorentine Lib. I. Vol. I. pag. 17 e 18; e pag. 37 dell’edizione di Firenze 1813.167
Veg. la nota 12 al capitolo VI. pag. 271. Anche Cicerone, ciò è chiaro, vedeva nelle Alpi un riparo dato all’Italia dalla natura contro le invasioni dei Galli e in generale dei popoli settentrionali. «Alpibus italiam munierat ante natura non fine aliquo divino numine» come vi vedeva il Petrarca, e come vi vedono gli Italianissimi dei nostri giorni. La differenza consiste, che Cicerone sollo la parola Alpes comprendeva non le creste e le cime della catena sparti—acqua, ma il paese alpino in tutta la sua estensione.168
Veg. nelle Istorie di Paolo Orosio contro i pagani la dedica e le ultime pagine del settimo libro; e in Sant’Agostino «De Civitate Dei» il primo libro.169
L’ abbandono delle Alpi per parte di Odoacre è uno dei grandi momenti della Storia d’Italia. Veg. le Rivoluzioni d’Italia dell’abate Denina lib. V. c. 1. I maggiori schiarimenti che si hanno su quell’avvenimento si ricavano dalla vita di San Severino di Gugippio, che si trova con degli interessanti commentari nell’opera del D.( rc) Alberto Nui bar: das Ròmische Noricum. Tomo 11. p. 152.170
Muratori, Annali d’Italia. Anno 493.171
Machiavelli. Discorsi lib. III. cap. 6. Delle Congiure.172
Si vorrebbe, attenendosi a quanto ne dice Procopio di Cesarea, scrittore contemporaneo e segretario di Belisario, nella sua istoria della guerra gotica, che Narsete aggirasse col suo esercito, raccoltosi nella Dalmazia, l’Adriatico, e arrivasse al Pò per le odierne lagune di Venezia. Ma chi conosce, come le conosco io, quelle località, le quali non erano per certo allora più accessibili che lo sono presentemente, dirà, che una tal marcia era impossibile. Vi ha poi anche la testimonianza di Paolo Diacono, che parlando delle gesta di Alboino dice: Tunc Alboin electam e suis manum direxit, qui Romanis adversum Gothos suffragium ferrent, qui per maris Adriatici sinum in Italiam transvecti, sociatique Romanis, pugnam inierunt cum Gothis». Questi Longobardi facevano parte dell’esercito di Narsete già in Dalmazia. Il dire poi che i Greci mancassero di navi per traversare l’Adriatico è in contraddizione col fatto, che l’anno innanzi (551) i Greci avevano tolto ai Goti poco men che tutta la loro flotta, che consisteva in quarantasette navi lunghe, delle quali si salvarono soltanto undici. «Non erano, dice il Muratori, da mettere in confronto dei Greci bene addottrinati nelle battaglie navali i Goti affatto novizj in quel mestiere». Belisario s’imbarcò nel 545, coi soccorsi per l’Italia che aveva adunati in Dalmazia, a Pola. Tutto induce a credere che Narsete abbia fatto lo stesso.173
Muratori An. d’Italia. A. 555.174
Veg. Nel «Historia Golhorum, Vandalorum, et Langobardorum» di Ugo Grozio i Prolegomeni, e gli Elogi: e in questi ultimi in ispezialità i confronti che fa Salviano Vescovo di Marsiglia dei Goti coi Romani, e dei loro governi «Inter hæc vastantur», dice quel santo Vescovo, «pauperes, viduæ gemunt, orphani procul cantor in tantum, ut multi eorum et non obscuris natalibus editi, et liberaliter instituti ad hostes fugiant, ne persecutionis publicae afflictione moriantur; querentes scilicet apud barbaros Roma nam humanitatem, quia apud Romanos barbaram immanitatem ferre non possunt: et quamvis ab bis ad quos confugiunt discrepent ritu, discrepent lingua, ipso etiam ut ito dicam corporum et induviarum barbaricarum fætore dissentiant, malunt tamen in barbaris pati cultum dissimilem, quant in Romanis injustitiam saevientem. Itaque passim vel ad Golbos, vel ad Baguadas, vel ad alios ubique dominantes barbaros migrant; et commigrasse non paenitet; malunt enim sub specie captivitatis vivere liberi, quam sub specie libertatis esse captivi. (Salvianus Episcopus Massiliensis de gubernalione Dei Lib. V.)175
