UN VIAGGIO ATTRAVERSO IL PRIMO PENSIERO ANTIRIVOLUZIONARIO NELLA PENISOLA ITALIANA
La penisola italiana aveva subito tutte le influenze della riforma protestante, conobbe il regalismo, il giurisdizionalismo, l’assolutismo, l’illuminismo, la legislazione venuta con le idee della rivoluzione francese, il liberalismo ed il nazionalismo. Parallelamente, tuttavia, espresse una cospicua legione di pensatori cattolici che si ersero a paladini della cittadella cattolica.
Costoro rappresentano a buon diritto gli antecedenti del pensiero tradizionalista e cattolico. Questo è per sommi capi il loro pensiero e, al tempo stesso è la loro testimonianza, anche se non è esaustiva di questo mondo. Perché l’obiettivo di questo saggio è solo quello di dimostrare l’esistenza di un consolidato ambiente intellettuale antirivoluzionario nella penisola italica.
Tra i precursori dell’azione intellettuale a difesa della Chiesa Cattolica dobbiamo ricordare il domenicano padre Tommaso Maria Mamachi (Chio 1713 – Corneto 1792) che Franco Venturi definisce il capostipite del pensiero contro-rivoluzionario nella penisola italiana[1]. Il domenicano prese parte alla controversia tra Giansenisti e Gesuiti, mostrando una grande imparzialità di giudizio al tempo in cui la polemica tra domenicani e gesuiti era molto vivace. Fondò il Giornale Ecclesiastico di Roma[2] (1742 – 1785) e sostenne fermamente il primato del pontificato romano. Gli avvenimenti politici del tempo lo costrinsero ad abbandonare gli studi giuridici per diventare un polemista di altissima qualità. Diede alle stampe un’opera, apparsa anonima, costituita da una serie di lettere inviate da Roma a partire dal dicembre 1766: “La pretesa filosofia de’ moderni increduli esaminata e discussa pe’ suoi caratteri in varie lettere, I – II, Roma 1867”. In quest’opera troviamo l’attacco di un polemista ben informato contro il pensiero enciclopedico francese e in particolare contro il pensiero di Jean-Jacques Rousseu, inteso come radicalmente sovversivo dei rapporti esistenti tra Chiesa e Stato al fine di cancellare dallo spazio pubblico la religione, minando al tempo stesso l’istituzione ecclesiastica[3].
Verso la fine del Settecento, gli intellettuali del tradizionalismo politico appartenenti agli Stati della penisola italiana, individuarono le cause della Rivoluzione scoppiata a Parigi e dilagata in tutta l’Europa come a conseguenza del complotto ordito a Bourg – Fontaine. La letteratura tradizionalista della penisola italiana si impegnò subito a tradurre l’opera “La realtà del progetto di Borgo Fontana dimostrata dalla sua esecuzione”[4] del gesuita Henri Michel Sauvage (1701 – 1791) e nella terza edizione italiana della traduzione leggiamo nel frontespizio dopo il titolo “La realtà del progetto di Borgo Fontana dimostrata dalla sua esecuzione” ed il seguente sottotitolo che chiarisce il suo orientamento: “Opera che mette in vista la Cabala artificiosa de’ Novatori di Francia, e di Olanda per esterminare la Chiesa, e l’efficacia delle promesse di Gesù Cristo in preservarla con eterna confusione de’ suoi nemici”[5].
Il domenicano Prospero Tonso (Foglizzo 1759 – Torino 1852) nel luglio del 1799 scrisse un’Orazione “sacro – politica”, così definita dal suo autore, per la resa della Cittadella agli Austro-Russi. Nell’orazione, il Tonso faceva un “parallelo tra lo Stato democratico e lo Stato monarchico” allo scopo di smascherare la democrazia nel suo reale aspetto di “mantello d’ogni più sconcia nequizia”. Il preteso recuperato servaggio veniva definito dall’autore “dolci catene”[6]. Con una similitudine molto suggestiva spiegava che gli argini che impediscono al fiume di allagare e rovinare il terreno circostante, non ne impediscono la libertà nel suo scorrere verso la foce …”anzi ne lo promuovono e al mare, cui natio impeto spingelo, il fanno più liberamente pervenire”[7]. L’autorità è così vista come l’argine alla foga delle acque.
Interviene a dar man forte alla polemica espressa dai tradizionalisti, anche la folta schiera di gesuiti spagnoli in esilio nella penisola italiana in seguito all’espulsione eseguita per volontà di Carlo III. Francisco Gustá (Barcellona 1744 – Palermo 1816) è tra i più brillanti polemisti antirivoluzionari. Scrive un “Saggio critico sulle crociate. Se sia giusta la idea invalsa comunemente e se siano adattabili alle circostanze presenti fattovi qualche adattamento. Ferrara 1794”. In quest’opera, lo spagnolo sostiene la necessità di predicare una nuova crociata contro la Francia. Lo stesso gesuita cita le “Riflessioni sulla Rivoluzione di Francia” del Burke che ha letto e la cui prima traduzione in italiano viene stampata a Roma nel 1791 ad opera del sacerdote Giovanni Marchetti (Empoli 1753 – Empoli 1829). Ed eccoci nuovamente al gesuita spagnolo Francesco Gustá con la tesi sulla grande congiura dei filosofi e dei giansenisti, finti cristiani, per poter meglio ingannare le masse con l’appello di un cristianesimo puro ed austero. Il Gustá sviluppa la tesi nel saggio “L’antico progetto di Borgo Fontana dai nostri giansenisti continuato compito, Assisi, per Ottavio Sgariglia, 1795”.