Nelle «Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur decadence» il celeberrimo autore risguarda l’appropriazione di un terzo dei terreni che dimandarono ed ottennero le genti di Odoacre, come il colpo mortale portalo all’Impero d’occidente. Le di lui parole sono:
« Ceux qui gouvernaient en occident ne manquèrent pas de politique; ils jugèrent, qu’il fallait sauver l’Italie, qui était en quelque façon le cœur de l’empire. On lit passer les barbares aux extrémités et on les y plaça. Le dessein était bien conçu, il fut bien exécuté. Ces nations ne demandaient que la subsistance: on leur donnait les plaines; on se réservait les pays montagneux,les passages des rivières; les défilés les places sur les grands fleuves; on gardait la souveraineté. Il y a apparence que ces peuples auraient été forcés de devenir Romains, et la facilité avec la quelle ces destructeurs furent eux mêmes détruits par les Francs, par les Grecs, par les Maures, justifie assez cette pensée. Tout ce systéme fut renversé par une révolution plus fatale que toutes les autres: l’armée d’Italie composée d’étrangers, exigea ce qu’ on avait accordé à des nations plus étrangères encore; elle forma sous Odoacre une aristocratie qui se donna le tiers des terres de l’Italie: et ce fut le coup mortel portà à cet empire». (Chap. XIX.) — Il giudizio di un Montesquieu è, lo so e ne convengo, in sommo grado autorevole e imponente. Ma se si riflette, che in Italia la campagna era in quei tempi ripartita in immensi latifondi, che la popolazione, in ispecialità la popolazione campagnuola, vi era dalle guerre, dalla fame, e dalla peste ridotta ad un minimum; che vi doveano perciò avere e vi aveano grandissime estensioni dt terreni incolli ed abbandonati, si si convince che quella distribuzione di terreni, la quale da quel celeberrimo scrittore vien disegnata, qual colpo mortale portato all’impero d’occidente, era invece una misura salutare, che tendeva a sanare e non ed inasprire le piaghe che ne minacciavano l’esistenza: L’Impero d’occidente ridotto alla sola Italia era un i corpo senza mani o senza piedi. Esso era mutilato. L’Impero d’occidente era già alla sua origine mancante di uno dei suoi principj vitali e di una delle condizioni dalle quali dipendeva la sua durata cioè di una sufficiente marina. Questa mancanza non isfuggi al nostro autore. «La situation de l’empire d’occident fut surtout déplorable. Il n’avait point des forces de mer» (Chap. XIX. alla fine.) Ma gli isfuggi la seconda condizione: il possesso delle Alpi sino al Rodano, sino al lago di Costanza, e sino al Danubio. Volendo spiegare la ceduta dell’Impero d’occidente convien ricercare h cause che fecero ai Romawi abbandonare il «limes imperii»176
Si legga in rigurdo alla speie di guerra difensivaoffensiva dei Longobardi contro i Greci, ‘impresa contro il ducato di Benevento codotto dllimperatore Costantino detto Costante, il mod come il detto duato fu soccorso, nel Muratori Annali A. 663. periosa civitas (Rom) nex solum jugum, verum etiam linguam sam domitis gentibus per paem soietatis imposit (Aur. Augustini de Civitae Dei Lib. XIX. A 7.)177
«Imperiosa civitas (Roma) nex solum jugum, verum etiam linguam suam domitis gentibus per pacem societatis imposuit», (Aur. Augustini de Civitate Dei Lib. XIX. A 7.)178
Ecco come il Papa San Gregorio Magno parla del contegno dei Longobardi nei paesi soggetti ai Greci: I Longobardi fecero man bassa sopra il genere umano, già cresciuto in questa terra o guisa di campi ricchi di spesse spiche. Già si veggono spopolate città, fortezze abbattute, chiese incendiate, monasteri d’uomini e di donne abbattuti, intere campagne abbandonate dagli agricoltori, di maniera che la terra resta in solitudine, né v’ha chi la abiti; ed ora osserviamo occupate dalle fiere tanti luoghi che prima contenevano una copi osa moltitudine di persone». (Muratori Annali all’A 578.)179
Cantù. Istoria degli Italiani. Cape CXC1L Vol. VI p. 748.