Gli avvenimenti di Francia costituiscono il serbatoio a cui i tradizionalisti della nostra penisola attingono per mettere in luce tutti gli aspetti sinistri scaturiti dalla politica rivoluzionaria.
Primeggia, per ripetute traduzioni, l’opera di Gian Francesco La Harpe (Parigi 1739 – Parigi 1803) “Il fanatismo della lingua rivoluzionaria ossia della persecuzione suscitata nel secolo XVIII contro la religione cristiana e suoi ministri”[8] tradotta dall’abate Mauro Boni (Mozzanica 1746 – Reggio Emilia 1817). Si legge nell’introduzione dell’opera
“Ben pochi libri si contano, che giustamente abbiano meritato il favore universale presso tutte le colte Nazioni, quanto il Fanatismo di La Harpe – Replicate ristampe dell’originale francese, susseguite subito da parecchie versioni fatte nelle lingue oltramontane non hanno bastato a saziare il desiderio e le ricerche. L’Italia soprattutto ha reso giustizia ai meriti di un’opera tanto opportuna nelle presenti vicende. Due mila copie di questa prima versione italiana, che porta la data di Costantinopoli, e quasi altrettante della seconda Edizione più nitida e più corretta, si sono spacciate in pochi mesi; e per servire alle ricerche, che tuttavia ci vengon fatte da ogni parte, si è dovuto dar mano alla terza, che il Traduttore si è prestato a ritoccare, corredandola di nuove notizie interessanti, perché questo libretto così utile e gradito, riesca sempre più degno del pubblico aggradimento. Merita bene ogni studio questa energica Apologia del Cristianesimo scritta da un genio celebre, il quale visti gli effetti del moderno filosofismo, rivela agli occhi di tutto il mondo il labirinto delle assurdità filosofiche, onorate per sì gran tempo del titolo specioso di arcana Sapienza, che, come l’albero della scienza del bene e del male, han prodotto nel nostro secolo, che si diceva illuminato, il gusto e la corruttela, con tutti gli orrori di raffinata brutalità, quali non si videro nelle barricate de’ secoli più tenebrosi”[9].
I pensatori cattolici della penisola italiana che si ispiravano ai principi del tradizionalismo politico fecero conoscere al nostro pubblico le opere del padre Augustin Barruel (Villeneuve – de – Berg, 1741 – Paris, 1820). Nel 1794 fu tradotta la sua “Istoria del clero nel corso della Rivoluzione di Francia, Imola 1794, nella stamperia del Seminario, tomo I, pagg. XVIII – 404; tomo II, pagg. 318”. Quest’opera fu scritta dal Barruel dopo la sua emigrazione a Londra a cui fu costretto, per sottrarsi ai massacri del settembre 1792, dopo un primo periodo di clandestinità. L’autore dipinge un quadro tanto umiliante per l’umanità quanto glorioso per la religione, vittima della persecuzione. Il secolo che fu definito della tolleranza, fu, in realtà, macchiato da tante persecuzioni a causa delle opinioni religiose. Il successo dell’opera del Barruel spinge i nostri intellettuali a proporre la traduzione di un’altra opera di questo autore: “l’Elviennesi o sia Lettere provinciali filosofiche, Venezia presso Francesco Andreola, 1801, tomo I, pagg. 340; tomo II, pagg. 318; tomo III, pagg. 279; tomo IV, pagg. 293; tomo V, pagg. 306; tomo VI, pagg. 254”. E’ la confutazione dei sistemi dei moderni increduli. Nel 1802 è la volta della traduzione dei cinque volumi che costituivano le “Memorie per la storia del giacobinismo, tomo I, s.l.s.d., 1802, pagg. 350; tomo II, pagg. 351; tomo III, pagg. 327; tomo IV, pagg. 222; tomo V, pagg. 254”. Si tratta di una delle prime storie del giacobinismo. Un movimento di cospirazione che ebbe origine verso la metà del secolo XVIII. Padre Barruel scrive:
“tre uomini s’incontrarono, invasati da un odio profondo contro il cristianesimo; e furono Voltaire, Alembert. E Federigo II re i Prussia. Voltaire odiava la Religione, perché ne invidiava l’autore, e tutti quelli da esso glorificati; Alembert, perché il freddo suo cuore non ammetteva amore; Federico, perché non gli era nota, che per mezzo dei di lei nemici. A questi tre uomini si ha da aggiungere il quarto. Costui nominato Diderot, odiava la Religione, perché infatuato dalla natura, nel suo entusiasmo prodotto dalla confusione delle proprie idee, amava di formarsi delle chimere, e de’ misteri, piuttosto che di sottomettere la sua fede al Dio del Vangelo”[10].