Il signor Cantù dice nell’or citato passo, che pochi paesi ebbero dalla natura confini cosi ben determinati, come l’Italia. Io ho parlato nel sesto capitolo estesamente di questo erroneo supposto, e qui mi limiterò a dimandare all’egregio storico: di qual Italia egli parti? Se dell’Italia di Roma repubblica, se dell’Italia di Augusto, o di quelle di Costantino, o di quelle di Teodorico, o di quelle di Carlo Magno, o di quella di Napoleone tutte queste Italie ebbero diversi confini. Essendo che le Alpi non sono monti italiani, (Veg; il cap. sesto), cosi i confini dell’Italia—continente sono determinati e segnati dalla radici di esse, e perciò chi dicesse, non avervi paese che abbia confini più indeterminati che la detta Italia—continente s’allontanerebbe per certo molto meno dal vero che in questo riguardo non se n’è allontanato il signor Cantù col suddetto suo pronunciato. E all’incontro quel paese ha confini cosi ben determinati coma la Sicilia, come la Sardegna, e come la Corsica? Eppure si vuote che quelle isole sian anch’esse Italia! Si dirà che la Sicilia, la Sardegna o la Corsica sono Italia perché inchiuse nel Mediterraneo, che è un mare italiano, e perche vi si portano dialetti italiani. Rispondo che il Mediterraneo non è più un mare italiano, che un mare spagnuolo; che anche le Baleari sono inchiuse nel Mediterraneo, e che anche in esse si parla un dialetto latinizzante, non più distante dal linguaggio che si parla a Firenze a Siena o a Roma, che quello che si parla nella Sardegna, a Genova, a Bologna o nel Friuli. Cosicché se reggessero quegli argomenti che fauno della Sicilia della Sardegna e della Corsica isole italiane, sarebbero isole italiane anche le Baleari.
Il vero è che l’Italia non ebbe mai altri confini che quelli che le dettarono i suoi padroni. Fu un decreto del Senato romano che li fissò alla Alagra e al Rubicone; fu un decreto di Augusto che estese l’Italia sino al Vero, sino all’Arsia e alla Sava, e ne escluse le valli subalpine e i laghi dell’Italia—continente quasi per intiero; e fu una serie di decreti di Napoleone che ne scisse il Piemonte, ambedue le Riviere di Genova, il Parmigiano, la Toscana e sino Roma con la sua commarca, e ne fece paese francese.180
Anche Napoleone parla nelle sue Memorie dettate all’isola di SantElena, di una riunione dei Veneziani, dei Milanesi, dei Piemontesi, dei Genovesi, dei Toscani, dei Parmigiani, dei Modenesi, dei Romani, dei Napoletani, dei Siciliani e ommessi i Corsi, dei Sardi, in una nazione indipendente. (Veg. il cap. I. nota 3 pag. 32.) In Napoleone un tl discorso non poteva essere se non una amara ironia. Ma che anche ad esso si afacciasse nellelemento etnografico un elemento antiunitario di grande forza lo dimostra a sufficienza la circostanza, che egli diceva abbisognare per effettuare la detta riunione non meno di venti anni. E merita di essere osservao che nella stessa occasione gli si discopre anche un ulteriore elemento e quello potentissimo antiunitario nella viziosa configurazione geografica dell’Italiapenisola, nella quale col troppo allungarsi in confronta della di lei larghezza si avvera il detto: Chi troppo s’assottiglia si scavezza.181
Fra i fenomeni che porge la Storia di Roma uno dei pi meritevoli di essere studiati e spiegali è il poco tempo che le abbisognò per romanizzare e latinizzare l’Italia—penisola, e poi la Gallia-cisalpina e la Venezia, e successivamente le Spague le Gallie il Norico la Pannonia e sino la Britannia.182
Non raro di trovare negli scritti del Gioberti la pi riprovevole sventatezza nel decidere delle questioni di unimportanza vitale. Ecco un esempio di tali giudizj. Quando, dice egli, gli apparati militari saranno in piedi, la libert sar sicura; perch il Piemonte in armi pu difendere i suoi lari contro tutta lEuropa. (Veg. la nota 1. al V. capitale pag. 195).183
opera pubblicata a Torino nel 1856 col titolo: Apertura e canalizzazione dellTstmo di Suez. Narrazione informativa del signor Ferdinando Lesseps. Traduzione del professore Ugo Calandri, ha una introduzione nella quale il professore Giovanni Interdonao discore a lungo sui vantaggi incommensurabili commerciali e politici elle a preferenza di ogni altro paese Europeo ne caver l’Italia. Egli pensa che questa, in seguito alla suddetta impresa, debba divenire e centro del commercio Europeo, farsi potenza marittima di primo rango, e stando ora colla Francia, ora coll’Inghilterra tener nel suo pugno i destini d’Europa. Ma parli egli stesso.
«Supponete» dice il professore, «che sia canalizzato l’istmo di Suez, e veggiamo qual altro popolo qual altra nazione, sotto questi riguardi (*) possa mai presentarsi in condizioni ugualmente felici come l’Italia. Supponete il commercio dell’America occidentale, e delle regioni australi che traversante, il golfo Arabico, e raccogliendo i prodotti africani si scarichi nel Mediterraneo per spandersi nell’Europa intera: volere o non volere, quella corrente commerciale non viene ad incontrare sulla sua corsa per prime, che l’Italia e la Grecia due nazioni ugualmente navigatrici. Ma la Grecia ba poca vita industriale, ristretta popolazione e scarsezza di comunicazioni colla rimanente Europa: l’Italia all’incontro con una popolazione di 26,000000 di cui più centinaja di migliaja sono uomini di mare, con un litorale che si estende per 3,326 milometri con una marina che sebbene inferiore alla marina inglese per tonnellaggio le si avvicina per numero di legni; l’Italia in comunicazione col nocciuolo dell’Europa, mentre per la diramazione delle sue strade ferrate va ad unirai colla Francia da un lato, e colla Svizzera e Germania dall’altro, scende nel Mediterraneo proprio come un braccio disteso per afferrare e stringere in pugno quanto di commercio e di traffico dovrà sboccare dal canale di Suez. Anche nell’ipotesi che il dominio de’ mari continuasse a rimanere nelle mani degli Inglesi, dei Francesi, degli Olandesi ecc., naturalmente tutti questi popoli navigatori verrebbero nelle loro corse ad incontrarsi in qualche porto italiano, e l’Italia sarebbe l’indispensabile luogo di deposito, e l’emporio di tutte quelle mercanzie e i suoi numerosi porti diverrebbero il ricovero d’ogni naviglio, e le alla darebbero stanza e riparo a tutti i commerci del mondo. Se qui si fermasse il beneficio, sarebbe per se stesso un gran che; la vita industriale della Penisola, il valore dei suoi prodotti, il movimento delle sue strade ne sarebbe centuplicato; ma che si fermi, è impossibile. In si felice posizione, lo spirito navigatore e intraprendente dei marinai d’Italia, vistasi aperta un’immensa carriera alle speculazioni marittime, vi si slancerebbe di certo. E come no?…»
«Chi ben riguarda al procedere della prosperità commerciale, aveva de tt o poco prima il professore, di leggeri si accorge. Che le cause ond’essa è caduta in sorte a alcuni popoli in preferenza di altri, passando cosi da una in un’altra nazione, principalmente riduconsi a queste: in prima, l’andazzo del commercio ciò determinato dalla geografica posizione, e dal trovarsi sulla linea del suo naturale corso: in secondo, dall’altitudine industriale, e dalle abitudini maritime del popolo; per terzo, dalla quantità dei prodotti proprii da mettere la mercato, e dei prodotti stranieri; di cui si abbisogna; in ultimo dalla maggiore economia tanto delle costruzioni navali, che delle spese e della vita marittima; in somma, dall’economia della navigazione.»