Sempre dalla critica al giacobinismo partono gli scritti del primo Gioacchino Ventura (Palermo, 1792 – Versailles, 1821), il quale individua nella riforma luterana le origini lontane della frattura prodotta dalla rivoluzione francese nella società civile per le cui conseguenze, la società
“sembra oggi divisa in due popoli che formano come già al principio del mondo, la città di Dio e la città delle tenebre”[11].
Agli occhi di questi intellettuali, il comportamento dei sovrani è ritenuto colpevole. Essi si sono fatti influenzare dai filosofi illuministi convinti di poter affermare sempre la loro autorità e
“pretendendo, anzi, di riparare i mali della Chiesa, restituendola alla povertà evangelica e limitandone la commistione con la società civile e i privilegi che le erano stati concessi nei tempi oscuri”[12].
A farsi portavoce della posizione è il sacerdote battistino Francesco Maria Bottazzi che nell’opera “Il nemico del trono mascherato nelle lettere teologico – politiche sulla presente situazione delle cose ecclesiastiche disvelate, Roma, per Luigi Perego Salvioni 1794”, afferma che i filosofi sono stati perfidi alleati dei principi ben sapendo che la rovina della Chiesa avrebbe comportato la stessa rovina per i troni. L’opera si inserisce nella polemica che in quegli anni si era scatenata intorno al libro dell’abate Spedalieri (De’ diritti dell’uomo) di cui era discepolo. Bottazzi difende l’Abate Spedalieri dal giansenista Pietro Tamburrini, ma al tempo stesso attacca anche gli autori filo curali che avevano scritto contro l’opera dello Spedalieri accusandola di sostenere idee sovvertitrici della sovranità.
Alla polemica si unisce il canonico ferrarese Alfonso Muzzarelli (Ferrara 1749 – Parigi 1813) che respinge le idee dei novatori ed insiste sulla veridicità del progetto giansenista:
“Gli eretici e gli increduli si unirono in calca a gridare rabbiosamente che questo progetto era una favola della superstizione, la quale cercava di calunniare con una maligna invenzione gli amici della verità e del buon senso. Ma per loro disgrazia essi medesimi sino al presente non han tralasciato occasione alcuna per verificare cogli scritti e coi fatti la realtà del progetto. Potrebbe darsi che alcune circostanze estrinseche di quel racconto non fossero ben formate sul vero. Ma la Lega, in che consiste la sostanza del progetto, la Lega formata per distruggere la Chiesa e la Monarchia; i mezzi disegnati per giungere a questo fine; la scuola aperta per formare discepoli della incredulità, sono altrettanti fatti, che dopo i fatti accaduti a’ nostri tempi si devono supporre per veri, quand’anche non si trovassero registrati nella storia di Borgo Fontana. Di modo che l’autore di quel libro o fu un uomo ben istruito nella storia degli increduli, o fu un uomo inspirato e presago dell’avvenire”[13].
[1] F. Venturi, Settecento riformatore, Torino, Einaudi, 1976
[2] La fondazione de “Il Giornale Ecclesiastico di Roma” avvenne ad opera di Padre Tommaso Maria Mamachi. Ebbe cadenza settimanale e nacque nel 1785 per diffondere le posizioni ufficiali della Chiesa in materia dottrinale e confutare gli scritti ritenuti pericolosi. Il Giornale Ecclesiastico “fu molto letto ed è stato ritenuto la culla del cattolicesimo reazionario ottocentesco” (Voce Mamachi, a cura di C. Preti, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 68, pag. 369 Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2007). Chiuse le pubblicazioni nel 1798. La direzione del giornale fu affidata a Bartolomeo Cuccagni che compilava la Prefazione di ogni annata, dedicandola al commento dei più scottanti problemi di politica religiosa.
[3] C. Preti, voce Mamachi Tommaso Maria, Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 68, pag. 369, Roma, 2007
[4] Henri Michel Sauvage, Colonia 1771, voll. 2, pagg. 415
[5] In Assisi, 1797, tomi 2, per Ottavio Sgariglia stampatore
[6] P. Tonso, Le democrazia ….., pag. VII
[7] Ibidem
[8] Terza edizione, Cristianopoli 1799
[9] Ibidem, pag. III – IV
[10] Tomo I, pag. 23
[11] G. Ventura, p. XII, n. 20
[12] Le dolci catene. Testi della controrivoluzione cattolica in Italia raccolti e presentati da Vittorio E. Giuntella, Roma, Istituto per la storia del risorgimento italiano, 1988, pag. XII
[13] A. Muzzarelli, Memorie del giacobinismo estratte dalle opere di Gian Giacomo Rousseau, Ferrara, per i soci Gaet. Bianchi e Niccolò Negri, 1800
Francesco Maurizio Di Giovine
continua…..