«Il taglio dell’istmo di Suez non può trovare economicamente ragionevoli ostacoli, deve trovare ajuto e protezione dappertutto. Ma sarebbe l’istesso politicamente? Gl’interessi politici vogliono anteporsi talvolta agli interessi economici. L’Inghilterra come dominatrice delle Indie, non avrebbe a temere per le sue possessioni? L’accresciuta importanza del Mediterraneo non farebbe pericolosa l’importanza della Francia? Dove trovar sicurezza ed equilibrio, dove? Nel risorgimento industriale e marittimo d’Italia. — Il taglio dell’istmo di Suez cambierà le condizioni politiche e l’equilibrio del mondo… Divenuto il Mediterraneo il gran lago del mondo, la Francia come principale nazione di questo mare, cresce in influenza ed in potenza. La marina della Russia nel mar Nero è bruciata; la marina della Turchia sarà ridotta; l’Austria non può, come potenza marittima far contrapeso alla Francia; e l’Inghilterra, lontana per posizione da questo mare, mal potrebbe tenere in misura l’ingrossamento della marina di Francia, che ha tanto naturale predominio nell’Egitto, che ha riconquistata l’influenza morale nel mar Nero, e che tiene ancora un piede al centro d’Italia. Ecco il timore dell’Inghilterra, giusto e naturale se si riguarda l’ordinamento politico e l’artificiale equilibrio creato dal trattalo del 15 e tuttora esistente».
«Per virtù di quei trattati, anzi sin dal tempo in cui l’importanza del Mediterraneo fu stremata se non distrutta dal passaggio del Capo, l’Austria come potenza continentale al nocciuolo d’Europa è stata il centro, il perno dell’equilibrio Europeo. Sotto questo rapporte l’esistenza dell’Austria ha oggi è stata nell’interesse di tutti, perché si è ritenuta nell’interesse dell’equilibrio; rollo l’istmo, questo centro, questo punto non giova più a mantenere l’equilibrio, e dee per necessità di natura spostarsi; l’Austria continentale non può tare equilibrio alla Francia marittima nel Mediterraneo; l’Austria mezzo stava, non può infrenare gli straripamenti dello slavismo russo; la guerra presente (la guerra d’Oriente) non è stata che il preludio, l’annunzio di questo naturale spostamento di centro di equilibrio che cominciava a rivelarsi col crescere dei commerci d’Oriente e del mar Nero, e che diventerebbe evidente dopo il taglio dell’Istmo».
«L’Inghilterra quindi terne di questa impresa; il suo timore è ben fondato, finché dessa non si affida che all’opera artefiziale della diplomazia. Ma lasciamo che l’opera della nature liberamente proceda, e l’equilibrio Europeo, il centro perduto nell’Austria, lo troverà nell’Italia. Il risorgimento industriale e marittimo d’Italia diverrà il punto d’intersezione del nuovo movimento del mondo; e l’Italia ricca e potente servirà all’interesse di tutti meglio, che l’Austria non abbia fatto giammai».
«L’Italia sarà l’avanguardia delle razze latine che fermerà il cammino delle razze orientali, come per tanti secoli potè fermarlo una volta; l’Italia marittima tra la Francia e l’Inghilterra, farà contrappeso all’una e all’altra, e creerà per naturale equilibrio la neutralizzazione del Mediterraneo, ben più interessante al presente della neutralizzazione del mar Nero. Il taglio dell’istmo di Suez fa scendere la civiltà dal Nord verso il mezzogiorno, e il centro dell’oscillazione deve seguire questo abbassamento e scendere anch’esso dall’Austria nella grande penisola dei Mediterraneo. Far dell’Italia il campo delle loro guerre rinascenti ed eterne di armi e di diplomatiche influenze, o far dell’Italia ricca ed industriosa la forza equilibrante del mondo, ecco il problema che il luglio dell’istmo di Suez mette avanti agli uomini di Stato d’Europa. Che essi noi vedessero ancora, non farebbe meraviglia; tanto gli uomini di Stato sono piccoli e mediocri all’età nostra, e tante sono le preoccupazioni del momento, e gli interessi individuali e di famiglia che tarpano le ah alle grandi viste della politica! (pag. XX XXI.)»
Quanto non sono vane le speranze delle quali in questo discorso pasce sé e l’Italia il nostro esimio professore. — Siamo d’accordo che il taglio dell’istmo di Suez congiungerà e in un certo modo ravvicinerà le parti staccato del nostro emisfero, e che ne tirerà un grandissimo vantaggio non solo il di lui commercio, ma in riguardo all’Asia e all’Africa anche la di lui civiltà. E ammetto che esso gioverà non poco anche al commercio degli Stati—Uniti dell’America. Portandosi nelle Indie—orientali cioè a Bombay, pel Capo di Buona—Speranza, vi hanno, partendo da Costantinopoli leghe francesi di 25 al grado 6100, da Malta 5800, da Trieste 5960, da Marsiglia 5650, da Cadice 5200, da Londra 5850, da Pietroburgo 6550, da Nuova—York 6200; per Suez le dette cifre si ridurrebbero alle seguenti; 1800, 2062, 2340, 2374, 2224, 3100, 3700 e 3761. Sicché per Costantinopoli a meno, per Malta e per Trieste e sino per Marsiglia a poco più della metà. Il trasporto che ora Costa per termine medio 120 franchi la tonnellata, costerà passando per Suez soltanto franchi 72, e col costo del transito pel canale soltanto franchi 82. Mentre che un bastimento il quale parte ora da Londra per Bombay non rientra nel Tamigi se non in capo ad un anno; vi rientrerà andandovi e ritornandone per Suez in capo ad otto mesi; e farà in due anni tre viaggi, mentre che oggidì non né fa che due. Siamo su tutto ciò d’accordo, e ammetto anche come incontrastabile, essersi il progetto di canalizzazione bene istudiato, che la spesa dell’attuazione, 180 al più 200 milioni di franchi, non è esorbitante, se si pensa ai vantaggi che si attendono da quell’opera.
Ma i vantaggi del taglio dell’istmo di Suez saranno più mondiali che locali. Egli è un errore madornale il credere che la navigazione per Suez sarà nella necessità di toccare dei porti italiani. L’Italia—penisola e la Sicilia sono intieramente fuori di strada. La navigazione per Costantinopoli, per Odessa e per le bocche del Danubio, e cosi quella per Trieste e per Venezia non hanno nulla che fare coi porti italiani. Una occhiata che si dia ad una buona carte del Mediterraneo e delle sue diramazioni basta per convincersene. Lo stesso è il caso ton la navigazione per lo Stretto di Gibilterra e per l’Atlantico, lo stesso con quella per le coste spagnuole e francesi bagnate dal Mediterraneo, cioè per Alicante, per Barcellona, per Marsiglia. per Tolone e sino per Genova. Il centro e il porto per tutta la navigazione Ovest e Nordovest è Malta. — Essendo che la navigazione per Suez richiederà molto meno tempo che non richiede la navigazione pell’Atlantico, e che la navigazione a vapore non avrà a caricare tanto materiale da fuoco, egli è chiaro e manifesta, che la impiegherà meno legni pel trasporto delle merci, e che il taglio qui contemplato produrrà non un aumento, ma bensì una considerevole diminuzione nelle diverse marine finora impiegate al commercio con le Indie—orientali. Sia pure che il ribasso dei prezzi aumenti il consumo e con ciò la dimanda degli oggetti commerciati; ma siccome questi sono per lo più oggetti di lusso, il rapporta d’aumento non saprà mai pareggiare e tanto meno superare il rapporta di diminuzione. Aggiungasi essere più che probabile, che trattandosi di una navigazione non attraverso l’Atlantico, ma che può aver luogo anche di porta a porta e di costa a costa, vi prenderanno parte da Bombay sino a Suez anche le popolazioni indigene litorane con migliaja di barche di pochissimo costa, e non pertanto della portata di 100 tonnellate l’una. — Il naviglio che ora serve al commercio colle ludico-orientali si verserà, appena sarà aperto il canale di Suez nel Mediterraneo, ciò è certo; l’affluenza sarà però molto maggiore del bisogno, il che farà che fra le diverse marine, le quali finora si dividevano quel commercio, si produrrà non tanto una concorrenza e una lotta, quanta una guerra di vicendevole distruzione, nella quale le più deboli saranno inevitabilmente oppresse, e annichilate. Che sarà allora della marina italiana? Che progressi potrà essa fare? Ripetiamolo, il taglio dell’istmo di Suez produrrà una diminuzione, o giammai un aumento delle marine Europee in generale, e della marina italiana in particolare.
Questi sono i riflessi che si producono in chiunque considera senza preoccupazione il taglio dell’istmo di Suez dal punto di vista commerciale. Considerandolo dal punto di vista politico, esso non si presenta se non come un fomite di guerre atroci interminabili, che costeranno all’Europa fiumi di sangue. Fatto è, che il detto taglio sarebbe una strada promiscua all’Inghilterra e alla Francia. Or egli è impossibile che queste due nazioni, ivi in un si stretto e continuo contatto vi si evitino, non si urtino, non si avventino una sull’altra, che fra di esse non nascano infinite gare, collisioni e conflitti e finalmente una guerra che supererà nelle sue conseguenze tutte quelle che finora hanno avuto luogo fra l’Inghilterra e la Francia. Questa ha dai tempi di Luigi XIV gli occhi rivolti all’Egitto. Egli e notorio che la repubblica francese appena conchiusa e segnata la pace di Campoformio si disponeva ad assalire l’Inghilterra nell’Inghilterra stessa; ma che Napoleone Bonaparte la indusse invece ad impadronirsi dell’Egitto, sostenendo, non avervi per l’Inghilterra colpo più mortale che l’occupazione per parte della Francia del suddetto paese. (*) Questo medesimo pensiero si trova da Napoleone ammesso e sviluppato anche nelle Memorie da lui dettate nell’isola di Sant’Elena (Vol. IV. nota IX. p. 305.) Ciò che si è fatto da Napoleone Bonaparte nel 1798 non senza i maggiori pericoli d’incontrare per strada la flotta inglese allora padrona del Mediterraneo, si farà, con piena sicurezza e senza aver a temere una battaglia di Aboukir, comecché ogni senno politico dell’Europa n’è sfuggito, ed è andato a riporsi ove un di erasi ridotto quello del gran nipote di Carlo Magno, se non oggi o dimani, o il mese futuro, il giorno che Napoleone III dirà: si faccia.
Ma allora a che gioverà quella canalizzazione? È egli mai desiderabile che vi si ponga la mano innanzi che la guerra della Francia con l’Inghilterra pel dominio del Mediterraneo e pell’occupazione o conquista del Egitto sia terminata? Se la guerra fra la Francia e l’Inghilterra incominciata nel 1793, guerra che non aveva né da una parte né dall’altra per scopo verun ingrandimento, durò, con brevi intervalli ventidue anni, quanto dippiù non dovrà durare questa, che sarà un duello «à toute outrance?». Avrà l’italia il modo i mezzi, il tempo di approntare le flotte che avrebbero ad imporre la pace le due potenze belligeranti!? — Che risulta da tutto ciò? Risulta che il taglio dell’istmo di Suez non cangierà in nulla i destini d’Italia. L’attivazione del canale di Suez sarà precaria fin ch’è l’Inghilterra non sia esclusa dai Mediterraneo e dal mar Rosso, e finché la Francia non sarà la padrona, con l’esclusione dell’Inghilterra, dei detti mari. Ma i destini dell’Italia una volta che la Francia sia la sola padrona del Mediterraneo non dipenderanno più se non dalla Francia, e la di lei’ relazione con questa potenza sarà non tanto una dipendenza, quanto un vero, deciso, e abbietto servaggio.
(*) Già nel 1672 rimetteva il grande Leibnitz a Luigi XIV una memoria nella quale, onde storaarlo dall’aggredire h Germania e l’Olanda, gli mette va in vista gl’immensi vantaggi che apporterebbe al commercio della Francia la conquista dell’Egitto. (Veg. in riguardo a questa memoria e alla spedizione d’Egitto condotta da Napoleone Bonaparte «l’Histoire de la Révolution française del Signor Thiers» Tome 9. liv. XXVIII verso la fine.
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